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#Nuova Poesia Americana 4

di Andrea Galgano 27 febbraio 2023

Nel quarto volume di Nuova poesia americana[1], edito da Black Coffee, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, gli autori «recitano le loro poesie in modo intimo, con delicatezza, come se gli avessimo poggiato la testa in grembo. Altre volte declamano urlando, come qualcuno che ci parli in un locale affollato[2]».

 

Michael Collier (1953), Poeta Laureato del Maryland, autore di diverse raccolte poetiche e fellowship presso la Guggenheim Foundation e il National Endowment for the Arts, concentra la densità creaturale dello sguardo umano. L’assurdo e il dettaglio, l’inquietudine straordinaria che penetra l’ordinarietà del quotidiano. È come se venisse scompaginata la monotonia dell’esistenza da gesti, dettagli, presenze animali, dal chihuaua Bum Bum, alla capra su una catasta di legname di scarto, dove gli occhi «sono bisecati da un orizzonte di luce gialla», all’albero alla finestra, spogliato e vivido, fino agli eventi minimi, come un tacchino caracollante o alla dolce gentilezza di un controllore di un treno Bucarest-Mosca, che unisce il percorso della storia a uno sguardo che si impara.

La sua poesia innesta una descrizione percettiva, che oscilla nei contrasti lirici e nelle assenze, nelle tragedie e nelle cifre di gioia, nell’amore domato e nella inquietudine selvaggia del tempo: «Ma adesso che il sole se n’è andato, il crepuscolo blu dell’estate / tinto di timo e d’argento sotto le foglie di ulivo / placido nei solchi scavati, che rabbuia i frammenti bianchi / di calcare riesumati dall’aratura, l’apicoltore nei suoi paramenti / spreme il mantice dell’affumicatore, soffia una sottile corrente azzurra / in una fessura, sgancia il piano superiore, come il coperchio / di una scatola, e ne diffonde altro».

Carolyn Forchè (1950), poetessa di pregio e attivista per i diritti umani, originaria di Detroit, Michigan, docente alla Georgetown University, oggi dirige il Lannan Center for Poetry and Social Practice, ispessisce il forte sapore quasi giornalistico, come scrive John Freeman, alle sue opere.

Vi è il potere lirico della scena, come la bellezza screziata e violenta de Il guardiano del faro:

«Notte senza navi. Corni da nebbia risuonano nel muro di nube, e tu / ancora vivo, attratto dalla luce come fosse fiamma curata da monaci, / buio una volta incrostato di stelle, ma ora buio-morte mentre veleggi verso terra. / Attraverso ginestre e relitti, attraverso erica e lana lacera / hai corso, tirandomi per mano, perché lo potessi vedere una volta nella vita: / l’arcolaio, l’arcolaio di luce, il suo roteare, luce in cerca di chi si è perso, / lì già dall’era del fuoco, delle candele, delle cave lampade a olio, / olio di balena e lucignolo, colza e lardo, cherosene e carburo, / i fuochi-segnale accesi su questa costa pericolosa nella torre di Hook».

La tragedia delle traversate, l’esilio esile, il ricordo invisibile dell’ultimo ponte, le città in assedio, le guerre e le isole sono le sue poesie perdute: compassione vigile e traiettoria umana, lucentezza oltre-fine che supera morte e dolore, attraverso la tensione dell’avvento di ciò che viene.

Ted Kooser (1939), premio Pulitzer nel 2005 per Delights & Shadows e Poeta Laureato nel 2004, originario di Ames, Iowa, ricorda e intaglia la sperdutezza dell’infanzia trascorsa sulle pianure dell’Iowa, che ospitavano registri di sogni, meraviglia e stupore, laddove il ricordo e la bellezza dell’estate slacciata, la perdita, ciò che trapela dalle fessure del tempo, come la concimatrice nei campi, ritornano al respiro della polvere e del mais.

Sembrano raccontare il mondo, il quadro e la vertigine della vita, la linea-madre e la finestra aperta di un mattino d’inverno e, nel silenzio immobile, solo il sussurro del bollitore e «contro il gelo stellato un piccolo anello azzurro di fiamma».

John Freeman scrive: «Kooser è poeta dalle immense capacità pittoriche, ma non le usa per sovrastare il lettore. Anzi, lo invita ad afferrare l’effimero, ad ammettere, in altre parole, i limiti dell’essere umano, ad apprezzare ciò che può essere osservato[3]».

Ada Limón (1976), Poeta Laureata degli Stati Uniti, rappresenta l’urgenza di contatto con il mondo[4], il suo respiro e il suo limite assieme, attraverso lo stretto rapporto di natura e poesia. La libertà, come il rimando, selvaggio e puro, alla bellezza dei cavalli, apre all’amore infinito, alla gioia implume, e, infine, alla grazia sopravvissuta delle creature che compongono il suo dolce assedio alla vita, la sua crepa trafitta e il suo cuore in fiamme: «io sono un essere umano, basta sono solo e disperato, / basta animale che mi salva, basta aria e il sollievo che dà, / io ti chiedo di toccarmi».

Gary Snyder (1930), nato a San Francisco e Professore Emerito presso l’Università della California-Davis, sulla linea epica e vertiginosa della beat generation, pone la sua asciuttezza al mondo come atto devoto alla quotidianità, al suo mistero, alla grazia cromatica ed elementare. È una esplosione di luce e prospettiva che attraverso patchwork espressivi insegue i luoghi, i dettagli e le piccole trame che cercano di non scomparire. Il mondo che si porge è in tutto il suo orizzonte.

Paul Tran, partendo dal recupero del mito Icaro, nel quadro di Pieter Bruegel, come afferma John Freeman, «celebra la rigenerazione, facendo attenzione a non edulcorare la sofferenza. Nelle sue poesie l’adattamento non è mai separato dalla sua fonte, dalla sua motivazione. Nel linguaggio preciso e potente di Tran il pesce bioluminescente, o perfino Icaro, con le sue raffazzonate ali, sono esseri viventi che si adattano all’ambiente circostante» (p.21).

Tale rinascita, dunque, è un respiro che si solleva, in cui gli esiti della possibilità, del dolore, del sacrificio dell’essere tornano sulla pagina come valico e tenebra, lacerazione e bellezza.

[1] (a cura di) Freeman J.-Abeni D., Nuova poesia americana, IV, Black Coffee, Mombaroccio (PU) 2022.

[2] Freeman J., Introduzione, cit., p.16.

[3] Id., cit., 19.

[4] Bruna M., Ada Limón. Vedo nei cavalli la mia libertà, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 4 dicembre 2022.

JOYCE CAROL OATES AMERICAN MELANCHOLY POEMS: SINKHOLES TOO YOUNG TO MARRY BUT NOT TOO YOUNG TO DIE HOMETOWN WAITING FOR YOU OLD AMERICA HAS COME HOME TO DIE THAT OTHER

A cura  di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

 

 

 

Introduzione

Joyce Carol Oates è una scrittrice, poetessa, drammaturga e accademica statunitense.

Autrice e intellettuale americana eclettica, tra le più prolifiche della letteratura americana, ha pubblicato il primo libro nel 1963.

Da allora, ha frequentato ogni genere letterario in prosa e in versi: romanzi, racconti, narrativa per l’infanzia, poesie, drammaturgie, saggi.

Nell’arco di sessant’anni ha pubblicato oltre cento libri, alcuni dei quali, per la maggior parte romanzi del mistero, pubblicati sotto lo pseudonimo di Rosamond Smith e Lauren Kelly.

Ha vinto numerosi premi letterari, incluso il National Book Award, due O. Henry Award, la National Humanities Medal e il Jerusalem Prize nel 2019; è stata inoltre finalista del Premio Pulitzer sia per i romanzi Acqua nera (1992), What I Lived For (1994) e Blonde (2000), che per le raccolte di racconti The Wheel of Love (1970) e Lovely, Dark, Deep: Stories (2014).

Oates ha insegnato alla Princeton University dal 1978 al 2014 ed è Roger S. Berlind ’52 Professor Emerita in the Humanities col corso di Scrittura Creativa.

Insegna “Short Fiction” alla University of California di Berkeley ed è membro del consiglio di amministrazione della John Simon Guggenheim Memorial Foundation.

Con American Melancholy mette in mostra alcuni dei suoi migliori lavori degli ultimi decenni.

Coprendo soggetti grandi e piccoli, questa collezione tocca sia il personale che il politico.

Vengono indagate la perdita, l’amore e la memoria, insieme agli sconvolgimenti della nostra epoca moderna, le devastazioni della povertà, del razzismo e dei disordini sociali.

 

 

 Sinkholes

 

take you where

you don’t want to go.

 

Where you’d been

and had passed smilingly through,

and were alive. Then.

 

Le Voragini

 

ti portano dove

non vuoi andare.

 

Dove sei stato

e dove sei passato sorridendo

ed eri vivo. Allora.

 

 

Too Young to Marry but Not Too Young to Die

 

Drowned together in his car in Lake Chippewa.

It was a bright cold starry night on Lake Chippewa.

Lake Chippewa was a “living” lake then,

though soon afterward it would choke and die.

 

In the bright cold morning after we could spy

them only through a patch of ice brushed clear of snow.

Scarcely three feet below,

they were oblivious of us.

 

Together beneath the ice in each other’s arms.

Jean-Marie’s head rested on Troy’s shoulder.

Their hair had floated up and was frozen.

Their eyes were open in the perfect lucidity of death.

 

Calmly they sat upright. Not a breath!

It was 1967, there were no seat belts

to keep them apart. Beautiful

as mannequins in Slater Brothers’ window.

Faces flawless, not a blemish.

Yet—you could believe

they might be breath-

ing, for some trick

of scintillate light revealed

tiny bubbles in the ice,

and a motion like a smile

in Jean-Marie’s perfect face.

 

How far Troy’d driven the car onto Lake Chippewa

before the ice creaked, and cracked, and opened

like the parting of giant jaws—at least fifty feet!

This was a feat like his 7-foot-3.8-inch high jump.

 

In the briny snow you could see the car tracks

along the shore where in summer sand

we’d sprawl and soak up sun

in defiance of skin carcinomas to come. And you could see

how deftly he’d turned the wheel onto the ice

at just the right place.

And on the ice you could see

how he’d made the tires spin and grab

and Jean-Marie clutching his hand Oh oh oh!

 

The sinking would be silent, and slow.

 

Eastern edge of Lake Chippewa, shallower

than most of the lake but deep enough at twelve feet

to suck down Mr. Dupuy’s Chevy

so all that was visible from shore

was the gaping ice wound.

And then in the starry night

a drop to -5 degrees Fahrenheit

and ice freezing over the sunken car.

Who would have guessed it, of Lake Chippewa!

 

Now in the morning through the swept ice

there’s a shocking intimacy just below.

With our mittens we brush away powder snow.

With our boots we kick away ice chunks.

Lie flat and stare through the ice

Seeing Jean-Marie Schuter and Troy Dupuy

as we’d never seen them in life.

Our breaths steam in Sunday-morning light.

 

It will be something we must live with—

the couple do not care about our astonishment.

Perfect in love, and needing no one to applaud

as they’d been oblivious of our applause

at the Herkimer Junior High prom where they were

crowned Queen and King three years before.

(In Herkimer County, New York, you grew up fast.

The body matured, the brain lagged behind,

like the slowest runner on the track team

we’d applaud with affection mistaken for teen mockery.)

 

No one wanted to summon help just yet.

It was a dreamy silence above ice as below.

And the ice a shifting hue—silvery, ghost-gray, pale

blue—as the sky shifts overhead

like a frowning parent. What!

Lake Chippewa was where some of us went ice-fishing

with our grandfathers. Sometimes, we skated.

