Evoluzione o involuzione? Dalla serenità dei Primitivi al Disagio della Modernità

PSICOANALISI INTERPERSONALE UMANISTICA

PDF 1. 2013. EVOLUZIONE O INVOLUZIONEshort link

 

di Alessio Barabuffi                                                                                Prato, 24 febbraio 2013

in collaborazione con
Scuola di Psicoterapia Erich FrommLa libertà individuale non è un bene della civiltà.Era massima prima di ogni civiltà,e però allora era per lo più senza valore, perché l’individuo non era praticamentein grado di difenderla.
Sigmund Freud

INTRODUZIONE

Mi hanno sempre colpito i racconti di coloro che, tornando dai paesi del cosiddetto terzo mondo, sono assolutamente meravigliati di come gli abitanti di questi paesi si mostrino sorridenti e solari pur vivendo in baracche, scalzi e senza la sicurezza di un pasto; un commento amico sintetizza al meglio quanto sto cercando di dire: “Non capisco come sia possibile per questi bambini, che per avere una Coca Cola devono fare quattro chilometri a piedi nudi nella foresta, divertirsi e ridere spensierati. Penso ai miei figli col broncio perché non hanno l’ultimo gioco per la DALI SELF PORTRAITplaystation o che piangono perché la carne ha troppi “grassini!”.

La definizione terzo mondo afferisce alla sfera economica che per molti aspetti porta con sé anche lo sviluppo sociale (maggiori risorse economiche si traducono spesso in maggiori servizi e quindi alla maggiore vivibilità di un determinato sistema sociale) ma non necessariamente è legato al benessere psichico inteso come massima libertà percepita nella realizzazione delle proprie potenzialità psicofisiche.

Nel terzo mondo gli individui vivono in condizioni che ricordano molto quello che noi chiamiamo Uomo Primitivo ma sembra che siano più sereni o quanto meno si può dire, in proporzione, che noi del primo mondo siamo molto meno sereni di quello che dovremmo essere.

Questo lavoro si pone come obiettivo quello di confrontare criticamente lo stile di vita dei nostri progenitori con il nostro del XXI Secolo cercando di capire cosa è cambiato, perché è cambiato e con quali conseguenze per il nostro benessere psichico; per far questo prenderò in considerazione alcuni contributi storici ed altri che danno una lettura della situazione sociale in chiave psicoanalitica.

INIZIAMO DAI PRIMITIVI

 

CHI ERANO?

Per iniziare penso sia opportuno descrivere brevemente, senza quindi partire da troppo lontano, i passi evolutivi che hanno portato l’uomo ad essere quello che è oggi.

2,4 milioni di anni fa si affacciava l’homo habilis capace già di utilizzare utensili: il suo cervello, ormai, era cresciuto nelle sue dimensioni fino a circa 800 cc e grazie allo sviluppo dell’area di Broca è possibile pensare che fossero in grado di utilizzare una prima forma di linguaggio (Cianti, 2010).

L’Homo Erectus compariva circa 1,8 milioni di anni fa per rimanere in auge circa per un milione e mezzo di anni: i resti fossili ci fanno capire che era un potente guerriero, esploratore, abile cacciatore ed inventore grazie anche ai suoi 1200 cc cerebrali. È stato il primo ad addomesticare il fuoco, sviluppando quindi ulteriormente gli utensili e viaggiando anche fino in Cina e nel sud Est asiatico (Cianti, 2010).

300 mila anni fa l’homo sapiens, con la sua postura retta ed il suo cervello pienamente sviluppato, faceva da ponte verso quello che sarà l’homo sapiens sapiens. Circa 150 mila anni fa compariva l’homo sapiens Neandertalensis che pur avendo un cervello più capiente dell’uomo moderno per circa l’8%, un’altezza di 160 cm ed uno scheletro poderoso, scomparve misteriosamente forse sterminato proprio dall’homo sapiens (Cianti, 2010).

Ecco che 120 mila anni – 180 mila anni fa compare l’uomo moderno, il sapiens sapiens, riconosciuto in due razze il Cro-Magnon ed il Combe Capelle; dall’analisi del DNA non emergono mescolanze con specie di homo più arcaiche: si tratta quindi di un uomo nuovo (Cianti, 2010).

COSA FACEVANO?

Già in questo paragrafo potranno emergere i primi spunti riflessione dettati da un confronto, che viene del resto immediato, con l’homo moderno. I resti fossili avvicinano molto il comportamento dei primitivi con quello degli animali che si muovono in  branco: cacciano se hanno fame, una volta saziati si dedicano all’ozio ed alla cura della prole, si accoppiano quando le stagioni e la disponibilità di cibo lo consentono e si ingegnano in nuove scoperte spinti da curiosità; si intuisce subito che è l’individuo con le sue esigenze ad essere al primo posto poiché:

“E’ infatti l’individuo il vertice della evoluzione. È lui che porta dentro di sé i geni da trasmettere, è in lui che avvengono tutte quelle mutazioni casuali delle quali li più idonee serviranno alla specie per adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente” (Cianti, 2010, p.121)

Ma per poter garantire al meglio l’evoluzione l’homo deve essere, e sentirsi, libero di muoversi, di spostarsi di pensare e di esprimere al meglio le proprie potenzialità realizzando i suoi intenti: molti esperimenti dimostrano che animali, tra cui l’uomo, privati di questa libertà si ammalano e spesso si lasciano morire. In questo senso Erich Fromm, sociologo e psicoanalista della seconda metà del ‘900, parla chiaro:

“[…] libertà non consiste nel laissez-faire e nell’arbitrio. Gli esseri umani hanno una struttura propria al pari di ogni altra specie e possono crescere soltanto in conformità a tale struttura. Libertà non significa affrancamento da tutti i principi guida, bensì possibilità di crescere secondo le leggi strutturali della esistenza umana, vale a dire secondo restrizioni autonome. Essa comporta l’obbedienza a leggi che governano lo sviluppo umano ottimale; ogni autorità che favorisca tale scopo è un’ “autorità razionale”, a patto che la sua attività promotrice consista nel potenziare il dinamismo, il pensiero critico e la fede nella vita del bambino; è invece un’ “autorità irrazionale” quando imponga al bambino norme eteronome che servono ai propositi dell’autorità, non però agli scopi della struttura specifica del bambino” (Fromm, 1977, p. 95)

La vita in branco, o meglio in tribù, non modificò affatto questa libertà primitiva poiché, essendo stata raggiunta con secoli di evoluzione, era funzionale alla sopravvivenza: avendo perso ormai la capacità di arrampicarsi rapidamente sugli alberi, a causa della postura definitivamente eretta e della scomparsa degli artigli, era necessario unirsi in gruppo (tribù) per fronteggiare i grandi predatori rendendo così la caccia più proficua e funzionale.

COME VIVEVANO?

Queste tribù avevano ancora una struttura relativamente semplice composta da pochi individui e scarse distinzioni sociali. Sulla base della disponibilità di selvaggina si distinguono Società a ritorno immediato (scarsa disponibilità),  e Società a ritorno ritardato (maggiore disponibilità) (Cianti, 2010); nella fattispecie nel primo caso le principali caratteristiche sono:

  • Cibo      consumato immediatamente;
  • Gruppi      non stabili e nomadi;
  • Nessuna      istituzione, regole semplici e flessibili, strettamente egualitaria;
  • Impegni      a breve scadenza, individualismo ed indipendenza;
  • Condivisione      del cibo e degli strumenti, sanzioni a chi accumula proprietà personali;
  • Accesso libero al territorio.

Nel secondo caso invece:

  • Il      cibo in eccesso viene lavorato e conservato;
  • i      gruppi non sono stabili, restano però legati strettamente e sono      parzialmente nomadi;
  • esiste      un capo, un consiglio di saggi, regole complesse ed un ordine superiore di      legami come i clan, le fratrie e le parti;
  • Impegni      e legami sono considerati importanti;
  • esiste      la proprietà del cibo e delle donne, c’è scarsa condivisione;
  • il territorio resta libero ma è      controllato, nasce la proprietà su alcune risorse.

Anche Fromm (1975) arriva ad affermare che, con molta probabilità, le situazioni di caccia potrebbero aver generato nuovi schemi di comportamento come ad esempio collaborare e condividere altre cose poiché, appunto, la collaborazione fra i membri di una tribù era una condizione fondamentale: se questo fosse vero ne deriverebbe che “l’uomo moderno ha un impulso innato di collaborazione, di compartecipazione, piuttosto che di uccidere e di infliggere crudeltà (Fromm, ibidem, p. 178). M.D. Sahlins (1960) sottolinea che le necessità di adattamento hanno fatto subordinare al primate certe sue inclinazioni come il predominio e la competizione brutale a favore di collaborazione, moralità e solidarietà, elementi che emergono anche nell’arte rupestre dove infatti tra gli episodi di vita raffigurati brillano per loro assenza scene di guerra fra uomini. Tutto ciò entra profondamente in conflitto con il nostro modo di vedersi nel mondo dove della nostra economia ci porta a pensare ad un uomo che naturalmente è incline a trafficare, barattare o accumulare avidamente comprando possibilmente a buon mercato “facendo l’affare” e rivendendo massimizzando il profitto in barba alla solidarietà (Service, 1966).

LE RELAZIONI SOCIALI

Prima di tutto è necessario precisare che, trattandosi di una dimensione di tribù:

“[…] sono le relazioni sociali strette a prevalere, le emozioni dell’amore, il codice della vita familiare, la moralità dettata dalla generosità condizionano tutte insieme l’atteggiamento verso le merci, in modo da ridurre il comportamento economico” (Service, 1966)

Non ci stupisce, quindi, che le relazioni sociali nelle società primitive siano prive di ogni forma di dominanza ed anche coloro che arrivano ad assumere uno status o un prestigio superiori si distinguono per generosità e modestia; gl’unici riconoscimenti che gli spettano sono l’amore ed il rispetto degli altri. Inoltre la struttura sociale non prevede una leadership formalizzata, tipico degli stadi successivi dello sviluppo culturale, quindi la carica di capo non esiste ma passa da una persona ad un’altra a seconda della necessità. Fromm sottolinea come ci sia enorme differenza fra le culture che incoraggiano avidità, invidia e sfruttamento e culture che invece si muovano in senso opposto: se nel primo caso queste caratteristiche andranno a formare il “carattere sociale” e quindi una sorta di sindrome della maggioranza, nel secondo caso invece saranno solo aberrazioni individuali dalla norma con poca influenza sul resto della popolazione (Fromm, 1975). Questa tipologia di rapporti sociali dimostrano che l’uomo non è equipaggiato geneticamente per questa psicologia di dominanza- sottomissione (ibidem): ma come si proteggeva quindi dai membri socialmente pericolosi? Gran parte del controllo era raggiunto attraverso le norme e le usanze e qualora non bastassero a prevenire comportamenti socialmente sconvenienti erano previste sanzioni come: isolamento, mostrare minore cortesia, derisione e nei casi limite l’ostracismo, usanza arrivata almeno fino all’Antica Grecia.

In altre società di cacciatori si poteva arrivare anche al duello:

“Quando la disputa è fra un accusatore e un accusato, come succede di solito, l’accusatore ritualmente scaglia le lance dalla distanza prescritta, mentre l’imputato cerca di evitarle. Il pubblico può applaudire la velocità, la forza e la precisione dell’accusatore mentre scaglia le lance, oppure l’abilità con cui l’imputato le schiva. Dopo un certo tempo si raggiunge l’unanimità, dopo che si è delineata l’approvazione per l’uno o per l’altro. Quando l’imputato si rende conto che la comunità lo sta giudicando colpevole, deve lasciarsi ferire (non uccidere, ndr) in qualche parte carnosa del corpo. Viceversa, l’accusatore interrompe semplicemente i suoi lanci quando capisce che l’opinione pubblica è contro di lui (C.,W.,M., Hart, A.,R., Pilling, 1960; corsivo mio)

Ancora M.D. Sahlins ha contestato la premessa su cui è fondata l’aggressività dei cacciatori primitivi ovvero la penuria ed una continua condizione di fame; egli ritiene, al contrario, che quella dei cacciatori fu la prima società affluente ovvero quella società in cui vengono soddisfatti tutti i bisogni. Non dobbiamo, però, leggere questa condizione nell’ottica consumistica della modernità poiché queste popolazioni producevano molto e desideravano poco raggiungendo quindi presto la prosperità.

 

LA RIVOLUZIONE AGRICOLA: L’EVOLUZIONE?

Dopo che l’uomo preistorico ebbe scoperto
che era in mano sua – inteso così letteralmente – migliorare
la sua sorte sulla Terra, non poté più essergli indifferente
che un altro lavorasse con lui o contro di lui.
 
Sigmund Freud

 

Come ci si è arrivati e le conseguenze

Possiamo datare l’inizio della rivoluzione agricola circa 150.000 anni fa, nel momento in cui i sapiens abbandonarono il continente africano per diffondersi sull’intero pianeta iniziando dalla mezzaluna fertile ovvero l’attuale Turchia, Iraq, Siria, Giordania, Libano ed Israele. In questa parte del pianeta l’orzo ed il grano selvatico crescevano spontaneamente e questo permise all’uomo di passare da una condizione di nomadismo ad una stanzialità permanente con tutta una serie di conseguenze che cercheremo di vedere nel dettaglio.

La prima di queste è sicuramente che l’uomo, una volta capito che piantando i semi del grano questo ricresceva, iniziò a rendersi indipendente dalla natura producendo qualcosa in più  di ciò che la natura stessa gli aveva dato. Quindi da un punto di vista psicologico questi cambiamenti fornirono all’uomo una nuova prospettiva poiché capì che con la sua volontà poteva determinare il corso degli eventi (semino e la pianta cresce) e non soltanto il “caso”. Fromm (ibidem, p.197) arriva a ipotizzare che “la scoperta della agricoltura possa essere alla base di tutto il pensiero scientifico e dei successivi sviluppi tecnologici”.

Altre conseguenze secondarie ma solo in ordine di tempo, portarono all’allargamento degli allevamenti, iniziando ad accumulare cibo e dando così alla popolazione la possibilità di crescere: deriva anche da questo l’esigenza di iniziare a riconoscere e regolamentare la proprietà privata riducendo pian piano sempre più la libertà di cui fino ad allora aveva goduto il primitivo-cacciatore.

Ma quale può essere il motivo di questa svolta epocale? Si sono fatte varie ipotesi:

“Secondo alcuni i cambiamenti climatici conseguenti alle ultime glaciazioni favorirono lo sviluppo massivo di graminacee che indusse gli uomini a nutrirsene, ma questa tesi non tiene conto del fatto che l’agricoltura sorse in ogni clima e già da 200.000 anni l’uomo conosceva e occasionalmente si nutriva dei semi di queste erbe. Secondo altri la rivoluzione dipese dall’estinzione delle grandi prede come i mammouth ad esempio e dall’incremento demografico. Non ci sono però segni di carestie nel Paleolitico e l’incremento della popolazione fu successivo alla agricoltura. altri ipotizzano la nascita di nuovi bisogni come quella della proprietà dei beni o il desiderio di un più elevato status sociale. Ma i preistorici avevano già monili ed ornamenti di ogni genere e la gerarchizzazione sociale fu una conseguenza, non la causa della agricoltura. Più convincente appare la prospettiva biologica teorizzata da Wadley e Martin (1993) se non altro perché spiega l’accettazione delle tristi condizioni della agricoltura. La presenza nel frumento di esorfine, sostanze oppiacee, analgesiche, ansiolitiche, e gratificanti in grado di modificare il tono dell’umore sarebbe servita a mitigare il drastico cambiamento. Le esorfine danno assuefazione e provocano crisi di astinenza, ma la quantità presente nei cereali non comprometteva il lavoro mentre ne compensava le frustrazioni. Sicuramente fu arduo per l’uomo come d’altronde lo è adesso, accettare la promiscuità degli insediamenti, la fatica spesa a beneficio di estranei non consanguinei e la subordinazione imposta.

[…] Se non ci sono state influenze esterne come mai l’agricoltura è nata contemporaneamente e con gli stessi criteri in ogni parte del mondo, da gruppi di umani che non avevano nessun contatto fra di loro?

(Cianti, 2010, p. 146, corsivo mio)

Riassunti in una breve tabella ecco i pro ed i contro della rivoluzione agricola (Cianti, 2010, p. 155):

PRO

CONTRO

  • Nascita della        civiltà. Molte menti libere dall’affanno del cibo (non food specialists)        si dedicano alla produzione di beni e di pensiero;
  • Cibo per tutto        anche se di scarso valore nutritivo;
  • diminuità        mortalità infantile;
  • Sopravvivenza        dei più.
  • Peggioramento        della salute;
  • inquinamento;
  • Sviluppo        demografico eccessivo;
  • Cibo ottenuto        con grande dispendio di energia. Ritmi naturali stravolti;
  • Grande        riduzione del tempo libero;
  • Individuo,        libertà, famiglia e società perdono il loro valore naturale.

Le prime forme di Civiltà ed il ruolo centrale della Madre

Il surplus di cibo permise ad una ristretta cerchia di persone di non impegnarsi nella caccia rimanendo libera da obblighi per la sopravvivenza e, quindi, nella possibilità di impegnarsi in altri ruoli: non solo artigiani, soldati e burocrati ma anche e soprattutto menti libere di pensare per scoprire ed inventare ovvero gli specialisti non-food  fondamento della civiltà (Cianti, 2010).

