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August Von Platen: il nitore senza sosta

di Andrea Galgano 9 agosto 2019

leggi in pdf AUGUST VON PLATEN. IL NITORE SENZA SOSTA

Il gesto lirico di August von Platen (1796-1835) è una materia solitaria e fugace, che si dipana in un’epoca pervasiva di attriti e ombre, la Goethezeit («possiede qualità brillanti, e tuttavia non possiede l’amore», così affermò, di lui, Goethe), che tenta una via peculiare, che si discosta tanto

«dalla generazione dei Romantici, che a quell’influenza avevano cercato in tutti i modi di sottrarsi, quanto da quella dei suoi coetanei, che con fatica cercavano una propria via capace di condurli, che con fatica cercavano una propria via capace di condurli oltre le premesse. Solo e solitario per destino ma anche per vocazione, Platen seguì un proprio itinerario nel quale giocò un ruolo fondamentale l’idea, e l’ideale, della bellezza. […] Il mito della bellezza si esprime così in una poesia che, frutto di studio appassionato, aspira al nitore, alla perfezione e alla pregnanza della lirica classica e come questa tende a celebrare il poeta come divino artefice; ideale luogo di ambientazione di questo progetto tanto ambizioso quanto utopico è il paesaggio italiano, da Platen vissuto – sia a livello di reminiscenza, sia nella realtà fattuale – come un Altrove benefico rispetto all’angustia ispiratagli dal suo paese e dal suo tempo».[1]

La pubblicazione, presso Elliot, grazie alla solerte cura di Andrea Landolfi, delle Poesie (1816-1834)[2], restituisce una sosta di forma e di bellezza, e di nitore viandante, riappropriandosi, così, di un equilibrio raffigurativo fatato, quasi aereo: «Venne Flora, alle tue foglie / il profumo tolse, e disse: / Tu sarai gioia per gli occhi, / l’oro l’aria inebrieranno».

Il marchese di Hallermünde, il cui rapporto con la Germania, risulta essere conflittuale e straniante, sia per il conflitto della sua omosessualità e sia, come sostenuto da Landolfi, per una sorta di poetica «di impronta fortemente elitaria e solipsistica, che tende a trasformare il proprio sostanziale isolamento nella altera solitudine di colui che si sente prescelto a più alti destini[3]», avverte tutta la lacerazione splendente della materia, il suo irretimento e la dolcezza immortale: «Se fanno una ghirlanda questi fiori / a ornarti il capo di colori belli, forse / mi dirai grazie e non me ne vorrai / per quel che è buono e quel che lo è di meno: / Che mai potrebbe darti la poesia? / Tu stesso sei per me un dolce poema, / e se anche il tedio spesso ti intristisce / tu metti ali al canto del poeta».

O ancora, come una invocazione solenne e leggera, il canto di Platen è un’anima nascosta e febbrile, si espande come meta incerta, occulta sentimenti per renderli vitali e feriali nell’orizzonte sottile della poesia:

«Nel maggio voluttuoso della vita / quando l’anima ferve di entusiasmo / io sento che nel desiderio ardente / la mia fiamma vitale si consuma. / Non un vento che tiepido e dolce / mi sorprenda, mi scompigli i capelli; / oppresso e vuoto, inerte navigante / vago per il silente deserto dell’Oceano. / Chi mi dirà cosa devo fare? / Se valgo qualcosa, se posso tentare? / Se otterrò ciò che devo senza pianto? / Tanta fatica al prezzo di un sudario! / Venite dolci canti, dopo il lungo sonno / infondete coraggio al mio cuore / affinchè non sprofondi nel sogno, / non si perda in passioni sviate».

In mezzo l’aspra polemica con Heinrich Heine, che nei Bagni di Lucca, ne denigra la figura e la sua latente omosessualità, costretta ad essere occultata e dissimulata, nel sistema culturale tedesco del tempo e pagata a caro prezzo («Solo lievi parole avete per giudicarmi, / leggere nel mio cuore non vi è fato: / ah, ogni scherzo è solo oblìo di me, / ogni sorriso pago a caro prezzo»):

«Un animo gentile si esprime solo in forma confacente, e questa la si può apprendere solo dai greci, o dai moderni che tendono alla perfezione greca, pensano alla greca, sentono alla greca, e in tal modo comunicano all’uomo i propri sentimenti”. «All’uomo, s’intende, non alla donna, come sogliono i poeti romantici», osservai» […] «il volume recava sul frontespizio: “Poesie del conte Augusto von Platen”, […] e, sulla pagina interna, la scrittura a svolazzi: «Pegno di calda, fraterna amicizia.».[4]

Già nei Diari, Platen aveva espresso tutta la potenza del dolore cieco, la refrattaria precarietà, il suo amore sperduto per lo studente ventunenne Eduard Schmidtlein e per un primo, iniziale per una giovane nobildonna, la ferita o-scena e irrimediabile dell’indicibile, e il patimento oppresso e muto dell’alterità: «Io vado errando / oppresso e muto / chiedi perchè? / Oh, non lo chiedere! / Troppo dolore / mi opprime il cuore: / come potrei / non esser triste? / Si secca l’albero / smuore il profumo, / le foglie cadono / ingiallite al suolo, / un freddo brivido / irrompe impetuoso: / come potrei non esser triste?».

Lo stesso amore è una scheggia infilata nelle carni, un rimando di sogno e ardore, dove la stoffa onirica sedimenta la materia della poesia, il suo gesto vivente e alchemico che invoca la luce, prima di ogni tempo, e che fronteggia l’anima dispari di Arimane, già messo a fuoco da Leopardi:

«Cos’è che ci consola, che ci dà / voglia e coraggio di indugiare quaggiù? / Noi sogniamo vivendo, / noi viviamo sognando. / Non appena cediamo al sonno / ci abbandona il vano nostro io / e da altre sfere brividi presaghi / accorrono benigni a cullarci. / Dopo aver scontato dure pene / e superato prove dolorose / possiamo sperare di svegliarci / là dove ci addormentammo. / Lasciateci dunque aspirare / con fede e coraggio ai più beati spazi, / perché noi sogniamo vivendo, / perché noi viviamo sognando».

Ma le stagioni più profonde e intense, Platen le vive in Italia. Raggiunge Roma il giorno del suo trentesimo compleanno, Napoli e la costiera (Sorrento, Capri, Paestum, Amalfi, tra il 1827 e il 1834)  nel 1828, e poi ancora il Nord Italia e il Sud, tra Basilicata, Calabria, e l’ultima meta della Sicilia.

Andrea Landolfi scrive:

«l’Italia di Platen […] è minuziosa e minima […]. Libero dalle costrizioni e dalle dissimulazioni impostegli dal proprio ambiente, Platen trova in Italia una sua dimensione all’insegna di un vorace e febbrile attivismo volto a immagazzinare quante più immagini, nozioni, sensazioni, esperienze possibili. Ciò che soprattutto lo attira, accanto alle sopravvivenze dell’Antico, è quella presunta “innocenza” che, a lui come già al Goethe soprattutto siciliano, la tragica arretratezza del paese sembrava garantire».[5]

Camilla Miglio gli fa eco:

«Il suo non fu un Grand tour tradizionale. L’andare a sud non era solo una ricerca di radici culturali, o goethiani ringiovanimenti dell’anima, quanto una fuga. Il suo viaggio si può leggere anche come tentativo di sottrarsi a chi intendeva sorvegliarlo, e soprattutto punirlo, in seguito agli scandali sessuali che ne provocarono l’allontanamento dalla scuola militare e poi dall’università. Classicista ma anche orientalista, era preso dal demone della bellezza e della lontananza (degli antichi greci e latini ma anche dei persiani medioevali, maestri di versificazione erotica)».[6]

Negli anni napoletani e in particolar modo nel settembre del 1834 conosce Giacomo Leopardi e Antonio Ranieri. Alla vista del poeta recanatese scrive:

«Chi conosca Leopardi soltanto delle sue poesie proverà, al vederlo, un certo pavento. Egli è infatti piccolo e gobbo, ha il volto pallido e sofferente e accresce i suoi dolori col modo di vivere, poiché scambia la notte con il giorno e viceversa. Senza potersi muovere né, a causa dello stato dei suoi nervi, impegnarsi in alcuna attività, conduce un’esistenza davvero triste. Tuttavia, conoscendolo più da vicino, la sgradevolezza dell’aspetto scompare al cospetto della raffinata cultura classica e della simpatia della persona».[7]

È una vicinanza di intenti, la misura più vicina alla dismisura che li accomuna.

La stretta congiuntura della ricerca estetica e della forma conclusa, del paesaggio in fieri, lagunare o rurale, del labirinto dell’essere, come iato inscindibile, non riescono a sanare una ferita di sperdimento: un amore totale, un desiderio ineffabile.

I suoi sonetti offrono il gesto chiaro di un mysterium tremendum, che tenta di rifuggire i falsi incanti, la sofferenza e la sparizione, ma che sente il duro e irrefrenabile bisogno di felicità, come cortina inafferrabile.

La sua libertà, promessa e colta come falce, diventa nostalgia, struggimento, bellezza irraggiungibile, come la gloria di Venezia («Perchè dov’è bellezza regna amore / nessuno si dovrà meravigliare / se non saprò nascondere del tutto / che l’anima ho divisa dal tuo amore. / Lo so, mai invecchierà il mio sentimento, / ché s’avvilupperà stretto a Venezia: / sempre dal petto sorgerà un sospiro / per una primavera appena in boccio. / Come può lo straniero ringraziarti / se anche il cuore tuo volle allietarlo / blandendo così in dolci pensieri? / mezzo non v’è che mi avvicini a te, / e solo vedi me muovere il passo / su e giù ogni notte per piazza San Marco»), perduta dentro un sogno di ombre, o di Firenze, anime immobili e respiri di carne:

«Libero io mi vorrei serbare, / nascosto al mondo intero / navigare vorrei su quiete acque, / dall’ombra delle nuvole coperto. / Accompagnato dagli uccelli in volo / dal peso della terra liberarmi, / cullato dal più puro elemento / fuggire gli uomini e le loro colpe. / Solo di rado toccherei la terra / e senza mai lasciare il mio vascello / un bocciolo di rosa coglierei / per ritornare poi subito al largo. / Vedrei da lungi pascolare i greggi, / crescere fiori e rinnovellarsi, / le contadine cogliere le uve, / falciare gli uomini il grano odoroso. / E null’altro godrei che il chiarore / del giorno, eternamente puro, / e una coppa d’acqua fresca, / che mai il sangue possa accendermi».

Il tempo dei Ghazal è un crampo di desiderio. Un sogno straziato, un pendolo continuo dell’io tra la fatalità e la fralezza, la diversità e la bellezza. Quest’ultima avvinta e ricercata, in tutto il suo tremendo e fertile dominio.

In questa ebbrezza, quasi intontita e chiara, si afferma tutta la vertigine della sua salmodia, l’appartenenza al sublime e chiaroscurale movimento dell’essere.

Platen è il poeta della spezzatura sontuosa dell’essere. Il cui regno radicale è quello della Bellezza, della primavera, della fioritura umbratile delle cose e delle sue piaghe.

Come se fosse presente alla tavola dell’amore. Un bacio, una bocca, un fondo di volti e notti estive, che nutrono abbondanze e giovinezze, che sentono la pena del cielo stretto e che diventano canto di ombra spaventosa:

«Se tacere dovrà i propri pensieri, / se la ragione cederà all’insania, / se la mollezza bacerà la sferza / del forte come un sacro scettro: / allora, sazio del variopinto giuoco, / mosso da brezze più serene e pure / il manto deporrà dell’illusione / e dei sensi la tramata veste”. / Esistono due anime che in tutto si comprendano? / Chi scioglierà l’enigma? Chi un’anima affine / di cercare non smetterà fino alla morte, / fino alla morte continuerà a cercare».

Nel 1835, Platen fugge da Napoli in mano al colera (se ne ricorderà Emilio V. Banterle nell’opera teatrale Leopardi. Storia di un’anima) e si imbarca per Palermo, passando per Caltagirone e Segesta. Poi sulla costa orientale, trova ospitalità presso il conte Landolina e qui si ammala di tifo. Gli sarà fatale. Muore il 5 dicembre e viene sepolto nel parco di Villa Landolina (oggi Museo Archeologico) a Siracusa.

Nel 1930, Thomas Mann innalza lo strazio di Platen attraverso un tempo oltre-tempo. Per la sua novella La morte a Venezia, cifra il protagonista chiamandolo Gustav, che oltre ad adombrare Mahler, diviene anche l’anagramma perfetto di August e il suo cognome Aschenbach, non è altro che il suono consonante di Ansbach, la città natale di Platen. Nella luce sirena di Venezia, appoggiato all’orizzonte, guarda ciò che prima sorgeva: le cupole e i campanili del suo sogno. La poesia era compiuta come un tremendo passaggio di bellezza nuda.

[1] Landolfi A., August von Platen o la trappola della bellezza, in Von Platen A., Poesie (1816-1834), cit., pp.11-12.

[2] Von Platen A., Poesie (1816-1834), a cura di Andrea Landolfi, Elliot, Roma 2019.

[3] Landolfi A., cit., p.12.

[4] Heine H., I bagni di Lucca, in Heine A., Italia, impressioni di viaggio, Rizzoli, Milano 1951. Vedi anche  Mayer H., La lite tra Heine e Platen, in I diversi, Garzanti, Milano 1977 (poi 1992), pp. 194-209.

[5] Landolfi A., cit.p.13.

[6] Miglio C., Le strade del desiderio in Heine e Platen, in “Il Manifesto”, 7 settembre 2014.

[7] Von Platen A., Die Tagebücher des Grafen August von Platen, a cura di G. von Laubmann e L. von Scheffler, 2 voll., Stuttgart, Cotta 1896-1900; ristampa anastatica: Hildesheim Olms, 1969, vol. II, p.962.

Von Platen A., Poesie (1816-1834), a cura di Andrea Landolfi, Elliot, pp. , Euro 19,50.

 Von Platen A., Poesie (1816-1834), a cura di Andrea Landolfi, Elliot, Roma 2019.

  • Die Tagebücher des Grafen August von Platen, a cura di von Laubmann e L. von Scheffler, 2 voll., Stuttgart, Cotta 1896-1900; ristampa anastatica: Hildesheim Olms, 1969, vol. II.

Heine H., I bagni di Lucca, in Heine A., Italia, impressioni di viaggio, Rizzoli, Milano 1951.

Mayer H., La lite tra Heine e Platen, in I diversi, Garzanti, Milano 1977 (poi 1992), pp. 194-209.

Miglio C., Le strade del desiderio in Heine e Platen, in “Il Manifesto”, 7 settembre 2014.

La mezzanotte vana di Virginia Woolf e Vita Sackville-West

di Andrea Galgano 26 giugno 2019/ 12-13 luglio 2019 “Cronache Lucane”

leggi in pdf LA MEZZANOTTE VANA DI VIRGINIA WOOLF E VITA SACKWILLE-WEST

LA MEZZANOTTE VANA DI VIRGINIA E VITA

L’amore tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West, le cui lettere, dal 1924 al 1941, vengono pubblicate da Donzelli, in una elegante edizione dal titolo, Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio[1], a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, è un compendio di ardori e di sogni, segreti, intermittenze cifrate, ombre rifratte, intimità sognate e rarefatte:

«Perché se Vita pratica da tempo con nonchalance e senza pruderie una libertà sessuale che le permette di cogliere il piacere in contatti che indifferentemente la portano nel letto di un uomo, più spesso di una donna; se sa distinguere con chiarezza tra la passione travolgente che prova per la femmina d’uomo, e l’amore casto e volto alla riproduzione che vive con un maschio, il marito, di cui è profondamente amica; se, ripeto, Vita è una donna libera che distingue tra due diversi tipi di amore, quello casto, coniugale, e quello passionale; per Virginia è diverso. Virginia è sì una donna libera, indipendente, ma è anche una donna «sessualmente codarda», impaurita, insicura, che del corpo e del piacere sessuale non conosce l’ardimento. Ma quando incontra Vita, «la donna promiscua», ecco che, miracolo dell’amore, affiora in lei un’altra se stessa, e scopre di essere una donna che ama le donne. Sì, grazie alla saffica Vita, Virginia arriva a conoscere l’amour passion. Tardi, ma lo fa, e grande è per lei la sorpresa».[2]

Il respiro di queste pagine innerva una costellazione di libertà e visione. I sospiri, i viaggi di Vita assieme al marito diplomatico Harold Nicolson (Teheran, Sahara, America), le gratitudini indifese e il desiderio segnano cifre di pensieri avvolto, destinano la lettera a ritmare il sangue, rallentare distanze, narrare il territorio della propria finitudine espansa.

Come un incontro con la realtà più lontana, come la scoperta della proprio respiro vitale che riflette l’esistenza, la «comune progenie» della scrittura e delle sue scadenze, l’ancestrale gioia mistica e coribantica di una visita proibita, di una scintilla di occhi e di una stella immensa. Il loro luogo, nato nella differenza di età (Virginia aveva quarant’anni e scriveva Mrs Dalloway), si perpetua in una sceneggiatura di pudore, foga, segreto e passione.

È un amore che tocca la propria genesi, il proprio solco di energia e desiderio florido, di incarnato fulgido e virgineo, e che scrive la nostalgia e si orienta nelle tenebre, curando gli anditi della letteratura (che non diviene sterile esercizio ma tellurica materia da incidere), come sostiene Nadia Fusini,

«per darsi un appuntamento, per scusarsi dell’assenza, per rimproverarsi di un ritardo; e in ogni caso è l’amore della lingua, che trionfa. Il gusto dei soprannomi, la fantasia delle maschere di animali con cui si travestono, i sottintesi, le allusioni, i silenzi pudichi e le metafore ardite che inventano per dare corpo di parola alle loro emozioni, sono tutti qui, in bella evidenza, in queste lettere di due women in love, di queste due donne innamorate».[3]

La luminosa e remota vicinanza è stordimento di emozioni, voracità di bellezza, stordimento e paura.

«Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia. Stanotte avevo composto per te una lettera bellissima, nelle ore insonni, piene di incubi, ma è tutta sparita: mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano. Tu con tutte le tue lettere intelligenti, non scriveresti mai una frase così elementare; probabilmente non la concepiresti nemmeno in questi termini. Eppure credo che sentirai un piccolo vuoto. Ma lo apparecchieresti in una frase così bella, che finirebbe per perdere un po’ della sua verità. Mentre per me è totale: mi manchi più di quanto potessi credere; ed ero preparata a sentire la tua mancanza, parecchio. Così, in verità, questa lettera è solo un grido di dolore. È incredibile quanto tu sia diventata essenziale per me. Immagino che tu sia abituata a sentirti dire cose del genere dalle persone. Maledetta te, creatura viziata. Non riuscirò a farmi amare di più da te, scoprendomi fino a questo punto – ma tesoro mio, non posso essere furba e distaccata con te: ti amo troppo per farlo. Troppo sinceramente. Tu non hai idea di quanto posso essere scostante con le persone che non amo. Ne ho fatto un’arte sottile. Ma tu hai fatto a pezzi le mie difese».[4]

In quella incarnazione purpurea e femminile, Vita è l’insondabile piega opulenta della realtà, la donna che, proprio in quanto donna, porta con sé l’archetipo della possibilità. Essere primavera e splendore di tenebra. Virginia l’attende come un rovescio rorido di acqua bassa («Per favore, in mezzo a tutta questa baraonda, continua a essere una stella luminosa e costante. Davvero poche cose rimangono a indicare la strada: la poesia, e tu, e la solitudine[5], scriverà Vita a Virginia»), eterea intelligenza di cristallo e incanto, come un lungo abisso splendente e sacro che teme l’oscurità radente della sua amata e ne è pervicacemente avvinta, pur manifestando una sorta di distacco quasi febbrile. Un daimon: «Creatura carissima, era molto molto bella la lettera che hai scritto alla luce delle stelle a mezzanotte. Scrivi sempre a quell’ora, perché il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi. Da qualche parte ho visto una pallina che continuava a saltare su e giù sul getto di una fontana: tu sei la fontana, io la pallina. È una sensazione che mi dai solo tu[6]».

