William Faulkner e il proscenio della caduta

di Andrea Galgano                                                                  Prato. 3 febbraio 2013

LETTERATURA CONTEMPORANEA

77832“Nella decadenza di una famiglia del Sud, sembra che Faulkner voglia mettere in scena la vita come Caduta”. Scrive così nell’introduzione a L’urlo e il furore di William Faulkner (1897-1962), titolo che riprende atto V e scena V del Macbeth di Shakespeare, Emilio Tadini e la grande Flannery O’Connor lo definì “Dixie Limited”, treno rapido che tocca la profondità del Sud americano, correndo ininterrotto, come «a real son of a bitch».

Ma la scrittura del “Dixie Limited” è uno straniamento di viscere che si snoda da Melville e Joyce dalla autentica cultura barocca, -“ la migliore rivisitazione moderna – con l’Ulisse di Joyce appunto- dell’Amleto”(Nicola Lagioia)-  come l’immaginazione, che è imbevuta dalle date di una fotografia quasi ingiallita: 6 aprile 1928, 2 giugno 1910, 7 aprile 1928, 8 aprile 1928. Una materia viscerale  e oscuramente disperata, dove al centro c’è una famiglia bianca, i Compson con i loro quattro figli.

Nella  contea immaginaria  Yoknapatawpha, la stessa storia viene messa a fuoco da diverse voci monologanti, con dilatazioni, avvolgimenti, slittamenti, che custodiscono vertigini e memorie complesse.

L’ellissi di Faulkner è un flatus vocis di profonda musicalità che registra fatti, suoni, odori. Come se la materia del reale fuoriuscisse da un confondersi di nominazioni, si affermasse, sfarinandosi,  in un disordine narrativo e risorgesse continuamente dal suo magma, dalla sua intensa promiscuità di memoria, che in un istante lambisce il rettilineo e il complesso, l’effimero e l’eterno, la sequenza dei toni e dei timbri: “è una scrittura quella di Faulkner, capace di rappresentare in modo chiaro e distinto le cose – i nomi- che si conoscono per averli sperimentati. Ma nello stesso tempo, sulla stessa pagina, è anche una scrittura che si sforza di rappresentare le figure che ondeggiano confusamente dentro le prospettive vertiginose che si mettono in movimento non soltanto quando sogniamo, a occhi aperti o chiusi, ma anche, forse soprattutto, quando abbiamo semplicemente paura, non di qualcosa, paura e basta,e  allora, per un momento, quella paura cerchiamo di pensarla, e il pensarla ci porta, comunque, misteriosamente, dalle parti di qualche grandezza” (Emilio Tadini).

È il gesto elementare, come l’affetto di Benjamin per Candy, a evocare un valore originario e assoluto, come nell’evidenza dei lessemi memoriali: «Non vedevo il fondo ma potevo spingere lo sguardo molto in basso nel moto dell’acqua, prima che l’occhio si desse per vinto, e allora vidi un’ombra sospesa come una grossa freccia che andava contro corrente».

Il dramma si avvolge nell’ombra. Lo ripete l’idiota Benjy, furiosamente, in ogni suo passaggio. È l’ombra di Quentin su Caddy con il suo potente desiderio di possesso, è ombra l’idiota che incombe e infine il meschino e razzista Jason, con il suo odio per Dilsey: «avendo la massima considerazione solo per la polizia, temeva e rispettava unicamente la negra che cucinava il cibo che mangiava, sua nemica giurata dalla nascita».

Il divenire di Faulkner afferma, pertanto, una percezione scossa di temporalità, come se il tempo si sospendesse, per risultare assente, atono: «Soltanto quando l’orologio si ferma il tempo ritorna a vivere»

L’alternanza delle voci è lo strumento con cui la verità ama rivelarsi, persino nelle contraddizioni, negli spostamenti occulti, lasciando un varco al lettore, che, apparentemente smosso, si trova nell’azione in cui il testo avviene. L’indicibile ha bisogno di impastarsi con una voce che guizza, che scivola via dalle mani.