Dal 1961 in poi scavi archeologici hanno portato alla luce le rovine di Catal Hüyük, una delle città più antiche dell’Anatolia; una delle sue caratteristiche più sorprendenti è il grado di civiltà che vedeva già la presenza di suppellettili di lusso come specchi di ossidiana, pugnali di metallo ma anche recipienti di legno di varie dimensioni e di varia raffinatezza. Nonostante ciò sembra, che le strutture sociali mancassero degli elementi caratteristici degli stadi successivi dell’evoluzione. Mellaart (1967) sottolinea che nonostante l’evidente grado di sviluppo anche dell’artigianato, il lavoro e le sue regole erano pubbliche e derivavano dall’esperienza comunitaria: ancora una volta mancano le premesse per la formazione di una leadership permanente che organizzi, previo ricompensa, l’intera organizzazione economica. Questo si verificherà soltanto in seguito quando il surplus sarà tale da poter essere trasformato in capitale i cui proprietari potranno far lavorare gli altri per loro. Ma intanto, parlando di struttura sociale, una delle caratteristiche fondamentali dei villaggi neolitici è il ruolo centrale della madre: infatti se gli uomini si dedicavano solo alla caccia e le donne alla raccolta delle radici e dei frutti è probabile che l’agricoltura sia stata scoperta dalle donne mentre l’allevamento del bestiame sia stato sviluppato ed organizzato dagli uomini. Automaticamente la capacità di dare la vita, propria della terra e della donna e assente nell’uomo, mise subito la madre in una posizione di supremazia sia sociale che religiosa:

“[…] i misteri della donna come ad esempio la fertilità, costituivano una parte della vita degli uomini neolitici e paleolitici ed erano alla base del potere del matriarcato. Gli uomini primitivi hanno dovuto calcare gli aspetti del matriarcato sui loro manufatti per poter meglio comprendere i suoi poteri e quindi separarsi da esso:  il loro compito psicologico è stato quello di recepire i significati in modo da potersi individuare”

(McCully, 1988, corsivo mio)

Altro elemento che testimonia questo ruolo di assoluta centralità della donna è l’arte rupestre: nella sola Catal Hüyük su quarantun sculture affiorate dagli scavi ben trentatré raffiguravano dee sole, o magari con un maschio, o incinte, o mentre partorisce ma mai in subordinazione ad un uomo:

“Spesso la dea-madre è accompagnata da un leopardo, vestita di pelle di leopardo, oppure rappresentata simbolicamente da leopardi, che allora erano gli animali più feroci e pericolosi della regione. Così veniva vista come la signora degli animali selvaggi, e si metteva in luce l suo ruolo di duplice dea della vita e della morte come molte divinità femminili” (Fromm, 1975, p.201)

Ma ciò che più stupisce è il fatto che i dati raccolti dagli scavi ci parlano di società matriarcali assolutamente non-aggressive e pacifiche e ciò, secondo J.J. Bachofen (1949), è dovuto nello spirito di affermazione della vita e nell’essenza di distruttività propria della sfera femminile:

“Il primo rudimento della civiltà umana, il punto di partenza per ogni virtù e per ogni più alto aspetto dell’esistenza, è invece il fascino promanante dal principio materno, il quale, in una vita piena di violenza, dovette apparire come il principio divino dell’amore, dell’unità e della pace. […] Una tale disposizione d’animo propizierà un modo di sentire più alto, propizierà ogni azione benefica, ogni dedizione, ogni disciplina, ogni pietà sui morti. […] Come al principio del paterno è proprio il limite, quello del materno è propria invece l’universalità; come quello implica l’appartenenza ad un’unità determinata, così questo non conosce limitazioni, simili, in ciò, alla vita stessa della natura. […] La famiglia incentrata nel patriarcato è conchiusa come un organismo individuo, quella matriarcale conserva invece quel carattere tipicamente universalistico che ritrova nei primordi, a contrassegnare la vita matriarcale di contro a quella superiore dello spirito.”

(Bachofen, 1949)

Questa ipotesi attirò pesanti critiche da parte degli antropologi dell’epoca per due ordini di motivi: il primo perché, ormai inseriti in una società patriarcale, era impossibile per loro stravolgere gli schemi di riferimento sia sociali che mentali ed accettare che la dominanza maschile non fosse la prassi (del resto Freud era figlio di questa società ed arrivo a concepire la donna come un uomo castrato (Fromm, 1975)), ed il secondo perché le prove a sostegno di questa ipotesi si basavano su miti e drammi senza portare niente di concreto e reale come scheletri, vasi, utensili, armi, ecc.

 

 

 

LA RIVOLUZIONE URBANA: L’INVOLUZIONE?

Ci sono singoli uomini
a cui non manca la venerazione dei loro contemporanei,
sebbene la loro grandezza riposi su doti e opere
del tutto estranee alle finalità della massa.
 
Sigmund Freud

 

Nel quarto e nel terzo millennio lo sviluppo di insediamenti stabili portò ad una centralizzazione dei piccoli villaggi in città sempre più popolose; crebbero, quindi, le esigenze anche da un punto di vista logistico: fu necessario scavare canali per irrigare i campi e drenare le paludi, si costruirono argini e terrapieni per prevenire i disastri di possibili inondazioni, ecc.

Anche la struttura sociale cambiò in virtù del fatto che per questo tipo di lavori occorreva una forza-lavoro specializzata che si preoccupasse solo di quello; a sua volta, quindi, era necessario che altre persone coltivassero la terra anche per loro e che qualcuno, una élite, pianificasse, proteggesse e controllasse che tutto fosse svolto secondo quanto deciso. Questo portò una accumulazione di surplus di gran lunga superiore rispetto a quella dei primi villaggi del neolitico: per la prima volta questo surplus non aveva più il ruolo di riserva per i momenti di bisogno ma diventava capitale per una produzione in espansione. Ma ci fu un altro cambiamento importante:

“La società aveva assunto un eccezionale potere di coartare i suoi membri. La comunità poteva negare ad un membro recalcitrante l’accesso all’acqua chiudendo i canali che passavano per i suoi campi. Questa possibilità di coercizione fu una delle basi sulle quali si fondò il potere dei re, dei sacerdoti e dell’élite dominante, una volta che riuscirono a sostituire o, in prospettiva ideologica, a “rappresentare” la volontà sociale. […] Si scoprì che l’uomo poteva essere usato come strumento economico, che poteva essere sfruttato e reso schiavo

(Fromm, 1975, pp.207-208)

Come si è già, forse, potuto intuire comparve la suddivisione in classi: una parte privilegiata dirigeva ed organizzava in cambio del mantenimento di un tenore di vita esagerato ed inaccessibile al resto della popolazione ovvero i contadini e gli artigiani. L’ultimo livello nella scala sociale era riservato agli schiavi ed ai prigionieri di guerra.

La scoperta dal capitale portò alla legittimazione del sistema di produzione della conquista come modo per assoggettare popolazione limitrofe guadagnando così anche i loro possedimenti. Lo strumento di conquista per eccellenza fu, ovviamente, la guerra che nasceva dalla contraddizione di fondo di un sistema economico che se da un lato aveva esigenze di unificazione per raggiungere una funzionalità ottimale, dall’altro iniziava a scontrarsi con le separazione politiche e le lotte dinastiche per la gestione del potere:

“La brama di possesso non può non condurre a una guerra di classi senza fine. L’affermazione dei comunisti , che il loro sistema metterà fine alla lotta di classe in quanto abolirà le classi, è pura illusione, dal momento che anche il loro sistema si basa sul principio del consumo illimitato quale scopo dell’esistenza. Finché ciascuno aspira ad avere di più (incrementando quindi il capitale, ndr), non potranno che formarsi classi, non potranno che esserci scontri di classe e, in termini globali, guerre internazionali. Avidità e pace si escludono a vicenda.

(Fromm, 1977, p. 17)

Quindi l’origine della guerra non si ebbe da fattori psicologici come l’aggressività umana ma in condizioni in cui, a prescindere dalla brama di potere dei burocrati, la guerra era utile e per la quale però, ma solo secondariamente, si vedeva necessario generare e accrescere la distruttività e la crudeltà umane.

Il ruolo non più centrale della Madre: il Patriarcato

Questi cambiamenti socio-economici spostarono il focus dalla creazione della vita e dalla fertilità del suolo al pensiero astratto e meditativo, all’intelletto necessario per nuove invenzioni, per nuove tecniche per le costruzioni e per le guerre. Il mito espresso nell’inno babilonese alla creazione chiarisce bene la portata del cambiamento:

“Questo mito descrive la ribellione vittoriosa degli dei maschili contro Tiamat, la “Grande Madre”, che governava l’universo. Essi formarono un’alleanza contro di lei e scelgono Marduk come Capo. Dopo una lotta durissima, Tiamat viene massacrata, dal suo corpo si formano cielo e terra, e Marduk impera come dio sovrano. […] Il senso della prova è quello di dimostrare che l’uomo ha superato la sua incapacità di creazione naturale – prerogativa della terra e della femmina – con una nuova forma di creazione, la parola (il pensiero). La storia biblica comincia dove finisce il mito babilonese: il dio maschio crea il mondo con la parola” (Fromm, 1975, pp.209-210)

Si passò quindi al principio della norma patriarcale di governo della società in cui è fondamentale l’elemento del controllo: della natura, degli schiavi, delle donne, dei bambini. Quindi un controllo che non si limita alla natura ma l’uomo, e non la donna, arriva a controllare sé stesso e a questo punto la leadership cambia: se prima era accettata volontariamente perché fondata su competenza e quindi razionale (Fromm, 1975), adesso il patriarcato ne impone una basata sulla forza, sul potere, sullo sfruttamento, mediata dalla paura e dalla sottomissione e quindi irrazionale (Fromm, ibidem). Mumford (1963) sottolineò che questo nuovo mondo urbano se da un lato era efficiente, preciso e rigoroso, dall’altro si dimostrava sadico con una inspiegabile, almeno fino ad allora, necessità, da parte dei monarchi, di ostentare monumenti o tavolozze in cui erano raffigurate le loro imprese; Fromm commenta così:

L’esperienza clinica in terapia analitica mi ha portato da parecchio tempo alla convinzione che l’essenza del sadismo è la passione per un controllo illimitato, pseudo-divino su uomini o cose. […] Nella nuova civiltà urbana, oltre al sadismo, si sviluppa la passione per distruggere la vita e l’attrazione per tutto quanto è morto necrofilia (Fromm, 1975, p. 211)

Per concludere Mumford (ibidem) fa anche un’altra considerazione molto pertinente notando che ogni civiltà storica inizia sempre con un nucleo vivo, urbano, frizzante, si pensi alla pòlis, e termina in una fossa comune con necropoli e paesaggi apocalittici.

La rivoluzione industriale

Facendo un enorme passo avanti a livello cronologico arriviamo alla seconda metà del Settecento: fino ad ora l’agricoltura, che ovviamente si è col tempo evoluta affinando le conoscenze e le tecniche di coltivazione, l’ha fatta da padrona anche se si sono susseguiti regni, guerre e carestie. A partire dal 1780 il settore dell’industria crebbe a dismisura e la produzione di beni, che fino a quel momento non era stata in grado di tenere il passo con lo sviluppo demografico, divenne più rapida andando a migliorare alcuni aspetti della vita della gente. La crescita delle possibilità occupazionali data dall’industria portò ad una lenta emigrazione dalla campagne e, quindi, ad un sovraffollamento delle città che non erano ancora in grado gestire una grande mole di persona da un punto di vista alimentare ed igienico sanitario: tutto questo fu aggravato dal fatto che l’impiego di combustibili fossili, carbone e petrolio aggravò pesantemente l’inquinamento ambientale e l’agricoltura che mancava sempre più di forza lavoro fu costretta ad industrializzare la produzione adeguandola ad esigenze strumentali senza rispettare le necessità legate ai terreni che si impoverivano progressivamente.

Da un punto sociale questo nuovo assetto accentuò la frattura sociale fra capitale e forza lavoro e l’industria per alimentarsi iniziò a creare nuovi e superflui bisogni imponendo la domanda per beni non indispensabili.

Riepiloghiamo, quindi, i pro ed i contro della rivoluzione industriale (Cianti, 2010, p. 156):

 

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

Infatti benché le differenze tra gli individui appaiano sotto questo aspetto grandi,
ogni società è caratterizzata da un certo livello di individuazione
al di là del quale l’individuo normale non può andare.
Erich Fromm

La critica di Freud alla Civiltà

Credo possa essere opportuno iniziare della definizione che Freud (1949) dà della civiltà ovvero «la somma delle opere e delle istituzioni in cui la nostra vita si distacca da quella dei nostri antenati animali e che servono a due scopi: a proteggere l’uomo dalla natura e a regolare i rapporti degli uomini tra di loro».

L’autore arriva a questa definizione cercando di trovare la fonte della infelicità dell’uomo e ne individua tre: lo strapotere della natura, la fragilità del corpo e l’inadeguatezza delle istituzioni che regolano i rapporti fra uomo e famiglia, fra Stato e Società. A partire da questa insoddisfazione si è creato il terreno da cui poi, in varie occasioni storiche, si è elevata una condanna. La prima è la vittoria del cristianesimo sulle altre religioni pagane (Freud, ibidem) ma non è questo il contesto per approfondire questo aspetto, la seconda si ebbe con il perfezionarsi dei viaggi di esplorazione che permisero di entrare in contatto con popolazioni e tribù primitive anche se un’interpretazione erronea dei loro usi e costumi portò gli europei a credere che costoro conducessero una vita semplice e felice, con pochi bisogni ma assolutamente irraggiungibile per loro culturalmente superiori, infine, la terza ed ultima occasione, si ebbe con la scoperta del meccanismo della nevrosi: l’uomo iniziò a diventare nevrotico in risposta alla dose di frustrazione che la società gli impose per servire i suoi ideali civili e come immediata e sciagurata reazione si pensò alla possibilità di eliminare o ridurre queste frustrazioni tornando quindi ad essere felici.

Alle tre fonti di infelicità individuate in precedenza dobbiamo aggiungerci anche una profonda delusione per aver preso coscienza del fatto che i progressi straordinari nelle scienze naturali e nelle loro applicazioni tecniche non ha aumentato affatto la quantità di piacere, soddisfazione e benessere percepito:

Il raggiungimento del benessere e delle comodità per tutti avrebbe avuto come risultato, così si credeva, la felicità senza restrizioni per tutti. La trinità composta da produzione illimitata, assoluta libertà e felicità senza restrizioni venne così a formare il nucleo di una nuova religione quella del Progresso: una Nuova Città terrena del Progresso si sarebbe sostituita alla Città di Dio. L’imponenza della grande promessa, le stupende realizzazioni materiali ed intellettuali dell’era industriale devono essere tenute ben presenti se si vuole capire l’entità del trauma che oggi è prodotto dalla constatazione del suo fallimento. […] Il fallimento della Grande Promessa, […] è intimamente connesso al sistema industriale in ragione dei due principali presupposti psicologici della Grande Promessa stessa: 1. che lo scopo della vita sia la felicità, vale a dire il massimo piacere, inteso quale soddisfazione, di ogni desiderio o bisogno soggettivo che una persona possa avere (edonismo radicale); 2. che l’egotismo, l’egoismo e l’avidità, che il sistema non può fare a meno di generare per poter funzionare, conducono all’armonia ed alla pace.

(Fromm, 1977, pp. 12-13)

Proseguendo nella sua dissertazione Freud si chiede perché non possiamo essere felici di alcuni progressi che, di fatto, sembrano aver migliorato le condizioni di vita umane? Fa riferimento ad invenzioni come il telefono, le ferrovie, le navi che permettono traversate oceaniche, allo sviluppo della medicina preventiva e quindi la riduzione della mortalità infantile, ecc. ma proprio in relazione a questa si chiede, provocatoriamente, in cosa può giovarci se come rovescio della medaglia:

[…] ci costringe alla massima cautela nel procrearli, sicché in complesso non ne alleviamo più che nei tempi precedenti al trionfo dell’igiene, sottoponendo d’altro canto la nostra vita sessuale nel matrimonio a condizioni difficili e agendo probabilmente contro la benefica selezione naturale? E che cosa significa infine per noi una vita lunga, se è piena di difficoltà, povera di gioia e così tormentosa da farci salutare la morta come la nostra sola liberatrice? (Freud, 1949 in 2010, p. 112)

La critica alla Civiltà Moderna, da parte dell’autore viennese, continua prendendone in considerazione singoli aspetti secondo lui peculiari come ad esempio la cura per le cose inutili e l’ordine da cui nascono giardini con funzione di serbatoi di ossigeno (Freud, 1949), aiuole fiorite e tutto quanto necessario per onorare la bellezza e la pulizia e si stupisce del fatto che, riconoscendo i vantaggi di una condotta ordinata ed igienica, l’uomo sia vinto, tuttavia, dalla tendenza naturale alla trascuratezza, all’irregolarità ed all’inaffidabilità rendendo necessario un lungo e coercitivo percorso di educazione per essere avvicinato ai modelli celesti (Freud, ibidem): secondo lui il legame pulizia-igiene era conosciuto dall’uomo anche prima dell’era della profilassi scientifica ma l’utilità non spiega la grande importanza che gli riserviamo e per cui deve essere in gioco qualcosa d’altro (Freud, ibidem). Probabilmente qui Freud intende riferirsi ad aspetti nevrotici della psiche dell’uomo che iniziarono ad emergere in coincidenza con i grandi cambiamenti dello stile di vita dettati dalle esigenze di inurbamento. Se ci pensiamo bene questo può essere rintracciato anche ai giorni nostri: l’offerta di prodotti per la pulizia della casa e per l’igiene personale ha raggiunto una varietà tale da far pensare che le industrie produttrici, che decidono di investire a tal punto in marketing e produzione, devono aver colto una qualche forma di debolezza su cui lucrare: ciò non è sicuramente dannoso per noi individui ma se allarghiamo l’attenzione all’impatto ambientale le prospettive cambiano in modo radicale. Personalmente mi hanno sempre colpito gli spot (sia video, sia in cartaceo con immagini talvolta inquietanti) che pubblicizzano prodotti anti-acaro facendoti vivere la inevitabile necessità di proteggerti da questo animale invisibile che minaccia la tua salute: fermo restando che obbiettivamente la presenza dell’acaro è dannosa mi sono sempre chiesto, con approccio totalmente ascientifico, come facessero negli anni ’70 senza questi prodotti e come sia stato possibile che l’uomo sia sopravvissuto per tutto questo tempo ignorando la presenza di questo invisibile nemico. I danni che lui provoca all’uomo credo possano avere pari dignità rispetto a quelli provocati all’uomo dallo smog.