Ma è lei a compiere il primo gesto sul divano che esplode nella stanza. Non c’è resistenza. Solo la prima unione e l’ingresso in un mondo nuovo. Le irresistibili e giocose metamorfosi di Vita e il desiderio per lei continuo e viscerale, quello che toglie l’anima e, allo stesso tempo, la fa diventare corpo. Vita è per Virginia un fuoco immenso che abita antiche epoche inoltrate:

«Il fascino per quel mondo antico c’entra con l’attrazione che prova per Vita. L’attrazione ha molto a che fare, le pare, con quella profondità storica che sente alle spalle di Vita. Ma c’è anche dell’altro, e di che altro si tratti, prova a spiegarselo. Si auto-analizza13: forse è per puro egoismo, per puro narcisismo che ama Vita: le piace l’idea di piacere a Vita. Ama non Vita, ma il fatto che Vita l’ami. Puro egoismo. Ma è un fatto, pur sempre un fatto che si tratta di un affair ardente, focoso, travolgente. E insieme innocente, giocoso. La verità incontrovertibile è che quando è con Vita si sente completamente e assolutamente felice. Si sente agile, sciolta, trasportata dalla sua energia, quasi fosse una pallina in acrobatico equilibrio sul getto di una fontana, o un bebè a cui venga offerto del latte zuccherato».[7]

Pietro Citati scrive:

«Virginia Woolf incontrò per la prima volta Vita Sackville-West il 14 dicembre 1922; e la invitò a casa sua a Richmond l’11 gennaio 1923, quando le fece visitare la Hogarth Press, la piccola casa editrice che apparteneva a lei e a suo marito Leonard. Da principio, Virginia era diffidente. Ma le piacquero moltissimo le gambe di Vita: quelle esili colonne o quelle betulle, che si slanciavano trionfalmente verso il tronco, piatto come quello d’ un corazziere. Le piacque il volto, simile a uva matura: il labbro sporgente, la peluria di pesca che velava l’incarnato della guancia: l’aria opulenta, la collana di perle, i brillanti, sgargianti colori dei vestiti; e le viole inumidite degli occhi. Quella donna risvegliava in lei l’impressione di un tempo molto antico: l’Inghilterra elisabettiana e shakespeariana, con i suoi castelli, i suoi cavalli, i suoi cani, le sue cacce a perdifiato, le sue passioni incandescenti».[8]

Per i quindici anni della loro storia, Vita e Virginia sono fuochi di stanze osmotiche. Nella lussuria incandescente e nella gioia umbratile, nella furia incendiaria e nella trasparenza centrale, e oltre le regole borghesi, vibra l’ignota destinazione del sangue e la protezione reciproca, in ogni luogo del possibile e dell’inviolabile, come una carezza insonne e perpetua: nella casa dei Woolf a Londra o nella campagna a Rodmell, nelle case di Vita, a Long Barn, Sissinghurst, nel castello di Knole o in Francia.

Vi sono assenze di «giorni sottolineati» e distanze che sembrano attese eterne («Non mi scrivi mai e la tua immagine s’è rimpicciolita nella distanza come l’ombra pallidissima della luna vecchia: ma proprio mentre Vita stava per svanire, è apparso un sottile spicchio d’argento, e ora pendi sulla mia vita come una falce[9]») , nomi-bestiari per ridisegnare il mondo, la forza di Eros che travolge, le infedeltà di Vita e la gelosia di Virginia (chiamerà le amanti di lei «letargiche ostriche oscene e lascive»).

Virginia ridisegna le linee del loro amore. Orlando è il deposito di un mutamento affettivo, la trama arguta e sottile di una linea nuova.

Nadia Fusini scrive:

«Virginia, la scrittrice, prova a slacciarsi dai lacci della seduzione, grazie alla potenza dell’unico potere che è suo, quello dell’immaginazione creativa. S’inventa la «sua» Vita. Sostituisce Mrs Nicolson con una creatura di sua invenzione, ne fa un doppione, un golem infinitamente più affascinante della persona umana. Il personaggio di Orlando è questo. È la Vita di Virginia. Tutta sua. Trasformandosi in un redivivo Minnesänger, Virginia canta l’amata in quella «fantasia» scherzosa – quel divertissement sublime che è Orlando, dove con eccelsa ironia attacca gli stereotipi di genere e descrive le avventure di un personaggio, che è Vita, che nasce maschio nel Cinquecento e diventa femmina nel Settecento e attraversa con scanzonata allegria i secoli, fino al 1928, anno della pubblicazione del romanzo».[10]

Irene Battaglini afferma:

«Non ci sono presupposti morali sufficienti per stabilire se un amore sia autentico oppure no; a maggior ragione non è possibile stilare un codice di trascrizione psicoanalitica dell’amore, che è e deve restare un mistero nell’enclave intrisa di segreto e di simbolo, secondo una chiave di decrittazione nota – solo, e forse neppure a loro stessi – agli amanti. Tuttavia un così ricco e colto, ironico e smascherato, ricorso all’eros per fare della letteratura il cuore trascendente tra Vita e Virginia, può essere anche ricollocato in una lettura di transfert, con la dovuta delicatezza, con il rispetto per quel segreto inespresso, che si è avvalso della metafora epistolare per essere non tanto detto, quanto mostrato, tra le maglie sgranate di un tempo in cui il dialogo amoroso tra due donne era da considerarsi un segno chiaro di eversione, di devianza sociale. Per questo Virginia sceglie la strada della speculazione letteraria, mentre Vita la via del potere e della seduzione. Lo scenario tra Vita e Virginia è solo apparentemente saffico. È almeno parzialmente legato all’evocazione di un transfert plurimo e condensato, in cui maschile e femminile non sono che versanti di un grande archetipo primigenio, di un amore primario che sembra più vicino ad uno stadio avanzato della seduzione narcisistica di Racamier tra madre-figlia, oltre che alla matrice – edipica, incestuale? – di un attaccamento più o meno declinato intorno alla dialettica oggettuale tra distanza-avvicinamento, tra evitamento ed accostamento, tra eccitazione e gratificazione, in un desiderio riconosciuto e chiesto, ma mai esploso, mai confermato dalla parola chiara: ma sempre sotto lo scacco della rivelazione ai limiti del possibile (oltreché del concesso). È questo che rende a tratti perverso un elemento che sarebbe altrimenti carico di bellezza e poesia, di Amore: il non-sapersi dire a loro stesse, in un tra-noi che rinuncia alla metafora ellittica. Il non sapersi dire amanti, ma solamente sfiorati dall’amore, che sembra invece un giocare un ruolo di sfondo, di orizzonte. Un forse verso il destino, attratto dalle vele di un vento sempre e solo immaginato, che non porta a navigare ma a tessere, issare, calare le vele senza mai solcare la rotta: un mare che così, non può tradire. Ad una lettura profana, è Virginia a cadere nell’inganno della donna di mondo Vita, abile manipolatrice delle pulsioni erotiche di femmine acerbe e opportuniste che mettessero in risalto la sua bellezza androgina e sovrana. Ma Virginia sa bene di essere sola, di essere oggetto di quelle pulsioni e contenitore regolativo, e lo fa attraverso un discorso interno in cui Vita è presa a prestito dal suo genio letterario, per rendere omaggio nelle sue opere non tanto a Vita (e ai suoi tentativi goffi di elevarsi ad amante di rango di una delle più grandi scrittrici del suo tempo) quanto all’Amore Perduto, per la madre che nel cuore non ebbe mai, forse, quel linguaggio di amore che Vita spacciò per oscena tenerezza. Per questo, parafrasando Emily Dickinson, non si può dire che questo amore sia stato vano».[11]

Le fughe, gli allontanamenti, le riappacificazioni sono materia vivente anche sotto le bombe, tra doni di burro dal sapore di rugiada e miele e patè, e quello mancato dei pappagallini che lasciano. Il cuore dell’esistenza è fatto di mani, però, che si avvicinano e si raggiungono, fino all’ultimo e all’acqua gelida dell’Ouse: «Mi hai dato tanta felicità» e Vita, subito dopo, le scrive, come penna strappata al cigno:

«Tesoro, quanto mi ha commossa la tua lettera stamattina. Mi è quasi caduta una lacrima dentro l’uovo in camicia. Le tue rare dimostrazioni d’affetto hanno sempre avuto il potere di emozionarmi moltissimo e – siccome suppongo che in questi giorni siamo tutti un po’ tesi (più che altro inconsciamente) – oggi mi arrivano in picchiata, dritte al cuore, come un proiettile che sbatte sul tetto. Ti amo anch’io. Lo sai».[12]

[1] Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, Roma 2019.

[2] Fusini N., Due donne in amore, in Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte, cit., p.9.

[3] Id., cit., p.9.

[4] Lettera di Vita a Virginia, 21 gennaio 1926, Milano, spedita da Trieste; infra, p. 63.

[5] Lettera di Vita a Virginia, 8 gennaio 1926, Long Barn; infra, p.62.

[6] Lettera di Virginia a Vita, 7 ottobre 1928; infra, p.176..

[7] Fusini N., cit., p.17.

[8] Citati P., Il mio amore con Virginia Woolf, in “La Repubblica”, 27 agosto 2002.

[9] Lettera di Virginia a Vita, 29 dicembre 1928; infra, p.180.

[10] Fusini N., cit., p. 19

[11] Battaglini I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato – Padova, a.a.  2018-2019.

[12] Lettera di Vita del 1° settembre 1940; infra, p. 249.

Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, pp. 304, Euro 24,00.

 

Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, Roma 2019.

Battaglini I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato – Padova, a.a.  2018-2019.

Benini A., Lettere rubate, in “Il Foglio”, 23 marzo 2019.

Bentivoglio L., Cara Virginia, Scrivimi ancora, “ La Repubblica – Robinson”, 12 maggio 2019.

Citati P., Il mio amore con Virginia Woolf, in “La Repubblica”, 27 agosto 2002.

Franco T., Strappa una penna al cigno!, in “Il Sole 24ore”, 9 giugno 2019.

Marzi L., Se sapessimo tessere il tempo, in “Letterate Magazine”, 20 maggio 2019.

Pigliaru A., Vita e Virginia, nel cuore delle parole, in “Il Manifesto”, 15 maggio 2019.

Note critiche a “Non vogliono morire questi canneti” di Andrea Galgano

di Diego Baldassarre

17 giugno 2019

Leggi in Pdf Nota a Non vogliono morire questi canneti

L’ultima opera di Andrea Galgano “Non vogliono morire questi canneti” è una silloge poetica che mostra come l’autore sappia mescolare attentamente modernità e linguaggio poetico classico. Leggendolo si sente prepotente la forza evocativa di D’Annunzio ma anche l’insegnamento filosofico di Leopardi.

Già dal titolo si può evincere l’influenza del poeta di Recanati. I canneti come metafora di frapposizione tra interiore ed esteriore che già caratterizzava la “siepe” dell’Infinito.

Canneti, cresciuti tra la sabbia della spiaggia e il mare, che simboleggiano anche quel limbo dove il poeta sovente si pone. Uno spazio angusto eppure immenso da cui osservare in ogni direzione.

E non vogliono morire questi canneti, nonostante la siccità della vita ordinaria o le alluvioni della vita interiore.

Il libro si compone di tre sezioni.

La prima, intitolata “Cartografie”, ci presenta una serie di acquerelli poetici che trattano di strade (Via del Popolo(PZ); Via Lillo; Via Gioberti e Via Panzani a Firenze) e di luoghi della memoria affettiva legati a Maratea e al Golfo di Policastro, con tutti i colori di un mare che ad ogni ora del giorno pervade ogni poesia con il suo panorama esteriore e interiore.

Tra questi dipinti poetici spiccano, come soggetto, anche molte città care all’autore. E sono tutte città di mare. Quasi a voler sottolineare  quel rapporto tra realtà e anima che l’acqua suggerisce. Infatti troviamo Livorno dove “ … l’anima terrazza / ha balaustre e scacchi di albe / sul sibilo dei porti,/ sulle cale di Calafuria …” ma anche San Pietroburgo, il luogo in cui “… le sponde della Neva / vibrano di sangue notturno / e il lampo della luce genitrice, / la gloria dell’oro di sant’Isacco / che scorta i nugoli rossi / di bionde e magre matriosche…”; e poi Rimini in cui “… la terra di sale delle darsene / sostiene i moli trasparenti / e i crepuscoli della stazione …” e ancora il sole di Salerno che inonda la città e il golfo; ma anche Marsiglia con le sue case d’avorio.

Questa sezione è un viaggio che Andrea Galgano percorre con le sue parole e in cui trascina  per mano il lettore, avvolgendolo con  i colori e le emozioni che ha vissuto. E nel descrivere i luoghi utilizza lo stesso sguardo esterno che porta verso l’interno proprio del pittore  Edward Hopper  a cui  ha dedicato la poesia “Monopoli”.

La seconda sezione “Je suis un autre” sembra quasi una parafrasi del “Je est un autre” di Rimbaud.

Ma al contrario del poeta francese qui l’Io non è impotente di fronte al pensiero ma è il pensiero stesso che si immedesima in altri “Io”.

E troviamo personaggi che hanno attraversato l’immaginario del poeta, attori come Massimo Troisi o Paolo Villaggio, ma anche cantanti come Mango e Jannacci e persino un giocatore simbolo della sua generazione quale Paolo Maldini.

Sempre in questa sezione troviamo anche l’aspetto più religioso dell’autore. Dio e la fede si affacciano tra le pagine del libro nei ritratti di Don Giussani, e di altre persone che in un modo o nell’altro hanno significato qualcosa di spiritualmente importante per il poeta come “ Mancusedda” , “Anna Antonia” , “ Michele”, “Mel”.

L’immedesimazione dell’autore prosegue in questa sezione con i quadri dell’amica pittrice  Irene Battaglini  (“Tra bore” e “Dioniso in esilio”), e con la fotografia di Renato Maffione (“La donna ospite”). Il tutto a sottolineare ancora una volta  un rapporto strettissimo tra Andrea Galgano e l’arte figurativa.

L’ultima sezione “Algoritmi” è la sezione più intimistica dell’autore. Sono 7 poesie in cui l’io poetico non parla a se stesso ma a qualcun altro. Sono poesie affettive ricolme di passioni colorate, malinconiche eppure vivaci nel descrivere un sentimento antico e profondo quale è l’amore.

La poesia che chiude la raccolta, forse la più ricca di suggestioni dell’intera silloge, è  il suggello ad un libro che può essere considerato come l’approdo di Andrea Galgano alla propria maturità poetica.

Il cielo crisalide di novembre

apre la tenebra

e il temporale sui pioppi tremuli

lo spiraglio del viale che trepida

e il tuo cappello viola

 

sembrò venire

dagli altipiani

il rovaio sulle eriche,

il lungo sorriso

come un damasco di nebbia

 

fece chinare gli occhi

il tremore di essere due

le mani che principiavano

gli uccelli e le camelie

 

le nostre uve bionde

e il sigillo delle brine

 

il taglio del nudo mondo

ci insegue

nei muri spezzati

 

è grazia

è terra.

Il cuore australe di Pablo Neruda

di Andrea Galgano 23 maggio 2019

leggi in pdf  IL CUORE AUSTRALE DI PABLO NERUDA

R

L’intenso saggio di Gabriele Morelli, Neruda[1], appena edito da Salerno Editrice, nella collana Sestante, permette di guardare alla vibrante e vertiginosa consegna della poesia nerudiana, attraverso uno studio che si mette al servizio dei suoi transiti elementari, custodendone la forza e l’abbandono.

La materia di Neruda è un solco primigenio di ombre lucenti. La danza della pioggia australe di Temuco condensa i suoi petali oscuri, il tempio selvaggio della natura, i mantelli dei compagni ferrovieri del padre, l’immagina india di Gabriela Mistral, il legno della casa, la calura estiva e il mare come un universo d’acqua,

«alberi, insetti e oggetti di uso comune, come le scarpe consunte, i vestiti logori e bagnati, immagini che restituiscono contatto e calore umano nella solitudine del vasto e desolato panorama della selva australe. Colpisce e sgomenta il piccolo Neftalì il rumore delle tavole scosse dal vento e il sibilo lontano del treno condotto dal padre, che corre sbuffando lungo le radure del bosco».[2]

È il suo pianeta di terra e di notti oceaniche dove regna il vento, di albe solitarie sui frutteti verdi come un lungo fondo di chiarità e stupore. E poi la rincorsa dello pseudonimo, trovato per caso su una rivista, che parlava del poeta praghese Jan Neruda, che diventa la destinazione del suo sangue. Il ragazzo iperestesico scrive il suo Crepusculario di infanzie perdute come fragranze di sogni che tremolano sotto il cielo di seta e il vento, il mare, «i fiammeggianti crepuscoli sono immagini che aprono il primo spazio biografico del giovane Neruda, già cosciente dell’importanza del linguaggio creativo, ma anche preoccupato per un futuro senza speranza[3]», e l’amore infinito per Albertina Rosa Azócar (Marisombra), Terra Vàsquez (Terusa), Marìa Parodi, Laura Arruè, una terra straniera che fa terminare l’infanzia e la forma dell’adolescenza, mostra il senso del limite e la solitudine, il diario dei crepuscoli, la prima luce dell’alba e l’idillio della provincia incantata, che segnano la scrittura dell’anima come una coltre di lettere: «Oh amore / dalla prima luce dell’alba, / del rovente mezzogiorno / e delle sue lance, / amore con tutto il cielo / goccia a goccia / quando la notte passa / per il mondo / con il suo intero naviglio, / oh amore / di solitudine / adolescente».

Nel libro Veinte poemas de amor, Neruda confonde soggetto e oggetto in una fatidica alternanza[4], e, dunque, la poesia diventa la rivelazione di una pienezza oppositiva che combatte il dolore, l’angoscia, la penuria.

È l’inizio del suo simbolismo maturo che diventa rarefazione di immagine. Marina, soprattutto, ma anche immagine di donna plasmata dalla natura, che diviene equorea e madreperlacea, lunare e ricolma di attese vigili, come l’azzurro delle notti che mescolano tessuto urbano e estuari di sogno, oceani e grida. È la dilatazione vergine dello spazio, proteso alla sensualità, al nostos, alla tensione creazionista, ai colori come vertigini iconiche.

