Claudio Damiani Prima di nascere – Nota

di Andrea Galgano  15 febbraio  2022

leggi in Pdf Claudio Damiani Prima di nascere

Prima di nascere di Claudio Damiani[1], appena edito da Fazi, è l’esito di un contrasto  di una pre-nascenza e di una co-nascenza. Nella domanda sull’essere e sul nulla, nell’approvvigionamento essenziale del respiro, nella vertigine mai opaca del tempo e nella sospensione, la poesia di Damiani conosce questa dimensione del sangue e del sospiro e si appropria, dunque, di questo interstizio di esplorazione[2] tra cielo e terra:

 

«Quando ero piccolo, quattro-cinque anni, / mi immaginavo prima di nascere / come sospeso nel cielo ( non so se qualcuno mi aveva detto / queste cose, o me l’ero immaginato io), / mi sembrava incredibile non essere esistito prima / e mi sembrava incredibile pure di essere esistito, / non capivo dove potevo stare, così in alto nel cielo, / dove potevo poggiare i piedi».

Si confronta con lo stupore esile delle cose, con i contrasti e con la paura, con gli ossimori esiziali del vivere e diviene poesia della misura e del colloquio, e, come aggiunge Davide Rondoni,

«del nitore, del debito oraziano e cinese, il poeta delle ariose e commoventi poesie sul fico, sull’infanzia, sull’Elba, sul Soratte, sui ragazzini a scuola, sugli “eroi” del feriale, ecco, questo poeta ha per così dire raccolto, quasi “costretto” tutte queste cose e voci e figure, le ha convocate, quasi citate in giudizio dinanzi al tribunale del tempo e della morte. E soprattutto ha citato in giudizio se stesso, la sua personale vicenda o guerra. Nudamente, spudoratamente. Con la sincerità di sempre, ma ancor più resa estrema, cordiale ma anche puntuta, dal confronto con il tema dei temi, la morte, appunto, e la sua ombra, ovvero la speranza – e viceversa».[3]

Vi è l’attesa e la minaccia, la saggezza di voltarsi dall’altra parte[4], che non è appena un disinteresse nichilistico ma semplicemente una deviazione, una feriale quanto magmatica sproporzione di sguardo.

Questo disarmo è un lievito di aria fresca che entra nel sangue, il corpo che si mischia alle nuvole che avvolgono la dimora del tempo abitabile, come archetipi di infanzia, nella vastità ampia del futuro e nell’interezza di un abbandono epifanico:

«Le farfalle mi venivano incontro / erano quelle piccole azzurre / della mia infanzia che volevamo acchiappare / ma anche cavolaie che volavano a coppie tra i cespugli / e farfalle notturne che mi facevano paura / tra i gradini della scala di casa, / mi venivano incontro e io le accarezzavo / e le baciavo, era come se volassi / nello spazio e mi venivano incontro / corpi celesti, asteroidi, comete / e io li sfioravo e li accarezzavo / e in ognuno abitavo / per qualche tempo, poi ritornavano le farfalle azzurre / e tutte le altre e si diradavano, / si vedeva che andavano in un luogo / come un centro di raccolta / forse andavano a riposare, a mangiare non so, / e io restavo solo / in un cielo completamente vuoto, / completamente solo».

E poi ancora, in quella ampia attesa cerca la risposta alle domande che non si riescono a dimenticare, non si accartoccia mai sul nulla, sulla finitudine e sul limite, bensì si appropria di un tempo che è di luce ed è incombente:

«Sto qui in attesa che il tempo passi / poi finirà e sarà come staccare / l’interruttore, come tagliare le vene / e non si sa cosa succederà / staremo al buio, o alla luce / o non staremo, non saremo niente / (anche se sembra impossibile che questo possa accadere, / da ricerche accreditate sembra che il nulla non possa esistere) / perché sappiamo tanto, abbiamo tanta scienza / ma di noi non sappiamo niente, / e con la scienza, con la tecnologia / ancor più stride la nostra mortalità / e precarietà, come se più la allontanassimo / la morte, più diventasse incombente / e insopportabile. Noi nati alla morte, / noi morituri ti salutiamo, o Cesare, / sfiliamo rigidi davanti al giorno / e nella mano abbiamo la medaglietta / e la stringiamo, col nostro numero inciso».