Un’altra caratteristica della nostra Civiltà che Freud prende in considerazione è la regolamentazione dei rapporti fra gli uomini reso necessario dal fatto che, in assenza di una quale regola, finirebbe per vincere il più forte scatenando un regime di lotta intraspecie permanente. Per cui:

La coesistenza umana diventa possibile solo se si trova una maggioranza che sia più forte di ogni singolo e faccia blocco contro ogni singolo. Il potere di questa comunità si contrappone poi come “forza bruta”. Questa sostituzione del potere del singolo con quello della comunità è il passo decisivo a favore della civiltà. La sua essenza consiste nel fatto che i membri della comunità si limitano nelle loro possibilità di soddisfacimento, laddove il singolo non conosceva restrizioni del genere (o anche la tribù, almeno non in maniera così pesante) (Freud, 1949 in 2010 p. 118)

Ecco da qui nasce l’esigenza della Giustizia cioè la garanzia che l’ordinamento giuridico stabilito non sarà nuovamente infranto a favore di un singolo; col sacrificio di parte dei moti pulsionali di ciascun individuo si avrà la garanzia di non venire surclassati dalla forza bruta.

L’autore inizia qui un confronto fra lo sviluppo della civiltà e lo sviluppo pulsionale del singolo individuo. Il primo è caratterizzato da modificazioni dei moti pulsionali umani, la cui soddisfazione è il compito economico della nostra vita (Freud, ibidem): ma questo, nello sviluppo individuale, è già stato riconosciuto come sublimazione (delle mete pulsionali) ovvero trasferire il soddisfacimento dei moti pulsionali stessi su altri canali. È solo grazie a questo che nella civiltà emergono le attività psichiche superiori, scientifiche, artistiche ed ideologiche. Si ripensi a come sono nati, all’interno delle prime tribù, gli specialisti non food: il surplus alimentare ha permesso ad alcuni individui di cessare la naturale attività mirata a procacciarsi il cibo e concedersi più tempo e più risorse mentali in attività speculative di varia natura.

La natura delle relazioni sociali nella Civiltà

Il numero di Dunbar rappresenta il limite cognitivo entro il quale un individuo è in grado di mantenere relazioni sociali stabili, ossia relazioni nelle quali un individuo conosce l’identità di ciascuna persona e come queste persone si relazionano con ognuna delle altre. Secondo l’antropologo britannico Robin Dunbar un gruppo composto da, approssimativamente, più di 150 individui necessita di regole e leggi più restrittive per rimanere stabile e coeso.

Si pensi, quindi, alle conseguenze del passaggio da piccola tribù di cacciatori/raccoglitori prima e proto agricoltori poi, a grande comunità civile. Fromm, in questo senso spende parole molto importanti:

Le osservazioni dimostrano che, in libertà, i primati sono poco aggressivi, mentre nello zoo sono estremamente distruttivi. Questa distinzione è di importanza fondamentale per la comprensione della aggressività umana, perché, fin’ora nel corso della sua storia, l’uomo non è quasi mai vissuto nel suo “habitat naturale”, ad eccezione dei cacciatori, dei raccoglitori di cibo e dei primi agricoltori fino al quinto millennio a.C. L’uomo “civile”è sempre vissuto negli “zoo”, e cioè secondo una gamma di cattività e di non-libertà, e così vive tuttora, persino nelle società più avanzate (Fromm, E., ibidem, pp. 141-142).

Poco più avanti, sempre Fromm, continua:

È importante rilevare che, come dimostrano le prove, un ampio rifornimento di cibo non impedisce l’aumento di aggressività in condizioni di affollamento. Gli animali dello zoo londinese erano ben nutriti, eppure l’aggressività saliva a causa dell’affollamento. […] Dagli studi sull’aumentata aggressività dei primati in cattività […] l’affollamento è la condizione principale per il dilagare della violenza. […] Esiste forse una esigenza “naturale” per un minimo di spazio privato? Forse l’affollamento impedisce all’animale di esercitare il suo bisogno innato di esplorazione e libero movimento? Forse l’affollamento è sentito come una minaccia al corpo dell’animale che reagisce con l’aggressione? […] L’animale “privato-dello-spazio” può sentirsi minacciato da questa riduzione delle sue funzioni vitali e reagire con l’aggressione. Ma, secondo Southwich, la demolizione della struttura sociale di un gruppo animale costituisce una minaccia ancora peggiore. Ciascuna specie animale vive all’interno di una struttura sociale caratteristica. Gerarchico o no,  è lo schema di riferimento cui si è adattato il comportamento animale. Condizione necessaria per la usa esistenza è un equilibrio sociale tollerabile, che, se distrutto dell’affollamento, rappresenta una forte minaccia per l’animale. […] Per chi è convinto che la soddisfazione di tutti i bisogni fisiologici debba bastare per instillare un senso di benessere nell’animale (e nell’uomo), questo tipo di vita (anche in uno zoo non affollato, ndr)dovrebbe essere l’optimum. Ma tale esistenza parassitaria li priva di quegli stimoli che permetterebbero un’espressione attiva delle loro facoltà fisiche e mentali; perciò spesso si annoiano, diventano apatici e depressi. (Fromm, E., ibidem, pp. 144-145)

Circa cinquanta anni prima di Fromm, Freud (1949) aveva sottolineato che è oramai inutile continuare a considerare l’uomo come un essere mite negando nel suo corredo pulsionale anche una potente aggressività. Egli ha sottolineato come quest’ultima sia un grande fattore di disturbo dei nostri rapporti col prossimo e come costringa la Civiltà ad un grande dispendio di forze per controllarla spingendo gli uomini in “identificazioni e rapporti amorosi con meta inibita, di qui le limitazioni della vita sessuale e di qui anche il precetto di amare il prossimo come se stessi” (ibidem). Più avanti nello scritto lo psicoanalista viennese legherà l’aggressività con la proprietà privata affermando che “il possesso di beni privati dà il potere, e quindi la tentazione di maltrattare il prossimo” (ibidem): ritorna quindi quanto scritto in precedenza in merito alla nascita delle prime forme di capitale e quindi della necessità di istituire la guerra non tanto per trovare un adeguato sfogo alla istintiva natura aggressiva umana (Fromm, 1975), quanto piuttosto per conquistare il capitale della vicina tribù.

Per concludere vorrei approfondire uno dei precetti ideali dei nostri tempi citato in precedenza: ama il tuo prossimo come te stesso. A questo punto è chiaro che la via dettata dal Cristianesimo non è praticabile dall’uomo se non a prezzo di grandissime frustrazioni. Si pensi, ancora, a come può vivere un individuo frustrato fino a tal punto oppure un individuo che avendo contravvenuto a questo precetto è costretto a convivere col senso di colpa per essere stato cattivo in un contesto storico-culturale che millanta buonismo in ogni dove. Freud (1949) si dilunga nello spiegare perché secondo lui il Cristianesimo pone una condizione utopica: egli ne fa una questione di merito, “se amo qualcuno questo qualcuno se lo deve in qualche modo meritare” (Freud, ibidem, p.131), ed inoltre considera anche l’amore in chiave narcisistica, “Lo merita se in cose importanti mi assomiglia tanto da far si che io possa in lui amare me stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me che io possa amare in lui l’ideale che ho di me stesso (Freud, ibidem, p.131). Quindi dà una lettura interpersonale di questo precetto sostenendo che non solo l’altro non merita il mio amore ma merita piuttosto il mio disprezzo poiché non pare avere il minimo riguardo nei miei confronti anzi non perde occasione per danneggiarmi e arrivando a dire che sarebbe più opportuno “[…] se quel grandioso precetto suonasse: ama il prossimo tuo come il prossimo tuo ama te stesso”.

Personalmente ritengo che quanto indicato dal Cristianesimo sia destinato al fallimento perché fin dagli albori della sua esistenza l’essere umano ha sempre considerato prioritaria la sua sopravvivenza e quanto può sembrare dettato dall’altruismo a mio parere, e qui mi sento molto vicino a quanto sostenuto da Freud in precedenza, non è altro che una soddisfazione narcisistica dei propri moti pulsionali: da cacciatore solitario sento l’esigenza di unirmi in piccoli gruppi non tanto per sim-patia verso gli altri quanto perché, come abbiamo visto, gli adattamenti evolutivi rendevano per un singolo individuo più difficoltoso affrontare gli animali feroci: in gruppo avevo maggiori probabilità di raggiungere l’obiettivo di caccia, sfamarmi e quindi stare meglio; arrivando ai giorni nostri, sento la necessità di aiutare una persona in difficoltà perché la sua difficoltà risuona in me e mi provoca un tale stato di disagio che solo aiutandola riesco anche io a stare meglio (e per questo affronto anche un faticoso cammino formativo finalizzato ad utilizzare il mio disagio per aiutarla, arrivando a farne una professione).

Mi rendo conto che questa riflessione potrebbe congelare gli slanci caritatevoli dei benefattori del XXI secolo ma non mi si fraintenda, non sto affermando che non esistono fenomeni di solidarietà ai giorni nostri, sto solo dando a questi una lettura che si spinga oltre il fin troppo comune “lui/lei è sempre disponibile per tutti perché è proprio una brava persona: ai miei occhi continua ad essere una brava persona ma la causa della sua disposizione d’animo la leggo, appunto, altrove.

Un caro amico una volta ebbe a dire: “Di consapevolezza non è mai morto nessuno!”

 

CONCLUSIONI

Alla fine di questa breve rassegna mi rendo conto di aver lasciato poco spazio alla speranza; del resto, però, l’esigenza di approfondire queste tematiche nasce, prima di tutto, dall’inevitabile confronto con la quotidianità che vede un incredibile escalation di aggressività agita intraspecie e poi dal fatto che gli individui che busseranno alla porta del nostro Studio proveranno proprio da questa Civiltà.

La speranza la può dare il cambiamento. Fromm, in Avere o Essere? (1977), si è posto il problema chiedendosi se è necessario prima cambiare la struttura economica e quindi la mente umana o viceversa, dandosi questa risposta:

“Partendo dal presupposto che la premessa risponda al vero, che cioè soltanto un mutamento sostanziale del carattere umano, vale a dire il passaggio dalla preponderanza della modalità dell’avere a una preponderanza della modalità dell’essere, possa salvarci dalla catastrofe psicologica ed economica, bisogna chiedersi: è davvero possibile una trasformazione caratteriologica su larga scala? E in caso affermativo, come fare a produrla? A mio giudizio, il carattere umano può mutare a patto che sussistano le seguenti condizioni:

  1. Che si sia consapevoli dello stato di sofferenza in cui versiamo;
  2. Che si riconosca l’origine del nostro malessere;
  3. Che si ammetta che esiste un modo per superare il malessere stesso
  4. Che si accetti l’idea che, per superare il nostro malessere, si devono far nostre certe norme di vita e mutare il modi di vivere attuale.

(Fromm, 1977, p 185)

Personalmente ritengo che, con molta lentezza, la nostra Civiltà  si stia avvicinando alla piena consapevolezza di quello che Fromm mette al punto 1.

La strada quindi è molto lunga ma c’è speranza: nulla cambia se niente cambia.

Bibliografia:

Bachofen J.J., Le madri e la virilità olimpica, Edizione Mediterranea, 1945;

Cianti G., La dolce catastrofe, Sandro Ciccarelli Editore, Firenze, 2010;

Freud S., Il disagio della civiltà, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 2010 (trad. it. 1949);

Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano, 1975;

Fromm E., Avere o Essere?, Mondadori, Milano, 1977;

Fromm E., Fuga dalla liberta, Mondadori, Milano, 1987;

Hart C. W. M.,  Pilling A.R., “The Tiwi of North Australia, 1960, in: Case Histories in Cultural Anthropology, Holt, Rinehart & Wilston, New York 1960;

McCully R., Jung e Rorschach, Mimesis, Milano, 1988;

Mellaart J., Catal Hüyük: a neolitic Town in Anatolia, Thames & Hudson, Londra 1967; McGraw-Hill, New York 1967;

Mumford L., La città nella storia, Edizione di comunità, Milano, 1963.

Sahlins M.D., The Origin of Society, Sci. Amer, 203 (3), “Notes on the Original Aflluent Society, in: Man, The Hunter,  a cura di R.B. Lee, I. De Vore, Aldine, Chicago 1968;

Service E. R., The hunters, Prentice-Hall, Englewood Clifs, N. J., 1966;

Wadley G., Martin A., The origin of agriculture? A biological perspective and a new hypothesis, Australians Biologist 6: 96-105 June, 1993

 

L’inerzia di Oblomov

di Andrea Galgano                                                                Prato, 22 febbraio 2013

LETTERATURA MODERNA

pdf L’INERZIA DI OBLOMOV, short link

arton405-2821d ivan-aleksandrovich-goncharov-1874“Egli vive una sorta di infinito dormiveglia, veste sdrucite vesti da camera, vagabonda in pantofole, passa la vita sdraiato, lascia i libri a mezzo, si prova in un amore, ma si conosce incapace di amare e impossibile oggetto d’amore. Eppure non è triste, non è lamentoso, ha per stesso una sorta di pietà vergognosa, infantile,; ma intorno a lui, chi lo ha caro è colto da angoscia, da disperazione, e vuole, vorrebbe, fantastica di «salvarlo». Salvarlo da che? A quale scopo?”.

Questo passaggio di una solidissima nota di Giorgio Manganelli al capolavoro di Goncarov (1812-1891) Oblomov, contiene una nettezza di ritratto, introducendo un problema importante in quest’opera e nei passaggi letterari di gran parte della modernità: l’inerzia.

Oblomov è un piccolo aristocratico russo che tenta di vivere sulle spalle di miseri contadini, servi della gleba costretti alla durezza del lavoro nei campi nella sua contrada di Oblòmovka.

Quando Goncarov entra nella stanza di Oblomov descrive un uomo che vive da dodici anni sdraiato, avvolto in una sorta di statica e inerte espressione, assistito solo dal suo servitore. Non svolge alcun tipo di attività, non amministra la proprietà (rischiando persino di perderla, visto che è nelle mani del suo stàrosta), non frequenta il vicinato, non ha rapporti affettivi veri.

Tutto sembra immobile, fermo il tempo, niente tocca l’uniformità di una vita che ripete il suo gesto silenzioso. Mai muoversi, quindi, nemmeno di fronte all’arrivo di una lettera, nemmeno di fronte alle corse spensierate e gioiose dei bambini, e allora: «Quando, dunque, si potrà iniziare a vivere?», o ancora: «Che cosa, in particolare, non ti piace di questa vita? Tutto: le continue corse, l’eterno gioco delle meschine passioni, soprattutto l’avidità, il bisogno di tagliarsi le gambe l’un l’altro, le chiacchiere, i pettegolezzi, il punzecchiarsi a vicenda, quello squadrarsi da capo a piedi; se ascolti le conversazioni, ti gira la testa, ti senti stordito. A prima vista, ti sembrano tutti intelligenti, ti par di leggere tanta dignità sui loro visi, ma appena li ascolti: “A questo hanno dato quello, questo ha ottenuto l’appalto.” “Per quale ragione, di grazia?”, grida qualcuno. “Quello ieri sera al club ha perso tutto al gioco: quell’altro ha guadagnato trecentomila rubli!”. Che noia, che noia, che noia!… Ma dov’è l’uomo? Dove si è nascosto? Come fa a perdersi in queste futilità?”. “Il mondo e la società devono pur occuparsi di qualcosa”, disse Stolz, “ognuno ha i suoi interessi. È la vita…”.

Ma perché scrivere un testo in cui non accade nulla? Perché affrancarsi in uno specchio dove l’imperfezione di una vita-non-vita, senza volto né nome e di un ozio (oblomovismo si dice nel romanzo, come una sorta di apatica pigrizia metafisica della costruzione), diventano la scena vera di un soliloquio?. Non è solo un passaggio individuale quello che tocca il personaggio della storia, ma un dramma etnico che ha radici profonde nel ripudio e nell’abbandono stantii di una economia profondamente arcaica, che si scontrava con l’emergere di un cambiamento industriale e in esso trovava esilio, sconfitta e inerzia.

È l’esito di una soppressione delle istanze originarie del cuore umano. La pigrizia universale che lo attorciglia però non riesce a depositarsi sul fondo. Permangono tracce di una generosità mai spenta, di un fondale di umanità che non si de-finisce solo in un processo storico.

Il tessuto del suo cuore, la sua scorza, sembrano come rattrappiti, «Come se qualcuno avesse rubato e sotterrato nella sua anima i tesori portatigli in dono dal mondo e dalla vita. Qualche cosa gli impediva di gettarsi nell’arena della vita e volare in essa con tutte le vele dell’intelletto e della volontà. Un nemico segreto aveva messo su di lui la sua mano pesante al principio del cammino e l’aveva gettato lontano dalla diritta missione dell’uomo».

In Oblomov c’è un autoritratto del suo autore. È il suo autore, come lo descrive Angelo de Gubernatis o critici come Semën Vengerov: «Di mezzana statura, grosso, lento nel cammino e in ogni suo movimento, con la fisionomia impassibile e lo sguardo quasi spento, egli pare affatto indifferente per i travagli della povera umanità che si agita intorno a lui. E pure niente passa inosservato al suo sguardo penetrante[…]. Il solo suo sorriso bonaccio, e nello stesso tempo furbo, illuminando il suo volto con una momentanea animazione rivela la misura delle sue forze».

L’umbratile esistenza di Goncarov nella ghiacciata Pietroburgo si svolse nel ritiro di un piccolo appartamento e, neanche a Simbirsk che unisce il Volga alle steppe, ebbe mai un esiguo spazio edenico. Passò lì poco tempo, senza legami o rapporti che potessero creare un’identità o una verginità di domanda.