Il silenzio dell’amore è un anello di stelle, gli occhi volano via, la voce è assente, un bacio che chiude la bocca, un respiro di sorrisi lontani:

«Mi piaci quando taci perché sei come assente, / e mi senti da lontano, e la mia voce non ti tocca. / Sembra che gli occhi siano volati via / e sembra che un bacio ti abbia chiuso la bocca. / […] Lascia che ti parli anche con il tuo silenzio / chiaro come una lampada, semplice come un anello. / sei come la notte, silenziosa e piena di stelle. / Il tuo silenzio è di stella, così lontano e semplice. / Mi piaci quando taci perché sei come assente. / Distante e dolorosa come se fossi morta. / Una parola allora, un sorriso bastano. / E sono felice, felice che non sia vero».

Il corpo della donna amata è il corpo del mondo. Ed ecco che l’io. lacerato e contuso, raggiunge la bellezza o-scena dell’essere, l’inappagamento straziato dell’inafferrabilità e il ricordo lontano e naufrago, come i falò pallidi che si agitano ai bordi delle notti.

L’Oriente di Neruda, poi, è l’abisso smagato e lucido, l’epifania fragrante della realtà, la gemma vivente e sola: «E salpai per i mari ai porti. / Il mondo fra le gru / e le cantine della sordida riva / mostrò nelle sue crepe ciurme e mendicanti, / gruppi di spettrali affamati / sulle fiancate delle navi».

Oriente è anche Borges[5], vicino e distante, allo stesso tempo, l’Europa di Madrid e Guillermo de Torre, Parigi e la nudità incaica della parola di Cesar Vallejo, la comunione e la libertà con Federico García Lorca come un lampo, e il duro bacio selvaggio del suono della femminilità.

In Residencia en la tierra, la lunga enumerazione della realtà, il caos archetipico, l’intuizione percettiva del mondo, gli oggetti senza risposta testimoniano la cifra di un viaggio oscuro in una vastità che incombe, sgretolando, in un mistero che è frattura di pienezza e di intimità. È un punto di crisi tra la cosa e la parola che sfugge, tra l’io e le sue relazioni, tra il corpo e la sua consistenza nel reale. Il suo dolore ancestrale è un pianto sgranato che reca stanchezza e scarto come un tango vedovo: «Per questo il giorno il lunedì arde come il petrolio / quando mi vede arrivare con la mia faccia da carcerato, / e ulula nel suo corso come una ruota ferita, / e muove passi di sangue caldo verso la notte».

Con la vittoria di Franco ha inizio la grande diaspora degli esuli repubblicani che sono costretti a fuggire dalla Spagna alla ricerca di rifugio nell’America del Sud. La Spagna è, per il poeta, la genesi delle sue radici. Lo sarà anche il suo impegno politico, la ricerca della primordialità umana, la vertigine tellurica ed elementare e il soffio divino, e la linea di un amore: Delia del Carril: «Delia fra tante foglie / dell’albero della vita, / la tua presenza / nel fuoco, / la tua virtù / di rugiada: / nel vento iracondo / una colomba».

La residuata vitalità di Neruda è una vibrazione di accumulo, di detrito e trasfusione immaginativa[6], dove il quotidiano e il suo sconvolgimento semantico affermano lacerazioni e luci, vastità di oceano e amorose, percezioni di senso estremo e impulso, sinfonia di suono e derive di inconscio.

Poi la furia e la pena, la disperazione della Terceira Residencia, dove la denudazione istintuale, il ricordo dell’amore selvaggio, l’oblio, i margini e il dispendio isolato del mondo, i lillà. La sua materia è il vivente, ciò che si libera e ciò che è sente il limite e anche il suo calore, la sua sperduta forma ostinata, gli oggetti  e le superfici di un coro di sangue e terra di umide viole.

Gabriele Morelli afferma: «Il processo immaginativo di Pablo Neruda è ancestrale e cosmico, guarda al caos primigenio del mondo e all’atto della trasformazione della materia, teso a oggettivare il flusso dell’io lirico mediante una profonda indagine metafisica[7]».

Il Canto general (1950) nasce nella difficoltà della fuga, dopo l’ordine emanato dal presidente Gabriel Videla, di arresto e prigione. Fuggiasco, braccato come la primigenia e cosmogonica natura dell’America, il tempo della storia e la sua epica. Un deposito mitico che restituisce un territorio arcaico e oracolare, un passato popolato e scandito dalla coltre autentica dei passaggi. È una domanda sofferta che ama il fondo della terra, che lotta contro le ingiustizie e i soprusi, che narra lo spazio australe della nominazione, la forza elementare della realtà e della creazione, come ciò che forma l’oscurità spezzata e il baluginio di ciò che vive, si nutre, palpa pietre notturne, diventa tremula voce di frontiera, la tenue ombra di donna e la sua luce d’universo.

Il discusso premio Stalin del 1953, la sua vicinanza al dittatore, testimoniata nell’ode di commiato dopo la sua morte (salvo poi riconoscere i sui tremendi crimini), e l’adesione al comunismo, come sostiene Alfonso Berardinelli, coinvolgono

«tanto il problema sociale latino-americano che quello del rapporto tra poesia moderna e pubblico. Neruda non aveva ragioni per temere personalmente “il terrore staliniano; quello che ha fatto, lo ha fatto volontariamente”. Non aveva neppure bisogno di opportunismo, perché la sua carriera diplomatica sarebbe stata facile e promettente. In realtà, diventare comunista gli avrebbe complicato la vita. Non era neppure un uomo portato alla fede. Ma alle spalle aveva società latino-americane impoverite, strapiene di diseredati e in cui la democrazia liberale era solo fatta di parole».[8]

Las uvas y el viento misurano il turgore attraverso lo spasmo del tempo, le mani, i contrafforti lunari e Matilde. Il fiore e la bellezza, il mito e la purezza elementare.

Le Odas elementales (1954) rivelano oggetti a riposo, superfici consumate, impurità umane confuse, atti sconci di veglie e sguardi, tersità di azzurri e cortine primordiali[9]: «Odi / di tutti / i colori e grandezze, / serafiche, azzurre / o violente, / per mangiare, / per ballare, / per seguire le impronte sulla sabbia, / per essere e non essere». La semplicità di Neruda è il suo cosmo battuto dalla essenzialità trasparente e dalla inquietudine.

È il suo vocabolario e inventario di sogno vegetale e animale, il dialogo del tempo, simbolico e allegorico, il corpo a corpo con gli elementi, il cibo, le conchiglie. Neruda attraverso la sua profondità elementare coinvolge l’intimità percettiva, la concretezza corposa e luminosa dell’essere, la sontuosità di linee e colori, il colloquio, la lotta.

Extravagario (1958) indica un «ripiegamento, non certo una rinuncia ma uno spazio più attento alla vita, dettato dalla nuova vicenda sentimentale» (p.226) e «registra anche numerosi momenti di dubbio provenienti da lacerazioni che si coagulano in continue domande. Il poeta risponde assumendo su di sé, sull’altra parte inesplorata dell’io, il segno di un comportamento ambivalente, frutto della duplice personalità[10]». Matilde è la cerimonia piovosa dell’argilla e il cuore festoso delle regioni dure, le delizie rosate, il suo corpo dei suoi petali oscuri che costruiscono l’anima. Il poeta vuole il silenzio mentre le cose si risolvono e il suo navigante stravagario che vive nella fragile precarietà, che solleva canti di gesta (da Fidel Castro al guerrillero Che Guevara) e frumento nero quando gli occhi misurano la prateria e cercano l’oscurità, aprendo al mare le porte rotte.

Memorial de Isla Negra (1963) è un abisso germinativo di conoscenza del mondo e di se stessi: il grano che ondeggia sul pendio, l’odore di legname, il rumore della pioggia, l’odore dei boschi, l’infanzia. Vi sono amori che passano e sorgenti di lune, gli anni della lotta politica, il peso dell’aroma. È la sua luce errante come lucciola nella notte e luna oscura di eclisse. La memoria è la grazia, la terra.

La rosa nuda della domanda, i limiti della parola che si riversano nella totalità. L’amore che innalza, il cielo inquieto della natura, lo spazio edenico, la sua fabula di fascino e destino che è in esplorazione, dolore, simmetria  luminosa delle direzioni divine, nascita e domanda: «la domanda nerudiana non vuole essere l’incarnazione pura, sovrumana del senso dell’universo, ma l’esperienza esistente del suo incessante movimento. Anela ad essere l’onda che partecipa all’inquietudine dell’oceano[11]».

È la sua fluttuazione, il senso della fine, la vertigine infruttuosa di ogni geografia, perché la poesia possa essere oltre-misura, dono ontico al mondo e  vita che si espone e si porge come amore finale e corposo.

 

[1] Morelli G., Neruda, Salerno Editrice, Roma 2019.

[2] Ivi, pp.17-18.

[3] Ivi, p.24.

[4] Neruda entre modernidad y postmodernidad, in Los Premios Nobel de Literatura Hispanoaméricanos, ed. de L.Íñigo Madrigal, Genève, Fundación Patiño, 1994, pp.35-36, pp.40-41.

[5] Barrientos J.J., Borges y Neruda, in «Revista de la universidad de México», 2011.

[6] Alonso A., Poesía y estilo de Pablo Neruda, Sudamericana, Buenos Aires 1966.

[7] Morelli G., cit, p.120.

[8] Berardinelli A., Il fallimento di Pablo Neruda, poeta che riuscì a mutilarsi con le proprie mani, in “Il Foglio”, 23 maggio 2019.

[9] Loyola H., Loyola H., Los textos: algunas observaciones dans (Notas Estravagario), De «Odas elementales» a «Memorial de Isla Negra» 1954-1964, (Obras completas, Tomo II), Edición de Hernán Loyola, Galaxia Gutemberg, Barcelona 1999, p.1352.

[10] Ivi, p.226.

[11] Sicard A., Lo breve y lo interminable (A propósito del ‘Libro de la preguntas’ de Pablo Neruda), in « Nerudiana », 1 1995, p.153.

Morelli., Neruda, Salerno Editrice, Roma 2019, pp.315, Euro 21.

Alonso A., Poesía y estilo de Pablo Neruda, Sudamericana, Buenos Aires 1966.

Barrientos J.J., Borges y Neruda, in «Revista de la universidad de México», 2011.

Rodríguez Monegal E., Neruda: el viajero immóvil, Monte Aviles, Caracas 1976.

Berardinelli A., Il fallimento di Pablo Neruda, poeta che riuscì a mutilarsi con le proprie mani, in “Il Foglio”, 23 maggio 2019.

Cortázar J., Neruda entre nosotros, in «Plural», 30 1974.

Favale E., Neruda raccontato da Gabriele Morelli (www.linkiesta.it/it/blog-post/2019/05/18/neruda-raccontato-da-gabriele-morelli-intervista/28029/?fbclid=IwAR1025cw-tzN7mEKP9vulFgjvra12e7qdHgCx_B7J7A18dnODOu_AJNT7eQ), 18 maggio 2019.

Loyola H., Los textos: algunas observaciones dans (Notas Estravagario), De «Odas elementales» a «Memorial de Isla Negra» 1954-1964, (Obras completas, Tomo II), Edición de Hernán Loyola, Galaxia Gutemberg, Barcelona 1999.

  • El joven Neruda (1904-1935), Lumen, Santiago de Chile 2014.

Neruda entre modernidad y postmodernidad, in Los Premios Nobel de Literatura Hispanoaméricanos, ed. de L.Íñigo Madrigal, Genève, Fundación Patiño, 1994, pp.35-36, pp.40-41.

Sicard A., Lo breve y lo interminable (A propósito del ‘Libro de la preguntas’ de Pablo Neruda), in « Nerudiana », 1 1995.

 

Lapo Gianni: la fragile gioia

di Andrea Galgano 23 aprile 2019

leggi in pdf LAPO GIANNI. LA FRAGILE GIOIA

La figura di Lapo Gianni (XIII-XIV sec., morto dopo il 1328) è stata contornata, nei secoli, da poca chiarezza. Non solo per le ipotesi e i dubbi sul suo riconoscimento in Ser Lapo Gianni Ricevuti, fiorentino, «imperiali auctoritate iudex ordinarius et notarius publicus» («per autorità imperiale giudice ordinario e pubblico notaio», come firmò in una pergamena del 2 febbraio 1300), che rogò atti dal 1298 al 1328 tra Firenze, Bologna, Cortona, nel Casentino e a Venezia, e intrattenendo importanti relazioni d’affari col poeta e notaio Francesco da Barberino, autore dei Documenti d’Amore e del Reggimento e costumi di donna,  quanto, come afferma Roberto Rea, nella recente edizione critica delle Rime[1] di Lapo, edita da Salerno, «per l’incerto statuto della sua lirica, collocata dagli studiosi ora al di qua ora al di là della novità del dolce stile, e gravata, inoltre, dalla diffidenza espressa dagli amici di un tempo nei sonetti Se vedi Amore e Amore e monna Lagia[2]».

L’orbita cavalcantiana e l’influsso dantesco, come già espresso da Contini[3], percepito in reciprocità, il possibile amore di lui per una monna Lagia (o Alagia ossia Adelasia) consentono di soffermarci sull’intensità di quel movimento lirico fiorentino chiamato Stilnovo, realtà storica viva e «nodo critico e decisivo della nostra storia letteraria[4]», come sostiene Mario Marti.

Il sodalizio con Guido Cavalcanti, per la verità più nascosto e onirico, e Dante si esprime nel sonetto Guido, i’ vorrei, in cui quest’ultimo, come afferma Roberto Rea,

«colloca Lapo sul medesimo piano del primo amico, rinunciando a qualsiasi gerarchia, affettiva e intellettuale. Benché il destinatario non possa essere che Guido, il sogno dantesco di evasione presuppone, come prescritto dall’ideale classico dell’amicitia intesa come idem velle, la piena corrispondenza ed eguaglianza tra i tre poeti, di cui è emblematico il corale noi collocato a sigillo dell’ultimo verso». Nel De Vulgari Eloquentia (I, 13), inoltre, pur senza qualche controversia di attribuzione, viene citato tra coloro che «vulgaris excellentiam cognovisse sentimus».

In tale eccellenza, se da una parte convergono i topoi cari alla figuralità stilnovistica, dall’altro si evidenziano come questi temi possano essere sottoposti a una sorta di alleggerimento attenuato e di una sovraesposizione meno marcata. Le 17 poesie (11 ballate, 3 canzoni, 2 stanze di canzone e sonetto doppio caudato) testimoniano la sua vigile predilezione per la ballata, non solo nell’eco dantesca e nell’apprendistato cortese.

L’intercessione di Amore, signore assoluto, presso la donna è un lacerto di gioia. Una sorta di meta ultima, sorta dall’inquietudine e permeata dal perdono. Amore si presenta come lenimento delle pene e dei tormenti e si muove a pietà, intercedendo in favore dell’amante, suo servitore fedele. La donna così concede la propria benevolenza, liberando l’amato dai vincoli angusti del dolore e degli occhi coperti, con cortesia affabile e giustizia. Il cuore sarà riportato. Rimanga saldo l’amore buono e puro e degno di lode:

«Eo sono Amor, che per mia libertate / venuto sono a voi, donna piagente, / ch’al meo leal servente / sue greve pene deggiate lenare. / Madonna, e’ no mi manda, e questo è certo; / ma io, vedendo ’l su’ forte penare / e l’angosciar che ’l tene in malenanza, / mi mossi con pietanza a voi vegnendo: / ché sempr’e’ tene lo viso coverto, / e gli occhi suoi non finan di plorare / e lamentar di sua debol possanza, / merzede a la su’ amanza e me cherendo. / Per voi non mora, po’ ch’io lo difendo; / mostrate inver’ di lui vostr’allegranza, / sì ch’aggia beninanza. / Merzé: se ’l fate, ancor poria campare».

Il ringraziamento per l’intercessione si cadenza nel battito delle rime, che seguono l’alternarsi di allegranza e benenanza, asservite al dio benevolo, che dà valore all’innamoramento, che ha permesso di riacquistare il cuore «in perdenza», e attraverso gli appelli verso gli altri amanti che possano, così, condividere il bagliore di questa esperienza.

In Gentil donna cortese e dibonare si assiste a una frattura. Il poeta ha rivelato la sua gioia d’amore, sottraendosi, con colpa, all’obbligo di recare riservatezza e onore all’amata:

«Gentil donna cortese e dibonare, / di cui Amor mi fè primo servente, / mercè, poi che ’a la mente / vi porto pinta per non ublïare. / I’fui si tosto servente di voi / come d’un raggio gentile amoroso / da’ vostri occhi mi venne uno splendore, / lo qual d’Amor sì mi comprese poi, / ch’ avante a voi sempre fui pauroso, / sí∙mmi cerchiava la temenza il core». Si presenta così alla donna, armato di contrizione e richiesta di perdono che viene concesso con intima generosità. Ma vi è ancora ostilità e sdegno, uno strappo che permane come una guerra: «Ora mi fate vista disdegnosa / e guerra nova in parte comenzate, / ond’ i’ prego Pietate / ed Amor che vi deggia umilïare».

Il forte richiamo all’immaginale cavalcantiano segue sbigottimenti e desolazioni. La donna dapprima, spande salvezza, poi, avviene uno stravolgimento delle facoltà psichiche: l’anima e il cuore sembrano fuggire via, in un colpo fulmineo. Lo sconvolgimento dello sguardo è un apice di morte (come il famoso planh, improperium in mortem, della canzone O Morte, della vita privatrice, XIII) e di straniamento. Il cuore, anima sensitiva, è disorientato e spodestato dalla sua sede, in un’autentica afflizione, procurata da Amore.

Spesso l’amore di Lapo è un compendio di gioie improvvise, di abbandoni, laddove la cogitatio amorosa, pur seguendo la struttura trobadorica, ricerca compiutezza, nell’allegrezza e nella gioia. Il sigillo nel libro d’Amore reca conforto, nel luogo in cui la signoria dell’amata si porge in una visione di cortesia e giustizia.

L’anima del poeta unisce dolore e gaudio in un lessico sintomatico che chiede pietà del suo limite, invoca grazia e gentilezza, da cui attingere alimento nel desiderio vago e colpito. La sua sofferenza martoriata assomiglia a un referto di lontananze e leggiadrie sovrannaturali («Angioletta in sembianza / novament’ è apparita, / che·mm’uccide la vita / s’Amor no·lle dimostra sua possanza»), a una epifania celebrata di sogno («Tu vederai la nobile acoglienza / nel cerchio delle braccia ove Pietate / ripara con la gentilezza umana, / e udirai sua dolce intelligenza: / allor conoscerai umilitate negli atti suoi, se non parla villana, / e sembrerà meraviglia sovrana, / com’ formata ’n ‹an›geliche bellezze») e languore («Questa rosa novella, / che fa piacer sua gaia giovanezza, / mostra che gentilezza, / Amor, sia nata per vertú di quella»), che liberano dall’affanno, preghiera, euforia, speranza e nobiltà.

In questa sinossi di gioia, Lapo Gianni incide la sopita vertigine compiaciuta nell’anima, grazie al suo merito di amante che riceve ricompensa e sorriso:

«Appresso le direte che la mente / porto gioiosa del su’ bel piagere, / poi che m’ha fatto degno de l’onore; / e non è vista di cosa piagente / che tanto mi diletti di vedere / quanto lei sposa novella d’Amore; /  e non m’è aviso ch’alcuno amadore, / sia quanto vuol di gentile intelletto, / ch’aia rinchiuso dentro da lo petto / tanta allegrezza ch’apo·mme non moia».