E se il dato della nascita non fosse che una volontà, una scelta come un piccolo passo («Se fossimo noi che abbiamo scelto di vivere / e di morire, come se qualcuno / ci avesse mandato in missione, / estratti a sorte, / o se ci fossimo fatti avanti, / avessimo fatto un passo, un piccolo passo…»), un’adesione al vivere, quando «con una spinta abbiamo bucato il mondo»?

L’emersione della poesia di Damiani è una conca di abissi, che fronteggiano anche la memoria, il niente (ancor prima del nulla), ma esplorano e vivono la percezione della natura e lo splendore lieve e dolce.

Un orizzonte esile, un fiancheggiamento di alberi, animali, fiumi, che esplodono di grazia nell’antichità ma si rivestono del tempo presente, del deposito del tempo presente.

L’universo nello sguardo, la prosa-mantra, la traccia del “quasi nulla”, lo scrutare lieve che sfida le tempeste e la lontananza, il fuoco e le fiamme invisibili dell’abisso che tiene sospesi, perché nella cifra di ogni tremore[5], «Il mistero è così fitto / e noi così fragili / che non ci sono speranze / o meglio, possono esserci solo speranze, / la speranza è la nostra scienza»:

«La polvere guardo nell’aria / e questa polvere sopra il tavolo / non la tolgo, la lascio, / voglio stare accanto a lei / e dei fili che sono per terra / non li levo, e le orme / delle scarpe, le lascio / e questa mosca anche lascio, morta / e questa cosa che era caduta per terra / e non so più dov’è / non so più che era. / E mi deposito anch’io / mi lascio andare sul letto, / lascio che l’aria mi circondi / come un ciottolo che la corrente trascina, / e che niente mi salvi».

La linea agostiniana[6] e rabdomantica trova la fecondità nel tremito fisso della carezza e della domanda, il nitore puro del cielo e il grande trapezio del mistero che avvolge il tempo:

«Pensa se fosse così: / che noi, mentre stiamo facendo una cosa / comunissima, tipo portare una cosa / sopra un tavolo, oppure cercarla / e ecco aprirsi una porta, e nella stanza / ci sono tutti! È una stanza immensa / e ti salutano gioiosi e applaudono / come un compleanno a sorpresa / e dicono: «Hai visto? Sei contento? / Come stai? Come ti senti?» / e tu lo senti che è stata come uno scherzo la vita / o un brutto sogno, oppure è stata / come una guerra sotto i bombardamenti / e ogni giorno c’erano le sirene, / o c’erano stati giorni belli anche, / di sole, di luce, di silenzio / tu camminavi da solo / in mezzo alle piante amiche»

 

[1] Damiani C., Prima di nascere, Fazi, Roma 2022.

[2] Guidi S., Punte di fiamma invisibili, in “L’Osservatore Romano”, 3 febbraio 2022.

[3] Rondoni D., Claudio trema. Su Claudio Damiani, “Prima di nascere”, in «Clandestino – Rivista», (www.rivistaclandestino.com/claudio-trema-su-claudio-damiani-prima-di-nascere/?fbclid=IwAR2_ZSRHZ3dIa4Vva2nUpKf-dIKUGuzBdzxmLLGWmkgCxn_XEmtx4H9pS0A), 7 febbraio 2022.

[4] Langone C., Il poeta Claudio Damiani ci insegna la saggezza del voltarsi dall’altra parte, in “Il Foglio”, 9 febbraio 2022.

[5] Minore R., Un classico travestito da contemporaneo, in “Il Messaggero”, 13 febbraio 2022.

[6] Affinati E., La poesia «dantesca» di Damiani, in “Roma Sette”, inserto di “Avvenire”, 13 febbraio 2022.

Damiani C., Prima di nascere, Fazi, Roma 2022, pp. 152, Euro 18.

 Damiani C., Prima di nascere, Fazi, Roma 2022.

Affinati E., La poesia «dantesca» di Damiani, in “Roma Sette”, inserto di “Avvenire”, 13 febbraio 2022.

Guidi S., Punte di fiamma invisibili, in “L’Osservatore Romano”, 3 febbraio 2022.