Scrive Remo Faccani: “Si direbbe che per Oblomov, come per il suo creatore, la curiosità turbi il fragile ordine delle cose, il precario equilibrio dei legami dell’individuo con l’ambiente che lo circonda. E si direbbe che la mancanza di curiosità rappresenti una specie di istintiva, naturale autodifesa dal rischio – innaturale – di essere coinvolti, di trovarsi obbligati a intervenire e interferire. Ma da tutto questo trapela anche dell’altro: un disagio, una vena di malessere provocati, per rifarsi all’ultimo Montale, da «una realtà incredibile e mai creduta».

Lo spaesamento di Oblomov,  il cui nome potrebbe alludere a oblomok che vuol dire “frantume” o “scheggia”, è un enigma muto.

Non si chiude nel retaggio di un passaggio di Storia, non si esaurisce in un decadimento di nobiltà, ma pone in essere un’inquietudine nascosta, che è un rischio, una tensione senza slancio, una nudità.

Il suo sincero amico, l’ “orgoglioso” Stol’c potrebbe ridestarlo, potrebbe fornirgli uno sguardo da imitare. È ai suoi antipodi: energico, vitale, costruttore concreto. Gli fa conoscere Ol’ga, giovane donna di cui si innamora perdutamente. Il suo riso, le arie e le romanze di questa elegante creatura, quasi si impadroniscono di quel torpore, l’accenno della prospettiva di una nuova bramosia era una pulizia di tugurio.

L’amore, pertanto, sembra detonare l’accidia indolente, come un imbuto, in cui egli permane. Ol’ga cerca di ridestare il fondale sopito, con una vita attiva e una primordiale e dura operosità che toglie il torpore brumoso di un sonno. Che però rimane e che non riesce ad esser vinto neanche da questo profondo e rafforzato palpito di esistenza. Ma il tentativo di cambiare la sua natura non ha più effetto, allorquando decidono di sposarsi. La paura di cambiare la sua naturale attitudine all’accidia, alla monotona indolenza continua ad avere il sopravvento. Quella gracile «tenerezza di colomba» è racchiusa in una mano tenuta alla mezza altezza del vivere. La cura della sua proprietà è in balia di due fraudolenti che lo portano sul lastrico e alla bancarotta.

Si affida ai suoi servi e alla padrona di casa dell’appartamento in cui ora abita, la vedova Agaf’ja Matveeyna, che lo accoglie nella sua casa, appassionandosi a lui in silenzio e in profondità, senza  lasciarlo distaccare dal suo lento e inesorabile stile di vita. Stol’c si sposa con Ol’ga. Riuscirà, dopo le spoglie dell’amico e il suo destino ineluttabile, a prendere con sé anche suo figlio Andrej.

In un bellissimo articolo sul Corriere della Sera del 30 luglio 2012, Pietro Citati, in riferimento alla cura della vedova dell’eroe di Goncarov, annota: “Aveva imparato la fisionomia di ogni sua camicia; aveva contato quante calze avevano i calcagni logori; sapeva con quale gamba Oblomov scendeva dal letto; quando un orzaiolo stava per crescergli in un occhio; quali pietanze amava; se era allegro o cupo; se aveva dormito bene o male; e tutti i sentimenti della padrona di casa prendevano la forma di quelli di Oblomov”.

Una esistenza che diventa imperturbabile e sconfinata, come un soffitto o il disegno di una fantasia in disparte. Non c’è odio, ma solo una estrema e incessante mitezza inerte. Una mitezza di astensione, limbica e timida.

Persino l’amore diviene una comodità che non trascina, irradia sì, ma non trascina. Sembra quasi che il fascino di questo personaggio non stia in quel che faccia o meno, ma nella tenera larghezza del suo fondo misterioso e lieto. La memoria arcadica del Sogno finale mantiene il ricordo di una floridezza di campagna e di vita. Le sospensioni e le attese lente dell’inizio del romanzo si appassionano al sogno di una memoria e di felicità perdute e immacolate, come quelle del villaggio che addensa la casa paterna, la dolcezza della madre, la nitidezza del cielo. Un angolo di braccia relegato e senza dolore. Il raggio di eternità che fissa il quotidiano, caro a Tolstoj qui appare mancante, ma la levità di Goncarov delinea il suo eroe in un sottofondo di vita e sogno assonnato e di confino, stendendo il suo letto pigro di veglia. Anti-Faust per eccellenza, Oblomov è l’esistenza in ritardo, la sonnolenza degli occhi, il ritratto della Russia al tempo degli zar, fatalista e rurale come le sue campagne distese e annuncianti. È un tipo universale, come scrisse Kropotkin, che è in bilico sulla scelta se esser vita o il suo oggetto, se esser flemma o fiamma, «sibarita» di domicilio e arresto che perpetua, coricandosi, il suo “fascino teologico” (Giorgio Manganelli).

La desinenza di Oblomov riconosce, pertanto, l’accento di una incapacità di vivere che manifesta l’estremità di un’opzione capovolta, un’ultima uscita dal mondo nel mondo.

 

 

 

 

Dante Gabriel Rossetti, il Preraffaellita poeta-pittore dell’abisso estetico

di Nicola di Battista                                                                                Prato, 17 febbraio 2013

IL PENSIERO IMMAGINALE

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rossetti - La Ghirlandata  1873  Oil on canvas  115 5 cm (45 47 in ) x 88 cm (34 65 in )  Guildhall Art Gallery London (England) Rossetti_selbstDante Gabriel Rossetti, secondogenito di quattro figli, nacque a Londra il 12 maggio 1828 da Gabriele Rossetti (Vasto, 18 febbraio 1783 – Londra, 16 aprile 1854), un poeta e critico letterario italiano originario di Vasto (in provincia di Chieti) il quale per il suo appoggio agli insorti dei moti liberali del 1820 fu costretto all’esilio – fu a Malta nel 1821, dove si legò d’amicizia con i fratelli Gabriele e Domenico Abatemarco, e da qui si spostò a Londra (1824), dove trascorse il resto della sua vita e divenne professore di lingua e letteratura italiana presso il King’s College di Londra (1831) e mantenne l’incarico fino al 1847 – e da Frances Polidori, una benestante dama britannica figlia di Gaetano Polidori (uno scrittore ed editore italiano originario di Bientina, attualmente in provincia di Pisa) e di Anna Maria Pierce (una governante inglese). Nonostante la sua famiglia e i suoi amici più stretti lo chiamassero “Gabriel”, adottò ben presto il nome pubblico di “Dante Gabriel”, desiderando un accento maggiormente letterario al proprio nome dati i suoi interessi nella poesia.

Fratello della poetessa Christina Rossetti e del critico William Michael Rossetti, si dedicò alla letteratura sin dalla tenera età, in particolare alla poesia. Tuttavia, il suo interesse per il Medioevo italiano lo spinse ben presto anche verso l’arte e la pittura: studiò presso la Ford Madox Brown e divenne anche amico di William Holman Hunt in seguito all’esposizione del suo dipinto “La vigilia di Sant’Agnese”, molto ammirato da Rossetti. Il dipinto illustrava alcuni versi di una poesia dell’allora giovanissimo John Keats, che Rossetti imitò con il suo “The Blessed Damozel” (La damigella benedetta).
Negli anni successivi, l’Italo-britannico Dante Gabriel Rossetti sviluppò insieme ad Hunt la filosofia della Confraternita dei Preraffaelliti, occupandosi in particolar modo dei lati più medievaleggianti. Pubblicò traduzioni di Dante ed altri poeti italiani medievali e iniziò una serie di dipinti con lo stile e le tecniche proprie dei pittori italiani prima di Raffaello, da cui il nome del movimento.

I suoi dipinti “Girlhood of Mary”, “Virgin” (Infanzia di Maria Vergine) e “Ecce Ancilla Domini” (Ecco l’ancella del Signore) rappresentavano entrambi Maria come una giovane emaciata e repressa, mentre la sua opera poetica incompleta “Found” (Ritrovato) è il suo unico dipinto con un soggetto moderno ovvero una prostituta riscattata da un possidente terriero che riconosce in lei il suo antico amore. Tuttavia, Rossetti fece evolvere la propria poetica e la propria pittura verso temi sempre più intrisi di simbologia e mitologia, tralasciando il realismo. La sua maggiore opera poetica è, oltre a “The Blessed Damozel” (1850), la collezione di sonetti chiamata “The House of Life” (1870-81). Pur avendo ottenuto il supporto del critico John Ruskin, l’accoglienza fredda ai suoi dipinti da parte del pubblico lo indusse a ritirarsi progressivamente dalle esposizioni pubbliche e a dedicarsi a pitture ad acquerello, che vendeva privatamente. Per questi lavori, intorno al 1850, trasse principalmente ispirazione dalla Vita Nova di Dante Alighieri, che Rossetti aveva tradotto in inglese, e dalla Mort d’Arthurdi Sir Thomas Malory. La sua particolare interpretazione del ciclo arturiano e dell’arte medievale ebbe particolare influenza anche su alcuni suoi amici dell’epoca, quali William Morris e Edward Burne-Jones, oltre ad essere ben accolta dalla committenza privata.
La sua vita subì una svolta terribile con la morte della moglie Elizabeth Siddal, che era stata in precedenza sua modella, morta suicida per una overdose di laudano, causata da una forte depressione; dopo aver dato alla luce un figlio morto. Rossetti seppellì un plico con le sue opere poetiche incompiute insieme al suo corpo e cadde in depressione: in questo periodo, avvertendo affinità con la propria vicenda, si dedicò soprattutto alle opere dantesche e al tema della morte di Beatrice. Risalgono a questo periodo opere come “Beata Beatrix”, pietra miliare del Simbolismo.
È questa la prima fase di un lungo percorso di idealizzazione della donna che interesserà l’intero movimento fino a John William Waterhouse: la sua successiva amante, Fanny Cornforth, venne quindi rappresentata come la personificazione dell’erotismo carnale, mentre un’altra delle sue amate, la moglie del pittore William Morris Jane Burden, venne esaltata quale Venere celeste.
Parallelamente a questo percorso sulla figura femminile, Rossetti iniziò ad interessarsi di animali esotici facendone in breve una vera e propria ossessione; in particolare il vombato attirò a tal punto la sua attenzione da fare della gabbia che ospitava tale animale allo zoo di Londra, in Regent’s Park, un luogo di incontro con gli amici. Nel settembre del 1869 acquistò il primo di due cuccioli di vombato, chiamato Top, cui il pittore si affezionò a tal punto da lasciarlo dormire sulla tavola durante le cene con gli amici. Pare che proprio il vombato di Rossetti abbia ispirato Lewis Carroll per il dormouse di “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie”.

Durante questo periodo, gli amici di Rossetti lo convinsero a riesumare il plico di poesie dalla tomba della moglie, che egli pubblicò poi nel 1871. I versi, carichi di erotismo e sensualità, offesero l’opinione pubblica; in particolare uno dei poemi, “Nuptial Sleep” (Sonno nuziale), che descriveva il sonno di una coppia dopo un rapporto sessuale, venne stigmatizzato per un avvertito cattivo gusto da parte del gusto puritano britannico. A queste critiche fece seguito l’opera “The House of Life”, una serie di poemi che analizzavano lo sviluppo fisico e psicologico di una relazione amorosa. Successivamente, Rossetti si dedicò ad alcuni versi per i propri dipinti, come “Astarte Syriaca”, e lavorò con William Morris ad alcuni disegni per la loro manifattura (in particolare a motivi per vetrate e carta da parati). Verso la fine della propria vita, Rossetti cadde in uno stato di indolenza probabilmente a causa delle droghe di cui faceva uso: visse gli ultimi anni in solitudine e morì a Birchington-on-Sea (il 10 aprile 1882) nel Kent (contea dell’Inghilterra, a sud-est di Londra). Nelle opere di Dante Gabriel Rossetti è possibile osservare due opposte posizioni, che rendono le sue opere al tempo stesso trasparenti e opache, semplici e sfuggenti. Da un lato ogni suo dipinto discende da una attenta costruzione razionale, da una progettazione in cui, con minuziosità ossessiva, si intessono elementi ben precisi. Sono cosi presenti simboli ben studiati quali colori, stoffe, fiori e vasi, cosi come per gli scenari, le pose, i gesti, senza contare il rinvio a temi letterari, storici e mitologici (dalle saghe arturiane alle opere dantesche, dai miti classici fino ai sonetti dello stesso Rossetti). Tuttavia, dall’altro lato, su questo stesso telaio di significati, che sembra non dare spazio a nulla di istintivo, si colloca una sensualità carnale e appassionate, dove più niente è riflessione, dove tutto è tormentata e irrisolta emozione: è questo il doppio volto rossettiano, in cui vi è il procedere parallelo, reciprocamente non dialogante, tra percezioni vissute come “sensazione” e percezioni sperimentate come “sentimento”. Nelle opere pittoriche del Rossetti la pura sensazione sembra seguire una bellezza il più possibile incontaminata, laddove il sentimento riemerge elusivo ma penetrante, temuto quanto trionfante, melanconicamente perturbante, in cui armonia e difformità, luce ed ombra, equilibrio e caos, coesistono, pur allontanandosi grazie alle loro caratteristiche dicotomiche.

L’arte di Rossetti leviga infinite immagini di un eterno femminino che non è mai soltanto nitido e visibile, idealizzato, perché è anche il suo “doppio” apparentemente cancellato. Il periodo finale dell’ arte pittorica e poetiche di Rossetti lasciano intravedere in maniera netta questo doppio.
Il critico e saggista Walter Pater, amico dei preraffaeliti, nello scritto “Dante Gabriel Rossetti” (1883), poi inserito in “Aprecitions” (1889), afferma che questo artista “Non conosce alcuna ragione dello spirito che non sia anche sensuale, o materiale” e d’altronde lo sapeva convinto che “L’amore umano, legato alla bellezza fisica, rappresentasse la grande e innegabile realtà delle cose, l’unica a offrire istanti di solida consistenza a un esistenza altrimenti informe”.
L’immagine della donna è nell’arte di Rossetti, nonostante la staticità apparente, un nucleo nel quale confluisce un gioco interno di tensioni. La donna è da un lato la specifica modella di volta in volta in causa, con la quale spesso l’artista intratteneva o aveva intrattenuto una relazione sentimentale, dall’altro Rossetti intuiva nella condizione femminile anche la parte più in ombra, come la prostituzione o il delitto passionale, questioni scandalose per il vittorianesimo ma caratteristici di quella età. Nella serie di sonetti, composti tra il 1870 e il 1881, intitolati “The hause of life” – oggi considerati il capolavoro letterario di Rossetti – l’amata viene sovrapposta alla figura di Cristo, e descritta come “Il significato di ogni cosa esistente”. Diventa qui evidente quanto l’artista ricerchi nell’amore e nell’amata, ma in realtà entro se stesso, emozioni in grado di arginare una caotica instabilità.
Anche i dipinti sono essi stessi strumenti per ricercare interattivamente un’ affettività e una passione romantica e cavalleresca per la donna amata.

Il tema del tempo, insieme a quello dell’amore, è un altro fulcro dell’estetica di questo artista: pur se sembrano articolarsi con maggiore compiutezza nel versante letterario, raggiunge massime profondità nell’atto del dipingere. Accade che, riprendendo quando Lacan afferma nel “Seminario VII” (1959 – 1960) a proposito dell’amore cortese, che la donne ritratta da Rossetti sotto sembianze ideali diventi “inumana”, un’oggetto “spaventoso”, indicando come il vero fulcro attorno a cui ruota la rappresentazione, e con essa l’esistenza dell’autore, sia un’inconcepibilità fondamentale, assai prossima al mistero della morte. Secondo Salvator Dalì, nel 1936, le suntuose fattezze delle figurazioni femminili preraffaelite non inviterebbero affatto a un superficiale e luminoso godimento percettivo, ma esse ci invitano a osservare le nostre profondità viscerali dell’anima estetica. Da questo punto di vista è la produzione pittorica l’ambito in cui si vede meglio l’inconsapevole affiorare di un’affettività aleggiante, sempre attraverso il complesso rapporto che questo autore intrattiene con il comporre poesie. L’ autori oscilla tra la pittura e la poesia, non ponendo tra di esse particolari barriere. Sono innumerevoli i casi in cui il titolo e il tema di un dipinto sono gli stessi di un correlato sonetto, in quale poi andava spesso a inserirsi nel quadro, trascritto in qualche area della tela o nella sua cornice. Altre volte i sonetti sono ispirati a dipinti di altri pittori, mentre le tele, i disegni o le incisioni attingono a loro volta a opere letterarie.
Rossetti operava abitualmente in due regioni artistiche: in quella pittorica e in quella verbale, le quali gli permettevano di vivere all’interno e attraverso due forme di linguaggio. Ciò ha fatto definire l’artista dalla critica come un «Autore di una doppia opera d’arte». Tale ultima affermazione è possibile costatarla attraverso l’analisi della sua corrispondenza, in cui l’artista racconta nei minimi particolari molti dipinti, li riveste di parole, li spiega e li illustra con puntigliosa precisione. Ne deriva l’impressione di un impulso a intrappolare e dominare la spontaneità del linguaggio dentro ad una rete precostituita di significati. Eppure l’operazione compiuta da Rossetti è un’ altra: accade come se lui agisse un irrefrenabile tendenza a porre in forma scenica, e allo stesso tempo narrativa, ogni suo stato d’animo, quasi ne costruisse una drammatizzazione del tutto simile a quella del teatro, mediante una figurazione dove ogni oggetto o personaggio si interconnette e si armonizza per comporre un sentimento. Tale operazione oscilla tra due poli opposti: un eccessivo controllo razionale, che quasi sterilizza ogni emozione soffocandola al di sotto di uno stile ornamentale, e una prepotente intensità affettiva, grazie alla quale il mondo interno dell’artista traluce con massima e con magico splendore dall’intera drammatizzazione. Il comune denominatore tra il dipingere e il poetare sia in Rossetti la pulsione a disporre la propria affettività in forma di narrazioni drammaturgiche, animate a loro volta da un estetismo attento e raffinato e da in realtà evanescente – come accade, sostanzialmente, nel teatro o nei sogni. Rossetti affermava che essere più poeta che pittore, e il suo dipingere era sostanzialmente un atto per ottenere un guadagno. Intendeva nascondere a se stesso la maggiore evidenza affettiva che il colore, il segno, e altro ancora lasciano nei suoi dipinti, più che nelle poesie. Questa nascosta preminenza affettiva del dipingere trapela da una frase di Rossetti: «Se un uomo ha in sé della poesia dovrebbe dipingere, perché tutto è stato detto e cantato, ma lo si è appena cominciato a dipingere». L’idea che l’abuso di cloralio (un farmaco ipnotico), le cui avvisaglie risalgono al 1867, sia stato la causa primaria dei disturbi psicopatologici dell’ artista, dei deliri di persecuzione, del tentativo di suicidio (1872), della allucinazioni uditive, nasconde la realtà di una tossicodipendenza inconsapevolmente cercata, inconsapevole tentativo di curare in antecedente squilibrio, ma senza mai fermare l’artista fin all’ultimo giorno della sua vita.