 Amor, nova ed antica vanitate, innervata nella sillabazione contrastiva, è

«un’irriverente requisitoria contro il dio tesa a dimostrare l’irrazionalità e l’illusorietà della passione. È questo il componimento di Lapo piú distante dai modelli e dalla stessa ideologia stilnovista. Considerando inoltre che è impostato come una recusatio della passata esperienza amorosa, con qualche passaggio non del tutto neutrale in prospettiva cavalcantiana e dantesca (l’ingannevole potere di Amore di dare sembianze angeliche all’amata; la sua capacità di ottenebrare la mente e infralire la memoria), viene da chiedersi, come già accennato, se non possa avere qualcosa a che fare con il deterioramento del comune ideale di fedeltà al dio imputato a Lapo nel dantesco Amore e monna Lagia».[5]

I parallelismi, le simmetrie, i vocativi introducono, come afferma Donato Pirovano, «una rappresentazione tradizionale del dio: nudo, angelo, cieco, fanciullo, arciere […][6]».

La sacralità del saluto, simile al saluto dei Magi nella natività di Cristo, la celebrazione (plazer), soave ed enumerata di desideri fantastici e raffinati, di cui Amore si fa garante, raffigurate nel sonetto doppio caudato di Amor, eo chero mia donna in domino, narrano di una sproporzione e di una linea che richiamano i paradigmi cavalcantiani e le linee dantesche, e sembrano virare in un’atmosfera demarcata e fragile:

«Amor, eo chero mia donna in domino, / l’Arno balsamo fino, / le mura di Firenze inargentate, / le rughe di cristallo lastricate, / fortezze alt’ e merlate, / mio fedel fosse ciaschedun latino; / il mondo in pace, securo ’l camino, / no mi noccia vicino, / e l’aira temperata verno e state; mille donne e donzelle adornate / sempre d’amor pregiate / meco cantasser la sera e ’l matino; / e giardin’ fruttüosi di gran giro, / con grande uccellagione, / pien’ di condotti d’acqua e cacciagione; bel mi trovasse come fu Absalone, / S anson‹e› pareggiasse e Salamone, / servaggi di barone, / sonar vïole, chitare e canzone, / poscia dover entrar nel cielo empiro: / giovane, sana, alegra e secura / fosse mia vita fin che ’l mondo dura».

 

[1] Lapo Gianni, Rime, a cura di Roberto Rea, Salerno, Roma 2019.

[2]Rea R., Introduzione, in Lapo Gianni, Rime, cit., p. xiii.

[3] Cfr. Contini G., Poeti, ii p. 570.

[4] Marti M., Storia dello stil nuovo, Milella, Lecce 1973, p.337.

[5] Rea R., cit., p. xxv.

[6] Pirovano D., Il Dolce Stil Novo, Salerno, Roma 2014, p. 324.

Lapo Gianni, Rime, a cura di Roberto Rea, Salerno, Roma 2019, pp. 162, Euro 24.

Lapo Gianni, Rime, a cura di Roberto Rea, Salerno, Roma 2019.

Marti M., Storia dello stil nuovo, Milella, Lecce 1973

Pirovano D., Il Dolce Stil Novo, Salerno, Roma 2014.

 

Pubblicato anche su “Roma – Cronache Lucane”, 8 maggio 2019

Gabriela Mistral: il canto e il respiro

di Andrea Galgano 8 marzo 2019

leggi in pdf GABRIELA MISTRAL. IL CANTO E IL RESPIRO

La poesia di Gabriela Mistral (1889-1957) vive nella maestà del respiro, innalzando il tempio dell’anima a una vitalità di appartenenza che, da una parte avverte tutta la potenza della maternità come genesi, dall’altro testimonia l’emancipazione dell’io e la sua trasfigurazione, rivelandone il sedimento, la consistenza mitica e il deposito di ogni negazione.

La pubblicazione di una selezione di poesie, Canto che amavi, per Marcos y Marcos, a cura di Matteo Lefèvre, restituisce l’ispirazione sorgiva e il canto di una elementare essenzialità.

Alessandro Zaccuri scrive:

«Che cosa, infatti, può sfuggire al sonno, all’oblio e all’intorpidimento se non la volontà di prendere la parola, di chiamare la realtà per nome, di ascoltare e ricordare? La volontà, ecco. E l’ispirazione, un’ispirazione sorgiva, a volte addirittura tempestosa. Sono due forze che rischierebbero di entrare in conflitto e che invece nell’opera di Gabriela Mistral trovano, fin dal principio, uno straordinario punto di equilibrio. Forse è per questo che, con il passare del tempo, i suoi versi conservano un’immediatezza non sempre riscontrabile in altri poeti della stessa generazione. […] la dimensione femminile, in lei, si manifesta come sentimento dell’origine, in senso materiale non meno che spirituale».[1]

Nata a Vicuña, in Cile, si chiamava, in realtà, Lucila de María del Perpetuo Socorro Godoy Alcayaga, prima donna a vincere il Nobel nel 1945, appartenente alla piccola borghesia di provincia, Gabriela, sotto l’ala precettrice di sua sorella Emelina, di quindici anni più grande che l’ha iniziata alla carriera di insegnante, ha sentito, partendo dall’attitudine paterna alla versificazione, la stesura della sua poesia (da cui deriverà il suo pseudonimo per firmare i suoi versi, assieme a “Soledad”, “Alguien” e “Alma”) partendo dalla vertigine di Gabriele D’Annunzio e dal senso religioso del poeta francese, in lingua occitana, Frédreríc Mistral, ma anche leggendo la narrativa russa e Montaigne.

In Desolación (1922), la sua prima raccolta, il senso di intimità[2] e di incontro, il freddo nido della morte (il fidanzato suicida Romeo Ureta Carvajal), stesa su una terra soleggiata e il tormento si consegnano alla stanchezza («Si illuminerà il luogo dei destini, oscuro; / saprai che segni astrali la nostra alleanza ordivano / e, rotto il patto enorme, che morire dovevi.»), al silenzio dell’amore che tace e raccontano le brume della Patagonia come stupore di anima e bocca disinvolta:

«Si libra nella scia, sbatte l’ala nel vento, / pulsa vivo nel sole e incendia la pineta. / Non basta ricacciarlo come il brutto pensiero: / tu lo dovrai ascoltare! / Parla lingua di bronzo, parla lingua d’uccello, / timide invocazioni, di mare imperativi. / Non basta opporgli gesto audace, sguardo grave: / tu lo dovrai ospitare! / Ha i modi del padrone; non lo placano scuse. / Rompe vasi di fiori, fende il fondo ghiacciato. / Non basta dirgli che di alloggiarlo rifiuti: / tu lo dovrai ospitare!» (Amo amore).

Sono venti che fanno ronde di gemiti alla casa, vele bianche nel porto, lontane da orti senza luce e lingue strane da passare. La maestà dello sguardo di Dio narra i fiori del tetto come il destino e torna a coprire.

Le piane della Patagonia, dunque, sono radici di fiamme, dove premono i pleniluni e uniscono le ombre dei passanti alle bestemmie amare, agli orli di sentiero insonni e alle ferite di radici straziate di notte.

Un canto che diventa alba diamante e sguardo azzurro che fiorisce come un sogno:

«L’ho incontrato sul sentiero. / Non turbò il suo sogno l’acqua / né fiorirono le rose; / fiorì stupore la mia anima. / E ha una povera donna / il viso pieno di lacrime! / Aveva un canto leggero / sulla bocca disinvolta, / e al guardarmi gli si fece / grave il canto che intonava. / Guardai la strada, la vidi / strana e come di sogno. / E nell’alba diamante / ebbi il viso tra le lacrime! / Proseguì per la via cantando / e si portò con sé i miei sguardi… / Dietro di lui più non fu / azzurra e alta la salvia / Pazienza! Restò nell’aria / frastornata la mia anima. / Pur senza essere ferita / io ho il viso tra le lacrime! / Stanotte non ha vegliato / come accanto alla lampada; / dato che non sa, non punge / il suo cuore la mia ansia; / ma magari tra il suo sonno / passa odore di ginestra, / perché una povera donna / ha il suo viso tra le lacrime! / Era sola e non temevo; di fame e sete non piansi; / da quando lo vidi passare / Dio mi rivestì di piaghe. / Mia madre nel letto recita / per me preghiere devote. / Ma io magari per sempre / avrò il viso tra le lacrime!» (L’incontro).

Poi l’amore che tace e non si affida al parlare dei maschi, così oscuro. Esso nasce dal profondo e consegna la sua cosmica fontana colma:

«Se io ti odiassi, il mio odio ti darei / nelle parole, sicuro e deciso; / ma ti amo e il mio amore non si affida / al parlare dei maschi, così oscuro! / Tu lo vorresti trasformato in urlo, / ma viene dal profondo e ha dissolto / il suo bruciante fiotto, si è esaurito / ben prima della gola e anche del petto. / Mi sento come una fontana colma / mentre a te sembro uno zampillo inerte. / Tutto per l’infelice mio tacere / che è più feroce che andare alla morte!».

Ternura (1924) raccoglie poesie dedicate ai bambini. Il rapporto con la canzone popolare, la filastrocca e la fiaba fanno vivere, nel fragore, l’aroma del tripudio cromatico del girotondo (come il folle azzurro e il folle verde del lino in rami e in fiore o il basilico, la malva la salvia e l’anice), il fiore slanciato della festa, la libertà del canto puro come danza («Dammi la mano e danzeremo / dammi la mano e mi amerai/come un sol fiore saremo / come un solo fiore e niente più»).

L’infanzia diviene il punto della convocazione degli elementi, dove l’anima bambina sente il puro amore trasfuso nel mondo, il dono, anche immobile, di un cerchio di sole.

O dove sorge ogni astro, dove si comunica il santo sorriso da offrire e, infine, la terra india da consegnare, la sorpresa del respiro si sporge: «Sempre lei, silenziosa, come il maestoso sguardo / di Dio su di me; sempre i suoi fiori sul tetto; / sempre, come il destino che non sfuma né accade, / tornerà giù a coprirmi, terribile e stregata».

Il respiro di Gabriela è furibondo. Ma in tale furia occorre guardare la grazia e l’abbandono di una tenacia del vero[3]: «Va via da te il mio corpo goccia a goccia. / va via il mio viso dentro un olio sordo; / vanno via le mie mani in piombo fuso: / vanno via i piedi in due tempi di polvere», o ancora: «Cerco un verso che ho perduto, / che a sette anni mi hanno detto. / Fu una donna facendo il pane, / la sua santa bocca vedo».

In Tala (1938), destinata agli orfani della guerra civile spagnola, l’archetipica e primordiale meraviglia del tempo rappresentano la goccia del linguaggio, il teatro popolare e oscuro della vita che si rivela: «Bugia fu il mio alleluia: ora guardatemi. / Ormai non vedo oltre le mie mani; / lenta, senza diamanti d’acqua, avanzo; / vado in silenzio, e non porto un tesoro, / mi sprofonda nel petto e anche nei polsi / il sangue mischiato di angoscia e paura».

La condizione di estraneità, per Gabriela Mistral, è la esile elegia di un dolore acuto, la morte muta, la lingua che affanna i mari barbari, narrando, non eludendo il deserto umbratile del tempo, frequentando il ricordo di gesti che porgono acqua. Il mondo dove attingere il viso dell’appartenenza.

Nell’immagine tellurica si cristallizza la deificazione materna e femminile. È un processo di originaria sacralizzazione e transito di immagine che diviene grido consumato, dove la consegna al mistero dell’essere si fa volontà di rimanere alla terra «denudata dal mio proprio Padre, / un frammento di Gerusalemme!».

La madre è il sigillo-genitore della sete, assorbita dal dolore[4], che nel suo aspetto mariano, rievoca lo sguardo eterno dell’acqua di terre bambine, la vastità di lodi e di luci trasfigurate dell’infinita Cordigliera, «distesa come un’amante / e nel sole riverberata», il ritorno di aroma gioioso, che afferma l’uscio di una ferita, piena di muschio e silenzio, dove la cantilena del sangue risale l’infanzia dell’abbraccio, come l’arcipelago livido o la pietra di Oaxaca, dalla cui crepa emerge ogni respiro:

«Nella valle del Rio Blanco, / là dove nasce l’Aconcagua /, giunsi a bere, balzai a bere / sotto la sferza di cascata / che cadeva fluente e dura / e si rompeva aspra e bianca. / Porsi la bocca alla sorgente, / e mi bruciava la santa acqua, / tre giorni sanguinò la bocca / di quel sorso dell’Aconcagua. / Tra i campi di Mitla, un giorno / di cicale, il sole, in festa, / mi sporsi a un pozzo e venne un indio / a sostenermi sopra l’acqua, / e la mia testa, come un frutto, / stava in mezzo alle sue palme» (Bere).

Gabriela Mistral addensa immagini eucaristiche e terragne, come il pane, ad esempio, o il sale delle lacrime, dei corpi infranti, dei riflessi delle onde salate come porte che si attraversano («Dalla tavola viene a me; / da camera mia alla dispensa, / Con leggerezza sua di polline, / bagliori rotti di saetta. / Lo prendo come una creatura / e le mie mani lo sparpagliano, / e scivolando con il gesto / di chi cade e si sorregge, / trova la bianca e desolata duna di sale della testa»), annuncia gli argenti delle soglie e delle carni di pietra dell’America che fischiano il colore dell’ambra beduina e della mirra, i pianori lucenti, come se fosse il segreto di un alleluja.

Ci sono assenze come criniere di nebbia, ombre avvinte e amanti che si fanno paese, età sperdute di nomi e patrie lontane dove si vede morire, dove si perdono le isole di canna e di viola, e infine, nella voce che guarda il ginepro e l’olmo come evaporate origini nude:

«Mi è nato da cose / che non son paese; / da patrie e patrie / che ho avuto e perduto; / da quelle creature / che ho visto morire; / da ciò che era mio / e mi ha abbandonato. / Ho perso montagne / su cui ho dormito; / ho perso orti d’oro / dolcezza di vita; / ho perso le isole / di canna e di viola, / e le loro ombre / le vidi a me stringersi / e avvinte e amanti / farsi anche paese. / Criniere di nebbia / senza dorso e nuca, / respiri assopiti / li vidi seguirmi, / e in anni erranti / diventar paese, / e in paese senza nome / io morirò» (Paese d’assenza).

Le sue anamnesi squarciano i cieli delle eternità verdi e delle spigature dell’aria, rievocando il mais di Anahuac, ricordando il bagliore di ogni splendore fuso.

Le sue parole sono il torchio di una grazia senza ritorno, come si evidenzia in Lugar, Torchio (1954), appunto, che cela l’oro della memoria bruciata, che guarda i cambiamenti del suo paese manifestando straniamento ignoto («mi vedrà ignota percorrerlo, / e mi avrà solo la polvere / fugace, e non uno sposo») e bellezza aspra e dolente. che esprime tutta la potenza di un canto, depositato e disilluso nella lingua.

Sono le sue sillabe spogliate e balbettate nell’oblio e nell’amore disimparato. Bruciando nell’allegria, guardando alle cose divine come un albatros ebbro fino all’ultimo orizzonte della luce del giorno o dell’impronta di Dio: «Adesso voglio imparare / il paese dell’asprezza, / disimparare il tuo amore / che era la mia sola lingua, / come fiume che scordasse / letto e corrente e rive»

La forza della visione interiore nasce da una intensità profonda, germinata da porte chiuse e vesti verticali e strade come rughe di terre ardenti. Nella vita di Gabriela risplende la caduta come parola che «rimane da sola come un albero / o come un ruscello a tutti ignoto / che scorre tra una fine e un inizio / e come senza età o come in un sogno»

«Io canto ciò che tu amavi, vita mia,  / nel caso ti avvicini e ascolti, vita mia, / nel caso ti ricordi del mondo che hai vissuto, / nel pieno del tramonto io canto, ombra mia. / Io non voglio restare più muta, vita mia. / Come senza il mio grido fedele puoi trovarmi? / Quale segnale, quale mi svela, vita mia? / Sono la stessa che fu già tua, vita mia. / Né intorpidita né smemorata né spersa. / Raggiungimi sul fare del buio, vita mia; / vieni qui a ricordare un canto, vita mia; / se tu questa canzone riconosci a memoria / e se infine il mio nome ancora ti ricordi. / Ti attendo senza limite né tempo. / Tu non temere notte, nebbia o pioggia. / Vieni per strade conosciute o ignote. / Chiamami dove sei, anima mia, / e avanza dritto fino a me, compagno» (Canto che amavi).

In Poema de Chile, raccolta postuma pubblicata nel 1967 da Doris Dana, sua compagna dalla metà degli anni Quaranta, il caleidoscopio del sole degli Incas e dei Maya che rischiara la Valle, dove il fiore veglia il mandorlo e arde una laguna da sogno che la battezza e la rinfresca nelle alture, riannoda ricordi, in un disco di carne, e passano così «dal primo all’ultimo, / le felicità, i dolori, / il mosto dei ragazzini, / il lento miele dei vecchi; / passano, ardenti, il fervore, / la angoscia e l’affanno, / e il resto; passa la Valle / in curve serpentiformi, / da Peralillo a La Unión, / diversa e una e intera», le araucarie e il lamento del vulcano Osorno.

In un diorama di sogno e memoria, nel tremore oscuro della Patagonia (la Madre Bianca) come un sospiro, vi è lo spazio anche per i Campesinos, che seminano, irrigano «ancora una volta, ancora» e non hanno un loro “pezzo di terra, quando la «Verde patria che mi chiama / con lungo silenzio di angelo / e una infinita preghiera / e un grido che anche ora / odono il mio corpo e l’anima».

[1] Zaccuri A., Per Gabriela Mistral la Patagonia è madre , in “Avvenire”, 8 febbraio 2019.

[2] Massari S., La poesia di Gabriela Mistral, “Canto che amavi”, (http://www.sulromanzo.it/blog/la-poesia-di-gabriela-mistral-canto-che-amavi), 7 gennaio 2019.

[3] Raimondi S., Gabriela Mistral. Canto che amavi, “Pulp”, 2 gennaio 2012.

[4] Cfr. Grandón O. L., Gabriela Mistral: Identidades sexuales, etno-raciales y utópicas, in Atenea (Concepc.), n.500, 2009. Vedi anche: Montecino S. – Dussuel M.- Wilson A., Identidad femenina y modelo mariano en Chile“, en Mundo de mujer: Continuidad y cambio. Fem  Santiago, Chile 1988, pp. 501-522; García J., Poemas de la madre: libros muestran la vocación materna de Gabriela Mistral, in “ La Tercera”, 7 settembre 2015.

Mistral G., Il canto che amavi. Poesie scelte, Marcos y Marcos, Milano 2018, pp. 292, Euro 20.

Mistral G., Il canto che amavi. Poesie scelte, Marcos y Marcos, Milano 2018.

García J., Poemas de la madre: libros muestran la vocación materna de Gabriela Mistral, in “ La Tercera”, 7 settembre 2015.

Grandón O. L., Gabriela Mistral: Identidades sexuales, etno-raciales y utópicas, in Atenea (Concepc.), n.500, 2009.

Massari S., La poesia di Gabriela Mistral, “Canto che amavi”, (http://www.sulromanzo.it/blog/la-poesia-di-gabriela-mistral-canto-che-amavi), 7 gennaio 2019.