Langone C., Il poeta Claudio Damiani ci insegna la saggezza del voltarsi dall’altra parte, in “Il Foglio”, 9 febbraio 2022.

Minore R., Un classico travestito da contemporaneo, in “Il Messaggero”, 13 febbraio 2022.

Rondoni D., Claudio trema. Su Claudio Damiani, “Prima di nascere”, in «Clandestino – Rivista», (www.rivistaclandestino.com/claudio-trema-su-claudio-damiani-prima-di-nascere/?fbclid=IwAR2_ZSRHZ3dIa4Vva2nUpKf-dIKUGuzBdzxmLLGWmkgCxn_XEmtx4H9pS0A), 7 febbraio 2022.

Il piazzale senza nome di Luigia Sorrentino

di Andrea Galgano  1 febbraio  2021

leggi in Pdf Il piazzale senza nome di Luigia Sorrentino

Il nuovo lavoro di Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome[1] (Pordenonelegge – Samuele Editore 2021) è il recupero di una recisione, una vitalità disperata che, partendo dalla perdita della cara figura paterna, approda a una sofferta ferita che è vertigine e pulsazione, offerta e sacrificio, illuminazione sacrale e orientamento di piega numinosa.

Partendo dall’esergo plutarchesco, sulla morte da vecchi come approdo e da giovani come perdita e naufragio («noi che non eravamo mai stati del tutto / vivi all’amore, / eravamo caduti sul ciglio della strada / nella polvere / conoscemmo con cura il perdersi»), la sua poesia custodisce questa sacralità che lotta contro l’oblio, che si appropria di una dilatazione per farsi visione e viso, necessità di ricordo e testimonianza di incontro: «su tutto il giardino neve / dilatata / silenzio armato nelle pupille / neve, tutta nel sangue / narici oltraggiate / bianco e nero / l’incedere violento / del battito cardiaco / si chiude su di sé / nella luminosa potenza / avviene l’incontro» (Nel secolo che hai lasciato 1).

E ancora nella luce che geme, nella bellezza disperata, nell’enigma misterioso della vita e della morte, la lingua resta attonita e ferma nel cristallo antico dello stupore, come un avamposto di bellezza, un “quasi” nulla che è pura fertilità umana: «geme la luce / tanto più densa e oscura / oscuro marcire oscuro / assorti nella pietà gli occhi prendevano / il cristallo antico dello stupore / il cranio stretto fra le mani / povero e antico resto / bellezza disperata / chiamata a scendere / neve affamata ha consumato / il sacro giardino / nel secolo che hai lasciato».

Il cuore giovane che soffoca, grida, vive la sua linea parallela e la fecondità umbratile di una semenza felice e maledetta, dove il microcosmo del dolore singolare è lacerazione universale, ciò che resta non sono solo macerie o rovine, addii impossibili e carico infinito («lente le mani raccoglievano i capelli / sulla nuca / mentre la pioggia ricadeva / sui loro volti / uno alla bocca dell’altro beveva / la lentezza / sollevati nelle braccia / la sostanza liquida caduta / dalla bocca sul marciapiede / accasciata sulle spalle / la processione disumana / la beata, sfiorata giovinezza»), ma è la bellezza che non vuole morire, che non decide di scomparire:

«[…] Sotto la notturna volta della scala comunale è scomparso il ragazzo che infilzava lucertole trapassandole da parte a parte con il fil di ferro. Da poco si è accasciato sul terreno, in mezzo al groviglio di arbusti spinosi e rami secchi. Una striscia di cielo lo guarda. Nella testa della capra suona il ritmo assordante di una musica persecutoria. All’alba spalancherà gli occhi senza nessun ricordo. La morte da giovani arriva all’improvviso, carica di violenza. Lo smembramento è totale. Su tutto domina l’ebbrezza gridata da un cuore felice e maledetto» (Morti parallele).

La vitalità ombrata di questi testi raffigura una resistenza umana estremamente commossa, dove neve e sangue si uniscono, come se restituissero non una lotta impari ma un agone, in cui l’amore e il suo mistero accompagnano le tensioni dell’io, la sua vertigine, il proclama della sua indocilità dionisiaca: «la forza che uccide / in un colpo solo / è sommaria, rapidissima / occhi azzurri strappati dalle orbite / – vi divoreranno / il coltello posato a due centimetri / dal lago / dal sangue / dalla carne strappata / – vi insultano – / la capra geme sul tavolo / la gravità, oscura forma, / la preda».

In questa oscurità materica, in questa esiliata luce giovane («la notte si era accasciata / la giovinezza / l’avevamo trascorsa / nel peso della sua immortale rovina / noi che non eravamo mai stati / del tutto vivi all’amore / c’eravamo concessi al freddo / stretto nelle narici, nelle vene / avevamo perduto tutte le parole / la forza di una generazione»), nella sillaba muta di ogni sventura e nella preda edace del tempo, discesa come fame e consumazione nevosa, come afferma Mario Famularo, vi è non già una poesia introflessa «ma assolutamente attenta ed esposta all’altro da sé, essenziale alla comprensione dell’aspetto più autentico dell’esistere, al lato più tremendo e sacro dell’esperire il mondo[2]»: « il silenzio delle lamiere nascose / l’assalto in una notte di febbraio / i denti sul braccio fino all’osso / la testa contro il finestrino / – tu sei niente, nessuno – / e non so quando / tutto il nascosto ci travolse / senza emettere un lamento / gelò la fronte il respiro / della cenere». (Piazzale senza nome)

La carne strappata del dolore, nella sfinitezza della finitudine percossa («lui è uno di fonte al quale / ci si copre la faccia / crollato nel profilo / sfinito, brace predata dall’ambra / gola automatica / neve deglutita piano piano / vedo cose che altri non vedono / ha rinunciato / l’insofferenza della mano / percuote la sua ora»), nelle giovani vite tagliate e nel corteo di torture, il respiro sembra precipitare e abbandonarsi, ma è «nella calma materna» che «corre tutta la vita»:  «aveva oltrepassato il confine / restituita la voce / all’universo / la sorgente di luce non era più / visibile / era tramontata fra gli alberi / la notte bianchissima discesa / fino in fondo, guerriera / nel suo sangue la neve / il freddo polare nelle pupille / allagate / perdute per sempre».

La trasparenza bianca del dolore, raffigurato in immagini di abbandono, insulto, disprezzo tormentato, lascia impronte, si consegna alla fertilità di ciò che non muore, nonostante la rosa intorpidita e muta, la totalità della sofferenza, le palpebre socchiuse, l’indifferenza: «dal vetro vede la strada / una lingua umida / limacciosa / spalancata negli occhi / ha fame di notte / l’odore della pioggia senza peso / ha investito il corpo nascosto / l’odore viene dal basso / la suola delle scarpe / non ha consumato / la sconosciuta profondità / del vedere».

La poesia di Luigia Sorrentino scava nelle vene, non rilascia segni di nichilismo o di rassegnazione, narra l’esondazione tenebrosa delle ferite, mantenendo la forza di ciò che è senza fine, la parola amata, la linea dell’orizzonte femminile, la voce dell’universo e la grazia del padre: «la gioia del fiorire / ebbe inizio in te / la pienezza riempiva i frutti / l’imperioso fare ci ha traditi / – siamo stati traditi / dagli organi vitali – / la durata non ci tocca più / svuota le nostre vene / la giardiniera inghirlandata / ci arresta tra soste d’amore / guardandoti il volto distende / l’impronta della morte è svanita».

O, infine, in una sacrale accoglienza di bellezza custodita, il tremendum ha una pausa di dolcezza arresa e ci rimette una grazia rarefatta: «corpo affermato / dalla terra emanava / odore di fresie selvatiche / prepara lo stelo del fiore / un cammino di polvere / accudisce l’arcaico / rito dell’acqua / la pulizia con la spugna / alla fragile tomba / baciava la sua vita adorata / il male riempito / pulsava nelle soste del tempo / il suo cuore, l’oceano».

[1] Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021.

[2] Famularo M., Piazzale senza nome di Luigia sorrentino, (www.laboratoripoesia.it/piazzale-senza-nome-luigia-sorrentino/).

Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021, pp. 102, Euro 13.

Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021.

Famularo M., Piazzale senza nome di Luigia Sorrentino, (www.laboratoripoesia.it/piazzale-senza-nome-luigia-sorrentino/).