Summers there were speedboats, canoes. There’d been

drownings in Lake Chippewa we’d heard

but no one of ours.

 

Police, fire-truck, ambulance sirens would rend the air.

Strangers would shout at one another.

We’d be ordered back—off the ice of Lake Chippewa

that shone with beauty and onto the littered shore.

By harsh daylight made to see

Mr. Dupuy’s 1963 Chevy

hooked like a great doomed fish.

All that privacy yanked upward pitiless

and streaming icy rivulets!

We knew it was wrong to disturb the frozen lovers

and make of them mere bodies.

 

Sweet-lethal embrace of Lake Chippewa

But no embrace can survive thawing.

 

One of us, Gordy Garrison, would write a song,

“Too Young to Marry But Not Too Young to Die”

(echo of Bill Monroe’s “I Traced Her Little Footprints

in the Snow”), which he’d sing with his band the Raiders,

accompanying himself on the Little Martin guitar

he’d bought from his cousin Art Garrison

when Art enlisted in the U.S. Navy and for a while

it was all you’d hear at Herkimer High, where the Raiders

played for Friday-night dances in the gym, but then

we graduated and things changed and nothing more

came of Gordy’s song or of the Raiders.

 

“TOO YOUNG TO MARRY BUT NOT TOO YOUNG TO DIE”

was the headline in the Herkimer Packet.

We scissored out the front-page article, kept it for decades in a

bedroom drawer.

(No one ever moves in Herkimer except

those who move away, and never come back.)

The clipping is yellowed, deeply creased,

and beginning to tear. When some of us stare

at the photos our hearts cease beating—oh, just a beat!

 

It was something we’d learned to live with—

there’d been no boy desperate to die with any of us.

We’d have accepted, probably—yes.

Deep breath, shuttered eyes—yes, Troy.

Secret kept yellowed and creased in the drawer,

though if you ask, laughingly we’d deny it.

 

We see Gordy sometimes, and his wife, June. Our grand-

children are friends. Hum Gordy’s old song

to make Gordy blush a fierce apricot hue

but it seems cruel, we’re all on blood

thinners now.

 

Troppo Giovani per Sposarsi Ma Non Troppo per Morire

 

Annegarono insieme nella sua auto nel lago Chippewa.

Avvenne in una notte stellata, fredda e luminosa.

Il lago Chippewa era un lago “in vita” all’epoca

anche se poco dopo soffocò e morì.

 

Nella fulgida e fredda mattinata seguente, dopo esser riusciti a spiarli

solo attraverso una lastra di ghiaccio ripulita dalla neve.

Un metro poco più sotto,

non si erano accorti di noi.

 

Insieme sotto il ghiaccio l’uno tra le braccia dell’altro.

La testa di Jean Marie appoggiata sulla spalla di Troy.

I capelli erano riemersi in superficie e si erano ghiacciati.

Gli occhi erano aperti nella perfetta lucidità della morte.

 

Seduti beatamente. Neanche un respiro!

Era il 1967 e non c’erano cinture di sicurezza

a separarli. Belli

come manichini nella vetrina dei fratelli Slater.

Volti illesi, neanche un graffio.

Potevi credere

che stessero respiran-

do, dal momento che, qualche scintillante

riflesso della luce rivelava

bollicine nel ghiaccio,

e l’accenno di un sorriso

sul volto perfetto di Jean-Marie.

 

Fino a che punto Troy aveva guidato la macchina sul lago Chippewa

prima che il ghiaccio scricchiolasse, cedesse, e si aprisse

come giganti mascelle – almeno di quindici metri!

Un risultato come il salto in alto di Troy, 2 metri e 96 centimetri.

 

Nella neve salmastra erano visibili le tracce della macchina

sulla sabbia della spiaggia in cui d’estate

ci stravaccavamo e prendevamo il sole

sfidando il tumore della pelle a colpirci. E si poteva vedere

con quanta destrezza avesse girato il volante sul ghiaccio

proprio al punto giusto.

Si poteva notare

come avesse fatto girare e aderire le gomme alla superficie ghiacciata

e avesse fatto afferrare a Jean Marie la sua mano Oh oh oh!

 

L’inabissamento fu lento, e silenzioso.

 

La sponda est del lago Chippewa, meno profonda

di gran parte del lago, ma profonda abbastanza (3 metri)

da risucchiare la Chevy del Signor Dupuy,

rese visibile dalla spiaggia soltanto

la voragine nel ghiaccio.

E poi nella notte stellata

una caduta di 5 gradi Fahrenheit

e il ghiaccio si riformò sulla macchina sommersa.

Chi l’avrebbe mai detto del lago Chippewa!

 

Ora, di mattina, sotto al ghiaccio ripulito

c’è un’intimità scioccante.

Con i guanti portiamo via cumuli di neve farinosa.

Con gli stivali calciamo pezzi di ghiaccio.

Increduli lo fissiamo

Vedendo Jean-Marie Schuter e Troy Dupuy

come non li avevamo mai visti in vita.

La condensa dei nostri respiri nella luce di una domenica mattina.

 

Sarà qualcosa con cui dobbiamo convivere –

alla coppia non importa del nostro sconcerto.

Perdutamente innamorati, senza alcun bisogno di applausi

essendo stati ignari dei nostri applausi

al ballo della Herkimer Junior High dove

tre anni prima furono nominati re e reginetta.

(Nella Contea di Herkimer, New York, siete cresciuti in fretta.

Il corpo è maturato, il cervello è rimasto indietro

come il più lento maratoneta della squadra

applaudivamo con affetto scambiato per derisione adolescenziale.)

 

Nessuno voleva ancora chiamare i soccorsi.

C’era un silenzio sognante sopra il ghiaccio così come sotto.

E cambiava tonalità – argento, grigio-fantasma, blu

pallido – come il cielo cambia sopra di noi

quanto un genitore arrabbiato. Come!?

Il lago Chippewa era il luogo in cui alcuni di noi andavano a pescare

con i loro nonni. A volte, andavamo a pattinare.

In estate c’erano motoscafi, canoe. C’erano stati

annegamenti nel lago Chippewa di cui avevamo sentito

ma nessuno dei nostri.

 

Polizia, camion dei pompieri, sirene d’ambulanza squarciavano l’aria.

Sconosciuti si urlavano contro.

Ci era stato ordinato di allontanarsi dal ghiaccio del lago

che irradiava bellezza e di dirigerci verso la spiaggia affollata.

Dalla crudele luce diurna sorta per vedere

la Chevy del 1963 del signor Dupuy

agganciata all’amo come un grande pesce predestinato.

Tutta quella privacy tirò fuori fiumiciattoli di ghiaccio

che scorrevano senza pietà!

Sapevamo che fosse sbagliato disturbare gli

amanti congelati e renderli meri corpi.

 

La morsa dolce e letale del lago Chippewa

Ma nessuna morsa sopravvive al disgelo.

 

Uno di noi, Gordy Garrison, avrebbe scritto una canzone.

“Too Young to Marry but Not Too Young to Die”

(riecheggi di “I Saw Her Little Footprints

in the Snow” di Bill Monroe), che cantava con la sua band “The Raiders”,

accompagnandosi alla chitarra Little Martin

che aveva comprato da suo cugino Art Garrison

quando Art si era arruolato nella marina americana e per un po’

era l’unica cosa in auge alla Herkimer High, i Raiders

suonavano ai balli del venerdì sera in palestra, ma poi

ci diplomammo e le cose cambiarono e nient’altro

uscì fuori dalla canzone di Gordy o dai Raiders.

 

“TOO YOUNG TO MARRY BUT NOT TOO YOUNG TO DIE”

fu la prima pagina dell’Herkimer Packet.

Ritagliammo l’articolo e lo conservammo per decenni in un

comò.

(Nessuno si iscrive alla Herkimer eccetto

coloro che poi si trasferiscono e non tornano più.)

Il ritaglio è ingiallito, terribilmente sgualcito,

e sta iniziando a lacerarsi. Quando alcuni di noi guardano

le foto i nostri cuori cessano di battere – oh, solo un battito!

 

 

Fu una cosa con cui imparammo a vivere –

non ci fu nessun ragazzo fremente di morire tra di noi.

Avremmo accettato, probabilmente – .

Respiro profondo, occhi sbarrati – , Troy.

Un segreto mantenuto stropicciato e ingiallito nel comò

però, se doveste chiedercelo, ridendo negheremmo.

 

A volte vediamo Gordy, e sua moglie, June. I nostri nipo-

ti sono amici. Canticchiamo la sua vecchia canzone

per farlo arrossire

ma sembra crudele, siamo tutti sotto anti

coagulanti ora.

 

Hometown Waiting For You

 

All these decades we’ve been waiting here for you. Welcome!

You do look lonely.

No one knows you the way we know you.

And you know us.

 

Did you actually (once) tell yourself—I am better than this?

One day actually (once) tell yourself—I deserve better than this?

 

Fact is,you couldn’t escape us.

And we have been waiting for you. Welcome home!

Boasting how a scholarship bore you away

like a chariot of the gods except

where you are born, your soul remains.

 

We all die young here.

Not one of us outlived young here.

Check out obituaries

in the Lockport Union Sun & Journal.

Car crash,

overdose.

Gunshot, fire.

Cancers of breast,

ovaries, lung,

colon. Heart

attack, cirrhosis

of liver.

Assault, battery.

Stroke! And—

did I say over-

dose? Car

crash?

 

Filling up the cemeteries here.

Plastic trash here.

Unbiodegradable Styrofoam here.

Three-quarters of your seventh-

grade class now

in urns, ash and what remains

in red MAGA hats.

 

 

 

Those flashy cars

you’d have given your soul

to ride in,

just once, now

eyeless

rusting hulks

in tall grass.

Those eyes you’d

wished might crawl

upon you like ants,

in graveyards

of broken glass.

 

Atwater Park where

you’d wept

in obscure shame

and now whatever

his name who’d trampled

your heart, he’s

ash.

 

Proud as hell

of you though

(we admit)

never read a

goddamn word

you’ve written.

 

We never forgave you. We hate winners.

 

Still, it’s not too late.

Did I say overdose?

Why otherwise are you here?

 

Ti Abbiamo Aspettato

 

Ti abbiamo aspettato per tutti questi decenni. Benvenuto!

Sembri davvero solo.

Nessuno ti conosce come ti conosciamo noi.

E tu ci conosci.

 

Ti sei davvero (una volta) detto – Valgo più di questo?

Un giorno (una volta) ti sei davvero detto – Merito più di questo?

 

Il fatto è: non potevi sfuggirci.

E ti abbiamo aspettato. Benvenuto a casa!

Fregiandoti di come una borsa di studio ti abbia portato via

come un carro degli dèi, senonché

dove nasci, la tua anima permane.

 

Moriamo tutti giovani qua.

Qui nessuno è riuscito ad invecchiare.

Controlla i necrologi

nel Lockport Union Sun & Journal.

Incidenti d’auto,

overdose.

Sparatorie, fuoco.

Tumori al seno,

ovaie, polmone,

colon. Crisi

cardiaca, cirrosi

epatica.

Aggressione, percosse.

Infarto! E –

ho detto over-

dose? Incidenti

d’auto?

 

Si riempiono i cimiteri qua.

Buste di plastica,
polistirolo non biodegradabile qui.

Tre quarti della tua classe

di seconda media è adesso

nelle urne, cenere e quel che rimane

nei cappelli rossi MAGA. *

 

Quelle auto pacchiane

per cui avresti dato l’anima

pur di salirci su,

almeno una volta, ora

senz’occhi

carcasse arrugginite

nell’erba alta.

Quegli occhi che volevi

brulicassero su di te come formiche,

nei cimiteri

di vetri rotti.

 

Il giardinetto Atwater dove

piangevi

colmo di vergogna nascosta

e adesso qualunque sia

il nome di chi abbia fatto sobbalzare

il tuo cuore, è

cenere.

 

Orgogliosissimi

di te però

(ammettiamo)

non abbiamo mai letto

una fottuta parola

di ciò che hai scritto.

 

Non ti abbiamo mai perdonato. Odiamo i vincenti.

 

Tuttavia, non è troppo tardi.

Ho detto overdose?

Altrimenti per quale altro motivo sei qua?

 

 

 *Acronimo di “Make America Great Again”, slogan della campagna elettorale di Trump del 2016.

Old America Has Come Home to Die

 

Old America has come home to die.

From Oklahoma oil fields where the sun

beat his head and brains boiling in a stew

of old memories. Penance for my sins

I never owned up to.

 

From Juneau, Alaska, where he’d fished

coho salmon on the Mary Flynn.

From Black Fly, Ontario,

where he’d been a hobo farmhand,

and from New Jericho, Manitoba,

where he’d mined gypsum sand,

Old America has come home to die.

Bad memories like shreds of tobacco on the tongue,

you can’t spit off.

 

From Big Sky, Montana, where

he’d been a cowboy. From

Western Pacific, Sandusky,

and Santa Fe Railway, from the Gulf

Islands and Skagit River, Washington,

where he’d worked construction,

Old America has come home to die.

Bosses treat you like shit on their shoe

they can scrape off any time.

And they do.

 

From the Great Lakes, where

he’d worked freighters

in minus-

zero

weather, lost

half his damn fingers and toes

to frostbite. From the mines

at Crater Falls, Idaho,

where his lungs turned the hue

of anthracite. And from Moab,

Utah, where he’d been incarcerated

seven years for a rob-

bery he hadn’t done,

Old America has come home to die.

Romantic life of a “hobo”

lasts until your legs go.

 

Old America freckled with melanomas,

straggly hair to his shoulders

like the boy-General Custer,

and fester-

ing sores

on his back, sides, and belly

has come home to die

where no one remembers him —

“Uncle Eli?”

who’d sent postcards

from the West long faded

in Granma’s photo album

as out of a void

in an era before Polaroid

Old America has come home to die.

Old America with a blind left eye.

Old America with a stump

of his gangrenous left leg, amp-

utated at the knee.

How bad I treated my family

who loved me.

Come home to say I am sorry and I love you.

 

Great-Granma’s youngest sister’s

son Eli who’d left the farm in 1931

to work on the Erie Canal, but no —

disappeared somewhere west

beyond Pocatello, Idaho. We’d guessed

you’d died in the Yukon, or in

the Eagle Mine in Utah. Capsized

in the Bering Strait, or vaporized

at the Fearing Nevada Test Site

or murdered by railroad cops

and flung into the Mississippi —

poor Uncle Eli!

Sins I have committed these many

years, I regret. Wash my soul

clean before I die.

Trying to explain why he’d left home except —

Where is Marta? Please

let me see Marta — his brother’s wife

he was in love with, and Marta told him

she was pregnant, and he abandoned

her to her violent husband like a coward.

Years I never thought of Marta, or Ma —

any of you. Now, that’s all I think about.

Forgive me how bad I behaved

when I was young . . .

 

Old America, we are not cruel

people, but the fact is mostly we’ve

forgotten you. And Great-Aunt Marta

too—died in 1961. And her oldest

son Ethan, who’d be the one

you’d want to see, is gone, too —

somewhere south of the 38th parallel,

Korea.

Where are my brothers—Frank, Joseph, Frederic?

My sisters—Margaret, Elizabeth?

My cousin Leah?—so many cousins . . .

Old America, frantic to repent,

has brought us presents —

flute carved out of a walrus tusk, Inuit

doll and soapstone skulls, beaded belts and

miniature pelts and something that causes Maya to scream,

Oh God—is that an Indian scalp?

 

Old America has come home to die

this first week of December

in time for Maya to videotape

an interview with Great-Uncle Eli

for her American Studies seminar at Wesleyan —

Life of an Oldtime “Hobo.”

Her classmates will be impressed —

Old America is like awesome, fantastic —

and her professor will grade an A —

Tragic, vividly rendered & iconic.

 

La Vecchia America è Tornata A Casa a Morire

 

La Vecchia America è tornata a casa a morire.

Dai giacimenti di petrolio dell’Oklahoma dove il sole

gli spaccava la testa e il cervello bolliva in un minestrone

di vecchi ricordi. Penitenza per i miei peccati

che non ho mai confessato.

 

Da Juneau, Alaska, dove aveva pescato

salmone argentato sulla Mary Flynn.

Da Black Fly, Ontario,

dove era stato un bracciante hobo*,

e da New Jericho, Manitoba,

dove aveva estratto gesso,

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

Brutti ricordi come filamenti di tabacco sulla lingua,

che non puoi sputare.

 

Da Big Sky, Montana, dove

era stato un cowboy. Dalle

tratte ferroviarie della Western Pacific, Sandusky,

sino a quelle di Santa Fe, dalle Isole

del Golfo e il fiume Skagit, Washington,

dove aveva lavorato nei cantieri,

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

I padroni ti trattano come merda sotto le loro suole

che possono raschiar via quando vogliono.

E lo fanno.

 

Dai Grandi Laghi, dove

aveva lavorato sulle navi cargo

sotto

zero

aveva perso

metà delle sue dannate dita delle mani e dei piedi

per congelamento. Dalle miniere

di Crater Falls, Idaho

dove i suoi polmoni erano diventati color

antracite. E da Moab,

Utah, dove era stato detenuto

sette anni per una ra-

pina che non aveva commesso,

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

La vita romantica di un “hobo”

dura fintantoché le gambe non cedono.

 

La Vecchia America macchiata di melanomi,

capelli in disordine sulle spalle

come quelli del Generale Custer, e

piaghe
infette

sulla schiena, fianchi e pancia

è venuta a morire

dove nessuno si ricorda di lui –

“Zio Eli?”

che aveva inviato cartoline

dall’ovest sbiadite dal tempo

conservate nell’album di foto della nonna

come uscite dal nulla

in un’era prima della Polaroid

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

La Vecchia America con un occhio sinistro cieco.

La Vecchia America con la sua protesi

alla gamba sinistra incancrenita, am-

putata al ginocchio.

Quanto ho trattato male la mia famiglia

che mi amava.

Torno a casa per dire che mi dispiace e che vi amo.

 

Il figlio della sorella più piccola della bisnonna,

Eli, che aveva lasciato la fattoria nel 1931

per lavorare al Canale Erie, ma no –

scomparve da qualche parte nell’ovest

oltre Pocatello, Idaho. Ci eravamo immaginati

che fossi morto nello Yukon, o

nelle miniere di Eagle nello Utah. Annegato

nello Stretto di Bering, o vaporizzato

nello Spaventoso Nevada Test Site*

o assassinato dai poliziotti ferroviari

e scaraventato nel Mississippi –

povero Zio Eli!

Dei peccati che ho commesso in tutti questi

anni, me ne dolgo. Purifico la mia anima

prima di morire.

Cerco di spiegare perché

avesse lasciato casa, solo che –

Dov’è Marta? Vi prego

fatemi vedere Marta – la moglie di suo fratello

di cui era innamorato. Marta gli disse

che era incinta e lui come un codardo

la abbandonò al suo violento marito.

Anni in cui non ho mai pensato a Marta, o a mol-

ti di voi. Adesso, è l’unica cosa a cui penso.

Perdonate quanto mi sia comportato male

da giovane…

 

Vecchia America, non siamo gente

crudele, ma il fatto perlopiù è che

ti abbiamo dimenticata. E anche la prozia Marta

morì nel 1961. E il suo figlio più grande

Ethan, quello che

ti farebbe piacere vedere, è morto anche lui –

da qualche parte nel 38esimo parallelo sud,

Corea.

Dove sono i miei fratelli – Frank, Joseph, Frederic?

Le mie sorelle – Margaret, Elizabeth?

Mia cugina Leah? – così tanti cugini…

Vecchia America, convulsa nel ravvedersi,

ci ha portato dei regali –

zufolo di zanna di tricheco, bambola

eschimese e teschi di pietra ollare, cinture di perle e

tappeti di pelliccia animale e qualcosa che fa urlare Maya,

Oh dio – è la testa di un indiano?

 

La Vecchia America è tornata a casa a morire

questa prima settimana di dicembre

giusto in tempo per fare in modo che Maya registri

un’intervista con il prozio Eli

per il suo seminario in American Studies a Wesleyan –

La vita di un “Hobo” di altri tempi.

I suoi compagni di classe saranno impressionati –

La Vecchia America è un qualcosa di stupendo, fantastico –

e il suo professore le darà una A –

Tragica, vividamente rappresentata e iconica.

 

 

 *Un hobo è un vagabondo che adotta in maniera tendenzialmente volontaria uno stile di vita senzatetto improntato alla semplicità, al viaggio, all’avventura, alla ricerca interiore, alla marginalità, svolgendo  talvolta lavori occasionali.

*Sito, istituito l’11 gennaio 1951 per test sulle armi nucleari

That other

 

They laughed, but no. You

don’t remember that.

 

What you think you remember—

it wasn’t that.

 

Yes—you remember

some things. And

some things did

happen. Except not

that way.

 

And anyway, not

to you.

 

Quell’altro

 

Ridevano, ma no. Tu

non lo ricordi.

 

Ciò che pensi di ricordare –

non corrisponde al reale.

 

Sì – ricordi

alcune cose. E

alcune cose sono davvero

successe. Però non

in quel modo.

 

E in ogni caso, non

a te.

 

Traduzione di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

La carrozza del capitano: il ventaglio della memoria

di Andrea Galgano 31 ottobre 2022

La caratteristica principale della vis narrativa di Rosario Angelo Avigliano è la scrittura-ventaglio. Leggendo La carrozza del capitano, edito da UniversoSud, a cura di Carmen Cangi e Donato Antonio Loscalzo, ci troviamo di fronte a questa peculiarità e a questa forza, che partendo dalla contaminazione dell’oralità, raggiunge una intensa specificità di visione, per capacità di ascolto, attraversamento, accoglimento e densità segnica.

Il suo affresco, che copre la metà degli anni ’30 fino agli anni ’60, ha la profondità del romanzo familiare, ma anche la radicale tensione della memoria individuale e collettiva che attornia la figura di colui che sarebbe poi diventato una figura di spicco dell’imprenditorialità lucana: Faustino Somma.

Per raccontare l’esistenza è necessaria non solo la narrazione, la scultura biografica, la sceneggiatura in movimento, ma anche mostrare la realtà prima di dirla, entrare nel percorso familiare e, allo stesso tempo, fare di una vicissitudine singolare un territorio universale, in cui il tempo delle vicende della famiglia Somma e di Faustino Somma possa intessere storia, romanzo, contesto, dettaglio di epoca.

Come scrive nella prefazione Francesco Somma, figlio di Faustino e presidente della Fondazione, che del padre porta il nome:

«Faustino Somma è stato un eroe positivo, imprenditore dalla forte caratterizzazione sociale, sempre attento al mondo circostante, pronto a nuove sfide imprenditoriali in campi e settori da lui inizialmente, inevitabilmente poco conosciuti, aiutato dalla curiosità, dalla sua sete di conoscenza e dalla sua tenacia che, in breve, lo mettevano nelle condizioni di masterizzare nuovi scenari, nuove tecnologie, nuovi mercati con l’ambizione costante di far crescere il contesto sociale in cui operava» (p.13).

Il luogo, il legame, l’identità e le radici, la nostalgia compongono l’ornato di questo mondo, che non viene solo descritto, ma reso, come si diceva, un profumo di ventaglio vivace, come afferma Gianfranco Blasi nella postfazione, recuperando certi anfratti e certe atmosfere, alimentate da La luna e i falò di Pavese, solcati dalla sua “esigenza permanente” :

«Rosario Angelo Avigliano in La carrozza del capitano sembra ispirato da Cesare Pavese, ne ripete in lunghi tratti il tragitto narrativo. Radici, identità, luoghi, legami hanno lo stesso sapore agro dolce, nostalgico, Persino il tempo della storia solca quasi gli stessi decenni. In Avigliano il fascino e il dolore, la tragedia degli anni ’30 e ’40 appaiono in tutta la loro sostanza. Le atmosfere della provincia più estrema, i contorni bucolici della fotografia di questo romanzo richiamano, mi hanno condotto fin dentro La luna e i falò». (p.176).

La storia di Faustino, che Blasi rapporta, pur in sipari diversi, a quella del pavesiano Anguilla, non è solo un peculiare ritratto, è un’opera in movimento che entra dentro la storia per appropriarsene. La letteratura non conosce periferie: il dramma di un singolo (o la sua storia di libertà) è quella in cui l’umano può scorgersi in trasparenza, avviluppata negli enigmi del reale e raccolta in una impossibile sottrazione.

Cambiare la storia del proprio paese (Vaglio), piccolo come uno spillo nell’albo del tempo, significa creare un’opera per l’uomo e la comunità, segnato nella sua cifra identitaria novecentesca, che appartiene alla terra per farla vibrare, crescere, portare acqua anche dove spesso la cruenta durezza dei luoghi fa ostacolo. Quindi, doppiamente difficile.

Lo sdipanarsi del romanzo familiare si nutre di sapori e odori che appartengono all’antico. Avigliano riesce a riportare l’origine ancestrale di riti e luoghi che sottendono alla nascita e alla crescita, entrando nel dramma della guerra e al tripudio della liberazione, in cui l’idea geniale di Faustino prende corpo: costruire una carrozza simile al camion americano, vicino al monumento dei caduti.

Questo episodio di prima fanciullezza espone la prima reale caratteristica di conoscenza: lo stupore. Nato dal sogno, accolto nell’entusiasmo della realizzazione. Il pensiero si fa gesto. Troveremo questa tensione in tutto il romanzo, per cui il segno del gesto anticipa la visione, innervando emozionalità, gioia, amore e vendemmia del cuore.

L’emigrazione e la partenza per Napoli al Collegio dei Salesiani e poi la Facoltà di Giurisprudenza, il ritorno e il lavoro presso l’Industria Lucchini consentono di far crescere l’aria attraverso l’amore per la propria terra, con l’I.S.L. INDUSTRIA SIDERURGICA LUCANA, coacervo di lavoro e finezza imprenditoriale, la Banca Mediterranea, fino alla presidenza vincente del leggendario Potenza Calcio degli anni’70.

Il lirismo di Avigliano segue la  parabola esistenziale di Faustino Somma senza un attraversamento agiografico, bensì attraverso una sorta di preparazione di vigilia della realtà: le cose si espongono, il ricordo si porge come una guancia densa, il passaggio delle epoche segna gli intervalli come un orizzonte di coltri di estate.

Dentro questa vigilia di appartenenza si nutre la fiamma narrativa di Avigliano, che ha saputo non solo raccontare ma mostrare, dispiegando orizzonte antropologico e cura lirica, narrazione storica e finezza sensibile, perché, in questo affresco di tempo nel tempo, si possa scorgere una ricca compattezza umana, Di questo gliene saremo sempre grati.

 

Alessandro Moscè e le case dai tetti rossi

di Andrea Galgano  28 aprile  2022

leggi in Pdf Alessandro Moscè e le case dai tetti rossi

Con Le case dai tetti rossi[1], edito da Fandango, Alessandro Moscè (1969) ci consegna un mondo sepolto, in occasione della vendita della casa di nonna Altera e nonno Ernesto, ritornando alla grande struttura dell’ex ospedale psichiatrico di Ancona, un complesso di palazzine verdi e tetti rossi «color del sangue», che venne riconvertito dopo la legge Basaglia del 1978, che avrebbe cambiato lo studio e lo sguardo sulla realtà psichiatrica, portando, nel 1981, alla trasformazione, dapprima, in una struttura di assistenza e poi, successivamente, in un centro riabilitativo e sanitario, ed accoglieva

«i barboni, i malnutriti, gli ubriaconi, chi era tornato dalla guerra frastornato, con una pallottola conficcata da qualche parte, chi non riusciva ad alzarsi dal letto, chi era nato straccu, stanco, chi aveva una deformazione fisica e chi era figlio di genitori strani, spostati, con il diavolo in corpo, il diaolo. Ci finivano gli epilettici che cadevano a terra. Si pensava che le convulsioni fossero una malattia mentale ereditata, che il malocchio avesse consumato cuore e anima del paziente, non solo  il cervello. Questi erano i segnati da Dio, di cui bisognava diffidare. I fori de testa, gli schizofrenici, conservava vano lo sguardo fisso, l’orbita degli occhi sproporzionata e le braccia lungo un corpo filiforme o lievitato. Nessuno sembrava avere una linea normale, tutti avevano un fisico allungato, striminzito, ingrassato a dismisura. Negli anni Sessanta ai piani di sopra del manicomio risiedevano i violenti, gli incontrollabili, gli psicotici».[2] .

Il romanzo di Moscè, dunque, entra in quei sipari di cancelli, riportando la scena all’infanzia, quando era solito guardare quei matti al di là delle inferriate:

«Non ho mai dimenticato i racconti sventurati, le volte che mi sono avvicinato a quel luogo malfamato con il figlio del giardiniere, il mio amico Luca, il timore di superare il cancello, i rimproveri di mia madre quando fissavo i degenti appoggiati al cancello, le strattonate, le raccomandazioni di girare al largo se fossi uscito solo per comprare i fumetti incellofanati, a poco prezzo[3]».

Recuperando alcune cartelle cliniche degli anni Settanta e Ottanta, il suo sguardo tenta di riappropriarsi dell’umano spogliato, allontanato e condotto ai margini del vivere, spesso deriso, ricostruendo la soglia di una frattura di una quotidianità e di confini inconfessabili e invalicabili, recuperando il bagliore denudato delle esistenze invisibili:

«L’impianto seguiva i padiglioni che comunicavano, di arcata in arcata, per mezzo dei porticati. All’ingresso, dopo la portineria, due stabili erano riservati agli ospiti benestanti. A destra la palazzina confinava con la farmacia, il pronto soccorso e la cucina. I villini presentavano prospetti in laterizio a pasta gialla con cornicioni implementati in stucco dipinto. I porticati avevano gli archi a sesto ribassato da coperture di legno con manto tagliato in coppi. Nel mezzo c’era il villino della direzione affidata al professor Guido Lazzari e, attiguo, lo stanzone dei medicinali. Gli uomini e le donne, separati da una rete metallica che divideva gli stabili, erano tenuti in custodia da suore e infermiere».[4]

Le diagnosi, le cure, le camicie di forza, l’elettroshock, i bagni gelidi, l’isolamento, la figura compassionevole e carismatica del dottor Lazzari, «un signore di mezz’età con la fronte alta e spaziosa e pochi capelli in testa, con il riporto sul capo che partiva da sinistra. Indossava sempre giacca e cravatta. Un uomo serio, acuto, rivoluzionario nel senso migliore del termine», coadiuvato dai medici, da suor Germana e dal giardiniere Arduino, che dona fiori e piante medicinali, creano un mondo nel mondo, tolgono invisibilità, donano e porgono limpidità a ciò che è stato percosso, segregato, evitato, guidando il manicomio in un percorso di umanità che, dalla reclusione «conducesse all’autodeterminazione di molti pazienti, nonostante la paura per il diverso[5]».

Nazzareno che crede di essere speciale e nella sua andatura da clown spera di vedere la Signora, come Bernadette, e soffia bolle di sapone tra i padiglioni, Adele che ricorda solo Mussolini o Franca che vede uomini in processione in divisa nazista e il brusio allucinatorio nella sua testa la rendeva vittima di complotti.

E poi ancora il paziente di Osimo, Sebastiano, l’uomo-giraffa, che sostiene che la notte lo rincorrono i colori e poi, liquefacendosi, gli si incollavano addosso, Marta, i deliri mistici di Anacleto, Giordano e la maglia del Napoli, quando non colleziona bottoni, Carlo il pirata.

Moscè scrive un romanzo, affidando i suoi occhi a un intenso caleidoscopio, unendo i sipari familiari alle figure che si muovono sulla scena del romanzo, con asciuttezza dolce, come prima di lui aveva fatto Mario Tobino, con Le libere donne di Magliano o Per le antiche scale.

La frontiera di due mondi, di due epoche, di due condizioni si toccano nel ricordo, nel recupero di quella comprensione e compassione, di quella indulgenza di chi si pone raccontando per non perdere, di chi offre il nome per renderlo unico e irripetibile e, in definitiva, per affidarlo all’eternità che ha il sapore del taglio di luce.

 

Moscè A., Le case dai tetti rossi, Fandango, Roma 2022.

[1] Moscè A., Le case dai tetti rossi, Fandango, Roma 2022.

[2] ID., cit., pp.13-14.

[3] Id.,cit., p.8

[4] ID., cit., p.11.

[5] ID., cit., p.28.

Hagard: braccando la soglia della surmodernità

di Irene Battaglini 29 aprile 2021

leggi in pdf HAGARD, LO SGUARDO DEL FALCO

titolo   Hagard

autore  Lukas Bärfuss

collana Kreuzville

editore L’orma

pagine 120

pubblicazione  03/2021

ISBN   9788831312592

Don Juan affermò che per vedere si deve prima fermare il mondo. Insomma, fermare il mondo era un’interpretazione corretta di alcuni stati di consapevolezza nei quali la realtà della vita quotidiana è alterata perché il flusso dell’interpretazione, che in genere scorre ininterrotto, è stato arrestato da un insieme di circostanze estranee a quel flusso. Nel mio caso, l’insieme di queste circostanze era la descrizione magica del mondo”. Così scrive Castaneda in Viaggio a Ixtlan[1]. Quello di Philip è una discesa agli inferi, guidato dal “demone” Hagard, nei sottofondi degradati di umanità e di cemento di una città il cui nome è una coordinata fantasmatica, e che in questo mirabile romanzo diventa lo scenario – a tratti magico, a tratti patetico – da cui si dipana la “via di conoscenza” di un uomo di carattere, codificato da una nevrotica contemporaneità, il cui flusso di coscienza, tenuto insieme senza alcuna presenza di sé, è interrotto da una chiamata inattesa all’individuazione.

Dire della trama, non servirebbe: si tratta di una rete a maglie larghe, di una vera e propria ragnatela, parafrasando Mario Lavagetto, di piccoli indizi, dai quali emerge la vertigine della libertà di Philip, il cui destino si compie sgretolandosi, e che attraverso una sarabanda di ricordi frammentari, ammonimenti superegoici e salti temporali, stabilisce di intraprendere un gioco di scacchi con la vita. Tuttavia la questione del destino di Philip potrebbe essere il canovaccio narratologico intessuto da Lukas Bärfuss per arrivare al cuore del problema: la vita di un uomo, indipendentemente da come possa essere vissuta, per chiarire la sua domanda di senso deve essere raccontata da chi ne sa seguire lo sguardo. Ha bisogno di un narratore al corrente degli antecedenti, delle variazioni di accordi, delle conseguenze delle scelte: lo stile di uno scrittore è, anche, il suo punto di vista. Non dico le sue opinioni, o il suo sistema di valori, e nemmeno la maestria: dico il vertice – in questo caso una mappa di vertici mobili che danzano forsennatamente – dal quale osserva. Quale piano, da quale orbita decide di salpare, da quale porta ci fa entrare, per seguire la “caccia” di Philip alla donna dalle ballerine color prugna, con le gambe di gazzella, il volto d’oro e invisibile, e il corpo flessuoso di passi che “sentono” il mondo?

“Hagard” indica quel falco che, nonostante sia tratto in cattività, non si lascia addomesticare completamente: è dunque un falco la cui natura selvaggia è solo parzialmente mitigata e maldisposta alla sudditanza.

Lo sguardo di Lukas Bärfuss è di falco libratore. I falchi «libratori» catturano la preda a terra, dopo aver perlustrato il territorio librandosi immobili nell’aria, oppure calandosi in picchiata da un “punto di vedetta”: un punto di vista, alto, molto più in alto di quello della maggior parte di coloro che si avvicendano nelle infinite traiettorie del mondo. Scrisse il drammaturgo svedese August Strindberg: “Lo sa lei come si vede il mondo dal basso? No, lei non lo sa. Agli sparvieri, ai falchi di rado gli si vede il dorso: volano troppo alti” [2], e ancora: “Abituati a osservare il mondo a volo d’uccello, e vedrai allora che tutto ti sembrerà piccolo e insignificante”[3].

Il lettore di Hagard – il romanzo laureato nel 2019 dal prestigioso premio Georg Büchner dell’Accademia Tedesca per la Lingua e la Letteratura (premio istituito nel 1951 e già assegnato a scrittori, tra gli altri, del calibro di Ingeborg Bachmann e Christa Wolf, Celan, Dürrenmatt, Thomas Bernhard, Elias Canetti, Günter Grass) si farà certamente catturare dall’occhio – che riscrive un mondo – di Lukas Bärfuss: un romanziere dal calibro introverso e disilluso alla Joseph Conrad, dal cuore emorragico di Jean-Claude Izzo, e dalla irredenta solitudine contemporanea di John Cheever.

Il respiro di Philip è affannato come di un lupo della steppa, è attento e circospetto, è solitario e affilato: la paura delle avversità (numerose, in cui si imbatte per non perdere di vista la bellissima creatura, “la dea” dalle ballerine color prugna) è una emozione primitiva che determina il rango del rapace, non la debolezza del suo cuore di fiera: si tratta di gestire eventi in rapida successione, come se il nastro della corsa si svolgesse dai fotogrammi opachi dei finestrini di un treno affannato, semivuoto, attanagliato ai binari eppure in una sequenza decisiva degna di un thriller psicologico, intriso di odori e da un immaginario tracciato erotico, con cui l’autore ammanta la mappa spietata delle molteplici realtà in cui si imbatte: si tratta di stati dell’essere che Philip, il protagonista, sperimenta per la prima volta grazie all’incontro con la donna-Anima, della quale non “vede”, suo malgrado, la natura selvaggia di Hagard, il falco non addomesticabile. Il suo sguardo, lo stile narrativo che sorvola e si libra, che si eleva e si staglia, che stana e che sovrasta e poi si avvicina come in una presa diretta, che memorizza volti e dettagli, che registra minacce, pericoli, è come di un falco su un territorio di caccia metropolitano, tuttavia all’acume della sua pupilla sfugge proprio la natura di ciò che rincorre: la creatura leggiadra è un’Anima della selva, che scompare tra gli alberi – come tra i vetri di un edificio -, si nasconde al tramonto in lividi appartamenti, paludi dell’essere entro cui sconfinano binari e fiumiciattoli sotto basse nuvolaglie che ricordano la Fiandra investigativa, pressante e annoiata, di Georges Simenon.

Philip è costretto, suo malgrado, a conoscere lo spirito putrescente dei “non-luoghi”, quegli spazi non identitari della sur-modernità, che nel suo volo incalzante verso l’infinito, braccando un’Anima indomita infilata in “soffici calze”, diventano, in una magica metonimia retrograda, i non-luoghi della sua psicologia individuale in eclissi, rappresentativi di un Sé acerbo, emotivo, sanguigno, che si sveglia al mondo: cespugli e reti, marciapiedi senza strade, opachi ristoranti, grigi scannatoi di provincia, scale mobili sospinte da gelidi nastri, caffè consumati freneticamente in maleodoranti sottopassi, metropolitane glaciali popolate da figure retoriche – ossimori indossati da uomini senza qualità come controllori e bigliettai o manager azzimati -, corridoi di anonimi condomini, self-service per la colazione popolati da uomini e donne che assomigliano ad allevamenti di pesci insipienti. Troviamo in “Hagard”, ad esempio, quadri che sono insieme sia di ridondanza analitica sia di estrema sintesi:[4]

“Quella razza Philip la conosce bene. Piccoli boia, scorticatori incaricati di tormentare il prossimo con strumenti quali i titoli di credito, le fatture scadute, l’ufficio fallimenti, la bancarotta; e ovviamente con la voce gracchiante, le vocali aguzze, le lunghe sibilanti. […] Dunque nell’edificio non ha sede un’unica azienda. È un immobile con molte utenze e molti affittuari. Studi di ingegneria, spedizionieri, contabili, call-center, forse persino ditte di import-export. Nella corte sembra esserci una tipografia. La ragazza potrebbe passare la giornata nei modi più disparati. Ma nessuno pare appropriato. È uno stabile privo di qualunque classe. La dea esige un tempio. Un intero piano come regno. La regina ha bisogno di ampi spazi. Ha la sua propria andatura e la deve tenere in esercizio, lui ne è testimone. Gli è impossibile immaginarsela tutto il giorno china su una scrivania. Forse lavora camminando, sfila da un tavolo da disegno all’altro con la matita tra le labbra. O altrimenti? Accoglie i clienti? Ripone negli armadi le pratiche lasciate in giro dai colleghi? Prepara la sala riunioni? Sistema la frutta? Cambia l’acqua ai fiori? Oppure il sorriso e il portamento sono le sue sole mansioni? È del tutto indifferente. A Philip basta poterla vedere. Ed è proprio quello che non sta facendo”.

Nonostante il velo manifesto sia sfrangiato e ripido, è proprio il grado simbolico di questa realtà finalmente fruibile che Philip apprezza: ora il suo passo veloce e il suo pensiero torrido possono appoggiarsi su una nuova rappresentazione del mondo grazie all’incontro con la provvisorietà. O meglio, grazie alla provvisorietà dell’incontro con una donna che nessun luogo abita: una donna i cui tacchi sono magici piedistalli dalle sette leghe, implacabile e vorace di tempo, una donna che sa il mondo, e che decide di non abitarlo mai abbastanza a lungo da poter restare impigliata in una trappola: è lei il vero cacciatore vigile, colei che, come direbbe Don Juan, assomiglia a quei “vecchi stregoni che avevano una fluidità favolosa. Bastava solo il più lieve spostamento del loro punto di unione, il minimo accenno percettivo ispirato dal Sognare, perché fossero subito in grado di tendere un agguato alla percezione, risistemare la loro coesione in modo da adattarla al nuovo stato di consapevolezza, ed essere un animale, un’altra persona, un volatile, o qualsiasi cosa”. [5]

È lei, la Dea dalle Ballerine Color Prugna, un Orfeo che non si volta, che non tentenna, non dubita, non cede il passo ai quesiti inattendibili: ed è per questo che è lei a salvare Philip da un destino che, altrimenti, sarebbe stato di eterna nostalgia per una vita altrimenti mai vissuta.

[1] Carlos Castaneda,Viaggio a Ixtlan (Journey to Ixtlan, 1972)

[2] August Strindberg, La signorina Julie, 1888

[3] August Strindberg, La stanza rossa, 1879

[4] Lukas Barfuss, Hagard, 2019, p. 104-105

[5] Carlos Castaneda, L’arte di sognare (The art of dreaming, 1993)

Michael Longley: la sottile maestà

 

di Andrea Galgano  15 aprile 2021

leggi in pdf MICHAEL LONGLEY

Michael Longley, classe 1939, di Belfast, allievo del grande grecista W.B.Stanford, fa parte assieme al grande Seamus Heaney, assiepa la bellezza del mistero dalla precisione della lingua, attraverso la riscrittura di Omero, e, come afferma Piero Boitani:

«il paesaggio meraviglioso dell’Ovest irlandese; e l’amore per i particolari più minuti del mondo naturale (inaugurato con forza e delicatezza proprio qui in Angel Hill). Omero non è un semplice oggetto di imitazione, è al centro di una vera e propria ri-scrittura che colloca l’Iliade e l’Odissea, i poemi più antichi della nostra tradizione, al centro del presente: dove regna il conflitto, come nell’Iliade; dove domina la ricerca, come nell’Odissea. Febbraro ha dunque perfetta ragione nel sostenere che in Longley l’originalià è sostituita dalla originarietà. Il poeta procede isolando un grumo narrativo omerico, lo medita a lungo, lo svolge, lo traduce in un istante lirico: in Angel Hill, è “La spilla”, il fermaglio che tiene uniti i due lembi del mantello di Ulisse, ma altrove è l’incontro all’Ade con Anticlea, la madre morta di nostalgia per il figlio che non tornava mai: un solo periodo di diciotto versi e di enorme potenza».[1]

La lampante meraviglia del suo dettato appare evidente in Angel Hill[2] (a cura di Paolo Febbraro, edito da Elliott e vincitore in patria del PEN Pinter Prize), attraverso il doppio movimento della visitazione e della rivisitazione del tempo, attraverso l’orizzonte dell’attrito memoriale, dei luoghi sgranati, dell’incrocio dei depositi temporali (si pensi al ricordo dei campi di battaglia e dei cimiteri della Grande Guerra, in Francia, che egli visitò con la moglie nel 1997 e dove il padre aveva combattuto, tornando segnato), dell’epica ancestrale ed archetipica che risolleva ombre e concede vitalità, come afferma Paolo Febbraro:

«Il poeta torna al passato perché sa che il presente ne è un’articolazione, e quest’articolazione va illimpidita e preservata con un lavoro “onnipresente”, che sembri compiuto appena ieri per freschezza, nitore e assenza di ogni macchia stilistica. Il padre, vecchio soldato ucciso dalla guerra a decenni di distanza, e gli eterni ragazzi sopravvissuti solo nei veri e nei taccuini compongono un quadro vivente che detta al poeta la castità e la fratellanza dello guardo, ma anche la responsabilità di una purezza che è Storia».[3]

Lo svanimento, la perdita, l’immersione, lo stupore toccano il cimitero di Angel Hill, dove riposano i caduti della Prima Guerra Mondiale e diventano il fulcro non solo di un paesaggio dell’anima[4] ma, in particolare, di un tempo del pensiero, di una soglia che ricopre la bellezza dell’avamposto dell’io, come la lente d’ingrandimento di Fleur Adcock («Cara Fleur, per anni ci siamo congedati / ornitologicamente: i pettirossi di East Finchley / e scriccioli e cinciarelle come fatti importanti, / il mio censimento di cigni e trampolieri / dal tempaccio di Carrigskeewaun. / Abbiamo passato la vita nei campi, china / la testa, cercando sul terreno nidi di allodole») o la piccola baia, in omaggio a Kathleen Jamie: «Ho visto il tuo volto / frammezzo ai ciottoli / d’uno stagno delle Highlands. / Spandendosi nell’erba / la marea equinoziale / vi lascia alghe medicinali. / Avrai notato un orbitante / frutto di rosa canina / appeso al cielo, / una passerella scivolosa / far da ponte fra la baia / e gli estremi del mare, / il guscio di un mitilo / colmarsi di pioggia / quando giungi allo stagno».

La vulnerabilità friabile di Carrigskeewaun o la punteggiatura di Belfast sono un orologio di territorio, come il filo ventoso dell’Atlantico che lega precarietà e bellezza, solchi, luce schiacciata e smottamenti, sfumatura dell’anima e conteggio della realtà, attraverso la precisione, l’osservazione minuta ed essenziale, il fascino umbratile delle cose, cui aggiungere la cromatura primaria dell’essere che aggiunge, contorna, offre un insieme di incanto e bellezza alla veglia e all’attesa:

«Hai passeggiato con me un milione di volte / sul sentiero roccioso per Carrigskeewaun / fermandoti nell’insidia dei cerchi delle fate / a cogliere funghi per merende e poesia. / Hai indicato, per un guscio di lumaca / o la piuma di un chiurlo o il fodero vuoto / di un uovo di squalo la parola esatta, sillabe  / e silenzi udibili sul filo ventoso dell’acqua. / Abbiamo seguito le orme della lontra verso Allaran / e atteso per ore sul nostro trono gelato, / per cinquant’anni, marito e moglie, contando / a voce bassa le beccacce e i piovanelli».

A tal proposito, Paolo Febbraro scrive ancora:

«Nei versi del passato, e forse ancor più frequentemente in quelli di questo Angel Hill, il poeta, la sua amata, i suoi amici affiancati nel passo o raggiunti per lettera contano cigni, lontre, oche faccabianca, focene… Il poeta vuole tesaurizzare ciò che vede, controllare maternamente l’entità minacciata della propria prole, preoccuparsi per morti o dispersioni, chiamare a raccolta, inorgoglirsi della propria abilità sensoriale come un cacciatore inoffensivo, e infine battere il tempo dell’esperienza come facendo versi».[5]

Nella nominazione precisa, nello sconfinato amore per la pittura irlandese (Paul Henry e Gerard Dillon), per i naturalisti e i geografi, e per la brevità incolume, nei solstizi di erba delle sabbie, di chiurli e scogliere, Longley decifra l’anima indenne, dove si riunisce corporeità terrena e temperie metafisica, lotta al silenzio e alla dispersione, avvicinamento e sparizione di isole insonni e  l’asprezza rada del Connemara.

La sua sottile maestà, che attinge al vibrante serbatoio latino e greco, incrocia la fenomenologia naturale e la densità dell’istante. Scoperta e ritrovamento, linea concava e simbolizzazione, e poi, infinità naturale indicibilità di ciò che appare consentono alla poesia di Longley, di distendersi in un panorama di amore e bellezza, lasciano orme intatte e illuminando il palcoscenico del mondo.

Il suo repertorio, dunque, trapassa la cortina ombrosa della realtà. È poesia di ritrovamento ed esplorazione, epitalamio di memoria tra cardi, tempeste, storni, voli uditi: «Qualcuno dev’esserci a vegliare sulle lapidi. / Potresti essere tu con pennelli e cavalletto / e i tuoi grandi fogli e il carboncino per ritrarre / strato-cumoli di bucaneve e calligrafia di lichene. / Qualcuno dev’esserci a vegliare sulle ringhiere / e chiuderle il cancello arrugginito alle spalle».

O ancora: «Considera l’uovo del lucherino, / finemente screziato – macchie / e trattini – lilla, pallida ruggine / rossiccia, spruzzi di sangue / traverso un bianco verdastro – / tramonto a finis terrae – insomma / considera l’uovo del lucherino».

Fino al poeta soldato che si salva perché tiene con sé i sonetti di Shakespeare nel taschino e il libro, così, blocca il proiettile, sorvegliando il cuore:

«Il poeta soldato mise nello zaino sapone, / tutore per la schiena, calze, pennello per la barba / (anche se non era tipo da radersi ogni giorno) / borraccia, medicazioni d’urgenza, maschera antigas, / una lattina di sigarette (dono della principessa Mary, / a Buckingam Palace la ragazza della porta accanto), / astuccio da cucito, lacci di scarpe, scovolino, libro paga / e i sonetti di William Shakespeare. / Si grattò via di dosso il fango a Passchendaele e, / prima di spiccare l’assalto, ripose nel taschino / della giacca il libro rilegato in pelle / che bloccò un proiettile a poco dal cuore / e stracciò le poesie salvavita. Poi aspirò / una delle Woodbine della Principessa Mary».

Il toponimo Angel Hill, dunque, diventa il luogo in cui catturare le intimità e le specificità dell’esistenza[6], in cui il luogo selvaggio e melodioso celebra il territorio, per dirlo con un verso del poeta romantico John Clare, dove i poeti amano la natura, e amore sono, «decifratori d’ali in falene e farfalle», per dispiegare lo sperdimento di una foschia marina:

«I poeti amano la natura, e amore sono. / Immagina un cottage fuori mano / presso le dune, l’erba delle sabbie a sussurrare / su lumache in technicolor e uova di sterna, / il gracchio ben desto sul tetto dell’alba, / al crepuscolo i chiurli a zufolare nel comignolo, / e dalla finestra della cucina la scogliera / che ha visto per cinquant’anni i nidi del corvo. / Decifratori d’ali in falene e farfalle, / annoverando pony e cigni del Connemara, / lungo i coltivi abbandonati in riva al lago / si materializzano dalla foschia marina e / nella nebbia di soffioni svaniscono. / Uno ha scritto una bella poesia sul merlo».

 

[1] Boitani P., Longley, l’Omero irlandese, in “Il Sole 24ore”, 4 aprile 2021.

[2] Longley M., Angel Hill, a cura di Paolo Febbraro, Elliott, Roma 2019.

[3] Febbraro P., Introduzione, in Longley M., cit, p.9.

[4] Michelucci R., Longley, la mia poesia al servizio della pace, in “Avvenire”, 8 settembre 2019.

[5] Febbraro P., Introduzione, in Longley M., cit, pp. 10-11.

[6] Brearton F., Angel Hill by Michael Longley Review -, elegies on conflict, grief and Nature, on “The Guardian”, 17 Jun 2017.

Longley M., Angel Hill, a cura di Paolo Febbraro, Elliott, Roma 2019, pp. 179, Euro 19,50.

Longley M., Angel Hill, a cura di Paolo Febbraro, Elliott, Roma 2019.

Boitani P., Longley, l’Omero irlandese, in “Il Sole 24ore”, 4 aprile 2021.

Brearton F., Angel Hill by Michael Longley Review -, elegies on conflict, grief and Nature, on “The Guardian”, 17 Jun 2017.

Michelucci R., Longley, la mia poesia al servizio della pace, in “Avvenire”, 8 settembre 2019.

 

La sorgente della Nuova poesia americana

di Andrea Galgano  8 dicembre 2020

leggi in pdf 181.NUOVA POESIA AMERICANA VOL.2

Il secondo volume della Nuova poesia americana[1], edito da Black Coffee, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, restituisce l’abbandono, il giaciglio solitario del tempo, la forza del mistero, il grido roco e lucente del contatto e del desiderio e, come afferma Alberto Fraccacreta:

«un corpo solido, un’efflorescenza timbrica così chiara e stentorea che la si può riconoscere immediatamente anche da pochi grafemi, simboli, figure retoriche […], anafore, ripetizioni tratte dal blues e dalla tradizione folk, mistura di linguaggio alto e locuzioni non soltanto pop ma persino punk, tono colloquiale, tendenza a far prevalere frasi gnomiche e a effetto per colpire il lettore, scardinamento metrico, utilizzo di slang giovanile che riflette una visione cinica e disillusa del mondo, risemantizzazione di espressioni idiomatiche e volgarismi».[2]

Efflorescenza, scardinamento e risemantizzazione, dunque, che plasmano l’io in modo minuzioso e isolato, per così dire, come afferma John Freeman nell’introduzione, ma che riesce a strappare e consegnare la creativa giacenza del desiderio, della rabbia e del dolore attraverso la rapidità dell’epifania, l’affilamento contratto della lingua, e l’orlo dei paesaggi con la loro brutalità lucente.

Partendo da Kim Addonizio, originaria di Washington D.C. ma che vive a San Francisco, la cadenza del battito sanguigno, l’estremità del corpo («Quando lo trovo, staccherò quell’indumento / dall’omino come stessi scegliendo un corpo / che mi porti in questo mondo, attraverso / le grida del parto e anche le grida dell’amore, / e lo indosserò come fosse ossa, come pelle, / e sarà lo stramaledetto vestito / in cui mi seppelliranno»), lanciato come limite, il cuore della carne è un incastro di memoria e dolore stupefatto (come la forte Generazioni, che unisce immigrazione oblio), fino alla tensione di istinto e desiderio, femminilità strappata e umbratile, durezza sofferta, blues violento, instabile e redento e, infine, amore che si squaderna, fino alla mappa stropicciata degli inferi («Per te mi spoglio fino alla guaina dei nervi. / Tolgo i gioielli e li appoggio al comodino. / Sgancio le costole, stendo i polmoni su una sedia. / Mi sciolgo come un farmaco nell’acqua, nel vino. / Sgoccio senza macchiare, me ne vado senza smuovere l’aria. / Lo faccio per amore. Per amore, io scompaio»):

«Mi piace toccare i tuoi tatuaggi nella più assoluta / oscurità, quando non posso vederli. So per / certo dove stanno, so a memoria la minuta linea del lampo che pulsa appena sopra / il capezzolo, so trovare, come d’istinto, le spire / azzurre d’acqua sulla tua pelle dove un serpente / s’attorce, affronta un drago. Quando ti tiro / a me, prendendoti fino a quando non resta niente / di noi silenziosi sui lenzuoli, adoro baciare / le figure nella tua pelle. Dureranno finché non verrai bruciato a cenere; qualsiasi cosa potrà durare / o mutarsi in dolore tra noi, loro saranno in te / ancora. Il pensiero di tale permanenza è spaventoso. / Così li tocco al buio; ma li tocco, ci provo».

Le correnti di Garrett Hongo, poeta delle Hawaii, sono un’ondulata e vibrata solitudine che ingloba il destino, il senso del tempo e dello spazio come un blues a bocca chiusa (si pensi a La leggenda), la storia e i suoi crogioli, il territorio dell’infanzia e delle figure care, le carte espatriate e l’esilio («La terra di lava fiammeggia di primule e bacche di rovo, / fuochi fragranti di rosa e azzurro / che sfrecciano nell’intrico del sottobosco. / Io sono fuori che do da mangiare ai polli, / spargendo rimasugli di semi e bucce di melone / sulle pietre sbeccate e il legno marcio del sentiero nella foresta»), il suo mosaico di cadmio e rimpianto, come splendore e rovina: «In California, a nord del Golden Gate, / il rampicante cresce quasi dappertutto, / erompe nei pascoli, / dall’ombra degli eucalipti / lungo la strada / sommergendo stamberghe fantasma e steccati in rovina / che si sbriciolano nel marciume / imbevuti dalle piogge recenti».

È un solco di paradiso perduto, l’istante cesellato dal nutrimento della terra, dove l’elegia solitaria vive di voci di soglie e di cielo, dell’immagine di Neruda, in un nome di lode e di litania, di polpe bagnate e felicità di aria tropicale.

Il grido rivelatorio di Lawrence Joseph, nato a Detroit ma ora a New York dove insegna legge alla St. John’s University School of Law, è una fusione dei dettagli e degli affreschi della temperie operaia e genesi libanese e americana. Queste luci rifratte di New York rappresenta la potenza dell’evento, la decifrazione delle cose sui taccuini e la ruvidezza delle distanze trasfigurate: «Prima dell’alba, di nuovo sulla strada, / sotto un cielo che mi inonda di ghiaccio, fumo e metallo. / Non voglio pensare / che il proiettile mi ha perforato la spalla, / che i denti marci del tossico / hanno sorriso, i capelli gialli gli si sono gelati. / […] Non sono io che urlo contro nessuno / a Cadillac Square: è Dio / che ruggisce dentro di me, con la paura / di essere solo».

La californiana Kay Ryan, cresciuta nella valle di San Joaquin e nel Mojiave, premio Pulitzer e National Humanities Medal, esplora il ritmo combinatorio delle rime interne, attraverso la morbida e scarna nudità di una infinita creaturalità, dalla teatrale bellezza dei fenicotteri, alla lieve pazienza della tartaruga, ai corvi sghembi, fino alla catarsi della rugiada e delle sue perline e alle oasi-miraggio.

È una epifania nascosta, il germoglio e lo scrutinio delle cose («Debolezza e dubbio / sono simbionti / celebri in tutti / gli ordini fungini»), gli orli del tempo e le nuove stanze: «La mente deve / riadattarsi / ovunque va / e sarebbe / comodissimo / imporre le sue / vecchie stanze – basterebbe / picchettarle / come una tenda / interiore. Oh, ma / i nuovi fori / non stanno dove / prima c’erano le finestre».

Aracelis Girmay, di Sant’Ana in California, che ora vive a New York e insegna all’Hampshire College, vincitrice del Whiting Award per la Poesia, consegna il dono vivido dell’intimità come purezza e dialogo, scheggia dolorosa di storia (si pensi a coloro che attraversarono il mare dal Nord Africa all’Europa, molti eritrei come i suoi avi), agone di vita che pulsa («Cantiamo così, per giorni & giorni, / allineate in file & file & file, rivolte al mare»), la vita e il dolore come in The Black Maria e il tocco, come conoscenza ultima e percettiva. Il suo ritmo è un soggiorno di grazia e purezza:

«Che fare con la consapevolezza / che il nostro vivere non è garantito? / Forse un giorno toccherai il giocane ramo / di qualcosa di splendido. & crescerà & crescerà / nonostante i tuoi compleanni & il certificato di morte, / & un giorno darà ombra alle teste di qualcosa di splendido / o renderà se stesso utile al nido. Esci / da casa tua, dunque, credendoci. / Niente altro importa. / Ovunque sopra di noi è il toccarsi / di estranei & parrocchetti. / alcuni tra loro umani, / alcuni tra loro non umani. / Dammi retta. Ti dico / una cosa vera. Questo è l’unico regno. / Il regno del toccare; / i tocchi del disapparire, delle cose che scompaiono».

Chiude l’antologia Kevin Young, originario di Lincoln, Nebraska, ma che vive in New Jersey, Chancellor of the Academy of American Poets, canta la danza estatica della realtà, come avviene in Lettere dalla Stella Polare: «Cara, le luci qui non chiedono / niente, il bianco cade / attorno alle mie lettere muto, / inarrestabile. Ti scrivo / dalla pancia vuota del sonno / dove niente tranne il freddo / si chiede dove vai; / nessuno qui scuoia teste aspre / e da poco come limoni, e solo / l’auto canta AM tutta / notte. In città / ho visto bimbi mezzo- / morsi dal vento. Perfino i treni / arrivano senza un’anima / che li accolga; le cose qui / non hanno bisogno di me, questo mondo / balla da solo».

Il blues racconta di volti e fantasmi, come quelli di Langston Hughes o Lucille Clifton, l’evenienza dell’evento, le serenate delle stelle lacere e del fulgore in frantumi e la cara oscurità: «Essere scomparsi, presi, / è quello che vuol dire paradiso – // È pieno di – ali – // Musica di ciò / che manca».

Aa.Vv., Nuova poesia americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020, pp. 192, Euro 13.

Aa.Vv., Nuova Poesia Americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020.

Fraccacreta A., D’avanguardia e feconda: la poesia americana oggi, in “Avvenire”, 8 dicembre 2020.

[1] Aa.Vv., Nuova Poesia Americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020.

[2] Fraccacreta A., D’avanguardia e feconda: la poesia americana oggi, in “Avvenire”, 8 dicembre 2020.

Margine di fuoco di John Smolens

di Emanuele Emma  21 novembre 2020

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Il margine di fuoco è un punto di non ritorno cruciale e definitivo.

Voluttuoso nella sua tragica essenza anestetica e antiestetico come una cicatrice inferta da un intervento chirurgico.

Un incendio circoscritto nella piccola comunità di Whitefish Harbor.

Vite comuni e senza troppe pretese sullo sfondo del Lago Superiore, uno dei laghi più importanti del Nord America e il più grande d’acqua dolce per superfice nel mondo.

È in questa piccola arcadia dimenticata da Dio in inverno e popolata dai turisti in estate che i disgraziati destini di Hannah LeClaire, Martin Reed, Pearly Blankenship, Sean e suo padre Frank Colby si scontrano in una serie di vorticosi eventi.

Margine di fuoco racconta la storia dell’estate in cui Hannah e Martin tentano di ricostruire la loro vita. Si incontrano per caso, si innamorano, e decidono di restaurare una vecchia casa sul lago. Le cose si complicano quando Sean Colby ritorna in città dopo essere stato congedato dal servizio militare. Hannah è la sua ex fidanzata e la tensione cresce giorno dopo giorno. Scritto in una prosa ricca e piena di grazia, questo romanzo carico di suspense è allo stesso tempo un’emozionante storia d’amore, vendetta e rinascita, a cui fa da sfondo la bellezza incontaminata di uno dei grandi mari interni d’America, il lago superiore.”

La diciannovenne Hannah, imperscrutabile, solida e resiliente con alle spalle una gravidanza indesiderata aggravata in un assegno per finanziare l’intervento dell’aborto è determinata a voltare le spalle al tragico evento che ha condannato e limitato la sua esistenza in un puntino sulla mappa del Michigan.

Hannah convive con un dolore abnorme per la sua età, che le ha provocato malessere, frustrazione, allontanamento e rimorso.

Fare i conti con il proprio passato vuol dire affrontare ancora una volta la natura possessiva ed inarrendevole, connaturata in una disprezzante ed eloquente voglia di vendetta, del suo ex fidanzato Sean Colby.

“Hanna si chiese: se non fosse andata fino in fondo, se l’anno prima avesse deciso di avere il bambino, ora sarebbe riuscita a evitare tutto quel dolore? Forse, era un castigo.

Forse, dipendeva tutto da un senso di colpa che non riusciva a nascondere, a dispetto del nome che davi al colore, a dispetto del numero di mani di vernice che applicavi.

Fu allora che capì che aveva paura, che la tensione nervosa che la attanagliava – le tremavano leggermente le mani- era causata da una paura che lei non aveva mai conosciuto prima, e in quell’ istante capì anche questo: era una paura che andava nascosta.”

 

La penna meticolosa e dal ritmo superbo di Smolens ci conduce nell’incubo amorevole di una famiglia americana disfunzionale della seconda metà degli anni novanta.

Sean Colby, padre perduto e soldato disonorevole, congedato prematuramente dall’esercito dopo gli scandali avvenuti al bar “Mare Adriatico” ad Ancona.

Frank Colby, poliziotto del paese stimato e ben voluto, figura in cui si incarnano gli sbrigativi ideali di giusto e giustizia assieme ad una controversa, e allo stesso tempo profondamente radicata, idea di potere ed esercizio delle leggi.

La signora Colby è un flat character, una madre in crisi con sé stessa e col marito, perennemente ubriaca ed incallita fumatrice di sigarette al mentolo.

Il ritorno di Sean a Whitefish Harbor è un grande e doloroso fallimento, da un lato deve ancora somatizzare quanto successo in Italia, dall’altro non riesce ad accettare la nuova relazione amorosa di Hannah con Martin.

Martin Reed, più grande di Hannah di dieci anni, guida una Mercedes in un posto in cui una tale macchina è soltanto una stranezza, una cosa fuori posto dal fascino vago o addirittura anonimo.

Un ragazzo per bene che, assieme a suo cugino Pearly, sta ristrutturando la casa malridotta ricevuta in eredità da una zia alla ricerca di una vita serena e lontana dalla grande città da cui proviene.

Martin Reed, vittima di Sean e straniero.

Pearly Blankenship è una figura letteraria originale e sicuramente la più simpatica e divertente dell’intero romanzo.

Yooper, carpentiere, esistenzialista, ubriacone, punto di riferimento e coscienza centrale del luogo in cui vive, assiduo frequentatore della biblioteca pubblica e quasi amico di Frank Colby.

Questo personaggio genuino e stravagante sarà oggetto di un delizioso processo in tribunale, che di per sé potrebbe benissimo rientrare in un’antologia.

 

“Sapeva cosa pensava la gente di lui e, per essere cortesi, non gliene fregava niente.

Era un tipo solitario, ma dopotutto, essere lasciato in pace era sempre stato il privilegio di uno Yooper.

Se non avesse vissuto nella casa della sua povera madre, avrebbe incontrato qualche difficoltà a tenere un tetto sulla testa.

I suoi impieghi erano per lo più stagionali: per lunghi periodi, nel corso dei mesi invernali, a metà pomeriggio lo trovavi all’Hiawhata Diner o, più facilmente, al Portage, uno dei bar lungo Ottawa Street.

Se c’era un problema, qualcosa che implicasse l’intervento della polizia, il primo nome che ti veniva in mente era quello di Pearly.

Eppure alcuni, soprattutto i più vecchi, sapevano che frequentava la biblioteca pubblica.

E, per essere onesti, ci sapeva fare con i lavori di falegnameria edile.

Se riparava un tetto, non c’erano più infiltrazioni; se montava una porta, non si bloccava.

La sua filosofia, se ne aveva una, era che le cose in questo mondo dovrebbero essere a piombo, in pari e a squadro, ma non lo sono quasi mai.

L’universalità della provincia americana insegna che il giudizio altrui è un catalizzatore per gli eventi futuri e non può fare a meno di esistere.

Non importa quanto tu sia disposto a cambiare o quanto tu sia già cambiato, verrai sempre ricordato e marchiato a fuoco per quello che ti è successo o hai fatto in passato.

È l’abietta logica binaria del bene e del male a dominare il microcosmo della provincia. Margine di fuoco sfugge dalla categorizzazione di genere, non è soltanto un classico romanzo di suspense, è una mescolanza di elementi e situazioni che si intersecano insieme, dalla storia d’amore alla tragedia familiare, sino ad arrivare alla conclusione del romanzo che è una lezione di letteratura in piena regola. C’è sempre una seconda volta per tutti, nonostante tutto.

John Smolens insegna alla Northern Michigan University dal 1996.

Ha pubblicato nove romanzi e una raccolta di racconti, è stato nominato per il premio Pulitzer e il National Book Award e il Detroit Free Press ha selezionato Margine di fuoco come miglior libro dell’anno.

Margine di Fuoco è un libro pubblicato da Mattioli1885.

“L’idea della vernice fresca, l’idea di rendere pulita e onesta quella casa e quella vita ora sembrava assurda.

Ci sarebbe sempre stata la paura.

Ci sarebbe sempre stato il dubbio.

Ci sarebbe sempre stato il rimpianto.

Hannah si chiese: se non fosse andata fino in fondo, se l’anno prima avesse tenuto il bambino, ora sarebbe riuscita ad evitare tutto quel dolore?

 

 

 

 

 

 

 

 

Julie di Don Robertson

di Emanuele Emma  14 ottobre 2020

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È la voce di un’affidabile bugiarda a guidarci, attraverso una successione cronologica di eventi, nell’intimità di trentasei anni di storia americana, tra catastrofi e rivoluzioni culturali epocali.

Da una domenica pomeriggio di novembre 1938, fredda e leggermente bianca, passando per il paradisiaco 1949, in cui Julie si fidanzò con un ragazzino dal vocabolario frizzante e colorito chiamato Morris Bird III, sino ad arrivare al freddo letto di una clinica sanitaria nel 1974.

“Ciao. Mi chiamo Julie, e come nome, beh, non ha niente che non vada, capite?

Eppure, suona in qualche modo timido, incerto, e perciò preferirei mi avessero chiamata… uhmm…

Julia, se proprio devo essere sincera. O anche … addirittura … signorina Julia.

E il fatto che io confessi una cosa tanto imbarazzante mi rende forse alquanto arrogante o seriosa, o sostenuta? Beh, nel caso, me ne scuso.

Non credo di essere arrogante o seriosa, niente affatto.

E’ solo che sono sempre un po’ con la testa fra le nuvole, e insomma non è un difetto che ci possa morire qualcuno, giusto? Non potete condannarmi a morte per questo.

E, sapete, a pensarci bene, non mi dispiacerebbe essere, almeno un po’ arrogante e sostenuta.

Se lo fossi stata, mi sarei risparmiata parecchi imbarazzi e dispiaceri.

E non c’è niente di sbagliato nel volersi risparmiare imbarazzi e dispiaceri, dico bene?

Senza parlare poi del dolore. Oh, ma non credo che al Padre eterno freghi tanto di cosa mi piaccia o non mi piaccia, se ne infischia delle mie preferenze ed è sempre stato così.

La verità è che, credo, ho avuto la mia buona dose di caro, vecchio, maledetto dolore nella vita, e anche di più.

Il mio primissimo ricordo ha a che fare, guarda caso, col dolore, e ricordo tutto quanto fin troppo bene.”

 

Il riverbero del passato luccica nel diario di Julie, oscillando tra il senso di colpa e il sentimento nostalgico di cui la prosa è intarsiata.

Il solenne scrutinio del tempo si rivela essere la capacità appresa di comprendere ed umanizzare situazioni e personaggi che hanno costituito ed alimentato la difficile e timida vita di Julie.

«Io amo più di quanto mi ricordi davvero di aver amato»

Il tono dei ricordi è mutevole, cupo e sincero nel ricostruire i rapporti con la madre e la sua famiglia d’origine, innocuo e all’apparenza inconsistente quando gli eventi del mondo esterno si intersecano nel finto presente di Julie, dolce e nostalgico nei confronti del suo primo e vero amore.

«Guardai i giocatori di baseball, il fitto traffico di East Boulevard, un laghetto con le anatre, un campo da tennis, vecchi che giacevano su panchine verdi cadenti e scheggiate, altre persone anziane che camminavano con i loro grossi e anziani cani, e spiai e ascoltai tutte quelle cose che parevano permanenti ed eterne, e mi dissi che, d’accordo, potevo aspettare; avevo la giovinezza dalla mia parte.

Morris e io avevamo solo quattordici anni, dopotutto era solo soltanto il brillante e perfetto 1949, e il tempo, il dolore, e i pensieri ansiosi non avrebbero mai potuto danneggiare quella brava ragazza quattordicenne e il buon vecchio 1949, non finche’ fossi stata abbastanza tranquilla da vedere e assaporare quei giorni per la loro rapida dolcezza senza fiato».

Julie ripercorre la propria esistenza scavando nei recessi di quelle piccole e incontrovertibili ferite quotidiane che si trasformano man mano in bugie per sopravvivere.

Bugie e rapporti umani ostacolati, oppure basati su vicissitudini personali, costituiscono il portamento del sordo dolore della protagonista, rivelando l’umanità e la fragilità delle false promesse di vita e della sofferenza.

A braccetto col passare degli anni tutte queste menzogne si rivelano per quello che sono, ingannevoli appigli di fede che distruggono la forza di credere in sé stessi.

Julie è la perla postuma del grandioso Don Robertson, romanzo scritto negli ultimi anni della sua vita e mai pubblicato da nessuna casa editrice.

Questo libro breve e ricco di significati e bellezza, ha potuto prendere vita grazie allo straordinario e meticoloso lavoro di Nicola Manupelli, scrittore, traduttore e importatore di capolavori americani.

Nella commovente postfazione intitolata “Don, il ritrovamento di Julie e un ragazzino di diciotto anni”, possiamo rinvenire preziose informazioni sull’autore e sulla sua vita.

È una postfazione molto interessante, ci permette di capire chi è stato questo gigante della letteratura dimenticato dall’editoria occidentale e poco chiacchierato sul web, possiamo toccare con mano la sua incontrastabile determinazione nello scrivere, nonostante il diabete gli avesse fatto perdere le gambe, un cancro ai polmoni e due attacchi di cuore.

«Più mi addentravo nell’opera di Don, più mi rendevo conto dell’ampiezza, della magnificenza, dell’umanità dello scrittore e del grande progetto che stava dietro a tutto quanto: un affresco della storia americana attraverso gli uomini e le vite comuni.

Un affresco che conteneva varie gradazioni di umore, dall’ironico al tragico, dal dissacrante al sacro, dal massimale al minimale.

E’ stata usata spesso l’espressione Grande Romanzo Americano per tanti scrittori, e ormai è quasi svilente utilizzarla, e non dirò che l’opera di Don lo sia.

Ma il fatto è che adesso, ogni volta che sento parlare di Grande Romanzo Americano, beh… non posso fare a meno di pensare a Don».

 

 

 

Questa America di Holly Goddard Jones

di Emanuele Emma 3 ottobre 2020

leggi in pdf Questa America

Sette racconti tragici e melanconici dal ventre molle del sud compongono l’antologia “Questa America” di Holly Goddard Jones.

Un ritratto fedele sull’universalità della provincia americana ed il suo riecheggiante senso di perdita.

Sette racconti taglienti ed irrisolti che prendono vita dai paesaggi perduti dell’infanzia e della giovinezza, ispirati a fatti parzialmente reali, scritti con il nobile intento di restituire dignità letteraria a soggetti e situazioni che spesso rimangono nel silenzio.

E’ la ferocia dei sentimenti che permea la prosa pulita e scarna della Jones, rivelandoci di volta in volta la fugacità della felicità e del candore.

Holly Goddard Jones è nata a Russellville, Kentucky, nel 2008 ha esordito come scrittrice di storie brevi nell’antologia “The Best American Mistery Story” al fianco di Alice Munro e Joyce Carol Oates.

L’acclamata raccolta di racconti “Questa America” è stata pubblicata da Fazi editore nel 2011, nel 2015 è stato pubblicato il suo primo romanzo intitolato “La prossima volta”.

Attualmente è insegnante di scrittura creativa presso l’università del North Carolina.

“L’ America proletaria, quella in cui la vita scorre tra un supermercato, una giornata in fabbrica e una cena al Pizza Hut, ma solo il venerdì sera perché dal lunedì al giovedì non è proprio il caso. Siamo nel Kentucky, dove c’è una città che si chiama Roma ed è così piccola che quel nome le calza come un cappello troppo ampio. Ma anche qui le ragazze rimangono incinte e non ne capiscono bene la ragione; anche qui i padri abbandonano il tetto familiare mentre i figli muovono i primi passi, ma in realtà in casa non ci sono stati mai perché la loro vita da sempre scorre altrove, su autostrade protese verso un sogno che non arriverà a realizzarsi: non alla guida di un furgone, non nelle mille notti perse dentro un pensiero fisso che si avvita e non torna.”

E’ il racconto “Brava ragazza” ad aprire l’antologia.

Jacob è un padre vedovo alle prese con un rapporto complicato con il suo unico figlio.

Tommy è accusato di aver violentato una ragazza di quindici anni, suo padre si troverà a fare una scelta difficile ed incisiva.

“Aspettative di vita” è la storia di Teo Burke, allenatore di basket sposato e con una figlia con gravi problemi di salute, che intrattiene una relazione con una sua alunna che man mano sfocerà in qualcosa di più grande per entrambi.

“Parti” è il doloroso racconto narrato in prima persona dalla madre di Felicia, ragazza stuprata ed uccisa in un campus universitario.

“Ci sono sere in cui tutte le mie certezze, le cose su cui in teoria dovrei poter contare, come la forza di gravità, l’ossigeno e il sorgere del sole, perdono ogni potere su di me.

So chi ha ucciso Felicia.

Ho incrociato il suo sguardo una mezza dozzina di volte in tribunale, e ho capito, semplicemente, ho avvertito il senso di colpa emanare da lui, rovente come una febbre, e posarmisi addosso, nauseante, umidiccio e velenoso.

Questo lo so.

Ma certe sere è Art che vorrei vedere distrutto, spezzato.

Vorrei che stesse male almeno quanto me adesso, che conoscesse la solitudine: la solitudine di una donna, quella che si prova ad essere senza figli e senza un uomo, senza nient’altro a definirti o a motivarti.”

Si prosegue con “Il mito della caverna”, giudicato come il vero fiore all’occhiello di tutta la raccolta.

Il titolo di per sé è evocativo, un rimando alla filosofia platonica.

Il giovanissimo Ben è impegnato in una lotta contro la cecità proprio quando sta per entrare nell’ età adulta attraverso l’aiuto del padre.

“Senza occhiali il mondo era una macchina confusa di luci, ombre e colori, come il panorama al di là di un vetro spruzzato di pioggia.”

In “Un uomo Onesto” viene raccontata una particolare amicizia, un amore impossibile ed una vita ostacolata da una gravidanza indesiderata.

L’incipit del racconto è fulminante, perfetto.

In “Retrospettiva” viene raccontata la tragica storia di Libby, segnata da una grave violenza e da un aborto, delusa dalle bugie dell’ex marito e dalle aspettative di vita matrimoniale mancate.

“Ma Libby voleva ricordare anche quello che molto probabilmente era stato il giorno più perfetto della sua vita, quando voleva così poco, e quel poco che voleva, una casa e dei figli, le gioie quotidiane del matrimonio, le era sembrato non solo probabile, ma garantito.

Aveva bisogno di ricordare quel sentimento, anche se nel farlo si sentiva stringere la gola e provava un dolore al petto.

Non era possibile ricreare quel senso di fiducia, quell’ingenuità.

Quando la si perdeva, scompariva per sempre.”

L’ultimo e fatidico racconto è “La prova dell’esistenza di Dio”

La storia dello stupro di Felicia viene narrata in terza persona, si ricostruisce la genesi della violenza attraverso la storia personale di Simon, omosessuale latente e succube del padre imprenditore, e Marty, i due ragazzi coinvolti nell’avvenimento, portando il lettore ad una unica e deprimente conclusione.

“Sapeva che suo padre lo amava, a modo suo: un amore egoistico e limitato.

Un amore che chiedeva più di quanto fosse in grado di dare in cambio.

E anche sua madre lo amava, ma era una donna debole, inetta, e perciò anche il suo amore era debole e inetto.”

In “Questa America” il Kentucky è il sostrato dei sentimenti inquietanti e dei desideri proibiti, una terra che si configura quasi anonima nella sua precaria ordinarietà, rivelando la fragile bellezza e l’individualità degli esseri umani che la abitano attraverso le loro tragiche e disperate esistenze

Se è vero che l’uso della lingua è tutto ciò che possiamo opporre alla morte e al silenzio, allora Holly Goddard Jones è la prova del nove!