Montecino S. – Dussuel M.- Wilson A., Identidad femenina y modelo mariano en Chile“, en Mundo de mujer: Continuidad y cambio. Fem  Santiago, Chile 1988, pp. 501-522.

Raimondi S., Gabriela Mistral. Canto che amavi, “Pulp”, 2 gennaio 2012.

Zaccuri A., Per Gabriela Mistral la Patagonia è madre , in “Avvenire”, 8 febbraio 2019.

 

 

Vladimír Holan. La tenebra insonne

di Andrea Galgano 3 febbraio 2019

leggi in pdf  VLADIMIR HOLAN. LA TENEBRA INSONNE

Nel 1966 uscì per Einaudi, Una notte con Amleto e altre poesie[1], di Vladimír Holan, il massimo poeta ceco (1905-1980), tradotto dal grande slavista Angelo Maria Ripellino, che ne conferì vitalità e bellezza, aprendo la strada, per così dire, tra gli altri, alla linea traduttiva di Serena Vitale, Giovanni Giudici, Marco Ceriani e Vlasta Fesslová.

Pier Paolo Pasolini, in un articolo sul “Corriere della Sera”, del 14 aprile 1974, guardando alle uscite, nel 1974, sull’ «Almanacco dello Specchio n.3», sancì che: «Grazie alle cure di Seerena Vitale, che non sbaglia un colpo, un’ombra ha preso corpo, un «nome» è diventato un fatto. Holan è entrato nel novero dei poeti letti[2]». Nel 1992, nella prefazione a Il poeta murato, edito da Garzanti, 1992, a cura di V. Justl, per le edizioni del Fondo Pier Paolo Pasolini, Giovanni Raboni, soffermandosi sulla diatriba del poeta friulano con Montale, dietro gli attacchi di Bestia da stile, e riportando si soffermò sulle:

«Abbaglianti catastrofi del senso, sentenze che non sentenziano su nulla perché non sentenziano che sul tutto, microallegorie che non rimandano a altro che a se stesse, formulazioni e analisi, rigorose sino allo spasimo del non formulabile e del non analizzabile … […]. Anche se non capiamo di cosa parla, sentiamo che parla nel meno vago e misterico, nel più piano, preciso e “ragionevole” dei modi; non sappiamo cosa dice, ma siamo sicuri che dice  la verità: un paradosso di cui solo la grande musica riesce a farci persuasi e partecipi».[3]

La recente ripubblicazione, grazie alla casa editrice SE, della traduzione storica di Ripellino dell’opera di Holan restituisce una sperperata terribilità della poesia, che si impasta con la storia ceca, prima, ed europea, poi, del Novecento, vissute attraverso lo strazio del teatro insonne, metafisico e barocco di una inconsistenza indicibile:

«Il barocco di Holan prorompe dunque da accessi di sdegno e rancura, torbido rispecchiamento del tenebrismo dell’epoca. […] D’altronde non sarebbe difficile trovare diretti legami fra i mezzi stilistici di Holan e quelli della poesia del Seicento. Le intense orditure acustiche, gli ammucchiamenti asindetici di vocaboli rari, le paronomasie, i cataloghi, le allegorie, l’interesse per la musica e per gli strumenti, le registrazioni del verso dei volatili, e inoltre l’assidua interrogazione di Dio, l’insistenza sullo sfacimento dei corpi, l’angoscia per la vanità della vita, l’impianto escatologico: tutto questo avvicina la scrittura holaniana alle pagine di poeti barocchi boemi, come Bedřich Bridel, Jan Kořinek, Felix Kadlinskŷ. […] Ma dai giorni della guerra, tranne pochi intervalli, il barocco è la dimensione costante dell’arte di Holan. I suoi poemi sono maestosi recital di splendori verbali, parate di sgargianti similitudini, nidi di meditazioni sulle «estreme cose» dell’uomo. Ed è curioso come la propensione ai bisticci, ai termini tecnici, alla facezia macabra, l’impasto di realtà triviale e fantasia trascendente, certi ceppi di immagini (come quelle, ad esempio, derivate dall’ostetricia), il «Leichenkult», l’abitudine di stemperare in volute di raziocinio la tensione emotiva ricordino la strategìa dei «metafisici» inglesi».[4]

Inviso al regime cecoslovacco, a partire dal 1948, per un quindicennio, gli fu impedito di scrivere, mostrò il dramma del proprio isolamento, il sogno del diario perduto di Orfeo, le partiture smarrite di Pindaro e i ritratti scomparsi, attraverso una gioia «Orfana-vergine / ipòstasi di vita, ma a tal punto senza archètipo, / che nemmeno il destino sapeva come guadagnarsi il suo affetto»

«con le finestre chiuse sulla Moldava, nell’isola di Kampa. «Incrocerò le parole…». Nacque così nella sua cerchia il mito di Holanesia, il mondo onirico del poeta murato in una casa spoglia, in penombra, con il suono dell’acqua del fiume a scorrere in sottofondo e la cantilena di Katerina, sua figlia, nata con la sindrome di Down. Furono anni di spaventose ristrettezze economiche. Seduto nelle notti praghesi alla luce della lampada, mentre scriveva e traduceva dicendo «non conosco nessuna lingua ma le capisco tutte», inflessibile nei confronti di qualunque concessione al potere vigente, con l’immancabile sentinella di un fiasco di vino poggiato sul tavolo, Holan fu costretto per vivere a offrire anche trascrizioni a mano dei suoi versi, che vendeva con la dicitura Rhymes to be traded for bread. Gli amici si prodigavano per trovargli occasioni di guadagno».[5]

La bronchiale sperdutezza di Holan racchiude un dramma estinto e ridotto, che afferma la negazione impietosa dell’essere, come se Dio e la sua superficie di silenzio («Poiché la voce divina / è solo superficie di silenzio / sotto la tirannia del nostro udito – / perché le cose dovrebbero essere in eterno / amàlgama assordato d’uno specchio, / in cui si affisa la nostra connivenza?»), il gesto vivente, il solco tragico della storia e l’anima di sghembo («Vedo le viuzze per cui, gongolando, lo trascinavano, / vedo le scale, le bave, lo sperma e vedo altre cose / e vedo pure come rantolava e non riusciva a morire, quasi avesse l’anima di sghembo, anzi di più: / come se non avesse mai avuto una madre»), squassassero l’arte ruvida del nulla che accade, la fame assiderata e bambina del crudele mondo abbrutito, e fossero le radici di un punto cieco del cuore, che

«anziché procedere verso una rappresentazione rarefatta, disincarnata o astratta, sono invece intrise della più concreta, greve e mortale materia terrestre. […] non si assiste qui a una spoliazione del mondo ad opera dell’azione corrosiva della ragione. […] nei suoi versi si assiste quasi sempre a un autentico trionfo della morte. […] Di conseguenza, non va affatto considerato un poeta al di fuori della storia. Al contrario, le ferite, le angosce, il senso d’insicurezza radicale del tempo che gli è stato dato (l’occupazione nazista, il regime comunista) sostanziano nel profondo le sue immagini e i suoi temi ossessivi: la storia come deperimento e rovina, la madre, l’infanzia, la sessualità funebre, la corporeità disfatta, la poesia («L’arte cominciò con la caduta degli angeli»), la notte, la cecità, il muro la parificazione tra i vivi e i morti».[6]

La sua fretta sfuggita all’eterno è lo sfacelo della continua ricaduta nel nulla, manifesta le tenebre del vestito nero, come giorno secco, rappresenta il chiarore che ha «la bocca nelle tombe dei suoni» e il cerchio dell’orizzonte gelido.

È il tremendo naufragio della possibilità, il viaggio smarrito di tenebra che innerva la cecità tattile e sensuale[7] di un germoglio cupo e feroce, sospeso nel nulla, raddensato in una fuliggine gracidante di guerra e morte, in cui la metafora è obnubilamento di sogno, orrore, diaframma spezzato di sogno e di cenere. Il tempo esiguo:

«L’arte cominciò con la caduta degli angeli… / il tempo dei capecchi, dei fastelli di concime, dell’àcoro pestato, / della cenere non arsa e delle lingue infrante dalla panna, / il tempo che si rade i peli sulle cosce d’una meretrice: / alleggerisce solo in apparenza. / Ma il tempo dei sassi, della matrigna che pettina e dello zoppicare dei cani, / il tempo che tossisce negli scantinati, / il tempo del becchino che, scavando la terra, / è come se volesse giungere a una più autentica vita, / il tempo delle vertebre cervicali nel salto / sopra il fuoco di San Giovanni, / il tempo che esige tutto il nostro soccorso: ha sempre ancora un peso esiguo».

Nell’apparente necrofilia di un mondo perduto, cacciato da un Eden materno smarrito, dove la verginità della purezza intatta narra la sua piaga, e l’oblio di sé si fa intenso Acheronte di fuga e il canto di sirene è cessato «e poi si ammucchia / nel luogo stabilito / sotto un mazzo di fiori finti!»:

«Questa notte nei sogni mi dicevo: / «Amara è la sete e così sbalordita, che beve dal fato / come un fantoccio di stracci gettato da un bimbo in un orinale. / Amara è la voluttà, perché ha tutto / in una così urgente vicinanza, che persino il mistero è fuori mano. / Amara è l’arte e così nera, che potrebbe scolorirla / solo sudore di ascelle di donna, se la morte fosse donna. / Amara è la coscienza che si aggrappa alle cose / come l’ottuso rasoio con cui sbarbano i morti. / Amaro è tutto questo – e tuttavia / sarebbe bene scuotersi e svegliare!». / Ma erano angeli quadricèfali del carro funebre / che mi portava via al silenziario, / erano gli angeli che io sentivo / bisbigliare per sempre l’uno all’altro: «Non destarlo, piano, non destarlo!».

Il dramma dell’io poetante, perduto e isolato, che genera, oltre la storia, il terzo cuore del silenzio, la parola strozzata e il suggello estraneo di ciò che, però, resiste nel tremore taciuto: «La pietra e la stella non ci impongono la loro musica, / i fiori sono sommessi, e le cose sin troppo reticenti, / la bestia rinnega in se stessa per causa nostra / l’armonia di innocenza e di mistero, / il vento ha sempre pudore d’un semplice segno, / e che cosa sia il canto, lo sanno soltanto gli uccelli ammutiti, / a cui gettasti alla vigilia di Natale un covone non trebbiato».

Rimane l’orma materna e la sua sollecitudine, il candore della sua grazia infinita, l’incanto stupito, narrato nella tetraggine di angeli e ghigni di streghe. La lotta dell’anima è in questo movimento che chiama e sfugge, dove il tempo della metafisica assomiglia una sguarnita oscurità inane, ai decrepiti intonaci delle città e alla paura.

L’esilio, i peccati del tempo, la parabola del nulla, la dilatazione dell’invisibilità diafana, il dramma cadente emergono come consumazione e frantumazione di mito e vertigine del tempo:

«Se un uomo non si sente perduto, è perduto / a tutto ciò che si svolge negli altri / e che avviene in lui. / Così perduto, egli scrive una lettera e una busta / e la suggella e vi scrive: aprire dopo la mia morte! / Ma essere perduti e resistere e avere / la luna nel libro e la notte solo nel leggerlo, / non conoscere né fine né margine a se stessi, / non essere soli, ma esser perduti, / è come se la propria pena ed un’altra, di estranei / generassero un terzo cuore…».

Angelo Maria Ripellino scrive ancora:

«L’opera di Holan effigia un mondo aggricciato, itterico, brulicante di luridi insetti e di forme bacillari, un mondo gelatinoso e contratto da continui brividi e rattrappimenti d’orrore: […] il precario e l’irripetibile sono le certezze assiali, le leggi maggiori  del nostro vivere. L’implacabile determinismo che ci governa fa dell’esistenza una kàtorga, un castigo inflitto già prima della colpa,  una condanna senza riscatto. [….] La storia è per Holan un costante deturpamento della verginità e della purezza».[8]

La vicenda di Amleto, poi, è un rimestamento di istanze oniriche e storiche, dove la notturnalità, l’apocalisse del suo fulgore, il sangue concentrano tutto il loro abisso numinoso. Infittendo la coltre della libertà e del destino, la doppiezza del suo io, l’infinito agone con i demoni, il suo muro racchiuso e indefinibile e la chiarezza come ultimo tremore di sogno, avviene tutta la visitazione ferrigna e lume perenne:

«Ma chi è l’Amleto di Holan? Di dove proviene? Gli manca un braccio. È rèduce dunque d’una guerra o da un Lager? Dal suo racconto si trae l’impressione che egli abbia qualcosa di impuro, di represso, di sadico. Ora ti sembra un maniaco sessuale, un venditore di frasi all’ingrosso, ora invece assomiglia ad un tenebroso da feuilleton, da Série Noire. In una notte-cauchemar, non diversa da quella in cui gli apparve il fantasma del padre, si presenta al poeta, nella casa di Kampa, attorniata da una minacciosa Boemia-Danimarca, e, movendosi con sicurezza di sonnambulo, inizia il suo festival di cabotinage: ovvero dispiega, quasi a colmare l’orrendo mutismo del tempo, una facondia infrenabile, che scivola a tratti nella magniloquenza. Benché il poema abbia forma dialogica, è difficile cogliere una differenza tra le parole sottilizzanti del poeta e le sentenze capziose del principe: al contrario, accade sovente che Amleto si faccia sdoppiamento di Holan, suo malessere, suo mister Hyde, incarnazione dei suoi demòni perversi e dei suoi labirinti. Un lugubre barocchismo impetuoso, una tetraggine senza spiragli impastano e incalzano questa proliferazione di immagini truculente. Le commistioni verbali sempre vicine al pastiche, le oniriche incongruenze, i terrificanti barbagli da Grandguignol, i frammenti di litanìa surrealistica rendono superbamente la precarietà di quegli anni, l’orrore di un’esistenza braccata, la Unheimlichkeit della notte.»

Il ricordo di Holan è un frammento di dolore incastonato e inquietante. L’anamorfosi della sua dissolvente mentalizzazione ha un processo umbratile e larvale, un fantasmatico processo di sembianza che, sapientemente, riesce ad incastrare la lenta fonografia barocca con le sue volute e i suoi precipizi, e dove viene rappresentata tutta la disparità di vita e morte, lucentezza e ottenebramento, legame materno e disfacimento sociale.

Il gelo delle ombre richiama il tempo diafano e assente, quasi invisibile, che imbratta il vivere, sedimentando il vento cresciuto insieme alla pioggia e agli Inferi, come una lunga insonnia di grido e intima eternità:

«La neve cominciò a cadere a mezzanotte. Ed è vero / che si sta meglio in cucina, / anche se fosse la cucina dell’insonnia. / V’è caldo, ti cuoci qualcosa, bevi del vino / e guardi dalla finestra l’intima eternità. / Perché dovresti affliggerti se nascita e morte siano solo dei punti, / sapendo che l’esistenza non è una retta. / Perché dovresti tormentarti guardando il calendario / e preoccuparti quanto vi sia in giuoco. / E perché confessare a te stesso che non hai denaro / per le scarpette di Saskia. / E perché poi vantarti / di soffrir più degli altri. / Anche se sulla terra non vi fosse il silenzio, / questo nevicare lo ha già sognato. Sei solo. / Quanto meno nei gesti. Nulla da mettere in mostra». (La neve)

[1] Holan V., Una notte con Amleto e altre poesie, SE, Milano 2018.

[2] In Pasolini P.P., Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano 1996, p.399. Sempre Pasolini, in Bestia da Stile, metterà in bocca a Jan, uno dei personaggi del dramma, un feroce e sfrontato attacco ad Holan, ma in realtà rivolto a Montale, come poi spiegato da Giovanni Raboni: «un eremita deturpato in un vezzeggiato, laido e tremante «borghese […] venerato», un «poeta da teatro» capace solo di fare «il gesto di scrivere poesia anziché scrivere poesia».

[3] Cfr. Raboni G., prefazione a Holan V., Il poeta murato, Garzanti, Milano 1992.

[4] Ripellino A.M., Prefazione a V. Holan, Una notte con Amleto e altre poesie, SE, Milano 2018, p.156.

[5] Pedone F., Vladimír Holan, crampi di senso a somma zero, in “Il Manifesto”, 5 luglio 2015.

[6] Galaverni R., L’Amleto di Praga ha qualcosa da dirci, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 8 gennaio 2019.

[7] Testa I., Il nulla onnipresente, in “Alfabeta2” (https://www.alfabeta2.it/2015/05/13/il-nulla-onnipresente/), 13 maggio 2015.

[8] Ripellino A.M., cit., p.157.

Holan V., Una notte con Amleto e altre poesie, SE, Milano 2018, pp. 176, Euro 20.

Holan V., Una notte con Amleto e altre poesie, SE, Milano 2018.

  • Il poeta murato, a cura di V. Justl e G. Raboni, Garzanti, Milano 1992.
  • A tutto silenzio. Poesie (1961-1967), a cura di M. Ceriani e G. Raboni, Oscar Mondadori, Milano 2005.
  • Addio?, a cura di M. Ceriani e V. Fesslovà, Edizioni L’Arcipelago, Firenze 2015.

Galaverni R., L’Amleto di Praga ha qualcosa da dirci, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 8 gennaio 2019.

Pasolini P.P., Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano 1996.

Pedone F., Vladimír Holan, crampi di senso a somma zero, in “Il Manifesto”, 5 luglio 2015.

Testa I., Il nulla onnipresente, in “Alfabeta2” (https://www.alfabeta2.it/2015/05/13/il-nulla-onnipresente/), 13 maggio 2015.