Il purpureo petalo della Tulpenmanie

di Irene Battaglini                                                                                        Prato, 11 febbraio 2013

L’IMMAGINALE

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Rembrandt_Harmensz._van_Rijn_092Amsterdam 1637: scoppia la bolla speculativa sulla compravendita dei futures sui bulbi dei tulipani. Il prezzo del bulbo sale vertiginosamente e scende con altrettanta velocità. Lo scenario dell’Olanda è il teatro dell’esordio del capitalismo in Europa. Il commerciante di fiori si scopre prima negoziatore e poi speculatore, è motivato dall’istinto ad accaparrarsi i bulbi di tulipani che non sono ancora sbocciati, ad un determinato prezzo; e si impegna a rivenderne altrettanti ad un valore più alto: la logica di questo mercato si basa sul valore attribuito a questo meraviglioso turbante ubertoso di petali, che nel ‘600 diventa lo status symbol della classe dei ricchi mercanti dei Paesi Bassi. Il furibondo movimento di denaro apre la strada al desiderio incolmato di una ricchezza iniqua, che poggia sulla tensione all’avere.

Possedere non tanto un oggetto, quanto il suo valore fissato in un tempo, un valore-idea, un impegno-immagine che preclude la conoscenza diretta ma che vi allude continuamente, in una tensione dipendente che crolla in un craving rovinoso senza lutto: una fine imposta dalla legge intransigente di un mercato ingiusto come tutti gli dei. Esiste un punto in cui il valore di un bene, per quanto ambito e desiderato, smette di crescere. Questo punto è il frutto di una coartazione del desiderio che ha per sintomo la compulsione a “vendere!”, a disfarsi il più in fretta possibile proprio di quell’oggetto che pochi istanti prima era stato bramato con cattiveria.

Il dipinto I sindaci dei drappieri fu realizzato da Rembrandt (Rembrandt Harmenszoon van Rijn, (Leida, 15 luglio 1606 – Amsterdam, 4 ottobre 1669) nel 1662, pochi anni dopo l’imperversare della tulipomania e l’emorragia finanziaria che segna la prima grande crisi dell’economia liberista; e che, insieme alla famosissima Lezione di anatomia del Dottor Tulp (= tulipano),  rivoluziona il concetto tradizionale dello statico “ritratto di gruppo”, il “Doelenstuck”, genere pittorico diffuso nell’arte dei Paesi Bassi durante i sec. XVI e XVII: in entrambi i lavori la lucida cristallinità raduna un gruppo di persone in una condizione di “libertà” sorprendente, tanto perfettamente racchiusa nell’insieme – quasi che lo sguardo di Rembrandt, “l’incisore di luce”, si porti  nel quadro invadente come uno squarcio che  non tesse trame in segreto, –  quanto contrastata all’interno lungo una diagonale nella Lezione, e una sinusoidale ne I Sindaci. Attorno a questi capolavori stanno opere composte e serene, come La giovane donna alla toeletta, il Vecchio orientale e il ritratto della sorella Lijsbeth van Rijn. Oltre ai numerosi autoritratti: il triennio 1633-1635 ne annovera almeno sedici, in tutta la vita oltre settanta. Come a manifestare da una parte la ricerca delle coordinate che plachino la curiosità verso il mondo esterno – sostenuta dalle avide richieste dei committenti –, e dall’altra l’indagine verso il mondo interno, oscuro e sconosciuto, realizzati in una sorta di morbida “condensazione” in cui l’alternarsi dei solchi di luce e di ombra traduce la ricerca dell’armonia, ogni volta riscoprendo una irripetibile occasione di felicità trattenuta …

Rembrandt, raffinato e dolcissimo, nei Sindaci dei Drappieri sa fondere le strutture di maniera allo stupore di una luce fluida, trasfigurante, che permette di entrare nell’intima stanza dell’orchestra delle infinite sfumature. Una stanza abitata per puro caso dalla riunione dei contabili, sorpresi in un misurare di stoffe e di fiorini, tempestati dalle gemme degli sguardi acquosi sulle vesti castigate, a testimoniare un’intransigenza sociale, sopra il segreto della licenza mercantilistica. Lo stesso Rembrandt fu accusato di mercantilismo per aver collezionato oggetti d’arte, armi, disegni, stampe, stoffe, medaglie e porcellane orientali. Quell’ansioso bisogno di afferrare il transitorio, di congelare il fiore dai molti colori – e dai moltissimi volti – con l’azzardo maniacale, non è forse il desiderio di unirsi alla meraviglia impalpabile, di crollare ipnotizzati sotto il canto della sirena?

L’analisi radiografica de I Sindaci rivela il sovrapporsi e spostarsi di idee, e svela il processo di elaborazione di Rembrandt: sarà per lui l’ultima volta in cui affronta il “Doelenstuk. I Doelenstuck traggono origine dai ritratti dei fondatori delle corporazioni e in un primo tempo furono composti accostando i personaggi in modo che tutti risultassero in primo piano; anche nella Ronda di notte, i personaggi acquistano autonomia di posizione, di sguardo, di organizzazione. Il legame tra arte ed economia, lavoro ed estetica, è una doppia corda che si annoda e si snoda continuamente nell’arte di Rembrandt, a dimostrazione del fatto che l’arte concettuale non è un esclusivo appannaggio dei contemporanei. Se mai, nell’arte di allora, il pittore si fa non solo anima dolente e voce snervata, ma registra rivoluzionario con i suoi personaggi che denunciano il cambiamento di prospettiva, come i sindaci, appunto, ondeggiano nelle loro chiome fulve sotto un cielo di tappeti rubino.

I dirigenti della gilda (incaricati di verificare la qualità delle stoffe prodotte e vendute ad Amsterdam), sono colti in istantanea, e questo lavoro di imponderabile saggezza figurativa è possibile solo alla mano mercuriale dell’anziano maestro, che non teme più il giudizio ed è per questo che non si preclude di aprire ad una domanda analitica: è possibile per i sei uomini essere leggeri, sorridenti, sospesi come tulipani ad vento di mare e di tramonto nella luce trasfigurante che ne percorre i lineamenti, e nello stesso tempo puntare lo sguardo sull’aprirsi improvviso di qualche cosa, come se davanti ai loro occhi stesse sfiorendo, nemmeno troppo inatteso, il ritratto dell’ultimo Rembrandt?

Quindi i piani prospettici incontrano una trasmutazione a più dimensioni. L’oggetto ritratto si trasforma in una pubblica giuria che osserva disincantata e ironica la umile richiesta del pittore, quasi la domanda di un ultimo dolce piacere da parte di un vecchio; la domanda, la più disperata, d’amore, che sta dietro le facciate anonime e tutte uguali delle case dei puritani olandesi, febbricitanti di tentazione per l’ultimo tulipano.

“Stolti che vogliono solo bulbi di tulipano. Nella mente e nei cuori hanno questo unico desiderio. Assaggiamoli: scoppieremo a ridere scoprendo quanto sono amari”  (Petrus Ondius, pastore della chiesa di Amsterdam, 1621).

PDF 1. 11.2..2013 IL PURPUREO PETALO DELLA TULPENMANIE

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Il verso e l’obbedienza di Davide Rondoni

di Andrea Galgano                                                                                        Prato, 10 febbraio 2013

RECENSIONI

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Ho obbedito a una ferita interiore e alla bellezza gloriosa e delicata incontrata in tante opere e in tanti volti. Sempre indebitato, innamorato e inquieto ho fatto questo tratto del mio viaggio (…) Il mio destino è un mare all’alba.»

L’origine poetica di Davide Rondoni, uno dei più grandi poeti contemporanei, è un’obbedienza irrefrenabile. Il percorso che nel suo ultimo testo raccoglie versi e interventi su artisti dal Trecento ad oggi, pubblicata da Marietti, obbedisce allo sfarzo glorioso e povero di un gesto. Lo abita e lo trapassa.

Sostando sulla materia di questi versi, il cuore non ha riposo. In esso, anzi, si agita il guazzabuglio di un fermento e di un’inquietudine ferita, come palpito musaico e come abisso di luce.

Nella prefazione, accorta e profonda, Beatrice Buscaroli aggiunge che questi scritti: “Sono il grido ulteriore di un gesto fermo nella pietra, sono il rovello di tanti artisti quaranta o cinquantenni in cerca della strada, («la fatica, la irrefrenabile obbedienza di questi artisti è la mia forza», scrive l’autore nella Nota, e, oltre, «è della generazione, la stessa mia, che non sa come fare»), sono una terza voce che travalica i consueti rapporti tra “poesia” e “pittura”, interrogando l’artista stesso, oppure un protagonista sconosciuto, qualcuno che, fino a poco prima, era muto, o non esisteva”.

La poesia raccoglie l’Avvenimento della realtà e, allo stesso tempo, il magma della sub-creazione per usare un’espressione cara a Tolkien.

Tocca, sfiora, e infine si impregna di una tensione all’infinito, per cui la nostra stessa sostanza si riconosce e si afferma.

In questi testi il grido non è una solitaria espressione socchiusa, ma nasce da «spasmi, pianti e inabissamenti di fronte a loro», ossia l’avvenimento accade anche in chi scrive, come un gemito in un tempo che dialoga.

Nell’amore e nella passione per l’arte, la poesia si mette al suo servizio, la pagina si intesse di una sproporzione indicibile, di un’altezza di canto, fioca e potente, che attraversa l’ombra e il regno dei giorni: «devo/ dire di te, / di voi che nell’ombra restate in quella posizione/ non vi muovete da quell’ansa/ immobili come sicari», o ancora: «le mie figure non sorridevano mai, /dimmi perché, se lo sai…/ ora che vedi dall’altro lato/ dello specchio».

Figure come Lorenzo Lotto, Elisabetta Sirani, Caravaggio o Michelangelo rappresentano lo sguardo  e l’immersione delle mani nella conca del reale, l’estremità infinita e indicibile di un vertice umano a cui porre l’ascolto e l’esercizio della libertà.

L’urgenza di sfiorare e toccare i segni disseminati in queste opere è indice di un metodo libero, rigoroso, visionario, come una mano che attende il vivente, che cerca qualcosa che, pur non esistendo in natura, si afferma e si vede.

Nel lavoro dell’arte è il presentarsi dell’esistenza il volto a cui attingere, in quanto piena possibilità di attenzione, di visione, di cenno che invita e costringe a guardare.

Le opere a cui Davide Rondoni ha prestato ‘servizio’ di lettura e di ascolto divengono, per citare Maritain, lo spazio di una comunicazione ininterrotta tra cielo e terra, anche nello sperdimento di un dolore che sanguina, che reclama e che porta in grembo l’immagine e il bagliore di una gioia sopravvissuta e baluginante.

In questa inquietudine e smarrimento si gioca la partita ultima del teatro del mondo. I versi non accompagnano, non si sviluppano secondo un confine parallelo, ma indicano, si fondono, cercano le linee, i raspamenti e gli spostamenti ultimi di una vertigine di figura, di un abisso che ama transitare, persino nell’incompiuto, per ritornare all’origine, nascere di nuovo, arrendersi.

Non esiste un percorso parallelo, neanche riscrittura di opera, ma solo urgenza di resa e cammino di sguardo.

Davide Rondoni tocca il visibile del pensiero incarnato del verso per farlo sporgere dalla finestra del reale, sfiora la «primogenitura» dei colori e delle macchie dell’arte, per vivere e per esistere, in un’infinita tensione, in un segreto limite: «Incidi, /dividi con una linea di tempo/ dal niente, le figure/ dal bianco. / E dai branchi nebulosi della morte/ l’umile gloria, / l’esistente».

Le «crete appena vive o disegni» della «sfacciata opera » di Testori, il centro innocente della rappresentazione di Van Eyck con il «belato sperduto di Dio», le «rughe sul volto del viaggio» di Frisoni o le donne di Omar Galliani- solo per citare alcuni di questi bellissimi e sospesi attimi di vento-, non danno quiete, ma mettono in moto il fuoco dell’esperienza umana, che cade e si alza, che costringe a transitare sull’enigma dell’essere, a cogliere gli anfratti, a sospendersi nello stupore.

Il movimento dell’arte poetica di Rondoni è sospensione e cammino di occhi sulla realtà, una ricerca di tracce da antichi segni futuri, una compagnia di visione.

Essa diviene, pertanto, il fulcro permanente e sperduto di un bisbiglio al tempo, alla sua vertigine di accensione, all’illuminazione straziata del colpo al cuore, come il ridere di Bacon, voce di dura sostanza: «con il sorriso andato via da millenni sulla faccia d’oro/ come un dio maya in giacca di pelle, / ti hanno festa, e ora stanno togliendo grammo/ a grammo, velo a velo, l’infelicità dai tuoi quadri».

Ma nel segreto smisurato del gesto si avverte la pienezza di qualcosa che si sveli d’improvviso, la fame di un compimento che impasti la nostra povertà lucente e la vita che accade qui e ora.

In questo dettato di esistenza, duro e sognato, ampio e ricolmo di bagliore, c’è il nostro essere in ascolto, che vibra e che risuona e che chiede compimento.

La poesia di Rondoni si unisce a questi artisti potenti e fragili. Conosce la dismisura e l’immersione e si presenta povera e gemmata, nel suo cammino e nel suo abbandono, alla dolcezza dell’Infinito.

 

Nell’arte, vivendo.

di Davide Rondoni

Marietti, 2012, pp.292, euro 22

in presentazione al Polo Psicodinamiche di Prato il 15 febbraio 2013

 

Il paradosso della felicità

di Alessio Barabuffi                                                                                       Prato, 8 febbraio 2013

PSICOANALISI UMANISTICA

 

RECENSIONE A

Manifesto per la felicità
Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere
 di Stefano Bartolini
 Donzelli Editore, 2010. pp. XIV-306
 in presentazione al Polo Psicodinamiche di Prato l’8 febbraio 2013

MANIFESTO PER LA FELICITA

“Nessuno vende qualità della vita

ma molti vendono rimedi ai danni

provocati dalla sua scarsa qualità”

(Stefano Bartolini)

Il paradosso della felicità è ormai sotto gli occhi di tutti. Abbiamo pensato di poter essere felici lavorando molto e consumando ancora di più ma evidentemente ci sbagliavamo e per arrivare a tanto stati costretti ad aumentare i nostri ritmi di vita. Ma del resto si sa che quantità non è sempre sinonimo di qualità: dunque cosa ci siamo persi? In questo libro viene brillantemente spiegato come il cuore del problema dell’infelicità contemporanea sia relazionale. Per usare anche le parole dell’autore “gli effetti positivi sul benessere dovuti al miglioramento nel tempo delle condizioni economiche sono stati compensati dagli effetti negativi dovuti al peggioramento delle relazioni tra le persone” ed al peggioramento della relazione con sé stessi.

Stefano Bartolini, in questo Manifesto per la felicità, spiega chiaramente come, oltre alla nostra cultura, “cioè al modo di pensare a noi stessi”, anche il ruolo dell’economia è fondamentale nel plasmare le relazioni e dopo aver spiegato le cause del declino interpersonale contemporaneo, offre anche una possibile soluzione nella Società Relazionale.

Stampa, leggi e conserva il Tuo articolo in pdf  MANIFESTO PER LA FELICITA’Condividilo sui Tuoi social network. Lo short link di questa pagina è http://www.polimniaprofessioni.com/rivista/?p=270

William Faulkner e il proscenio della caduta

di Andrea Galgano                                                                  Prato. 3 febbraio 2013

LETTERATURA CONTEMPORANEA

77832“Nella decadenza di una famiglia del Sud, sembra che Faulkner voglia mettere in scena la vita come Caduta”. Scrive così nell’introduzione a L’urlo e il furore di William Faulkner (1897-1962), titolo che riprende atto V e scena V del Macbeth di Shakespeare, Emilio Tadini e la grande Flannery O’Connor lo definì “Dixie Limited”, treno rapido che tocca la profondità del Sud americano, correndo ininterrotto, come «a real son of a bitch».

Ma la scrittura del “Dixie Limited” è uno straniamento di viscere che si snoda da Melville e Joyce dalla autentica cultura barocca, -“ la migliore rivisitazione moderna – con l’Ulisse di Joyce appunto- dell’Amleto”(Nicola Lagioia)-  come l’immaginazione, che è imbevuta dalle date di una fotografia quasi ingiallita: 6 aprile 1928, 2 giugno 1910, 7 aprile 1928, 8 aprile 1928. Una materia viscerale  e oscuramente disperata, dove al centro c’è una famiglia bianca, i Compson con i loro quattro figli.

Nella  contea immaginaria  Yoknapatawpha, la stessa storia viene messa a fuoco da diverse voci monologanti, con dilatazioni, avvolgimenti, slittamenti, che custodiscono vertigini e memorie complesse.