È piuttosto la fotografia sulla realtà, conservata nei segni di un’idiota, di una negra, di una biblioteca ricolma, a evidenziare “un presente mascherato” (J.P. Sartre).

La sospensione allucinatoria del tempo raccoglie il pungolo dell’insensatezza e della decadenza. È attraverso Benjamin, con i suoi mugolii e le sue strane comprensioni,  che Faulkner ci descrive «il suono grave e disperato di ogni muto tormento sotto il sole».

Una società strana, in deriva, oltraggiata e muta. Il presente eterno sconquassa il movimento della realtà, con la coltre di una nostalgia meccanica e insensata.

Sembra che il tempo di Faulkner, con la sua furia percettiva, debba sospendere il suo tratto, nonostante confluisca sempiterno e violento. Ama però il nascondimento, l’enigma che copre la zona del visibile, dei suoi tratti, dei suoi flutti.

Il respiro della tragedia greca pulsa, imperversando, nella potenza del destino e dell’incubo, nella instancabile e definitiva dissociazione dalla materia del mondo. Ma proprio quando l’impeto del non-sense convoglia l’immanenza, ecco Dilsey che afferma «Sono qui» in una pallida luce, riportando l’innocenza al suo santuario.

Spesso le cose sono percepite nella loro individualità e i personaggi di Faulkner vivono sotto questo cielo specifico di colpa. Ma sia Benjy sia Dilsey dissestano il disordine con la loro specificità.

Il primo con il suo non-sense conferma il lamento di una vertigine di vuoto, ma lui non lo sa, e poi c’è lei, la grande Madre Nera, che dona al tempo calma e amore.

Faulkner abita i miti primordiali. La sua voce di uomo sembra dilatarsi e poi scomparire nella fertilità della pagina. Andrè Malraux scrisse di Santuario che la tragedia greca stava irrompendo prepotentemente nel genere poliziesco, “un romanzo con un’atmosfera da detective-story ma senza detective”.

La procedura di spietato realismo dello scrittore è tale perché ricerca l’origine e i primordi di un movimento sconvolto e fertile. L’ingordigia e la malattia della società, che colpisce l’innocenza candida con la degenerazione, fino allo stupro, porta la miseria dello sfregio di uno splendore perduto e irrecuperabile. Il mito della morte e della rinascita si accompagna alla zona invitta del Sud e all’eterno agone di bene e male.

Ma al centro di questo romanzo non c’è l’atto in sé, quanto l’impossibilità di realizzarlo concretamente. Non c’è esplicita affermazione, né descrizione. La sospensione diviene un’allusione all’indicibile, alla predestinazione del simbolico: «Uno scrittore è troppo preoccupato di creare personaggi in carne e ossa che stiano in piedi per aver tempo di rendersi conto di tutto il simbolismo che può aver messo in ciò che ha scritto».

Il vuoto, espresso da uno stile “lussureggiante, rigoglioso, eccessivo (Clifton Fadiman), si coglie dai dettagli.  Quel santuario è il corpo stesso di Temple, così come il tribunale, la fabbrica clandestina dove verrà violentata, l’eccesso morboso dell’avvocato Horace Benbow.

Nel vortice caotico del vuoto, Faulkner rilascia un’impronta tenera di cielo, descritto come «prono e avvinto nell’abbraccio della stagione della pioggia e della morte», come se lottasse con la dispersione della pienezza ed egli, come scrisse di Sherwood Anderson, suo indimenticabile maestro: «Era come se scrivesse non per la sete logorante insonne implacabile di gloria per la quale qualsiasi artista normale è disposto a eliminare la propria vecchia madre, ma per ciò che egli considerava più importante e più urgente: non la mera verità, ma la purezza, la più esatta purezza (…) Gli si confaceva quell’annaspare in cerca dell’esattezza, della parola e della frase esatta nell’orizzonte limitato di un vocabolario controllato e persino represso da ciò che in lui era quasi un feticcio di semplicità, spremere parole e frasi insieme fino in fondo, cercare sempre di penetrare all’estremo confine del pensiero. (…) Ho imparato che, per essere uno scrittore, occorre essere prima di tutto ciò che si è, ciò che si è nati; che per essere americani e scrittori non è obbligatorio dover dare la propria adesione formale a chissà quale immagine convenzionale, come il granturco dolente dell’Indiana, o dell’Ohio, o Iowa (…) Basta ricordare ciò che si è.»

Quando nel 1950 gli venne assegnato il Nobel, pronunciò un discorso ampio e acuminato. Era il senso della sua avventura e della sua tensione narrativa: «Sento che il vero destinatario di questo premio non sono io come uomo, ma al mia opera – l’opera di una vita nell’agonia e nel sudore dello spirito umano, non per gloria e tantomeno per il profitto, ma per creare dai materiali dello spirito umano qualcosa che prima non esisteva. Perciò di questo premio sono il semplice custode».

Ma qual è il compito della scrittura? Egli stesso ce ne dà un assaggio in questo scritto del 1961, definendosi: «uno straniero cresciuto in campagna che ha seguito quella vocazione per centinaia di miglia, per scovare e cercare di catturare e imitare per un momento in una manciata di pagine stampate la verità della speranza dell’uomo nel dilemma umano».

Il mito primordiale degli antenati, come il colonnello Sartoris, figura vicina al nonno, o il magma incandescente dei tre racconti Absalom, Absalom! (1936), Palme Selvagge (1939) e Una rosa per Emily (1949-1950), frequenta gli spazi d’ombra di un viluppo grottesco e duro, che come disse T.S.Eliot, comunicano prima di essere compresi.

Eugenio Montale scrisse: “Sfondo perpetuo dell’arte di Faulkner è il Sud; motivo ricorrente, gli strascichi, l’eredità psicologica e perfino razziale lasciata dalla guerra civile. Ma il tutto, naturalmente non forma, come in Balzac, un ciclo unitario osservato con l’occhio di chi vorrebbe esaurire il quadro, bensì si estende con una fluviale lentezza nella spirali di una saga, di una leggenda, che noi immaginiamo potesse continuare all’infinito. Sudista nostalgico, odiatore della “terza razza” che si è formata nel Sud accanto agli aristocratici e ai negri (la razza “costituita dai figli degli ufficiali e dagli impresari e dei fornitori di guerra, da coloro che guidano in borghese o avvolti in manti di società segrete le folle al linciaggio”), Faulkner non è tuttavia come artista un conservatore”.

Ma egli, nella sua avventura misteriosa, parte dalla poesia, perché dal gesto e dalla parola poetica si muove l’arte sfarzosa e sottile della narrazione.

Le poesie del Mississippi esprimono la tragedia e la passione dell’esperienza dell’esistenza, l’approccio alla parola, la cui forza ha nella sua sostanza il compimento pieno.

Marco Missiroli, parlando della poesia di Faulkner, solamente di recente riproposta e riscoperta, scrive che essa: “è anche epica sentimentale: l’amore si fa mancanza e il desiderio si trasforma in sfida”. Il movimento di Faulkner è aspro e dolente, ma si dispiega, sempre, a d ogni istante.

Un legame sottratto, in cui intimità di voce, ansia e tempo presente si riuniscono, si racchiudono: «Dunque, le dirò: tra due fugaci palloni/ di sottane vidi le sue ginocchia, gravi calici/ fiorire in alto verso svenevoli nugoli di api/ nell’arnia dei fianchi di miele, minime lune».

C’è un’origine di scommessa in questo stradario di carne, un tentativo di riammissione in un legame. La memoria tenta, recupera, coinvolge, perché il ricordo è madre. Madre di ciò che dovrebbe essere, mancanza di ciò che è: «Tre stelle nel suo cuore quando si risveglia/ mentre il sonno invernale spezza il rigoglio nel diluvio/ e nella terra cavernosa lo strepito di una primavera s’agita, / come tra i suoi fianchi il seme dissodato e vivo».

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