 

Roberto Carifi. Il sisma silenzioso del cuore

di Andrea Galgano 8 gennaio 2019

leggi in pdf ROBERTO CARIFI IL SISMA SILENZIOSO DEL CUORE

Pubblicato sulla rivista Clandestino

La poesia di Roberto Carifi (1948) è segnata dal senso tragico del destino e impregnata da una sorta di umbratile e sognante polimorfia orfica[1]. Il segno dell’infanzia è abitato da una «vertigine vuota e distante», in cui l’illuminazione del mito annuncia ma non redime, dove la salvezza si nasconde nella scaturigine pietosa della mitezza e in cui il grido inane, la parola consumata, la cosmologia ombrata imprimono una scenografia «della ricezione pura del dono (della vita) perché lì si è ancora immersi nel segreto dell’apertura originaria» e dove accade

«la ferita di un peccato originario, di una colpa che viene dall’infanzia, come l’eredità di un gesto incosciente, come un evento caduto nel nostro pensiero prima che il linguaggio potesse nominarlo (ma in fondo, essendo l’uomo sempre incosciente rispetto a Dio, tutta la vita umana ai suoi occhi è un peccato originale). Il senso del tragico è propriamente il senso dell’ineluttabilità del destino, l’impossibilità cioè di uscire dalla condizione che ci è data […] L’ineluttabilità del destino, comunque, è paradossalmente la condizione perché accada l’evento salvifico, che è sempre in eccedenza rispetto alla nostra disperata speranza. Eppure, dentro questi saldi confini, il mito si insedia in un’icona condannandosi a un involontario e doloroso idillio».[2]

Nella antologia dell’opera in versi Amorosa sempre. Poesie (1980-2018)[3], appena edita da La Nave di Teseo, a cura di Alba Donati, Giulio Ferroni, nella prefazione, afferma che la poesia di Roberto Carifi si inscrive

«[…] sotto il segno dell’infanzia, percepita come scaturigine e motivazione originaria della parola, del suo cercarsi e pronunciarsi. Ma non si tratta della ricerca dei segni perduti del “vert paradis des amours enfantines”. […] L’infanzia evocata da Carifi non è un’infanzia del “prima”, ma un’infanzia del “dopo”: un “dopo” che si sostanzia dell’esperienza individuale dell’autore, della traccia di un’infanzia personale segnata da una guerra non vista, una guerra da poco conclusa, ma che vi ha pesato come un lascito di macerie, rovine, lacerazioni, negazioni; in una dolorosa persistenza a cui, nell’ambito più privato, si è accompagnato il precoce abbandono da parte del padre e un più stretto e intenso legame con la madre. Così questa poesia tende a rapportarsi ad un inizio in cui l’avvolgente protezione dell’universo materno, del mondo delle madri, si intreccia con la paura e l’angoscia dell’abbandono, del persistere delle rovine. Sul tempo del gioco e dei balocchi, sull’annuncio delle infinite possibilità che pure si disegnava nell’animo del bambino, proiettata verso l’incanto di un orizzonte “celeste”, gravavano l’eco della guerra recente e l’ansia del distacco e dell’addio; e nel desiderio poetico dell’adulto ne restano macerie, da cui sprigionano lampi di gioia e di paura, che fanno coesistere affermazione e negazione, un muoversi verso il cielo e un ricadere nella polvere della terra, una tensione verso la bellezza e una percezione del suo frantumarsi».[4]

Il mito fondante, dunque, che avverte l’eco della radicalità di Celan e dell’istanza simbolista tragica di Trakl[5] o Rilke, si attesta sull’emblema della lacerazione come scaraventata lotta e graffio, strappo e dramma della nascita, solitudine e calma sanguinante di azzurro: «A volte l’azzurro è una piaga / che rompe il quadrato / dove il mondo riposa ed ognuno / ha una gloria da condurre / nel seno della terra, una ferocia / orfana che chiama amore / e stringe chi lo separa / dalle stagioni, il buio».

A tal proposito, Valentina Giuliani:

«Nella poesia di Carifi, coesistono una concezione dell’angelo come spettacolo dell’altrove, epifania dell’oltre (ed in questo caso indubbia è la filiazione dall’angelo rilkiano) e quella dell’angelo contaminato che muore nell’abbraccio degli amanti, la cui ascendenza è piuttosto trakliana che rilkiana»[6].

E per dirla con Isabella Vincentini:

«I topoi della poesia di Carifi sono allo stesso tempo metafore letterarie e filosofiche: esilio, erranza, evento, destino, caduta, vuoto, cenere, rovine, disastro, debolezza, tracce, simulacri, distanza, infanzia e luogo, angelo e dimora, viandante e straniero, viaticità ed abitare. Sono metafore che si radicano al colloquio tra parola filosofica e parola poetica, all’Heidegger che legge Hölderlin, Rilke, Trakl e George, al Celan della “via creaturale” e dell’evento, allo Jabès dell’interrogazione e del silenzio, al Nietzsche che inaugura il pensiero del “sospetto”. Richiamano l’angelo caduto, della custodia o maledetto, l’angelo di Baudelaire, di Hölderlin o di Artaud, la casa e l’infanzia: Hölderlin, Novalis e Trakl; l’Empedocle sempre di Hölderlin: il pensatore e il cantore, la vicinanza tra pensiero e poesia. Le metafore di Carifi nascono da questa vicinanza e da Rilke a George, i poeti prediletti sono pensatori che parlano poeticamente e da Nietzsche a Heidegger, i filosofi sono quelli che parlano attraverso le immagini dei poeti».[7]

L’atto di resistenza del pensiero poetante fa avvertire il senso della soglia e del confine tra la materia vivente e ciò che vivente non è, racchiuso in una gioia povera che fronteggia la polvere e la crudezza e non vede la trasparenza del cielo, che tocca, poi, l’ordine e la sventura, l’obbedienza e i bordi della vertigine.

Il tempo di Carifi afferma i passi del fuoco, lo splendore furente dei percorsi leggeri e delle figurine increspate, della «barca prima del respiro», inginocchiata alle sillabe che «gelano al bacio della prima voce»:

«L’infanzia, ripostiglio di bambole dall’anima di piombo, scena di angeli e paure: tempo della gioia e della sventura, del pianto e delle madri, barlume di parole dettate da una voce che ordina. Tempo dell’obbedienza, di un rigore tragico e destinale, di corse eroiche e sanguinanti. Il mito, appunto, di un’infanzia custodita nel fondo del linguaggio come luogo primordiale della sua voce più dolorosa ed esatta: quella dei poeti, dei “più dicenti”, come li ha chiamati Heidegger».[8]

Il grembo racchiude la forza fecondata dell’esilio, la madre e il grembo e l’infanzia di ogni goccia che cade: «Quante volte, tra le pagine / una mano lanciata come un sasso / negli anni che sono gocce, / centimetri del tuo sangue / e la parola adolescente che consumi / come un cuore inzuppato… / finché un raggio ferisce tutto / anche gli attimi invincibili / e un angelo si solleva, / con esattezza, / trafigge la tua domanda / proprio lì, / nelle vocali».

La trasfigurazione del vissuto tenta legami impossibili tra corpo e paesaggio interiore, cosicchè la lingua, calma nel precipizio, resta nel ferro dei balocchi e nella perdita dura della vita-sorella (denso richiamo a Pasternak), come una parola oscura, in un deserto di luce o in una stagione prosciugata: «Alcuni, nell’amore, hanno parole soffocate / un gelo che disperde nei giardini / dove un angelo si inginocchia / e scavano nella tua voce / orme fecondate dalla stessa ira, / quando un grido infantile / ritorna nelle bambole / ognuno ha una sorte viicinissima al vuoto».

È, dunque, un’esistenza snidata, in cui la trama vivente sente la decisività del segno come tensione amorosa, del perdono come disposizione che si scioglie e lacerata soglia.

Giulio Ferroni afferma: «Parole rivolte verso nessuno, voci che si cancellano senza rimedio, cenere e sangue, cielo e gelo, lumi, lampade e fili di lana, vetri rotti e altri segni di lacerazione, in uno spazio linguistico che si sente come solcato da un’emergenza segreta, qualcosa che lo percorre e lo ara, come un campo […][9]».

L’abisso di Carifi[10], pur nella squarciata fenomenologia dell’istante, rivela non solo lo spazio intatto dell’infanzia, ma porge la sua domanda indimostrabile, la parola muta e trascinata dal freddo, il senso della fine come un transito sbriciolato o nascita pura, e la morte di qualunque angolo della vita che trema mostrando il suo argine sbattuto dal vento.

Esiste una cadenza della fine, della guerra, del limite ma non tanto il loro ineffabile contrario quanto piuttosto il canto, la voce che colloquia con il passato, il respiro e «la grazia / nei grammi di questo vetro rotto». È l’esilio delle periferie lunghe e dei vetri spalancati sulla polvere, quel contatto funambolico, caro a Cioran, tra la presenza, dichiarata a bassa voce, e il nulla. Non a caso una delle sezioni di Occidente (1990) è dedicata a Marina Cvaeteva, la poetessa del campo aperto alle bufere, che ha avvertito il dramma esiliato e la lontananza dell’amore della prossimità:

«A occidente affondano le navi. Quando? / È giusta la voce che racconta il nulla? / scintillano, a volte, ma non è sole / piuttosto un fuoco, un fuocherello acceso nella notte. Accade a occidente, soltanto a occidente / se danno l’ordine le mani / e comanda il gesto spaventoso. / È ora di scendere, degradare laggiù, / verso le nebbie, arrancare se occorre / come morti che cercano l’uscita: / questi sono gli ordini, poi basta. / È neve la donna che saluta i marinai, / si scioglierà dietro l’angolo, / si annullerà in segreto, / quando si accende la brace dei ricordi / a occidente è perduto chi salpa».

Nella raccolta Il figlio (1995), il «significato cristico», racchiuso nella raccolta, afferma, appieno, «[…] una franta ma irriducibile speranza fondata sulla scandalosa e denudante gratuità del dono e dell’amore[11]», e

«nella condizione filiale viene come a prolungarsi, inverarsi e trasformarsi l’essere “dopo” dell’infanzia, il suo proiettarsi in una vita adulta alimentata dal rapporto vivo con l’universo materno, con la sua durata. È una durata minacciata nel suo persistere, ma dal cui cuore ansioso scaturisce una più intensa apertura verso le presenze, gli oggetti e le forme del mondo[12]».

Attraverso l’attrito dialogico, Carifi avverte tutta la precarietà dei passaggi e dei transiti, gli allontanamenti e i non-respiri, il dolore muto dei rifugi: «Perché non durano le madri / e i figli sono un transito muto / ponti, contrade che hanno solo vento, / i figli durano fino alle madri / e poi trascorrono, si scolorisce in loro questa parola semplice, / la vita, nella penombra / dove saranno allontanati. / Perché si perde il viso delle madri, / il viso dura al cuore dei figli / dopo non batte, non respirano / hanno quell’invisibile nel cuore, / i figli».

Come l’emblema dello scialle materno, che avvolge il segno incavato nel nulla e la notte nel cuore, o l’uscio che è limen di due territori come greti. Nella preghiera elementare di Carifi, si scova tutto il dramma dell’essere, da un lato la frangibilità di figlio, dall’altra l’evocazione suprema del rapporto tra Cristo e Sua Madre.

Mauro Germani afferma:

«Occorre, però, precisare che si tratta essenzialmente di  un cristianesimo dell’abbandono,  in cui il Figlio sembra quasi  non avere un padre, in quanto viene definito anche l’Orfano, carico di dolore, portatore di una redenzione più misteriosa che certa. Egli è una figura priva di qualsiasi segno di potenza o di tri­onfo, che è chiamata dalla solitudine e dal dolore degli uomini e avanza nella notte e nel gelo del mondo; è domanda e ferita della carne, e consapevolezza della gratuità scandalosa dell’amore».[13]

L’anima orante, pur percependo sparite lontananze, vive l’attesa e la tensione, la doglianza e la penombra dell’argento che inargenta il viso, gli occhi che tremano, la benedizione e l’orfanità come inizio di poesia e, infine, l’esilio come nudità viandante: «Padre, padre / la colpa fiorisce dove secca il seme / tu sei quel male che ho visto nelle case / nella luce che separa il desco, / nella voce che non ama: / sia fatta la tua volontà / in questo esilio, / nell’ombra che sorveglio / e sangue sarà chiamato il frutto / grazie per la preghiera che mi acceca, / per le ginocchia devastate» (Padre Nostro).

Ma se la cifra poetica scopre abissi inusitati, la sua continuata sete d’amore ritrova la parola in una dimensione affettiva vera, che ha origine da una dimensione di bene e di opzione finale positiva:

«Esatta è la parola / che viene a noi dal bene, / che afferra come la mano del destino / e piega le ginocchia / e l’uno all’altra ci abbandona. / Se resta un’ombra, amore, / non sarà l’ombra del peccato / ma quella che protegge dalla luce estrema, / che custodisce lo sguardo di chi ama. / A volte il tuo viso muta, / un fragile tremore bacia le tue labbra: / soltanto il bene si mostra così, / nella minuscola piega della pelle, / nel battito sottile dello sguardo. / Il male non ha rossori, / nulla lo lascia impallidire / e si nasconde».

 Nell’oblio, nel tremore lacerato, nello sradicamento e nella disappartenenza, e nella parola accesa che, pur nel «rispecchiamento inadempiuto», nell’addio, nel sospiro innominabile, dice l’indicibile della luce estrema, la presenza arata delle cose vive, cosicchè la più logora delle parole

«è atto estremo, teso ai limiti dell’essere e del linguaggio, che prodigiosamente annuncia se stessa e la possibilità etico-estetica del dialogo, la paradossale efficienza del celaniano Atemkristall  : un flatus vocis fattosi cristallo per fragilità ma anche per purezza, nitore che garantisce un disarmato baluardo contro il nulla, proprio perché si fonda sul riconoscimento e l’apertura nei confronti di tutto ciò che è altro».[14]

L’immagine destinale dell’autunno contempla il pianto e la nostalgia di un dilagare perduto, laddove i segni del reale sono vissuti non solo in una dimensione memoriale, bensì anche prolungati nella loro ombra e sogno sparito.

«Le cose non dimenticano, / hanno troppa memoria. / Si rammenta di noi questa finestra / che un tempo, chiusa, proteggeva / i nostri corpi, lasciava passare / uno spiraglio che ti baciava il viso. / Chi sa se vedeva la minaccia, / chi sa se piange la finestra! / Ma noi duriamo, nelle cose. / E parlano, ragionano di noi, / specialmente se si accende un lume / e lo porta una mano misteriosa. / Chi sa se piangono le cose, / se questo freddo è la loro nostalgia. / Ricordi, stanza, come l’aspettavamo? / E tu, quaderno consumato, e voi, / finestra, porta, sedia con le sue forme, / terrazzo che mi somigli, cosí sospeso, / avete atteso invano il suo ritorno?»

La figura della madre, perduta nel 1997, diviene in Amore d’autunno (1998), la sua destinazione del sangue, ora scomparsa in una dimora inabitabile («Chi mai ti racconta di me, / chi mai ti rammenta il mio nome / nel regno dei non più nominati?»), «quando l’estate devastò il suo mare» e il suo scialle, contenuto nella luce notturna.

È una gioia spiata nelle ombre nude, il sorriso lasciato nell’azzurro degli alberi sottili, il messaggio scritto a singhiozzi con un cuore che saluta nella pena singolare ed universale, come avviene in La pietà e la memoria (2003): «La sentinella attende dove muore il giorno / quando ignota irrompe una natura ostile, / la specie oscura dove Dio si eclissa, / immobile custodisce un regno che vacilla / nella vertigine del lutto, / e nel suo sguardo la vecchia tessitrice / ricuce il tempo al vuoto».

Irene Battaglini afferma:

«Carifi scrive la battuta d’arresto del cuore di fronte alle cose come si offrono all’esperienza dei dettagli che può essere solo del poeta. In questo sisma che con un intaglio netto enuncia la bassa marea della rinuncia alla interezza della ragione, il cardiogramma dei versi di Carifi è una cesura delle parole a favore delle cose immaginarie in cui la fantasia è un metodo ordinato di amare dentro la vecchia promessa di una eterna rima che mai si presenta. Egli fa tornare a leggere la poesia con quella delicata intersezione dell’intarsio che è sempre timida nell’avvicinare al chiaro il più chiaro e allo scuro il meno scuro, per poi disegnare una bellezza che strizza l’occhio all’infinito e prende di mira l’Altro, cui si rivolge con determinata eleganza, nel suo limite umano che nel verso si innalza a domanda di domani, e così fai i conti, Carifi come il lettore, con l’estrema ratio della cosa da sola, quella che non ha altra risposta se non con il vissuto della parola piena».[15]

In Il gelo e la luce (2003), Carifi, come sostiene Nicola Vacca, tenta di strappare al messaggio divino una promessa di redenzione[16], e dove «Il gelo e la luce insieme  scandiscono il cammino  dell’esistenza: tra notti siderali, vertigini del Vuoto e stelle di terrea notte, che si affacciano alla finestra del silenzio, Carifi si avventura per cercare l’uomo nel sogno improvviso di ombre colme di luce[17]»: «Parlavo d’amore alla morte, / indossavo la notte, / un ciuffo di capelli intirizzito, / tenevo nel palmo della mano / l’occhio materno, / gelò in piena estate vestito di pietra / lo volle la notte, / la morte abitò come un’alba il suo giorno, / facevo battere un cuore / con le poche parole rimaste / e al nulla parlavo d’amore».

Il mondo di Tibet (2011), la compattezza del mondo, l’ascesa della trascendenza, il visibile che coincide con l’invisibile[18], conducono, come testimoniato dalla sua conversione al buddismo, «ad un affidamento al negativo che salta la contraddizione del nichilismo occidentale: ora la voce tende ad una cancellazione luminosa di sé, approda a una negazione dell’io e ad un movimento di identificazione con un nulla/nirvana[19]».

Il rovesciamento dell’io è qui conquista, grazia ed abbandono, esilio e benedetta vitalità che erompe dai margini, diventando oltre, metanoia: «Scopri dov’è il nulla, / dov’è la tua divisa e la tua neve / poi comincia a salire / sempre più su, fino all’aperto / e da lì senti l’ululato / che piange, che piange / ti sentirai trasformato / fino alle braccia spalancate», o ancora il rastremato istante che si porge in tutto il suo tragico volo d’infanzia: «Ora è l’attimo che attende, / è l’istante che prepara i tempi / a un altro istante dove si deve attendere l’infanzia, / quella bastarda che era là, tragico volo dei bambini, / poi arriva la giovinezza senza tragedia / solo una pelle che prepara l’ictus, / allora sarò fatto santo […]».

Nel dialogo evocativo di Madre (2014), la memoria frammentata della madre, gli oggetti franti, l’immagine della quotidiana disadorna[20] (il tavolo di noce, il cappellino rosso, i boschi di mirtilli, il gladiolo nella mano), attestano lo sforzo di un approdo assottigliato, di un pronunciamento insonne: «Amorosa sempre, con quel vestito rosa / e un ciuffo di gladioli nella mano / ora sono tanti anni che sei partita, spero / in un lampo di santità, dammi un segno / della tua compassione, della tua carità, / attendo con pazienza anch’io invecchio / un giorno sarò un altro e ci incontreremo / in ogni forma di vita, ti riconoscerò da quel / gladiolo nella mano».

Vi sono luoghi di Terra Pura con vesti chiare e trasparenti, Nirvana, Grande Nulla e spazi di aria, confusioni di tempo[21] che ricongiungono estremità come incidenti impalcabili e veli («Dieci anni fa stavo per morire. Poi fui trasportato / in uno spazio di recupero, sprofondato in una sedia a rotelle / e non parlavo più. La notte sentivo che mi parlavi, avresti / voluto piangere o forse era la madre di un bambino morto, / pregavo per te, pregavo per tutti, a volte ti vedevo soltanto io / passeggiare come un’ombra») che definiscono l’ultimo e insaziato riscatto.

[1] Pratesi D., La solitudine corale di Roberto Carifi, in «La Vita», 24, 19 giugno 2011.

[2] Temporelli A., Il pathos del sublime. La poesia di Roberto Carifi, (www.andreatemporelli.com/2017/02/20/poeti-contemporanei-roberto-carifi/), 20 febbraio 2017.

[3] Carifi R., Amorosa sempre. Poesie (1980-2018), a cura di Alba Donati, prefazione di Giulio Ferroni, La Nave di Teseo, Milano 2018.

[4] Ferroni G., Prefazione, in Carifi R., cit., pp.17-18.

[5] Galaverni R., L’infanzia non è un Eden. Anche il male comincia da lì, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 23 dicembre 2018.

[6] Giuliani V., L’eredità di Rilke nella poesia di Roberto Carifi, in «I Quaderni del Battello Ebbro», III, 5, 1990, p. 19.

[7] Vincentini I., Topografia di una metafora, in «I Quaderni del Battello Ebbro», III, 5, 1990, pp. 36-7.

[8] Carifi R., cit., pp.25-26.

[9] Ferroni G., cit., p.19.

[10] Cfr. Scorrano F. A., La conoscenza dell’altro. – L’uomo del pensiero: Roberto Carifi, Edizione Polistampa, Firenze 2006.

[11] Mussapi R., nota a Il Figlio, Jaca Book, Milano 1995.

[12] Ferroni G., cit., pp.19-20.

[13] Germani R., Roberto Carifi: la domanda e l’attesa, (https://poetarumsilva.com/2014/09/08/roberto-carifi-la-domanda-e-lattesa-di-mauro-germani/), 8.09.2014.

[14] Marchi M., L’angelo spoglio di Roberto Carifi, (https://www.quotidiano.net/blog/marchi/lamore-dautunno-di-roberto-carifi-83.34156), 16 dicembre 2015.

[15] Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2018-2019.

[16] Cfr. Bartoli R., La tragica religiosità di Roberto Carifi, in «Poesia», 137, marzo 2000.

[17] Vacca N., Carifi e la filosofia di un poeta, (https://zonadidisagio.wordpress.com/2015/03/07/carifi-e-la-filosofia-di-un-poeta/), 7 marzo 2015.

[18] Cordelli F., Carifi oltre il tetto del pensiero, in “Corriere della Sera”, 30 maggio 2011.

[19] Ferroni G., cit., p.21.

[20] Cfr. Ramat S., Roberto Carifi nel nome della madre, in “Il Giornale”, 1 settembre 2007.

[21] Grattacaso G., Supplica alla madre, (www.succedeoggi.it/2014/04/supplica-alla-madre/).

Carifi R., Amorosa sempre. Poesie (1980-2018), a cura di Alba Donati, prefazione di Giulio Ferroni, La Nave di Teseo, Milano 2018, pp. 357, Euro 18.

Carifi R., Amorosa sempre. Poesie (1980-2018), a cura di Alba Donati, prefazione di Giulio Ferroni, La Nave di Teseo, Milano 2018.

Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2018-2019.

Cordelli F., Carifi oltre il tetto del pensiero, in “Corriere della Sera”, 30 maggio 2011.

Galaverni R., L’infanzia non è un Eden. Anche il male comincia da lì, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 23 dicembre 2018.

Giuliani V., L’eredità di Rilke nella poesia di Roberto Carifi, in «I Quaderni del Battello Ebbro», III, 5, 1990.

Grattacaso G., Supplica alla madre, (www.succedeoggi.it/2014/04/supplica-alla-madre/).

Marchi M., L’angelo spoglio di Roberto Carifi, (https://www.quotidiano.net/blog/marchi/lamore-dautunno-di-roberto-carifi-83.34156), 16 dicembre 2015.da, Parma-Milano 1998);

Pratesi D., La solitudine corale di Roberto Carifi, in «La Vita», 24, 19 giugno 2011.

Scorrano F. A., La conoscenza dell’altro. – L’uomo del pensiero: Roberto Carifi, Edizione Polistampa, Firenze 2006.

Vacca N., Carifi e la filosofia di un poeta, (https://zonadidisagio.wordpress.com/2015/03/07/carifi-e-la-filosofia-di-un-poeta/), 7 marzo 2015.

Vincentini I., Topografia di una metafora, in «I Quaderni del Battello Ebbro», III, 5, 1990.

 

Il Natale inglese di Carol Ann Duffy

di Andrea Galgano 8 dicembre 2018

leggi in pdf IL NATALE INGLESE DI CAROL ANN DUFFY

Da quando Carol Ann Duffy, una delle più grandi poetesse scozzesi, Poeta Laureata del  Regno Unito dal 2009 e direttrice artistica della scuola di scrittura alla Manchester Metropolitan University, dona, ogni anno, ai suoi lettori sul «The Guardian» un Canto di Natale, pochi giorni prima del 25 dicembre, la pubblicazione prenatalizia, curata dall’editore Picador e finemente illustrata, è diventata uno squarcio improvviso annuale e un’immersione in una rievocazione di simboli, riti, canti, tradizioni che destinano il gesto poetico in un’attrattiva feconda.

Grazie all’editore fiorentino Le Lettere, alla cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, con le illustrazioni di Simone Pagliai, è possibile leggere una selezione di testi in italiano, nell’antologia Un natale inglese. Poesie scelte[1], in cui i canti natalizi «sono l’occasione per Carol Ann Duffy di dimostrare una volta di più il suo straordinario talento verbale e la sua poetica che mescola sentimenti quotidiani e ricercatezza stilistica, fine gusto intertestuale e impegno civile, recupero folcloristico delle tradizioni britanniche unito a uno spiccato senso del “comune sentire”[2]».

Il Cuoco del Re sta preparando un sontuoso pasticcio di Natale «in cui la Cigna, / già sposa del fiume, / per una mezza eternità, / con sei Cignetti a circondarla, / stava scottata, spennata, disossata, sbollentata / salta, pepata, zenzerata, oliata; / e ospitava l’Airone / la cui grigia ombra lei aveva attraversato / mentre faceva da testimone, / solenne come un Prete, / sulla riva del fiume».

La materia di Carol Ann Duffy tocca l’enorme farcitura ad incastro metamorfico del pasticcio. Il messaggio testuale esplora la simbologia medievale, attraverso una cena di gigantesche proporzioni. Come se l’inserzione del cibo farcisca l’immagine del simbolo: «Il Pasticcio di Natale / per il buon Re Venceslao, / era speziato di Salvia, Rosmarino, Timo; / e un Pettirosso vivo trillava da un buco della crosta».

La sontuosità ricolma del banchetto, l’idillio della luce in un quadro fiabesco apre il tempo del dono. La poetessa crea divergenze, mostra aggettivazioni piene, per unire i piani della realtà in un’unica affermazione:

«La Neve mulinava alla finestra; / e fonda, fresca, uniforme, / copriva i prati / dove una coppia di volpi s’acciambellava nella tana / mentre la Luna s’incupiva / al cipiglio fiero, d’oro e altero di un Gufo. / Pure là, / dove il ruscello gelato / inchiodato alla terra, / c’era una preghiera / che aleggiava come alito umano, / come lo spettro delle parole, / in un bosco scuro, / ansiosa di essere qualcosa di inteso. / Ma il Cielo non era che vecchia luce / e la brina era crudele / dove un uomo povero e curvo / andava a raccogliere legna».

Il Re, volgendo fuori lo sguardo dal suo trono di legno, vede il Povero e lo invita ad entrare e a mangiare con lui questo pasticcio così abbondante. Attraverso la dinamica dei piani, la poesia unisce due condizioni per farsi comunione e incontro: la personificazione del reale è un andito di accesso, una sproporzione e una prova d’incanto.

Si racconta poi il compleanno natalizio di Dorothy Wordsworth, sorella di William, «figura empatica e bizzarra, ritratta dall’autrice con i toni teneri e affettuosi della sorellanza letteraria, sullo sfondo di un nostalgico e innevato Lake District[3]». Qui, l’immaginale di Carol Ann Duffy perfeziona il sentimento per penetrare il linguaggio, condensarlo e colmare distanze. Attraverso il quadro, crea un passaggio di tempo in una luce sicura e graduale. Le figure sono posizionate come punti accesi e concisi (suo fratello William che scrive, le formazioni rocciose, la vecchietta al piano, il leone, l’agnello, il tripudio delle campane di St Oswald, così vicino all’umore esatto del cuore), la scena diviene l’istante in cui la realtà afferma il suo volto, esprime il mondo e le sue scalfite cromature, i suoi passaggi di temporalità eroica e la quotidianità della tavola.

La poesia natalizia di Duffy non conosce l’occasione, diventa il pretesto o il rito di passaggio delle cose, persino oscuro (ma, allo stesso tempo, vitale e unico), ma che possa essere traccia di umano, metafora di immagine e passo pieno: «un sole color mandarino / minia l’ora / in un manoscritto; / così i doni di Dorothy / sono i profili d’oro delle colline, / sono gli alberi decorati; / Coleridge su una roccia, / s’accende la pipa, fumo votivo / s’innalza nell’aria… / Niente di più bello da mostrare – / estatico, dunque, lo sguardo di lei / che tutto include».

Si noti come lo sguardo di chi vive, tanto simile a chi scrive, sia una sorta di inclusione lucente, un’incisione impregnata che pronuncia un non-tempo e un non-luogo, che è «solo il passo dell’Inverno, / e neve sui capelli di Dorothy / e sulla sua lingua calda».

Il poemetto Mrs Scrooge riscrive in versi il Canto di Natale di Charles Dickens:

«Non è avara Mrs Scrooge, piuttosto è parsimoniosa, contraria a sprechi di qualsiasi tipo. Ha a cuore l’ambiente e il benessere degli animali. In pochi versi, con straordinaria efficacia verbale, in una di quelle liste di cui è maestra, l’autrice mette a confronto l’eccesso consumistico degli avventori natalizi con i loro carrelli straripanti di cibo, con la cena modesta della protagonista che sorseggia la sua zuppa davanti a un debole fuoco. Vive sola ora Mrs Scrooge, con il suo gatto, e ricorda con nostalgia la vita passata con il marito. La notte di Natale anche lei riceve la visita dei tre Spiriti: lo Spirito dei Natali passati, del Natale presente, del Natale a venire. Ed è quest’ultima visita a farle capire quanto la amino e apprezzino nipoti e amici tutti, che la mattina di Natale, al rintocco delle campane di St Paul, invadono la sua casa dove si terrà, in un tripudio di gioia, il più festoso dei brindisi».[4]

L’epifania di Mrs Scrooge è una vicina comparsa di immagini, dove Duffy unisce le trame interiori e la loro narrazione alle dinamiche dell’esterno. Fa freddo e gli avventori ritornano con le loro borse piene e pesanti dal supermercato. La satira festiva offre uno sfondo per far emergere il messaggio della storia. Le terribili condizioni dei tacchini da Marley’s e i clienti, la neve che diminuisce accompagnano l’ingresso al suo piccolo appartamento, riscaldato da un caminetto e una bottiglia di acqua calda, con il ricordo vivo di Scrooge e di quell’unica caramella che lui «le aveva regalato quell’anno, e ogni anno», e le luci di Natale  che «danzavano come un fiume verso un mare di oscurità».

Sogna così Scrooge, i natali passati quelli passati e quelli a venire, «che parvero imprigionarla in una boccia con tempesta di neve», i baci e la scossa violenta del mondo. I fantasmi che le appaiono sono memento di gioia, istanti e scherzi sospesi come il tempo che scompare nella città e nella brina, e respiro di risvegli.

Sono riscritture, tempi di fiaba e sogno, orizzonti lontani e vicini che ridestano gli occhi alle lacrime come gesti di amore singolare. La scrittura che viene visitata dal Natale si concentra in una rifinitura onirica e suscita ricongiungimenti di anima con la freschezza profonda delle cose e le dettature del proprio io, fino a raggiungere la vivacità delle relazioni.

In La tregua di Natale, il cessate il fuoco del Natale del 1914, durante la prima guerra mondiale, unisce, sul fronte occidentale, truppe tedesche, britanniche e francesi, quando la luna «come una medaglia, pendeva nel cielo terso e freddo», un ragazzo di Stroud «fissò una stella / per incontrarvi lo sguardo della madre» e la canzone di un pettirosso, fino al silenzio che scende e «come una mano toccò ogni singolo uomo».

La trincea racchiude l’umanità e la sua peculiare attitudine nel fango indurito nel gelo. Sono uomini annegati, gassificati, annichiliti, colpiti e sopravvissuti, vicini per il sonno. Si accendono le fiammelle tremolanti dei canti che danzano negli occhi come un ponte improvviso, seguiti da doni e scambi di cibo, alcol e sigarette alla luce del giorno, fino a trasformare un campo di battaglia in un campo di calcio, come una foto di amore e dolore nella Terra di Nessuno indurita: «Gli ho mostrato una foto di mia moglie. / Ich zeigte ihm / ein Foto meiner Frau. / Sie sei schön, sagte er. / Quanto è bella, ha detto lui».

Le stelle sono timide e tremule come voci lontane, la luna è infilzata nel cielo, nello sbadiglio della Storia si ode solo il sibilo e il crepitio delle armi[5]: «i proiettili lucidi, alti / che ciascun uomo da allora diresse soltanto al cielo».

Ciò che si racconta, invece, in Wren Boys, si basa sulla vecchia tradizione contadina irlandese, nel giorno di Santo Stefano, della “caccia allo scricciolo”, conosciuta con il nome gaelico di La An Droilin, durante il solstizio d’inverno, dove i giovani del villaggio, con visi sporchi e armati di bastoni, si inoltravano nei boschi all’alba per cercare, tra i cespugli, la tana dello scricciolo, e il primo che riusciva a trovarlo diveniva re per un giorno, come racconta James Frazer:

«Uno scrittore del secolo XVIII dice che in Irlanda lo scricciolo viene ancora acchiappato e ucciso dai contadini il giorno di Natale e quello successivo (il giorno di Santo Stefano); e viene portato in processione attaccato ad una zampetta […] e in ogni villaggio si fa una processione di uomini, donne e bambini che cantano una ballata irlandese in cui si dice che questo è il re di tutti gli uccelli. Fino ai nostri giorni (l’inizio del secolo XX) la caccia dello scricciolo si fa ancor in alcune parte del Leinster e del Connaught».[6]

Dietro la curva nella fievole luce violetta, la poesia di Duffy insegue questo manto di fiaba, tradizione popolare e mito, narrando una sequenza di neve calma in una travestita fertilità.

Nell’ultimo poemetto, prima del sonetto La vigilia di Natale, dedicato alla figlia Ella, in cui il Tempo diviene neve lenta che filtra la notte («una sorta d’amore dalla luna velata», quando la «tua piccola città cedeva, impassibile, / al dominio dell’Inverno»), dove si narra dell’ultimo creativo natale di Pablo Picasso in Provenza, in un «interessante cortocircuito tra realtà e rappresentazione, tra effimero quotidiano e permanente artistico[7]».

Accompagnato dal suo cane sotto i cipressi, quando una dolce luna invernale arrossiva e l’aroma di rosmarino «impreziosiva l’aria fredda e lui sentì il cuore / allargarsi nella joie de vivre / che aveva reso la sua arte il gemello esuberante del mondo». I lampioni di Mougins mormoravano e uno sbaffo di luna.

L’esplosione cromatica abita la pagina, inseguendo la linea e la schiera di ogni timbro, mentre attorno lo svolgersi della materia vivente si muove in modo proporzionale. Il disegno di Picasso è un santuario di vertigine e pedinamento (il crepuscolo pastello, il Minotauro e gli olivi che scolpivano i loro spettri argentei, i bicchieri del caffè e la barista, la colomba della pace sul muro color miele, le ostriche di Matisse, le maniche bianche, gli avventori), che precorre una lunga processione di bellezza feroce e luce finale: «Fuori al caffè, / dipinse i piatti – li consacrò con gufi, / tori, ragazzi, ragazze, soli spagnoli. / E il coro cittadino prese a cantare presso l’albero giulivo lodando / la sua pura alchimia».

[1] Duffy C.A., Un natale inglese. Poesie scelte, a cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, illustrazioni di Simone Pagliai, Le Lettere, Firenze 2018.

[2] Sensi G. – Sirotti A., Introduzione, in Duffy C. A., Un natale inglese. Poesie scelte, cit., p.7.

[3]Id., cit., pp. 6-7.

[4] Id., cit., pp.5-6.

[5] Warren J., Poetry review: Carol Ann Duffy’s The Christmas Truce, 27 december 2011. (https://www.wsws.org/en/articles/2011/12/truc-d27.html).

[6] Frazer J., Il ramo d’oro. Storia del pensiero primitivo: magia e religione, 3, in Le conquiste del pensiero, traduzione di Lauro de Bosis, Alberto Stock Editore, Roma 1925, p.828.

[7] Sensi G. – Sirotti A., cit., p.7.

Duffy C.A., Un natale inglese. Poesie scelte, a cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, illustrazioni di Simone Pagliai, Le Lettere, Firenze 2018, pp. 109, Euro 14.

Duffy C.A., Un natale inglese. Poesie scelte, a cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, illustrazioni di Simone Pagliai, Le Lettere, Firenze 2018.

Frazer J., Il ramo d’oro. Storia del pensiero primitivo: magia e religione, 3, in Le conquiste del pensiero, traduzione di Lauro de Bosis, Alberto Stock Editore, Roma 1925.

Warren J., Poetry review: Carol Ann Duffy’s The Christmas Truce, 27 december 2011. (https://www.wsws.org/en/articles/2011/12/truc-d27.html).

Anthony Hecht: il taglio e la luce

di Andrea Galgano 5 novembre 2018

leggi in pdf ANTHONY HECHT. IL TAGLIO E LA LUCE

Nell’articolo scritto da Harvey Shapiro sul New York Times, il 22 ottobre 2004, pochi giorni dopo la morte del grande poeta statunitense, Anthony Hecht (nato a New York nel 1923, da genitori ebrei tedeschi e vissuto da docente universitario a Washington fino al 2004), la cui compiutezza formalista lega l’indocile raffinatezza e soavità al trauma, alla preghiera, al bruciore della cronaca, si fa riferimento a un’intervista del poeta, dopo aver ricevuto nel 1997, il Tanning Prize (uno dei suoi innumerevoli premi, assieme il al Bollingen Prize, al Ruth Lilly Prize, al Librex-Guggenheim Eugenio Montale Award e al Wallace Stevens Award, nonché primo vincitore del Prix de Rome, dall’American Accademy a Roma), in cui egli afferma: «Formalista, ironico Oh sì: c’è una certa quantità di oscurità in molte mie poesie, a volte si tratta di aspetti terribili dell’esistenza[1]».

Gli aspetti terribili (e ultimi) dell’esistenza, dunque, si rintracciano nella prima antologia italiana di Hecht, Le ore dure[2] (The Hard Hours, premio Pulitzer, 1967), edita da Donzelli, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, con l’introduzione di Joseph Harrison, toccando ciò che J.D. McClatchy ha chiamato «arte responsabile che risponde alla storia, alle sue tragedie politiche e domestiche e ai suoi problemi persistenti […] e la sua stessa abilità, che plasma il suo materiale, proietta in una luce ancora più forte e patetica l’isolamento e l’impotenza della condizione umana, che divengono l’oggetto della sua poesia[3]».

Soldato durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo aver completato l’ultimo anno di studi al Bard College di New York, in cui maturò la passione per la poesia attraverso la lettura di Stevens, Auden, Eliot e Dylan Thomas, partecipò alla liberazione  del Campo di concentramento Flossenbürg, con il compito di interrogare i prigionieri francesi[4]. Le scene durissime del campo (vide, ad esempio, un gruppo di madri tedesche e bambini piccoli falciati dalle mitragliatrici americane mentre cercavano di arrendersi), i racconti dei prigionieri che destarono incubi per anni fecero «slittare dentro di lui una faglia della coscienza», aprendo

«a una tormentosa doppiezza della vista, che si dispose ad accogliere il perenne sospetto di una verità a più dimensioni. Ne venne probabilmente quella tipica contiguità col disastro, quella porosità del reale e presenza nascosta dell’inquietante che percorre tutta l’opera di Hecht, capace di esprimere il fondo brutale che spunta dietro le apparenze, come di un numero elevato a potenza che inglobi la propria radice quadrata».[5]

Dopo la guerra, grazie alla legge G.I. Bill, studiò al Kenyon College con John Crowe Ransom, entrando in contatto con Lowell, Randall Jarrell, Elizabeth Bishop e Allen Tate. Joseph Harrison, infatti, scrive:

 

«Anthony Hecht è stato uno degli esponenti più autorevoli della straordinaria generazione di poeti statunitensi nati negli anni venti del secolo scorso. Questa generazione è cresciuta e maturata in un’epoca difficilissima: bambini e adolescenti durante la Grande depressione e giovani durante la seconda guerra mondiale – nella quale molti di loro sono stati chiamati alle armi vivendo e testimoniando, ancora negli anni formativi, la povertà estrema e, in alcuni casi, atrocità impensabili. Questi giovani sono maturati in fretta: sono stati costretti a maturare. […] Anche nella folta schiera dei suoi talentuosi contemporanei, Anthony Hecht si è sempre distinto per diverse ragioni. […]Ha sempre avuto, fin dall’inizio, un orecchio sopraffino perle sfumature musicali del verso inglese; persino le sue primissime poesie dimostrano una spontanea padronanza delle complessità del metro e della rima, e pochi poeti americani lo hanno eguagliato nella costruzione di intricate forme strofiche. Godeva anche di una qualità complementare ma parimenti rara: l’occhio preciso del pittore sul mondo che lo circonda, così che nelle sue poesie – sia quelle brevi che le più lunghe – spesso sono incastonati passaggi descrittivi di un’accuratezza mimetica strabiliante. Il suo vocabolario era immenso, e lo spettro della sua dizione molto ampio: anche un lettore esperto ed erudito dovrà ricorrere al dizionario quando legge Hecht, ma insieme ai termini di derivazione latina e a quelli iper specifici del linguaggio tecnico si trovano, impiegati in modo impeccabile, le frasi e le inflessioni del discorso quotidiano. Era anche naturalmente portato all’uso di strutture sintattiche elaborate, quasi labirintiche, ma sapeva scrivere semplici periodi dichiarativi di grande forza retorica. Possedeva, in abbondanza, quella che Aristotele identifica come la più importante qualità che un poeta possa avere (perché, diversamente dalla dizione o dall’abilità metrica, non può essere imparata, essendo dipendente da doti innate): il potere di creare metafore, di scoprire somiglianze in oggetti dissimili».[6]

Ma se di materia inquietante, ossia immersa nella inquietudine e nella ultimità, si tratta, la sua flessibilità si sposa con il rigore e la dizione erudita, con la vis tragica, con la oscurata limpidità che sfiora il destino, immergendovi la memoria, il limite, la morte e la cronaca della disumanità. Ma è anche il poeta della visione della luce e della sua discissione che è materia immaginativa, integrità chiara e intensa concentrazione prospettica. La poesia iniziale, Una collina, si apre con un riferimento all’Italia e a Dante. Attraverso lo sguardo e il lacerto mnesico, Hecht compie un à rebours oscuro e negativo che mette in luce l’incisione del dettaglio nella scena, la sua perturbazione e la sua rivelazione:

In Italia, dove cose così sanno accadere, / una volta ho avuto una visione – ma, capirete, / in nulla come quelle di Dante, o dei santi, / forse per niente una visione. Con amici / procedevo adagio in una piazza calda di sole, / di primo mattino. Una radiosa tarsia d’ombre dagli ombrelloni si spargeva sul selciato, faceva / lucenti bassifondi dove una flottiglia / di carri era ormeggiata. Libri, monete, mappe / antiche, paesaggi da due soldi, orribili stampe / religiose erano in vendita. I colori, i rumori, / come le mani in volo, erano gesti di giubilo, / così che anche le contrattazioni / giungevano all’orecchio come volubile religiosità. / Poi, quando accadde, i rumori caddero improvvisi, / si fece scuro; svanirono carretti e gente / e perfino l’imponente Palazzo Farnese / era scomparso, con tutti i suoi marmi; al suo posto / una collina color topo e brulla. Faceva assai freddo, / quasi gelava, e prometteva neve. / Gli alberi erano ferrivecchi affastellati / contro un muro d’officina. Niente vento, / e il solo suono per un po’ fu lo scrocchiare fino / del ghiaccio rotto nel fango dal mio passo. / Vidi una striscia di tela impigliata a una siepe, / non altro segno di vita. E poi udii / come lo schiocco di una schioppettata. Un cacciatore, / pensai; almeno non sono solo. Ma subito / seguì il soffice schianto cartaceo / di un grosso ramo che crollava a terra non visto. / Fu tutto, se non per il gelo e il silenzio / che promettevano di durare in eterno, come la collina. / Poi riaffiorarono i prezzi, le dita, venni restituito / al sole e agli amici. Ma per più d’una settimana / restai sconvolto dalla nuda asprezza di ciò che avevo visto. / Accadde circa dieci anni fa, / e da allora non mi ha più turbato, ma infine, oggi, / ho ricordato quella collina; sorge appena a sinistra / della strada a nord di Poughkeepsie; da ragazzo / vi trascorsi ore e ore lì davanti, d’inverno».

Joseph Harrison commenta:

«La poesia ruota attorno al contrasto tra la scena iniziale posta in Campo de’Fiori, pieno di colori e rumori, e la «visione» che la interrompe – che ci capirà poi essere un ricordo profondo dell’infanzia – con una scena desolata di una collina «color topo e brulla», a «nord di Poughkeepsie», una località nello stato di New York. Si tratta della più non-visionaria visione che si possa immaginare, e che esplicita l’assunto grazie al quale Hecht capovolge ironicamente il concetto di ciò che è «poetico»: dove ci si aspetterebbe trascendenza si trova l’opposto, la consapevolezza dell’ineluttabile desolazione e tenebrosità che si trova al cuore di ogni cosa».[7]

Il senso di gravitas, già apparso in nuce nelle sagome radunate e artificiose di A Summoning of Stones (Un raduno di pietre) nel 1954, qui raggiunge l’acme del dilemma, specie nella lotta tra memoria volontaria e involontaria, nell’agone indefinito tra la noia e la vita improvvisa ed ebbra. Come accade in Guardate i gigli del campo, in cui un paziente in analisi rivive, con gli occhi di un soldato romano, obbligato a guardare, il terribile supplizio dell’imperatore Valeriano, morto in prigione persiana. A tal proposito, Roberto Galaverni scrive:

«Hecht è un poeta della storia (personale) e della Storia (pubblica e civile), che anzi sono impensabili l’una senza l’altra. Ed è pertanto un poeta del retaggio, delle scelte, della responsabilità. Eppure una sua virtù va senz’altro riconosciuta nel far nascere le situazioni da dentro, dagli abissi della psiche e dell’animo umano, dalle scissure che non sono mai del tutto sotto il nostro controllo, da quella parte di noi che non vorremmo essere e da cui pure non riusciamo a liberarci. Di qui l’inquietudine, il turbamento profondo, a volte persino il malessere, che spesso accompagnano la lettura. Si avverte ogni volta la presenza di un rovello oscuro, di un non detto terribile che condiziona il presente e che presto infallibilmente esploderà. Di qui anche la necessità che il poeta avverte di spiegare, di riflettere, di riportare a ragione, di far scaturire dalla rappresentazione un giudizio morale, almeno implicitamente».[8]

Riti e cerimonie, affronta il dolore dell’indicibile esperienza dell’Olocausto (come accadrà anche in altri testi finali della raccolta, dove la furia della morte prosciugherà l’anima nelle ore che diventano anni: «Non una preghiera, non incenso, s’alzò in quelle ore che divennero anni; e venivano ogni sera muti spettri dai forni, filtrando nell’aria frizzante, posandosi sui suoi occhi come fuliggine nera»), iniziando con un’invocazione che mescola le allusioni al Libro di Giobbe, ai Salmi, alla prima strofa del poema catastrofico e abissale di Gerard Manley Hopkins Il naufragio del Deutschland.

Il dramma di Hecht non si svolge soltanto nella cronaca, bensì nelle fenditure oscure delle sovrapposizioni, nel dramma della sopravvivenza, nelle frastagliate possibilità della lingua, in ciò che può essere salvato e sopravvivente[9]. È la caratteristica ontogenetica della sua poesia che ricrea il mondo, raschiando il proprio spazio e le relazioni ferite con l’alterità inaudita, che si lega alla preghiera umana ed elementare di un mondo in apprensione[10]. La religione non mitiga il dolore nella distanza delle stanze senza finestre, nelle lettere innominate del blu insepolto e del sangue sussurrato. Resta un tentativo duttile e ombroso di recuperare l’umanesimo intonso e perduto che tenta di elevarsi in una pace quasi tracimata:

«Padre, Adonoi, autore di ogni cosa, / dei tre stati, / della luce soffusa dell’alba sulla stalla, / vento che canta / nel felceto, fuoco sul ferro delle grate, / del corno dell’ariete, / arredatore, perno del paradiso, che hai legato / le amabili Pleiadi, / penetrato i perfetti tesori della neve, / che il corso hai disegnato / tondo del mondo, nascita, morte e malattia, / e che le vene / hai sviluppato, cervello, ossa in me, per cantare e respirare / l’aria hai modellato, / Signore che, governando nube e fonte, / o mio Re, / me che vivo fino a questo 43° anno hai preservato – / in cui noi dubitiamo – / chi era il bimbo di cui narrano / nelle laudi e trenodie? / il cui santo nome tutti pronunceranno / Emmanuel, / che interpretato significa «Gott mit uns»?».

Nel 1977 Hecht pubblicò Millions of Strange Shadows (Milioni di ombre arcane), in cui la pienezza e la ricchezza immaginativa esplorano il trauma in parallelo della coscienza «nell’aggressiva luce del sole» e nell’aria rarefatta, come accade in Verde: un’epistola, in cui «l’interno di una notevole metafora protratta, le crescenti afflizioni di una coscienza in via di maturazione – «risentimento, malizia, odio» – vengono viste in corrispondenza alla maturazione botanica del pianeta, in modo tale che l’ontogenesi ricapitola la filologia nel modo più inquietante[11]».

Come il ricordo della governante teutonica con un «gusto particolare per il dolore inflitto» assurge a trauma e dramma universale di vacuità cinerea, di buio della coscienza, di riverberazioni che nascono da un particolare e penetrano nei sussurri interiori: «Quando Fräulein scomparve, non ricordo / esattamente. Continuammo a incontrarci / grazie ad appuntamenti segreti nei miei sogni / in cui, per stadi, la nostra relazione / crebbe a proporzioni internazionali / mentre i ghetti dell’Europa si svuotavano, i carri bestiame / viaggiavano verso spazi terminali e osceni, / e forni avvampavano come nelle acciaierie di Pittsburgh». O il sipario del sogno interrotto dello spettatore a teatro, le divinazioni di innocenza, l’inintelligibile preghiera di Santo Stefano.

Vi è, dunque, in Hecht, un elemento che perturba la scena, la dilata negli spazi mentali e memoriali, fa emergere un rimosso perduto e infine, riporta il tempo a una dimensione presente, quasi raddoppiata ed esiliata, allucinatoria ed indefinita, catatonica e vitale.

I pentametri giambici di The Venetian Vespers (1979) recano l’acume dell’immaginazione portata al trionfo: L’uva, confessione di una cameriera di un hotel, che nella valle dell’ombra è pervasa dall’epifania negativa delle illusioni e della sorte davanti all’uva («E tutte quelle piccole borse di vitrea trasparenza, / quei grappoli di pianeti, porgevano la guancia orientale / alla luce del sole, ciascuna con un morbido / gonfiore meridiano dove la luce più sottile / misteriosamente scemava nell’ombra»), l’atroce enigma de L’offerta espiatoria che segue le linee di Renoir, la drammatica staticità della natura morta, narrata nei cambi di colore e nella immota permanenza dell’universo. E poi le persistenze, le maledizioni si immergono nell’anima dei vespri veneziani, in cui l’armonia friabile di questa città raffigura lo strappo di un limbo, il rifugio del tempo presente e l’anima imbevuta. La chiarità magnificente unita all’epifania chiaroscurale del tempo, in un’unica deriva di colori:

«Sullo sfondo di un diorama del celeste più tenue / cagli di nuvole, cumuli di nuvole, cespugli di nuvole s’assolano. / Enormi torte nuziali, meringhe impossibili, / soffici barriere coralline e tumuli friabili / passano in anguste processioni e calme greggi. / Immensi stadi, tribune e anfiteatri, / sembrano le opulente lettighe ornate di nappe / degli dei; o fasce da neonato lavate, parrucche bien coiffées, / raccolti bianco-latte, peonie cinesi / che virilmente rimproverano la nostra grettezza. / Nonostante tutte le loro presenze spettrali, esse / di sera assumono una nobiltà multicolore. / Verso est il cielo comincia a volgere / a un lilla così esangue da sembrare un umore del grigio, / per gradi, come quietamente i giusti spirano. / Strie di argentana bordano sfarzose / le lente chiglie a fondo piatto, quei lobi ondeggianti / tra i quali piume e fasci di luce sventagliano / rossi e arancio-pesca sfumati in cornalina, / che approssimano al centro un fulgore cedrino, / la fornace ardente nella gola del forno / che infuoca e fonde nuvole di moscatello / con pennellate d’oro».

In The Transparent Man (L’uomo trasparente, 1990), il particolare ampio e minimo si lega alla impenetrabilità, al segno unitivo, allo sguardo pervasivo dell’oltre, fatto di stendardi di luce che si dispiegano e si avvolgono, dove, come in Vedi Napoli e poi muori, ciò che accade porta con sé la sua maestà precaria, racchiusa in un fatto quotidiano, o dove ciò che è idillico scurisce nella metamorfosi:

«Quasi riluttante d’esser giorno / il mattino sciorina un repertorio / di rarità ferrigne, / e l’inverno indossa l’armatura, / trionfante su legioni di rosso e oro. / Le pietre dalle anime fumose, / pennellate opache di piombo, / riducono il mondo a un monotono pallore / di clima cimiteriale, vapori di acquitrini / che ci sentiamo penetrare nei pori. / Se non per gli spazzini, / i nostri figli sono i primi a uscire fuori. / Carichi di libri e imbacuccati, da bocca e naso / fantasmi vengono evocati: / di George Washington e di Poe, di Banquo / miriadi di soldati, dell’Unione e Confederati. / E loro stessi sono i fantasmi, grigio-casellario, / di noi defunti in un’altra era, / che rinunciamo per iscritto alle nostre vite / sulle felci e i prezzemolo gelati del finestrino di una corriera» (Curriculum Vitae).

Nella lunga sequenza di Flight Among the Tombs (Volo tra le tombe, 1996), la luna sequenza in cui la Morte parla in prima persona o prende le sembianze dell’alterità. Il gesto poetico di Hecht qui compie una lunga parabola ironica, sinistra e acrobatica, in cui il vertice del sublime diviene timore e tremore di sillabe, lamento creatore, carne tremula e tempo finito.

La sintassi sinuosa di Hecht è frutto di un infinito corpo a corpo con le sfumature idiomatiche, l’intensità visionaria e l’elegia. In The Darkness and the Light (La tenebra e la luce, 2001), ultima raccolta del poeta, la sequenza feroce della malinconia, dell’ode, del monologo e della traduzione, vibrati attraverso il selvaggio sipario delle rime, la pantomima barocca dei paesaggi e degli scrigni, molti dei quali inseguono trame bibliche, rilasciando una stoffa di eclissi e mancanze («[…] la luce che rischiara / è l’eclissi di loro stessi: / sale mentre vengono a mancare»), suoni limpidi e sfarzi nell’ira in cui il sole imporpora il mondo o i lapislazzuli triturati del cielo inventano Eden perduti, indorati agli orli e remoti agli angoli. E dove la tenebra e la luce si fronteggiano in un’unica salmodia (soprattutto nel riferimento al salmo 139) finale e sospesa[12]:

«Incisi sul vetro i barbari cardi del gelo / si espandevano ubiqui nella docile luce invernale / con pavè di diamanti ed esili aghi di ghiaccio / da cui un fascio luminoso del tardo pomeriggio / filtrava nella stanza per far risaltare la deriva, / il fluttuare del pulviscolo come minuscole vite acquee, / poi riverberava sulla teiera d’argento, suscitando / chiazze d’oro che strisciavano come lumache sul soffitto / e finalmente s’immergeva nel secchio della risciacquatura / dove altre vite acquee, ugualmente lente, / ruotavano sulle loro tristi, involontarie rotte, vortici / nella broda verde-anguilla. Chi avrebbe mai pensato / a un qualsiasi altrove? Perfino al di fuori, dove / cataste di legna brillavano in panneggi di brina / e accecavano il sole stesso con quel furto esultante, / il levigato bottino gelido di fuoco celestiale?».

 

[1] Shapiro H., Anthony Hecht, a Formalist Poet, Dies at 81, in “The New York Times”, October 22, 2004.

[2] Hecht A., Le ore dure, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, introduzione di Joseph Harrison, Donzelli, Roma 2018.

[3] Cfr. ID., Selected Poems, edited by J.D. McClatchy,  Alfred A.Knopf, New York 2011.

[4] Cfr. Anthony Hecht in Conversation with Philip Hoy, Btl, London 1999.

[5] Febbraro P., Lo “stravedere” del colorista, in “Il Sole 24ore”, 9 settembre 2018.

[6] Harrison J., «Una policroma nobiltà serale»: la traiettoria poetica di Anthony Hecht, in Hecht A., Le ore dure, cit., pp.11-13.

[7] Id., cit., p. 16.

[8] Galaverni R., Racconta la tua storia, sembra la storia, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 12 agosto 2018.

[9] Cfr. Sinclair P.M., Trauma and Prayer in Anthony Hecht’s The Hard Hours, (https://www.academia.edu/5192733/Trauma_and_Prayer_in_Anthony_Hechts_The_Hard_Hours).

[10] Alter R., “Psalms.” The Literary Guide to the Bible, editors Robert Alter and Frank Kermode, Harvard University Press, Cambridge 1990.

[11] Harrison J., cit., pp. 18.

[12] Harp J., On Hecht’s Darkness and light, (https://www.kenyonreview.org/2007/11/on-hechts-darkness-and-light/), november 22, 2007.

Hecht A., Le ore dure, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, introduzione di Joseph Harrison, Donzelli, Roma 2018, pp. 208, Euro 17.

 

Hecht A., Le ore dure, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, introduzione di Joseph Harrison, Donzelli, Roma 2018.

  • Anthony Hecht in Conversation with Philip Hoy, Btl, London 1999.
  • Selected Poems, edited by J.D. McClatchy, Alfred A.Knopf, New York 2011.

Alter R., “Psalms.” The Literary Guide to the Bible, editors Robert Alter and Frank Kermode, Harvard University Press, Cambridge 1990.

Febbraro P., Lo “stravedere” del colorista, in “Il Sole 24ore”, 9 settembre 2018.

Galaverni R., Racconta la tua storia, sembra la storia, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 12 agosto 2018.

Shapiro H., Anthony Hecht, a Formalist Poet, Dies at 81, in “The New York Times”, October 22, 2004.

Sinclair P.M., Trauma and Prayer in Anthony Hecht’s The Hard Hours, (https://www.academia.edu/5192733/Trauma_and_Prayer_in_Anthony_Hechts_The_Hard_Hours).