L’ellissi di Faulkner è un flatus vocis di profonda musicalità che registra fatti, suoni, odori. Come se la materia del reale fuoriuscisse da un confondersi di nominazioni, si affermasse, sfarinandosi,  in un disordine narrativo e risorgesse continuamente dal suo magma, dalla sua intensa promiscuità di memoria, che in un istante lambisce il rettilineo e il complesso, l’effimero e l’eterno, la sequenza dei toni e dei timbri: “è una scrittura quella di Faulkner, capace di rappresentare in modo chiaro e distinto le cose – i nomi- che si conoscono per averli sperimentati. Ma nello stesso tempo, sulla stessa pagina, è anche una scrittura che si sforza di rappresentare le figure che ondeggiano confusamente dentro le prospettive vertiginose che si mettono in movimento non soltanto quando sogniamo, a occhi aperti o chiusi, ma anche, forse soprattutto, quando abbiamo semplicemente paura, non di qualcosa, paura e basta,e  allora, per un momento, quella paura cerchiamo di pensarla, e il pensarla ci porta, comunque, misteriosamente, dalle parti di qualche grandezza” (Emilio Tadini).

È il gesto elementare, come l’affetto di Benjamin per Candy, a evocare un valore originario e assoluto, come nell’evidenza dei lessemi memoriali: «Non vedevo il fondo ma potevo spingere lo sguardo molto in basso nel moto dell’acqua, prima che l’occhio si desse per vinto, e allora vidi un’ombra sospesa come una grossa freccia che andava contro corrente».

Il dramma si avvolge nell’ombra. Lo ripete l’idiota Benjy, furiosamente, in ogni suo passaggio. È l’ombra di Quentin su Caddy con il suo potente desiderio di possesso, è ombra l’idiota che incombe e infine il meschino e razzista Jason, con il suo odio per Dilsey: «avendo la massima considerazione solo per la polizia, temeva e rispettava unicamente la negra che cucinava il cibo che mangiava, sua nemica giurata dalla nascita».

Il divenire di Faulkner afferma, pertanto, una percezione scossa di temporalità, come se il tempo si sospendesse, per risultare assente, atono: «Soltanto quando l’orologio si ferma il tempo ritorna a vivere»

L’alternanza delle voci è lo strumento con cui la verità ama rivelarsi, persino nelle contraddizioni, negli spostamenti occulti, lasciando un varco al lettore, che, apparentemente smosso, si trova nell’azione in cui il testo avviene. L’indicibile ha bisogno di impastarsi con una voce che guizza, che scivola via dalle mani.

È piuttosto la fotografia sulla realtà, conservata nei segni di un’idiota, di una negra, di una biblioteca ricolma, a evidenziare “un presente mascherato” (J.P. Sartre).

La sospensione allucinatoria del tempo raccoglie il pungolo dell’insensatezza e della decadenza. È attraverso Benjamin, con i suoi mugolii e le sue strane comprensioni,  che Faulkner ci descrive «il suono grave e disperato di ogni muto tormento sotto il sole».

Una società strana, in deriva, oltraggiata e muta. Il presente eterno sconquassa il movimento della realtà, con la coltre di una nostalgia meccanica e insensata.

Sembra che il tempo di Faulkner, con la sua furia percettiva, debba sospendere il suo tratto, nonostante confluisca sempiterno e violento. Ama però il nascondimento, l’enigma che copre la zona del visibile, dei suoi tratti, dei suoi flutti.

Il respiro della tragedia greca pulsa, imperversando, nella potenza del destino e dell’incubo, nella instancabile e definitiva dissociazione dalla materia del mondo. Ma proprio quando l’impeto del non-sense convoglia l’immanenza, ecco Dilsey che afferma «Sono qui» in una pallida luce, riportando l’innocenza al suo santuario.

Spesso le cose sono percepite nella loro individualità e i personaggi di Faulkner vivono sotto questo cielo specifico di colpa. Ma sia Benjy sia Dilsey dissestano il disordine con la loro specificità.

Il primo con il suo non-sense conferma il lamento di una vertigine di vuoto, ma lui non lo sa, e poi c’è lei, la grande Madre Nera, che dona al tempo calma e amore.

Faulkner abita i miti primordiali. La sua voce di uomo sembra dilatarsi e poi scomparire nella fertilità della pagina. Andrè Malraux scrisse di Santuario che la tragedia greca stava irrompendo prepotentemente nel genere poliziesco, “un romanzo con un’atmosfera da detective-story ma senza detective”.

La procedura di spietato realismo dello scrittore è tale perché ricerca l’origine e i primordi di un movimento sconvolto e fertile. L’ingordigia e la malattia della società, che colpisce l’innocenza candida con la degenerazione, fino allo stupro, porta la miseria dello sfregio di uno splendore perduto e irrecuperabile. Il mito della morte e della rinascita si accompagna alla zona invitta del Sud e all’eterno agone di bene e male.

Ma al centro di questo romanzo non c’è l’atto in sé, quanto l’impossibilità di realizzarlo concretamente. Non c’è esplicita affermazione, né descrizione. La sospensione diviene un’allusione all’indicibile, alla predestinazione del simbolico: «Uno scrittore è troppo preoccupato di creare personaggi in carne e ossa che stiano in piedi per aver tempo di rendersi conto di tutto il simbolismo che può aver messo in ciò che ha scritto».

Il vuoto, espresso da uno stile “lussureggiante, rigoglioso, eccessivo (Clifton Fadiman), si coglie dai dettagli.  Quel santuario è il corpo stesso di Temple, così come il tribunale, la fabbrica clandestina dove verrà violentata, l’eccesso morboso dell’avvocato Horace Benbow.

Nel vortice caotico del vuoto, Faulkner rilascia un’impronta tenera di cielo, descritto come «prono e avvinto nell’abbraccio della stagione della pioggia e della morte», come se lottasse con la dispersione della pienezza ed egli, come scrisse di Sherwood Anderson, suo indimenticabile maestro: «Era come se scrivesse non per la sete logorante insonne implacabile di gloria per la quale qualsiasi artista normale è disposto a eliminare la propria vecchia madre, ma per ciò che egli considerava più importante e più urgente: non la mera verità, ma la purezza, la più esatta purezza (…) Gli si confaceva quell’annaspare in cerca dell’esattezza, della parola e della frase esatta nell’orizzonte limitato di un vocabolario controllato e persino represso da ciò che in lui era quasi un feticcio di semplicità, spremere parole e frasi insieme fino in fondo, cercare sempre di penetrare all’estremo confine del pensiero. (…) Ho imparato che, per essere uno scrittore, occorre essere prima di tutto ciò che si è, ciò che si è nati; che per essere americani e scrittori non è obbligatorio dover dare la propria adesione formale a chissà quale immagine convenzionale, come il granturco dolente dell’Indiana, o dell’Ohio, o Iowa (…) Basta ricordare ciò che si è.»

Quando nel 1950 gli venne assegnato il Nobel, pronunciò un discorso ampio e acuminato. Era il senso della sua avventura e della sua tensione narrativa: «Sento che il vero destinatario di questo premio non sono io come uomo, ma al mia opera – l’opera di una vita nell’agonia e nel sudore dello spirito umano, non per gloria e tantomeno per il profitto, ma per creare dai materiali dello spirito umano qualcosa che prima non esisteva. Perciò di questo premio sono il semplice custode».

Ma qual è il compito della scrittura? Egli stesso ce ne dà un assaggio in questo scritto del 1961, definendosi: «uno straniero cresciuto in campagna che ha seguito quella vocazione per centinaia di miglia, per scovare e cercare di catturare e imitare per un momento in una manciata di pagine stampate la verità della speranza dell’uomo nel dilemma umano».

Il mito primordiale degli antenati, come il colonnello Sartoris, figura vicina al nonno, o il magma incandescente dei tre racconti Absalom, Absalom! (1936), Palme Selvagge (1939) e Una rosa per Emily (1949-1950), frequenta gli spazi d’ombra di un viluppo grottesco e duro, che come disse T.S.Eliot, comunicano prima di essere compresi.

Eugenio Montale scrisse: “Sfondo perpetuo dell’arte di Faulkner è il Sud; motivo ricorrente, gli strascichi, l’eredità psicologica e perfino razziale lasciata dalla guerra civile. Ma il tutto, naturalmente non forma, come in Balzac, un ciclo unitario osservato con l’occhio di chi vorrebbe esaurire il quadro, bensì si estende con una fluviale lentezza nella spirali di una saga, di una leggenda, che noi immaginiamo potesse continuare all’infinito. Sudista nostalgico, odiatore della “terza razza” che si è formata nel Sud accanto agli aristocratici e ai negri (la razza “costituita dai figli degli ufficiali e dagli impresari e dei fornitori di guerra, da coloro che guidano in borghese o avvolti in manti di società segrete le folle al linciaggio”), Faulkner non è tuttavia come artista un conservatore”.

Ma egli, nella sua avventura misteriosa, parte dalla poesia, perché dal gesto e dalla parola poetica si muove l’arte sfarzosa e sottile della narrazione.

Le poesie del Mississippi esprimono la tragedia e la passione dell’esperienza dell’esistenza, l’approccio alla parola, la cui forza ha nella sua sostanza il compimento pieno.

Marco Missiroli, parlando della poesia di Faulkner, solamente di recente riproposta e riscoperta, scrive che essa: “è anche epica sentimentale: l’amore si fa mancanza e il desiderio si trasforma in sfida”. Il movimento di Faulkner è aspro e dolente, ma si dispiega, sempre, a d ogni istante.

Un legame sottratto, in cui intimità di voce, ansia e tempo presente si riuniscono, si racchiudono: «Dunque, le dirò: tra due fugaci palloni/ di sottane vidi le sue ginocchia, gravi calici/ fiorire in alto verso svenevoli nugoli di api/ nell’arnia dei fianchi di miele, minime lune».

C’è un’origine di scommessa in questo stradario di carne, un tentativo di riammissione in un legame. La memoria tenta, recupera, coinvolge, perché il ricordo è madre. Madre di ciò che dovrebbe essere, mancanza di ciò che è: «Tre stelle nel suo cuore quando si risveglia/ mentre il sonno invernale spezza il rigoglio nel diluvio/ e nella terra cavernosa lo strepito di una primavera s’agita, / come tra i suoi fianchi il seme dissodato e vivo».

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La depressione e la colpa

di Volfango Lusetti                                                                                        Prato, 31 gennaio 2013

PSICOPATOLOGIA E PSICOTERAPIA

in pdf  1. 31.01.2013 DEPRESSIONE E COLPA- VOLFANGO LUSETTI

Il giorno dopo - MunchE’  stato notato come nessuna entità psicopatologica racchiuda, al pari della melancolia, universi ed energie così sconfinati, serrandoli però in uno spazio ed in un tempo così ristretti, quasi puntiformi.

Mi pare che nell’affrontare l’argomento “depressione”, si debbano perciò esaminare due problemi, che sono anche due contraddizioni:

1)                 da un lato la contraddizione fra il “senso del nulla” che pervade buona parte del vissuto depressivo, e l’energia selvaggia, quasi infinita che viceversa, da tale vissuto, sembra promanare; in quest’ottica, la depressione appare per un verso, indubbiamente, un ingente attacco di morte portato alla mente del soggetto, per un altro, però, l’espressione d’una forte attitudine di quest’ultimo ad appropriarsi della morte stessa ed a reagirvi attivamente, seppure in forma in gran parte interiore ed auto-gestita, attitudine la quale si concretizza, in particolare, nel conseguimento della capacità d’usare una tale morte, a volte contro sé stessi (nella posizione depressiva), altre volte contro gli altri (in quella maniacale)

2)                 dall’altro, quella vera e propria contraddizione di base, tipica dell’uomo, che esiste fra la necessità di sopportare la percezione della morte che la coscienza veicola, e l’assoluta impossibilità, anch’essa tipica dell’uomo (e sua perenne condanna!) di prescindere dalla coscienza stessa, ovvero da quella singolare dotazione umana, allo stesso tempo cognitiva e morale, che una tale consapevolezza della morte veicola ed amplifica a dismisura, risolvendo molti problemi ma provocando sofferenze d’ogni genere (ed in primo luogo depressive). La coscienza umana, perciò, comporta immancabilmente la necessità di usare, al fine di alleggerirla e “smaltirla”, quella stessa morte che inevitabilmente trasmette al soggetto, ab-reagendola su altri, quindi possiede anch’essa, di per sé, delle connotazioni maniaco-depressive

Per quanto riguarda il primo punto occorre dire subito che, ad un’osservazione puramente  fenomenologica, la percezione del proprio “stare al mondo” propria del depresso grave (di cui il melancolico rappresenta l’immagine prototipica), è quella d’essere costretto, e soprattutto d’auto-costringersi, a vivere ristretto, raggomitolato e compresso su sé stesso in misura quasi disumana, accucciandosi all’interno d’un “punto focale unico” dell’esperienza, ovvero d’una sorta di fisica “singolarità” la quale possiede un’estensione che si approssima allo zero, ma in compenso è dotata d’una densità, d’una gravità e di un’energia altissime, quasi infinite, tali che in essa il tempo e lo spazio collassano, “il sole diviene nero” e neppure la luce può fuoriuscirvi.

La cosa paradossale, naturalmente, è proprio che in questo punto ristrettissimo dell’essere che è la melancolia (un punto non solo dotato d’uno spazio quasi inesistente, ma tendente anche sul piano temporale a zero) possano risiedere ed operare energie fortissime e misteriose le quali tendono viceversa all’infinito: ora, ciò nel depresso avviene in quanto in lui, in una qualche misura, tutto il mondo viene compresso, aspirato, inghiottito, insieme alla propria terrificante dotazione energetica (tanto che più ancora che di “depressione”, specie in relazione alla “colpa”, occorrerebbe forse parlare di “compressione”), ma lo è al solo fine, ed questo è il punto, d’esservi gestito dal soggetto stesso, almeno in parte, in forma autonoma.

Come ben sanno gli psicopatologi, nessun malato come il depresso è autarchico nel proprio funzionamento e relativamente refrattario all’influenzamento esterno (almeno a partire dal momento in cui la depressione si è instaurata in tutta la sua gravità), e contemporaneamente, nessun altro è come lui una fucina d’aggressività, di rabbia e di distruttività, anzi, una vera e propria “macchina da guerra” (un “guerriero”, appunto, come quelli che popolano molta della narrativa e del mito universali), anche se ciò, ai profani, ed anche a molti “addetti ai lavori”, assai spesso sfugge: ciò, forse, per il motivo che quest’energia negativa, aggressiva, distruttiva ma anche fortemente vitale, per larga parte è canalizzata contro il depresso stesso, e per di più immobilizzata e mascherata dalla feroce modalità auto-inibitoria con cui questo soggetto agisce contro il proprio sé (anche se poi quest’immobilizzazione depressiva dell’aggressività spesso crolla repentinamente, mentre alla canalizzazione di essa contro il proprio sé cede il passo, altrettanto repentinamente, un suo proiettarsi all’esterno, sugli altri, ancora una volta “usando la morte” anziché subirla).

Anche le categorie tellenbachiane dell’”includenza” e della “rimanenza”, nel depresso, pur connotando certamente una momentanea, necessaria posizione di passività (rispettivamente, l’essere “inclusi” in un ordine esteriore fatto di doveri collettivi, il quale trascina il depresso oltre il proprio sé, ed il fatale “rimanere indietro” del sé medesimo, ovvero del corpo e delle sue appetizioni, rispetto a questo trascinamento esterno), sembrano stare ad indicare semplicemente un “primo tempo” nel quale egli, a differenza dell’ossessivo, anziché negare l’oppressione che subisce, cancellarne la nozione e neutralizzarne ritualmente ogni risonanza emotiva, la accoglie pienamente nella propria coscienza, e non solo ne viene passivamente inondato ma quasi “se la annota”, ovvero la accumula attivamente dentro di sé e la capitalizza in termini di “credito” da rivendicare successivamente, come se essa costituisse un patrimonio energetico di aggressività, da usare al momento opportuno verso lo stesso sé oppure verso il mondo esterno.

Insomma, nel depresso è come se la persecuzione che proviene dal mondo e dalla stessa percezione della morte, oltre che interiorizzarsi e rivolgersi contro il proprio sé, venisse da quest’ultimo afferrata e maneggiata come una clava, o comunque usata anziché subita passivamente: nessun soggetto come lui, infatti, impara a sfruttare ed usare la morte che subisce da fuori o che scaturisce dal suo stesso interno, a brandirla, a tradurla in un attivo e strutturato attacco rivolto ad un oggetto preciso.

Il fatto, poi, che questo oggetto sia anzitutto il proprio sé, in fondo, non cambia di molto i termini della questione, poiché il punto caratterizzante di questa “patologia” risiede proprio nell’enorme capacità del depresso di passare da una posizione passiva ad una attiva, nonché autonoma ed autarchica: e ciò, qualunque ne sia il costo (e che questo costo sia accettabile, dal punto di vista del “rendimento energetico” della depressione, trova la sua controprova nello stato maniacale, ovvero nell’altra faccia della depressione, nella quale il patrimonio di energia aggressiva accumulato durante il “lavoro depressivo” compiuto contro il sé ed all’interno del sé, viene utilmente reinvestito in una fortissima attitudine predatoria ed aggressiva rivolta verso il mondo esterno).

Da questo punto di vista, il melancolico è ben lontano dalla posizione di vittima “designata” e passiva del collettivo sociale che è proprio di altre “patologie mentali” (vedi segnatamente, la schizofrenia): la sua capacità di tradurre attivamente l’aggressione subita in aggressione agita, infatti, lo rende pressoché intangibile ai tentativi d’influenzamento e di condizionamento di varia natura che hanno una presa così facile, al contrario, nella schizofrenia; anche quando il depresso si uccide, dunque, prevale in questo suo atto una frazione di conato attivistico, e comunque di ribellione fattiva ed indomabile ad un destino che coarta la sua volontà (lo stesso suicidio, a pensarci bene, è un tentativo, seppure inutile, di strappare l’iniziativa alla morte).

La forma concreta, poi, della “fucina depressiva” attraverso la quale quest’energia negativa ma anche trasformativa e vitale opera, è interessante notarlo, viene spesso percepita e raffigurata al “femminile” (si rammentino anche, per inciso, le “madri” inquietanti che popolano il Faust di Goethe).

Ciò avviene, semplicemente, in quanto la donna, che il mito e l’inconscio assai spesso identificano con la morte, ha il compito di selezionare la specie, ossia di decidere, apparentemente da sola, chi fra i suoi figli è degno di vivere e chi no, ed ancor più, che tipo di figlio debba essere da lei concepito e da parte di chi; in definitiva, come affermava Soren Kierkegaard, laddove l’uomo “libera”, la donna “sceglie” chi la deve liberare, e dunque ha il compito di far propria e di ritrasmettere ovunque la spinta spietatamente selettiva ed auto-predatoria che grava, più che su ogni altra specie vivente, sul genere umano.

Perciò non deve meravigliare che quella morte che sempre fatalmente ci raggiunge, o che dal suicida viene invocata ed attivamente provocata, abbia, per dirla con Cesare Pavese, gli “occhi d’una donna”: se davvero è la donna, in ultima analisi, colei che “decide della vita umana”, che usa la morte contro la morte, che contrappone il padre al figlio ed allo stesso tempo media fra di loro, è ovvio che il luogo, puntiforme e dotato di altissime energie, di quella depressione ove ha luogo l’elaborazione di tali forze “basiche” che decidono della sopravvivenza, abbia una connotazione femminile.

Tuttavia occorre ricordare che ad infliggere in concreto la morte, nella nostra specie, il più delle volte sono delle mani maschili: le innumerevoli stragi che punteggiano capillarmente la storia della nostra specie, bisogna non dimenticarlo mai, hanno il sesso maschile come loro protagonista materiale pressoché esclusivo.

Negli stessi sogni e dinamiche dell’inconscio, del resto, maschile e femminile si mescolano ampiamente: la terribile voragine della morte in cui l’uomo necessariamente finisce (per dirla con Leopardi, qual “vecchierel canuto e stanco…. ove precipitando il tutto oblia”), ha sì una connotazione femminile, fatale, abbracciante, però l’articolato persecutorio che concretamente la provoca è inconfondibilmente maschile: tutti gli strumenti più palesemente persecutori, a livello simbolico, hanno come si sa una forma acuminata, appuntita, maschile.

Ad esempio, molti degli eroi antichi e medioevali, in particolare degli innumerevoli “cavalieri senza macchia senza paura” che popolano sia i poemi classici che quelli medioevali di tipo “cavalleresco”, a livello fenomenico sembrano in tutto e per tutto dei melancolici, o più ancora, dei “maniaco-depressivi” alla ricerca d’una qualche riscossa maniacale, mentre sul piano dei contenuti psico-dinamici appaiono nient’altro che dei figli alla disperata ricerca d’un padre-rivale con il quale misurarsi (e se del caso scontrarsi). Ciò, del resto, almeno nel caso dei “cavalieri medioevali erranti” di cui ci parlano il ciclo arturiano e bretone, corrisponde puntualmente al dato sociologico rappresentato dal riversarsi “in campo”, per tutto l’alto Medio Evo, d’una terrificante massa di manovra, dal gigantesco potenziale militare (peraltro abilmente utilizzato dalla Chiesa Cattolica nelle Crociate), rappresentata da giovani nobili che erano stati spodestati dai loro padri, in virtù sia della legge salica che del maggiorascato, da ogni diritto di successione ai troni dei vari principati d’Europa, e che dunque erano portatori di quella insanabile “ferita depressiva” (basata su un conflitto edipico di base consistente in un antagonismo mortale con i loro padri) la quale traspare, in filigrana, in personaggi come Lancillotto, o nello stesso Amleto.

Questa connotazione maschile degli aspetti persecutori che confluiscono nella colpa, fu genialmente notata sia da Abraham che da Freud, e mentre Abraham la riportò, tramite i connotati depressivi della colpa, all’introiezione cannibalica d’un oggetto aggressivo che continuava a perseguitare il soggetto anche dall’interno dopo averlo perseguitato dall’esterno, Freud, in “Totem e Tabù, identificò questo oggetto aggressivo con il padre ucciso dai figli nel corso d’un rito collettivo cannibalico, il cosiddetto “pasto totemico”, anche se di fatto cancellò l’assai più plausibile e logica priorità del padre, per quanto concerne la responsabilità aggressiva primaria nell’ambito del triangolo edipico, per concentrarsi invece su quella dei figli (per inciso, occorre dire che tutta questa potente teorizzazione, in ragione del suo carattere assai imbarazzante e scarsamente dimostrabile, è stata poi circoscritta da tutti gli psicoanalisti, a cominciare da Freud, nel regno della “metafora”, dei simboli, del narrativo e dell’extrascientifico, ovvero d’un innocuo “modo di dire immaginifico ” per indicare ciò che avviene nell’inconscio, quasi che quest’ultimo fosse ad un certo punto nato già bell’e fatto e “calato dal cielo” senza alcun antecedente antropologico reale, mentre sia Abraham che lo stesso Freud avevano avuto, a leggere bene i loro testi, tutta l’aria di parlare terribilmente sul serio).

In ogni caso, tutto ciò va a connotare in un senso misteriosamente sessuale, ovvero maschile e femminile, quello che potremmo a ragione definire come “l’alfabeto mitico” dell’inconscio umano, il quale costruisce la lingua che ci “narra” il rapporto con la morte che in esso alberga.

La polarizzazione di tale inconscio fra un lato femminile ed uno maschile (già genialmente notata per la prima volta, come si sa, da Carl Gustav Jung), comporta però un parallelo sdoppiamento delle armi che la nostra mente ha a disposizione per combattere la morte: queste armi, infatti, hanno il duplice compito di fronteggiarla, da un lato con la forza fisica ed insieme con il pensiero razionale, ossia attraverso il ruolo (prettamente maschile, assertivo e di “contrasto frontale” alla morte) proprio del “guerriero”, dall’altro con gli strumenti, di connotazione prettamente femminile e volti a procrastinarla, della manipolazione e dell’inganno: si tratta di strumenti, come si vede, eminentemente riparativi e trasformativi, i quali sono propri del pensiero emotivo e pre-razionale nonché rivolti all’influenzamento magico dell’altro, e come tali possono perfettamente incarnarsi nel ruolo dello “sciamano”.

In questo senso, tornando per un momento alla depressione, laddove lo schizofrenico è anzitutto un  soggetto che viene influenzato, il depresso (in particolare, nella sua versione “bipolare” o maniaco-depressiva) è un soggetto che semmai influenza gli altri, il che si vede particolarmente nella sua “versione maniacale” (o, nella forma monopolare, è un soggetto che influenza sé stesso).

Ma il guerriero (ovvero il maschile, la dimensione della razionalità e del contrasto frontale), ove non incontri lo sciamano (ovvero il femminile ed il riparativo, l’influenzante ed il trasformativo), “si perde” fatalmente nel gorgo della dimensione depressiva e della colpa, ed anzi la alimenta attivamente con la sua violenza, generando un vortice senza fine; e lo sciamano ed il femminile, a loro volta, ove non incontrino il guerriero ed il maschile, letteralmente smarriscono ogni loro funzione e ragione d’essere, dunque vengono inghiottiti e “scompaiono”, confluendo anch’essi in un gorgo depressivo senza fine, che però in questo caso ha il volto assai meno “acuminato” del femminile.

Insomma, la dialettica fra maschile e femminile, nella depressione, oltre che esterna e tale da configurare uno scontro materiale fra “mondi” diversi, ci appare interiore, ovvero tale da riguardare il soggetto e la sua dinamica intrapsichica, e ne connota in ogni suo movimento emotivo (cosa che nello splendido “Melancholia” di Lars Von Trier, ad esempio, risalta in maniera esemplare, sul significativo sfondo delle note del preludio del “Tristano ed Isotta” di Wagner).

Qualche psicopatologo (recentemente, in particolare, Stefano Mistura) ha connotato questo “punto focale unico”, questa fisica “singolarità” ove universi differenti e complementari s’incontrano e si scontrano, questa sorta di terribile “fucina” ove l’esperienza melancolica, in forme apparentemente indecifrabili, “lavora” attraendo ed inghiottendo tutto ciò che la circonda (e che non riesce ad articolarsi in maniera sufficientemente definita ed individuale rispetto ad essa), utilizzandolo  ai propri misteriosi scopi, proprio nei termini (si veda pocanzi) d’una “ferita primaria”, la cui riparazione esige di attingere energia da ogni dove, parimenti sottraendola, però, ovunque, e perciò impoverendo il paziente delle sue risorse fino ad un suo svuotamento emozionale pressoché totale.

Cerchiamo di approfondire ulteriormente questa questione inerente il paradossale potere d’attrazione e di “fascinazione” d’una “ferita primaria depressiva” fatta insieme di rabbia e di dolore, poiché essa è cruciale per rischiarare il fitto mistero che da sempre avvolge la depressione.

Per il melancolico dunque, a differenza che per il delirante di tipo non melancolico (ad esempio schizofrenico), sembra che esista un’assoluta priorità, nell’ambito degli interessi da accordare alla realtà: ogni interesse va distolto dal mondo esterno, sottratto ad esso e concentrato sul sé, sulla osservazione e sul monitoraggio del sé, sul giudizio che il soggetto può dare di sé, sulle colpe e sulla riparazione delle presunte colpe (e del male) che provengono dal sé: ed è proprio questo atteggiamento depressivo di base, di tipo auto-centrico, auto-gestito e quasi autarchico, ciò che spiega il fatto che da un lato lo spazio ed il tempo del depresso si prosciugano e si svuotano, si restringono e collassato in lui, dall’altro lato il fatto che ciò che viene tolto alle sue relazioni spazio-temporali esterne (anche allo scopo di disinnescarne e di padroneggiarne la connotazione fortemente aggressiva!) va ad arricchire, ad ipertrofizzare e quasi ad inflazionare il suo universo energetico interiore, concentrandovi e facendovi confluire sia l’energia che la connotazione aggressiva medesime.

Ogni elemento critico, aggressivo, predatorio insito nelle sue relazioni esterne, dunque, nel depresso confluisce in quell’autentico “buco nero”, ad attrazione gravitaria quasi infinita (denominabile come “punto focale unico” della sua realtà), che si configura alla stregua d’un “rapporto predatorio con sé stesso”, e ciò avviene nella forma specifica di un’abiezione “abissale” che il depresso ritiene di avere individuato dentro di sé: un’abiezione che egli dovrebbe in teoria sanare, ma che a causa della sua stessa attitudine auto-predatoria e della sua aspirazione all’onnipotenza non vuole, in realtà, sanare, bensì aumentare ulteriormente.

Questa energia, allo stesso tempo inflazionaria, distruttiva ed autarchica, è la base della paradossale percezione del proprio sé che è propria del melancolico: una percezione da un lato radicalmente svalutativa ed auto-colpevolizzante, dall’altro assolutamente smisurata ed insaziabile nella sua onnipotente ambizione, la quale per un verso lo svuota, per un altro lo arricchisce di energie, tanto che nel delirio di colpa essa giunge a fargli considerare sé stesso la causa della morte e delle disgrazie di tutti gli altri, mentre in quello di negazione tale morte e tali disgrazie acquisiscono una forza tale da annullare l’intero mondo fisico, facendo ancor più rifulgere la sua “potenza” smisurata.

Ciò che si può dunque affermare, circa questa caratteristica misteriosamente auto-alimentantesi (ovvero auto-cannibalica) che è propria del circuito auto-persecutorio ed auto-distruttivo del melancolico, è che questo soggetto, in realtà, fa propria e “volge su sé stesso” quella teoricamente illimitata persecuzione che sente primariamente provenirgli sia dal di fuori che dal proprio stesso interno, la accaparra e “se ne nutre”, le conferisce una strutturazione e la trasforma in onnipotenza auto-lesiva (a carattere compensatorio della persecuzione): e fa ciò proprio a partire da quella sconfinata ed impotente reazione rabbiosa che egli rivolgeva originariamente agli altri, ovvero ad un mondo esterno avvertito come sommamente pericoloso, tanto che questa rabbia, in talune condizioni depressive, riaffiora al soggetto in forma assolutamente pura ed inalterata, divenendo omicidio (i famosi e misteriosi “raptus” dei depressi) e/o omicidio-suicidio, oppure delirio di onnipotenza, sia pure sotto la specie paradossale del “delirio di negazione”.

Veniamo ora al secondo punto.

La caratteristica auto-osservante ed auto-giudicante, ma anche auto-punitiva ed in qualche misura auto-divorante che è propria del sentire melancolico, a guardar bene, non è altro che uno spingere al grado estremo, fino a deformarla potentemente (e volgerla nel suo contrario!), una qualità che è propria della coscienza umana: quella di concentrare in un punto solo della mente l’intero mondo percepito sia nel tempo che nello spazio, trasformando questa percezione, da quell’insieme frazionato, sfumato, articolato e variamente “diluito” di stimoli che ordinariamente si presenta ai sensi d’ogni essere vivente, in una sorta, ancora una volta (e come nella depressione), di “punto focale unico” dell’esperienza.

Si tratta, peraltro, d’un punto, anche qui, ad altissima densità, ma molto più leggero e metaforico rispetto al vissuto prettamente depressivo, e che l’uomo ha quindi la sensazione di poter assai meglio dominare ai fini dell’auto-controllo.

La coscienza, secondo alcuni, opera attraverso due procedimenti paralleli: da un lato, il procedimento che consiste nell’unire o collegare fra di loro in una trama unica e quasi “filmica”, sintetica e continua, le tracce mnemoniche dell’esperienza, soprattutto seguendo un modello di “collage visivo” ed avvalendosi in ciò dell’attenzione e della memoria a breve termine (questa è ad  esempio l’idea di coscienza che ci ha fornito un neuro-scienziato come Francis Crick, ma si tratta d’una idea condivisa da molti altri ricercatori); dall’altro, complementare al primo, il procedimento che consiste nel separare, dissociare, e comunque distanziare (ad esempio tramite procedimenti di “rimozione”) i sopra-citati elementi percettivi che vanno a formare una tale “trama filmica” a carattere “cosciente”, da quegli altri elementi (a carattere soprattutto emozionale, pulsionale ed istintuale) che li appesantirebbero, impedendo o ostacolando gravemente le operazioni, eminentemente “sintetiche”, che proprio servendosi di essi compie la coscienza (se tutto giungesse alla coscienza, ovviamente, quest’ultima si “ingolferebbe” di messaggio  di stimolazioni, e non potendoli selezionare cesserebbe, alla fine, di funzionare come struttura sintetica e  selettiva, il che peraltro si verifica puntualmente negli stati confusionali).

Ora, questa seconda idea della coscienza, la quale implica ovviamente l’idea dell’esistenza parallela d’un “inconscio” (a contenuto prevalentemente emozionale), era come si sa quella, fra gli altri, propria di Sigmund Freud, e non solo non esclude la prima, ma ne è in qualche modo presupposta. Infatti i moderni neuro-scienziati non solo ritengono che l’inconscio esista (sebbene lo raffigurino alla stregua d’un inconscio “procedurale” ed automatico, anziché come “luogo del rimosso”, quindi in forma alquanto differente dall’inconscio freudiano), ma asseriscono che il vero mistero, più che l’esistenza dell’inconscio, è semmai l’esistenza della coscienza.

Ebbene, questo secondo “punto focale unico” dell’esperienza che, al pari dell’esperienza depressiva, è appunto la coscienza, in virtù di tali procedimenti da un lato sintetici e volti all’unione delle parti in un “tutto”, e dall’altro dissociativi e tali da escludere da questo tutto, paradossalmente, una parte molto importante (quella che corrisponde al vissuto, oltre che alle operazioni mentali automatiche e pre-coscienti) è anch’esso, esattamente la depressione, da un lato autarchico, dall’altro esclusivo di tutto il resto.

La coscienza inoltre, così come deve dissociarsi, almeno in parte, dalle emozioni (dato che solo grazie a questa dissociazione che la “alleggerisce”, può osservare e manipolare a piacimento le immagini mentali degli oggetti), allo stesso modo deve dissociarsi dalle immagini del proprio sé nonché da quelle del corpo, anzi quasi lievitare al loro fianco, osservarle come degli oggetti, soppesarle e giudicarle come se fossero estranee ad essa.

Ancora, rendendo il “sé” un oggetto privilegiato, invasivo della coscienza ed inquietante, nel quale rispecchiarsi ma tale da dover essere costantemente controllato e tenuto a freno, la coscienza ne viene anche, in qualche modo, “fascinata” e persino ossessionata: quindi è costretta, di fatto, a trasformare ogni percezione del mondo esterno in una preliminare “auto-percezione” la quale, prima ancora che un significato cognitivo, ne possiede uno morale.

La percezione cosciente della necessità di auto-regolarsi di fronte agli altri, infatti, non è altro che l’identificarsi, “sic et simpliciter”, con il punto di vista degli altri. Ma un padroneggiamento del mondo esterno che debba passare necessariamente attraverso un auto-padroneggiamento, non può non generare quell’illusione di onnipotenza che, per l’appunto, è tipica della coscienza (e che molto assomiglia, occorre notare, all’onnipotenza depressiva).

Ora, questa onnipotenza della coscienza comporta la conseguenza che l’universo, non appena concentratosi nella coscienza stessa e collocatosi nell’ambito d’una percezione delle cose che grazie ad essa è divenuta illusoriamente “globalizzante”, deve apparire da un lato unitario, ovvero esente da fratture interne ed onni-includente (poiché la coscienza, “cum-scientia”, è per definizione una conoscenza percepita come comune agli altri, anzi, per molti aspetti, istituita dal loro punto di vista), dall’altro deve necessariamente configurarsi come “diviso in due” (giacché per unificare bisogna anzitutto dividere, dissociare, ossia dapprima scegliere quegli elementi che sono realmente unificabili con altri e successivamente separarli da quelli che non lo sono, e come si è già accennato la prima cosa da dissociare, in una siffatta operazione, sono quei messaggi corporei ed istintuali di natura strettamente individuale che nel carattere “globale” della coscienza e nella sua presunta onnipotenza non appaiono affatto integrabili).

L’uomo, insomma, deve sacrificare gran parte del contatto con sé stesso e con le proprie percezioni, perfino cenestesiche, all’esigenza di conquistare un’immagine unitaria del mondo, la quale includa fra le altre cose anche gli altri esseri umani e renda possibile una comunicazione simbolica con essi (e tramite questa, un controllo della realtà naturale): ma questa auto-dissociazione, quest’esclusione del sé e di buona parte del vissuto che ne promana, paradossalmente, genera una sorta di ossessione proprio per il sé medesimo, ovvero per la parte dissociata; ed una tale ossessione per il sé a sua volta, come già accennato, implica che l’essere umano, a differenza di tutti gli altri animali, è condannato a non poter mai percepire il mondo direttamente, bensì solo attraverso un’auto-osservazione capillare ed un ossessivo auto-controllo.

Quest’ultimo, poi, è allo stesso tempo un auto-giudizio, ovvero un porsi dal punto di vista dell’altro, un condividere il suo sistema di valori ed un parlare, letteralmente, la sua lingua ed i suoi simboli.

L’essere umano, in definitiva, deve percepire il mondo come un tutto unico al fine di poterlo padroneggiare, ma deve immediatamente dopo rompere questa unità, ovvero decentrarsi da sé stesso, proprio al fine di potere percepire il mondo come un tutto unico; infine, può fare tutto ciò solo filtrando le proprie percezioni attraverso un singolarissimo, privilegiato e quasi ossessivo rapporto con sé stesso, il quale è di natura, allo stesso tempo, auto-dissociata ed auto-centrica, auto-repressiva ed auto-regolativa.

Ora, anche in base a quanto abbiamo detto all’inizio, è interessante notare che quest’operazione mentale di auto-dissociazione e di auto-manipolazione (in sé relativamente onnipotente ed autarchica), la quale rende possibile la coscienza, benché sia molto più “leggera” e metaforica, è qualcosa di molto simile ai procedimenti d’auto-dissociazione e d’auto-accusa (anch’essi onnipotenti) dei depressi.

La differenza, naturalmente, sta nel fatto che la struttura depressiva sottrae al mondo ed accumula nell’interiorità elementi pesantemente persecutori (quindi è costretta a comprimere all’interno del sé energie altissime, le quali successivamente debbono trovare un loro canale di sfogo piuttosto violento), mentre la coscienza sottrae al mondo, e “cuce” nella propria trama filmica, solamente elementi percettivi che sono stati, al contrario, preventivamente depurati d’ogni possibile valenza persecutoria e resi assai più “leggeri” dai procedimenti dissociativi e di “rimozione” (tanto che la maggior parte di quel materiale emozionale e pulsionale “pesante” che da tale persecuzione poteva essere improntato, è stata relegata nell’inconscio).

Insomma, mentre l’accumulo depressivo di persecuzione prepara inevitabilmente un’esplosione successiva d’energie fortemente aggressive, la sintesi “filmica” che la coscienza compie non fa altro che indurre la formazione d’una struttura parallela di tipo inconscio, la quale funziona contemporaneamente alla coscienza e non necessita, di per sé, di alcuna forma di scarico massiccio, e neppure d’un funzionamento “ciclico” o “bipolare.

Tuttavia, anche la coscienza prepara, a suo modo, un terreno assai fertile per contraccolpi depressivi: il suo enorme potere rappresentativo (in particolare della morte) infatti, per quanto astratto e dis-emozionalizzato possa essere, è comunque d’entità tale da compensare, e per certi versi sopravanzare, il potere di accumulo di stimolazioni mortifere che è proprio della struttura depressiva; ora, la percezione di morte che giunge a ciascuno di noi per via simbolico-rappresentativa attraverso la coscienza, compie il proprio “lavoro” depressogeno, essenzialmente, mediante la creazione d’un mondo di oggetti artificiali e di strumenti tecnologici atti ad arginare la morte stessa, nonché ad essere usati collettivamente: ma questi strumenti espropriano l’individuo, in misura pressoché totale, del suo potere di fronteggiare la morte direttamente con le proprie emozioni ed il proprio vissuto; ecco dunque che anche a causa della coscienza, il “vissuto” e le emozioni, lungi dall’essere annullati, riprendono piuttosto ad essere “inclusi”, tellenbachianamente, in un ordine di valori che li trascende, ed a “rimanere indietro” rispetto ad un tale ordine.

Quando Heidegger, per fare un esempio, critica le scienze esatte e la tecnologia per il loro proposito di fornirci un’immagine del mondo realistica, “in presa diretta” con ciò che è esterno a noi ed a prescindere dal nostro “vissuto”, e contemporaneamente dichiara che la tecnologia, con la sua micidiale efficacia, non è per nulla padroneggiabile a partire da questo vissuto (e quindi, neppure da parte dell’essere umano!), in fondo richiama la nostra attenzione proprio sulla contraddizione di base dell’uomo che abbiamo appena tratteggiato, e che a questo punto potremo meglio definire come “il paradosso della coscienza”.

Questo paradosso, lo ripetiamo, consiste nel fatto che la nostra specie, per poter raggiungere lo scopo di padroneggiare il mondo rappresentandoselo in forma “generalizzabile”, ovvero in termini astratti (o ancora, considerando le cose ad un altro livello, in forma simbolica, narrativa e comunicabile ad altri esseri umani), ha dovuto “unificarlo” in un’immagine “cosciente”; però, proprio per poter compiere quest’operazione di unificazione del mondo, ha dovuto immediatamente dopo “dividere questo mondo in due”, ovvero, ha dovuto togliere dalle proprie rappresentazioni simboliche delle cose il peso del vissuto, e con ciò espellere dalla visione cosciente che ha del mondo quell’insieme di percezioni più “particolari”, ad esempio cenestesiche, che provenivano dal corpo e confluivano nel vissuto medesimo (in altre parole, ha dovuto cancellare la stessa nozione che l’immagine generale ed unitaria del mondo da essa costruita, è in gran parte provenuta dal proprio “sé” e dal più o meno “pesante” vissuto che da quest’ultimo scaturisce).

Tuttavia, pur essendo continuamente spinto ad espellere il proprio “vissuto” dalla coscienza ed a “depurare” quest’ultima da ogni possibile “scoria” emotiva, l’uomo (ed è questo il cuore del “paradosso della coscienza”) è costretto a pensare costantemente il mondo proprio attraverso il vissuto, che poi è l’unica cosa di cui può essere sicuro, quindi, in definitiva, a re-introdurre quest’ultimo nella coscienza subito dopo avere invano tentato di espellerlo da essa (si pensi al “cogito ergo sum” di Cartesio!): quindi egli viene alla fine indotto a pensare al “vissuto” come all’unica realtà possibile, accettando il fatto che esso gli ripropone proprio quelle sensazioni particolari che la sua coscienza razionale, unificata, auto-dissociata e generalizzante, per altri versi gli richiederebbe imperiosamente di eliminare.

E’ così accaduto che l’uomo, sconcertato da questa contraddizione fra le proprie percezioni esterne ed il proprio “vissuto”, abbia finito per percepirsi come un granello insignificante, del tutto casuale e “particolare”, dell’universo, nel quale però l’universo nella sua interezza, misteriosamente, si concentrava, ed al di fuori del quale non appariva possibile nessuna forma di “essere”.

Ora, è proprio a  causa di questa inquietante somiglianza fra la coscienza e la colpa, che l’unica speranza di sfuggire alla depressione è divenuta, per taluni (ce lo insegna ad esempio il messaggio esistenzialista) l’assegnare momento per momento un “senso”, anziché contrapporre una ribellione, al dato bruto di quell’esistenza particolare che ci è stata data e che viviamo “qui ed ora”, visto che essa è allo stesso tempo un “tutto” che possediamo ed un destino cui non possiamo sfuggire.

Nel mondo attuale e secolarizzato, però, ovvero in una situazione che potremmo definire di “percezione massiccia ed estensiva della morte”, qualora le ragioni del “particolare” e del “corporeo” si facciano dappresso alla coscienza stessa in misura troppo impellente, e quest’ultima, nel suo vissuto unificato ed allo stesso tempo auto-dissociato, sia indotta a vacillare in una misura troppo accentuata (ad esempio sotto i colpi inferti dalla percezione, resa sempre più chiara dallo strepitoso sviluppo della scienza e dalla tecnologia, d’un mondo reale che si origina sempre di più all’esterno del vissuto umano ed è indipendente da esso), nonché a percepirsi per  quello che è, ovvero come una struttura ontologicamente alienata, all’uomo può facilmente sopravvenire una disperazione assai simile a quella depressiva.

Insomma, nel contesto impostoci dal mondo tecnologico, ormai, come diceva Heidegger, ai nostri occhi, “gli dei sono volati via”, il che significa semplicemente che i rituali ossessivi e parzialmente pre-coscienti di padroneggiamento della morte che erano propri delle culture antiche, sotto l’azione dissolvitrice della coscienza e della ragione, si vanno sempre più svuotando (come già le religioni monoteistiche ci vanno dicendo da più di duemila anni), cedendo il passo all’unica possibile reazione rimasta: quella depressiva. Il Cristianesimo in particolare, religione in sé sommamente de-ritualizzante e de-sacralizzante, contrariamente alle apparenze possiede un così ingente contenuto di “fede”, di “credo quia absurdum”, proprio in quanto è in realtà ultra-razionalistico e sommamente speculativo, anzi percepisce così distintamente le fonti della morte da doverle negare in forma plateale, ad esempio identificando l’uomo con Dio ed il figlio con il padre, ossia componendoli in unità malgrado quelle loro insanabili contraddizioni che, come abbiamo visto sopra a proposito dei guerrieri medioevali spodestati dai padri, sono spesso alla base del vissuto melancolico.

Non è affatto detto, tuttavia, che la depressione promossa dalla tecnologia, dalla scienza e dalla coscienza sia sempre e comunque un male: si tratta, semplicemente, d’una trasformazione epocale ed oltremodo critica, la quale, se su un versante risolve numerosi e millenari problemi, su un altro ne pone (ed impone) molti altri, di natura diversa ma non meno importante, la cui soluzione è ancora difficile persino da immaginare.

Un esempio molto semplice di ciò è il seguente: se la progressiva decodificazione del DNA, consentita proprio da quella tecnologia strapotente e “non dominabile” cui alludeva Heidegger, renderà possibile su scala di massa una previsione ragionevolmente certa circa la durata d’ogni vita individuale e circa la natura non solo delle malattie che la limiteranno (fino a porvi fine), ma anche della nostra libertà d’auto-determinarci in vista d’un fine (per inciso, si tratta proprio di quella libertà umana residuale che è alla base dell’esistenzialismo!), ebbene, a quel punto il vissuto che ci consente tuttora di mantenere un minimo di “spinta vitale”, ossia quello che tipicamente si basa sulla “possibilità d’auto-progettazione” nonché su quella di “proiettarsi nel futuro” partendo da una sia pur minima illusione di “libertà”, subirà un colpo durissimo e foriero di ingenti contraccolpi depressivi; ma a questo punto, a causa della disperazione che potrebbe derivarne, diverrà forse fatale andare, ormai in preda alla depressione e ad un vissuto di “lutto”, alla ricerca di quegli “dei del vissuto” (il sacro, i riti, ecc.) che sono “volati via”, nonché invocare il loro ritorno sulla terra. E di ciò, nella società attuale esistono già segnali inconfondibili.

Dott. Volfango Lusetti. Psichiatra e Psicoterapeuta, Roma.

volfangolusetti@tiscali.it

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Carnage, un film di Roman Polanski, un caso di Mediazione Familiare

di Sylva Batisti                                                                                           Prato, 30 gennaio 2013

Mediazione Familiare

 tumblr_m35i8bPnyC1rpljryo1_r1_500“Carnage”, un film di Roman Polanski del 2011, è a mio avviso un vero capolavoro, sia dal punto di vista della sceneggiatura sia dal punto di vista attoriale e registico. Il setting è quasi simile ad un setting teatrale: il salotto di casa di Penelope (Jodie Foster) e del marito Micheal, dove questa prima coppia coniugale dei padroni di casa ricevono l’altra interessante coppia formata da Nancy (Kate Winslet) e il marito avvocato. Si incontrano per discutere del litigio violento dei rispettivi figli, uno visto come l’effettiva vittima visto che ha perso gli incisivi ed è stato sfigurato a detta di Penelope, l’altro il picchiatore.

La discussione si trasforma ben presto in un dramma a quattro voci, dove il conflitto, seppur verbale ed espressivo (attraverso una significativa gestualità e comunicatività corporea fra cui il vomito di Nancy per fare solo un esempio) diventa protagonista e dove tutti e quattro contribuiscono, ovviamente ognuno a suo modo, ad alimentarlo, esprimerlo, drammatizzarlo, tirarlo fuori. Ogni personaggio è contrassegnato da una doppia identità, quella che esprime e quella che vorrebbe esprimere più consapevolmente. La contraddittorietà di ognuno è estrema di fronte al conflitto, il quale mette a nudo in modo palese l’antinomia fra ciò che si crede di essere e quello che miserabilmente si è, umani, pieni di contraddizioni, imperfezioni e debolezze: mai all’altezza delle migliori intenzioni che talvolta motivano ad affrontare una discussione con altre persone divergenti.

In particolare il personaggio mirabilmente interpretato da Jodie Foster, Penelope, incarna al meglio il suddetto punto di vista interpretativo: perché si pone come salvatrice, scrittrice pacifista, dice di credere alla cultura come forza per la pace e poi si rivela nello scontro una delle voci più estreme e violente, picchia il marito, rovescia la borsa di Nancy e insulta a gran voce.

L’altro personaggio apparentemente agli antipodi di Penelope, il ricco e cinico avvocato padre del bambino aggressore, che sembra essere inizialmente poco interessato stando tutto il tempo al cellulare per business della sua azienda farmaceutica e che fino alla fine rivela una visione ben precisa della violenza, dicendo che il suo Dio è il Dio del massacro: la sua violenza è il cinismo, la cattiveria e aggressività verbale, sostenendo che è nella natura umana da sempre e non si può eliminare semmai esprimere sotto forme più accettabili.

La discussione degenerando costringe tutti a scoprire le carte della propria miseria e infelicità, dei propri limiti e l’alcool di troppo allenta i limiti del comune buon senso: un film grottesco tragicomico appunto, sulla coppia, sulla famiglia, sulla cosiddetta società civile del primo mondo (siamo A New York nel film). Non si può assolutamente interpretare con la veste giudicante, anzi è un film che fa riflettere su una violenza nascosta nelle pieghe della nostra società del “benessere” pronta ad esplodere proprio perché forte è il malcontento e l’infelicità nascosta nella coppia e nella famiglia, soprattutto in quelle che si ritengono perfette, migliori delle altre. Come succede proprio alle coppie del film, che si sentono migliori, addirittura ogni personaggio anche individualmente è affetto da questa presunzione quasi ridicola, che il film fa poi via via emergere, di considerarsi il migliore, il portatore della verità, dei giusti valori.

Forse dal punto di vista proprio della mediazione familiare la visione di questo film bellissimo mi suscita una precisa riflessione conclusiva che vorrei qui esporre: il conflitto viene esasperato proprio quando siamo di fronte a mentalità egocentriche, presuntuose che, al di là dei valori e dei principi a cui si ispirano, credono comunque di possedere la visione ottimale delle cose, del mondo e di conseguenza sanno quali comportamenti siano più giusti. Viceversa, una mentalità convinta ma flessibile, aperta al dubbio, all’interrogativo, alle infinite possibilità di ridimensionare una tematica o un oggetto di discussione, possono più sperare di affrontare diatribe in modo sereno e arricchente, cercando di cogliere non solo il limite dell’altro ma il proprio limite, che realmente  esiste e riguarda tutti, nessuno escluso.

Nella mediazione familiare l’obiettivo del ridimensionamento del conflitto è centrale, la rilettura, la rinarrazione: per poter ridimensionare e rileggere un conflitto però bisogna essere disposti ad ascoltare l’altro, ci piaccia o no, anche drammaticamente.

Nel film c’è un ascolto forzato, goffo, drammatico ma anche nella vita questo avviene: perlomeno i quattro riescono a buttare fuori il veleno, di cui il vomito di Nancy è emblematico in quanto incarna il rifiuto dell’altro, il rigetto della verità dell’altro.

Il film è pirandelliano per lo svolgimento della tematica dei valori, di ciò che si è e si crede di essere e di cosa invece vedono gli altri di noi ed anche perché mette in luce che “la verità è una , nessuna, centomila”. Una coscienza pirandelliana dell’identità e delle relazioni ci fa capire le potenzialità da un lato delle relazioni, dall’altro i limiti complessi ed intricati.

Rimane la responsabilità dell’uomo il terreno della decisione e della svolta a mediare, la sua libertà, che alla fine consiste in questa scelta di responsabilità quando si relaziona agli altri in una situazione conflittuale.

Questa responsabilità però non può assolutamente prendere forma senza una consapevolezza profonda della complessità del conflitto dentro la mente umana e fuori di essa, nella società dove l’uomo vive e comunica. Il film Carnage ha un significato pedagogico importante, nel farci capire ancora una volta quale intreccio nasconda una lite violenta di due ragazzi: intreccio che scende nel retrobottega della famiglie perbene, dove stanno le radici nascoste del “male” dietro le borghesi apparenze dove tutti fingono una perfetta verità. Il film finisce con l’immagine del parco che è stato teatro della violenza all’inizio del film e che ora vede i due ragazzi di nuovo amici, riconciliati nonostante le famiglie. Le famiglie borghesi molto più dei figli tendono ad acuire i conflitti, arroccandosi nella loro pretesa di possedere la verità delle cose ed incarnarne il giusto modello. Le relazioni interpersonali si irrigidiscono e si esasperano i contrasti, che assumono una forma drammatica quando esplodono dopo tanta repressione e nascondimenti.

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a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini