L’indagine di Edgar Allan Poe

di Andrea Galgano                                                                                        Prato, 27 gennaio 2013

 

Edgar_Allan_Poe_2_croppedIn una lettera al direttore del “Southern Literary Messenger” Thomas W.White del 30 aprile del 1835, Edgar Allan Poe scrive: «La storia dei periodici chiaramente dimostra come tutti quelli che hanno conseguito celebrità, ne siano debitori ad articoli simili per natura a questa mia Berenice, anche se, senza dubbio, d’assai superiori per stile ed esecuzione. Ho detto ‘simili per natura’. Lei mi chiederà in che consista codesta natura. Nel buffo esaltato a livello del grottesco; il pauroso colorato di orrido; lo spiritoso esagerato così da dar nel burlesco; il bizzarro, nel fantastico e nel mistico».

È, a chiare lettere, il varco della sua opera. Controversa, spesso non compresa, ma senz’altro vista come crinale di innovazione e di chiaro ingegno.

“Sapete perché ho tradotto Poe con così tanta pazienza – scriverà Baudelaire- perché mi assomigliava. La prima volta che ho aperto un suo libro ho visto con spavento e meraviglia, non solo dei soggetti che avevo io stesso sognato, ma delle frasi pensate da me e scritte da lui vent’anni prima”.

L’esagerazione, l’effetto, le accensioni dei suoi abissi percorrono i pertugi del sogno e della visione, laddove l’unità di effetto è veicolo per la condizione fascinosa e ipnotica dell’arte: «Tutto quello che vediamo o sembriamo/ è un sogno in un sogno soltanto». Lì si rinvengono le sue qualità che danno forma alle forme del grottesco e dell’orrido.

L’io, pertanto, si muove all’interno di un’anima senza tregua. L’origine del terrore ha tana nei fondali dell’anima e nell’emersione dell’abisso.

Come scrive Antonio Chiocchi, in un bellissimo articolo su Poe: “L’immersione negli incubi della realtà è, per Poe, l’unica via di accesso ai misteri della vita e dell’animo umano. Egli non cerca il linguaggio dentro cui rinchiudere l’orrido, il grottesco, il bizzarro; al contrario, batte alla ricerca dei linguaggi attraverso cui farli esprimere liberamente”.

La condizione onirica e visionaria, se da un lato emette il suo fascino indefinito e criptico, dall’altro partecipa alla scena del testo letterario, come un lancinante delirio, come un enigma che sprofonda nelle sue vette.

Già i suoi racconti, come Ligeia, Morella, Eleonora – raccolgono singolarmente e precipuamente un’angoscia essenziale, una sorta di cognizione, per cui i fatti non sono reali ma sono veri.

Le donne diventano guide mistiche, oggetto di investigazioni metafisiche e soprattutto ‘vita in morte’. Ogni personaggio femminile di Poe esprime questa potenza, con un potere liturgico, invocativo e magico.

Sono creature che agiscono in quanto “morte, morenti e moriture” (Giorgio Manganelli). Nella coniugazione della morte, Poe esprime la coscienza di un trapasso nel mondo del caos e infine del raggiungimento e disvelamento di una agnizione metafisica.

In essa si rivela, alla fine di ogni esperienza letteraria, il terreno della sua tensione, il varco che scandaglia il suo principium individuationis.

L’irrazionale, pertanto, confina con il razionale, quasi come una tecnica che, specie nel dettaglio, assume un’ampia propulsione, che veicola l’espressività dell’immaginario e del sublime.

In esso Poe fa transitare la sua esperienza letteraria nell’epifenomeno dell’avvenimento, che negli scarti e nei margini, afferma il suo «sprazzo di cose superiori ed eterne».

La mancanza di gerarchia, tra gli oggetti della scena, rivela l’ipnosi di un’iterazione visionaria. In uno dei suoi saggi T.S.Eliot giudica la potenza visionaria di Poe come primitiva, immatura e adolescente, sospesa nell’irresponsabilità dell’invenzione, della mania delle immagini, della delizia dei margini.

Ma l’io di Poe si nutre, avvolgendosi, della contemplazione, del ritmo dell’ordine, anche nel fragore dell’incubo più fosco: «Mi hanno chiamato folle; ma non è ancora chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dell’intelletto, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dell’intelletto in generale».

«my passions always were of the mind», Edgar Allan Poe scriveva in Berenice, come l’io che si coinvolge nell’intelligenza delle passioni, nel racconto del delirio e nel binario di bellezza e morte.

Anzi l’iniziazione metafisica ha sempre un doppio movimento di paradiso e di inatteso, quindi di rivelato: «La mia giovinezza non fu che un’oscura tempesta, traversata qua e là da rade schiarite. Tuono e pioggia l’hanno tanto devastata che non rimane nel mio giardino altro che qualche fiore vermiglio».

Scrive Giorgio Manganelli: “L’orrore è dunque segno, indizio del negativo; è la follia per la rivelazione imminente e rifiutata; la vischiosità dell’incubo sostituita alla criptica lucidità del sogno”.

Il freddo paesaggio elegante e spettrale della sua pagina, con i filari di alberi piegati e edifici maestosi e lugubri, si incastona perfettamente nella solitaria presenza gotica, forgiata dall’ assenza e da una sensibilità straordinaria: « (…) vi sarà pur qualcuno che troverà di che meditare sui caratteri che io incido qui con uno stilo di ferro».

La dilazione di un’irresistibile attrazione verso l’oblio, la sofferenza oscura e limacciosa, come le ali di un corvo, che in una notte di tempesta si affaccia alla finestra e alla porta dell’anima di un uomo, risvegliano reconditi sospiri: aspirazioni e desideri traditi, una donna morta, l’esistenza che si spezza, una memoria che dilaga nel gelo, il gocciare del sovrannaturale.

La cronaca degli eventi, in Poe diviene una sfera mitica, poiché la fantasia e l’immaginazione, come già accaduto in Coleridge, si toccano e si combinano, anzi quest’ultima dispiega la sua armonia: «L’esatta differenza tra fantasia e immaginazione sta in una adeguata considerazione del mystic…Esso spiritualizza la composizione della fantasia e la solleva all’ideale.».

La parola che insegue l’incubo e la sua fascinazione, il gioco dei contrasti che sconvolge l’anima, che. In definitiva, si pone come effetto.

È la parola stessa che scopre l’identità, che abita il personaggio nella molteplicità delle sue prospettive, nella fisica dell’evento e del gesto. Qui entra in gioco la visione, disvelando, penetrando, scandagliando e restituendo lo sguardo analitico e immaginativo a ciò che essa stessa sintetizza.

Anche la metafora del viaggio iniziatico e decisivo nella dimensione dell’essere (Le avventure di Gordon Pym) sosta sulla sostanza dell’inesplorato, si concentra sul tremore che l’ignoto afferma nei giorni del vivere e del morire, come un battesimo di ombre.

In esse si cela l’incubo, il gancio a trappole mortali che non disdegna la mistificazione e la simulazione, ma che attraverso il suo potere risolutivo fa luce sulla scena dell’abisso.

Quando Paul Valery accosta il poema in prosa Eureka alla simmetria formale dell’universo, significa che l’impianto strutturale di Poe, vicino a Keplero, Newton e Laplace, si alimenta di analisi e sforzo metodologico deduttivo, poiché è in grado di classificare e ridurre le relazioni tra le cose. Il suo universo si riempie di un’impronta teologica, persino nelle luci livide o improvvise.

Ne Gli assassini della Rue Morgue, Poe introduce C. Auguste Dupin, detective che ispirò successivamente Arthur Conan Doyle, per Sherlock Holmes.

Sulla scorta di un personaggio reale Eugene Francois Vidocq, vissuto a Parigi e che da criminale e spia divenne persino capo della Polizia parigina, Dupin incarna appieno lo sguardo visionario del suo autore.

Dupin, pertanto, sconcerta il prefetto della polizia di Parigi, grazie alla sua capacità di ricostruire i meccanismi che hanno portato ai delitti: ogni indizio non è che un particolare fuori posto e quel che avrebbe dovuto destare meraviglia non è la soluzione, ma il problema in sé.

I funzionari della polizia nell’indagine criminale commettono l’errore di applicare il metodo del momento, ossia lo scambiare “l’insolito” con “l’astruso”.

È la realtà però ad essere più totalizzante e ampia. Quando Dupin si reca a Rue Morgue per indagare sull’orrendo e insolito delitto di Madame L’Espanaye e della figlia Camille, non solo si sofferma sull’atrocità, che è il primo dato di realtà che appare, ma parte dal particolare in esame, in tal caso insolito, per un ordito intricato, che già nella scena che si vede ha soluzione. L’assassino sarà un orango del Borneo, ma la scoperta avverrà per un senso stra-ordinario, la cui visione sarà determinante per la risoluzione.

Scrive Pietro Meneghelli: “Il detective utilizza il meccanismo della ragione allo scopo di illuminare le cose e le vicende umane; erede di una tradizione che dall’Illuminismo risale attraverso accidentati percorsi fino a Prometeo, vuole rischiarare l’oscurità e rafforzare le capacità razionali, ricondurre tutti quegli elementi che sfuggono alla comprensione razionale in una dimensione strettamente logica, riportando l’irrazionalità nella dinamica del raziocinio e spingendo l’intelletto oltre qualsiasi limite di conoscibilità”.

È un mondo che si forma dal disordine, e che attraverso la reductio ad unum si riporta a un ordine primigenio, sconvolto da ciò che, in quel preciso istante, accade.

La limpidezza di Dupin è una ragione che affronta la totalità e sconvolge la conoscenza, per riportarla alla luce. Qui avviene l’essenza della detection, che consiste nell’allineamento di elementi disordinati, per raccoglierli nell’interezza decifrabile di una visione prospettica, attraverso l’analisi e l’ apertura logico-deduttiva.

Anche nel racconto Il mistero di Marie Roget, ispirato anch’esso da un fatto di cronaca cruento accaduto a New York, gli universi ideali paralleli incrociano il loro percorso con gli universi reali.

L’universo onirico si trasforma in linguaggio simbolico, quando manifesta il delirio metafisico dell’anima, ossia quando, come afferma la citazione di Novalis all’inizio dell’opera: «Si danno serie ideali di eventi che si svolgono parallelamente ad eventi reali. Raramente coincidono. Uomini e circostanze in genere modificano la sequenza ideale degli eventi, così che appare imperfetta, e imperfette le conseguenze.».

È una chiave percettiva mitica che, partendo dal dato di realtà, tende a unirsi con il sogno, spesso in un labirinto a-temporale o in un lucido piano di morte.

La fantasia e l’immaginazione divengono lo strumento di una «suprema forma di intelligenza». L’invasione dell’inconscio conferma la gemma di una fantasia analitica e non già trascrizione di sogno, come egli scrive in Berenice: «Le realtà del mondo mi impressionavano come visioni e niente più che visioni, mentre le folli idee delle regioni dei sogni erano divenute, più che la materia dell’esistenza quotidiana, la mia esistenza per se stessa in assoluto».

La polizia fallisce perché fa dipendere la soluzione dell’atto criminale solo dall’ingegno, o potremmo dire, dalla “scientificità” dell’ingegno. Lo sguardo di Dupin, invece, è un viaggio della molteplicità nella mente criminale, lacerata e schizofrenica.

Il terrore è abitato dall’anima e appartiene all’anima. Quindi la vera investigazione è un cuneo tra gli eventi, essa si inabissa per accedere alla realtà esterna e per afferrare la natura altrui, sostando sulla materia nera dei propri anfratti, dimidiati ed erranti.

Lo scriverà Poe ne Il cuore rivelatore e ne L’uomo della folla, laddove la presenza della stanza del protagonista è un abisso di vertigine occulta e cupa, incomunicabile e diabolica.

Il rumore del cuore è più grande del piano omicida, che è come se venisse annientato e arreso. Ciò che mette in crisi l’assassino, non è l’uccisione, ma l’annientamento e la consunzione di se stesso. Quando l’identità si distrugge o si autodistrugge non c’è salvezza, l’anima è mutila, distorta, prigioniera.

Annota Antonio Chiocchi:” La narrazione carpisce l’orrore dai regni dell’immaginazione e lo rende storia. In questo modo, l’orrore è reso oggetto osservabile con il supremo distacco dell’analisi minuta. Il potere delle parole di evocare gli incubi dell’anima è anche un singolare potere di esorcizzarli e, via via, renderli familiari. (…) Il potere delle parole che scava negli incubi dell’anima è un farmaco del tutto particolare, in quanto consente il loro scandaglio liberatorio. Le storie di orrore sono, più propriamente, storie degli incubi dell’anima che, messi in forma narrativa, diventano un contesto che riusciamo finalmente a traguardare, vincendo l’arcano impulso di repulsione che ci “comanda” di rimuoverli. La storia e la trama narrativa divengono, così, lo specchio mobile dell’anima, mostrandone i recessi profondi e i movimenti reconditi. Un tuffo nell’orrore è un tuffo nell’anima, per farne il fondamento e la cura della propria vita. Sta qui una delle molle segrete dei racconti di Poe”.

Ne Il pozzo e il pendolo il protagonista, torturato e in sentenza di morte, perde conoscenza dopo la formula degli inquisitori, tutto assume la forma della dilatazione di oggetti e volti, e come uno spasmo, si ritrova avvolto nella interminabilità della notte, vuota e tremante.

Cosa è diventato? E cosa sta vivendo? È cieco? O Cos’altro? Dopo aver sfiorato i muri gelidi, inizia a prender coscienza della sua prigione e sembra trovarsi sul bordo di un pozzo a sfidare il baratro e l’orrore morale della morte. È in trappola. Una trappola di morte preparatoria a qualcosa di ben più grande, che inizia con la mancanza di alternative e finisce per trovarsi a guardarla negli occhi, senza controllo, o forse, l’unico, di scegliere in che modo morire.

Svegliandosi si trova legato ad un basso telaio di legno, libere sono la mano sinistra e la testa, con un po’ di carne su un piatto poco distante, in balia dei topi.

Dopo aver visto la sommità si accorge di uno strano quadro del Tempo che regge un pendolo, la cui lama tagliente è sospesa sopra di lui, incombente e minacciosa.

Un movimento e rischia che il suo petto venga tagliato nel mezzo. Intingendo i legacci con della carne e dopo che i topi riescono a rosicchiare le corde, riesce a salvarsi, ma improvvisamente i muri della prigione, divenuto incandescenti, iniziano a muoversi e diventare a forma di rombo per portarlo nel pozzo, al centro della scena. Riuscirà a salvarsi ancora per un intervento esterno, saranno i Francesi di Lasalle a tirarlo in salvo.

La follia sospinge verso il confine e il limite estremo dell’esistere. Un occhio immenso che guarda, una dimensione parallela che denuda e rende deboli, una incombenza che, minacciosa ed estrema, si fa interna e terrifica, e allo stesso tempo, un’agnizione che salva, in modi disparati e tenui, come il rumore del cuore.

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Giacomo Leopardi: L’infinito e il “quasi” nulla

di Andrea Galgano

Poesia Moderna                                                                                            Prato, 15 gennaio 2013

Il genere degli iRecanati_1995-07-25-21-7890dilli, in Leopardi, è associato sul piano tematico alla meditazione sull’infinito, sul tempo e sulla “ricordanza”, e, in tal senso, il poeta recanatese declina questa forma poetica come un’esperienza che investe la sfera conoscitiva, oltre che quella emotiva. Esempio rappresentativo e decisivo di questa nuova forma di lirica è certamente L’Infinito (1819), espressione di una tensione o meglio di una ‘finzione’ immaginativa, strettamente collegata alle pagine zibaldoniane. Scrive Leopardi nel luglio 1820: «[…]alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è il […] desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginaz. E il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario […].»Lo Zibaldone ripercorre ex post i temi fondamentali della lirica ed è questo stretto rapporto tra i versi e i materiali del diario che induce Binni a vedere nell’Infinito un canto sorretto  “da un sobrio e solido processo intellettuale, da un movimento di esperienza interiore, quasi un itinerarium mentis in infinitum”.

Nella lirica, il senso dell’illimitato, come patrimonio della fantasia, e la dolcezza dell’abbandono del pensiero, temporaneo naufragio nell’infinito stesso, sono espressione di una tensione poetica marcatamente esistenziale, vissuta in un contesto memorativo in cui la natura si rende corporea presenza e  si rivela nell’intervallo tra il vicino sensibile e il lontano immaginato, come annota Ferrucci: ”non per nulla i due deittici “questo” e “quello” acquistano nel sistema leopardiano una fortissima energia connotativi con la doppia tonalità, che può capovolgersi di continuo seguendo il desiderio dello sguardo incarnato in un corpo nello spazio vivente, della tenerezza e dello sdegno”.

La meditazione sull’infinito è infatti complicata da un’indicazione temporale al v.1: «Sempre caro mi fu quest’ermo colle», che collega fulmineamente un particolare momento contemplativo a precedenti, analoghe esperienze. In questa prospettiva, un’esperienza determinata nello spazio e nel tempo acquista la durata e l’intensità di una ‘storia dell’anima’, di una ricerca del tempo perduto, che, una volta ritrovato, si riversa e si rifrange nell’hic et nunc. Il “sempre” iniziale è dunque una sollecitazione della memoria, che, in modo analogo a quanto avviene nel sogno, annulla i limiti di spazio e tempo. Il passato remoto che segue, accentua il motivo dell’assuefazione del ricordo, che rende le immagini percepite nel presente familiari e care. Una funzione decisiva, nel processo che porta dall’intermittenza della memoria all’esito finale del dolce naufragio del pensiero nella vertiginosa finzione degli spazi e dei silenzi, ha l’introduzione dell’elemento acustico (“E come il vento | odo stormir tra queste piante […]”, vv. 8-9), che consente il passaggio dal motivo dell’infinito spaziale (e della sensazione visiva), che occupa la prima parte del testo, a quello dell’infinito temporale (“E mi sovvien l’eterno […]”, vv. 11-12), veicolato dalla sola sensazione uditiva.Inoltre, la capacità evocativa della lirica è alimentata, sul piano dei significanti, dalla preponderanza di timbri vocalici carichi di ‘immobilità’, aperti con funzione fonosimbolica (“interminàti”, “spàzi”, “sovrumani”,”immensità”ecc…), dalla frequenza degli enjambements e infine dalla posizione delle parole tematicamente più forti nell’economia del verso; sul piano semantico, dalla ricorrenza di parole legate all’idea di infinito (ancora “interminati”, “sovrumani”, “profondissima”) e dall’uso di aggettivi  aulici e “pellegrini”, come “ermo” del v.1, che, posto fra parole piane e consuete, contribuisce a isolare ed evidenziare, assieme alla posizione di fine verso, il termine “colle”, che è il centro fantastico di tutta l’immagine. Da notare, infine, sempre a proposito dell’incipit, la forza individualizzante del dimostrativo, “questo”, che precede la parola “colle”, che, senza la minima concessione al descrittivo, rivela da solo un rapporto di antica e affettuosa consuetudine. Facendo leva proprio sul senso di negazione, di esclusione che lo imprigiona, lo sguardo del poeta tende intensamente a un ‘oltre’, al “sublime matematico”, allo sdoppiamento dello sguardo sul mondo teso verso la facoltà di concezione indefinita (se ne ricorderà Montale ne L’agave sullo scoglio: “Sotto l’azzurro fitto | del cielo qualche uccello di mare se ne va; | né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: ‘più in là!’ “), a un infinito che l’anima scopre non nelle cose, ma ripiegandosi in sé, nel proprio centro, e che può essere figurato come spazio interminato, quiete profondissima, sebbene inattingibile espressione del nulla e pascaliana sproporzione di fronte all’universo. Introducendo una notazione acustica, lo stormire del vento convoglia nel testo il senso del moto, i temi della vita e del tempo. La percezione del tempo delinea una nuova ‘siepe’, un nuovo limite che spinge il poeta all’intuizione di ciò che è al di là del tempo, cioè dell’eterno, che sembra sommergere e annullare la vita fragile dell’io in una nomade vita nello spazio immaginario, come scrive Antonio Prete: “La poesia di Leopardi ha dato una forma, e un pensiero, e un ritmo, a questa presenza in cui pulsa il tempo-spazio di un infinito che neppure la poesia può accogliere e rappresentare ma può soltanto raffigurare per le vie vicarie dell’indefinito (…) La linea dell’orizzonte, impedita dallo sguardo, può diventare sorgente di un’immaginazione che, dopo essersi avventurata per i mondi di uno spazio sconfinato, interinato, avverte uno spaurimento e, ancora dopo un altro movimento del pensiero che tenta la comparazione tra il senza tempo e il pulsare del tempo presente, tra l’eterno e le morte stagioni, fa naufragio.”

Il carattere vago delle immagini si rapporta teoreticamente nel “narrare col dipingere” mantenendosi in una sorta di negligenza la quale offre al canto la gratuità di un dono. Nell’infinito dunque, oggetto della rappresentazione non è tanto il paesaggio reale quanto quello immaginato. A partire dal 1821, Leopardi insisterà, nello Zibaldone, sull’“indefinito” come fonte di poesia e nella Storia del genere umano parlerà a questo proposito di “spasimo”, di cui gli uomini sono, insieme, “incapaci e cupidi”. Il sentimento dell’infinito coincide infatti con lo slancio dell’immaginazione e con il desiderio di felicità. Il solido nulla non è quindi mera negazione delle cose ma è un quasi niente che, negando l’ente, ne mantiene la congiunzione con l’essere aprendosi alla vanità del mondo. Pertanto, il paradosso ontologico per cui l’immagine riflette l’imprecisione dell’esistente lascia trasparire la porta dell’ultima possibilità dell’assolutamente perfetto.

Scrive Roberto Filippetti: “La siepe è questo segno-limite che mentre divide afferma la presenza di un “ultimo orizzonte”. (…) l’uomo vero ha un’autocoscienza ‘simbolica’: è creatura ferita che porta nella carne un’immedicabile cicatrice, la radicale attesa di un ‘Tu’ che compia la vita.» L’infinito temporale, evocato per contrasto dalla stessa determinatezza delle espressioni “questo colle” o “questo mare”, è inteso come una sorta di ‘punto di fuga’ delle cose, delle quali il colle rappresenta il momento dell’oggettività, mentre il mare, nel quale il soggetto naufraga, rappresenta una dimensione interiore, che però diventa essa stessa parte del paesaggio naturale e si presenta dunque come oggettiva, versione del limite, della traccia e del segno, come bilico essenziale del finito e dell’infinito (in cui uno è segno dell’altro e rimanda all’altro), come annota giustamente Remo Bodei: “Al pari di ogni altro essere vivente, l’uomo, secondo Leopardi, desidera in maniera categorica un piacere infinito, ‘senza limite’ per intensità e durata. Soffre quindi quando si accorge dei suoi limiti. Persino nei momenti di maggiore godimento vorrebbe che esso fosse ancora più intenso”.

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« Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare. »

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini