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Le rune di George Mackay Brown

di Andrea Galgano

3 ottobre 2023

Le rune di George Mackay Brown

Tra le voci più potenti e originali del secondo Novecento, il poeta scozzese George Mackay Brown (1921-1996) di Orkney, patria e territorio della sua poesia, concentra il tumulto remoto e selvaggio della terra, con l’alternarsi di luce e ombra, in un tempo di scissione e vicinanza, di moto e silenzio. E poi di liturgia quotidiana e di luce perpetua che sembrano giungere da un solco antico, come dalle freschezze di Hopkins, dai moti vertiginosi di Dylan Thomas e dalle ispessite malinconie di Yeats[1]: «Avere inciso sulle giornate della nostra vanità / Un sole / Una nave / Una stella / Una spiga / Anche qualche segno / da un tempo antico, scordato / che un bimbo possa leggere / Che non lontano dalla pietra / un pozzo / si possa aprire per i viandanti / Ecco un lavoro per i poeti – / incidere le rune / poi accettare il silenzio».

Grazie alla casa editrice Interno Poesia, una selezione delle migliori liriche di Brown, dal titolo Incidere le rune[2], curato da Giorgia Sensi, con la prefazione di Kathleen Jamie, già responsabile dell’edizione inglese del 2021 e tradotta per la prima volta in italiano.

Il lavoro dei pescatori e dei contadini, il mondo primordiale di Stromness, la vaga indeterminatezza e originalità simbolica[3], il senso di limite, le stagioni e la tensione metafisica verso l’ultimità lontana trasformano «ogni cosa facendola passare attraverso la cruna d’ago delle Orcadi», come scrive Seamus Heaney.

Kathleen Jamie afferma:

«Il suo orecchio per la lingua era apparso evidente fin dall’inizio, ma nel corso degli anni impiegò e padroneggiò nuove forme poetiche, e approfondì i propri contenuti. La sua voce di scrittore è calda, ricca e drammatica. Non impiegò una ‘voce speciale’ per la poesia; lo stesso tessuto di suono è presente in tutto ciò che scrisse: romanzi, lettere, testi teatrali. Quanto alla poesia, scrisse ballate (amava le ballate scozzesi, le loro storie veloci, feudali, determinate dal fato); sonetti, come ‘Hamnavoe Market’. Aveva un orecchio perfetto per il ritmo del verso libero, eppure era capace di ideare i propri complessi schemi rimici. […] ‘Cantare’ è una parola che Brown usa spesso, ma ‘danzare’ potrebbe meglio descrivere il modo in cui utilizzava la lingua. Il suo ricco mondo lirico è una danza a più mani, nella quale è coinvolta un’intera comunità sonora; le sue poesie sono come danze popolari scozzesi o ‘ strathpeys’, dove nessuno è escluso».[4]

L’accessibilità essenziale non toglie l’acume metafisico della sua opera, laddove la poesia ha il compito di fare i conti con il Destino e il Tempo, il Caso e la Mortalità, che si intessono del dramma quotidiano, della brevità umbratile dell’essere e della costruzione del tempo.

La poesia di Brown è ricolma di un inseguimento di scena: guardare al tempio del reale, a chi semina, alle stelle e ai fuochi che scintillano. Nel suo drappo, la pagina si popola di temi e immagini che diventano universali, la cui traccia orcadica diviene come un sacramento di sogno ed eternità, lontananza ombrosa: «Non si mormori invano qui. / Tra quelle grosse scogliere rosse, / sotto quel grande cielo mite / resta l’ultimo incantesimo di Orkney, / segreta valle di luce. / Dolcezza che scende dalle nuvole, / canti dal mare impetuoso. / campi sconfinati, pescatori con aratri / e vecchi eroi, che dormono per sempre / nelle benevoli colline di Rackwick».

La sua enunciazione spazio-temporale, la penombra descrittiva, il ricordo, le pause di sentenza onirica raccontano il grido vagabondo e tellurico del cuore, che si concede come un bordo, un’esclamazione di prosa e un segno vivace e doloroso di silenzio: «Sotto l’ultima lampada spenta, / rientrati tutti i danzatori e le maschere, / il suo sguardo freddo / ha ripreso il suo vero compito, / interrogare il silenzio».

I volti della sua terra divengono linee universali, dove i segni del tempo, del dolore e della fatica compaiono come violini luminosi, allorquando il senso del limite e della finitudine, «il vento che infuria come ala d’angelo» in un peschereccio squarciato, la febbre umana sentono il peso di una oscillazione e di uno strappo:

«Finalmente, la casa d’inverno. Trovi / sul davanzale / un prezioso arabesco di ghiaccio, un fiocco di neve. / Apri una porta buia. Sbattuta dal vento, / una falena dorata! Poi / una fiamma di candela, alta e tranquilla. / È una casa amara. Sulla soglia / gli uccelli muoiono di fame. / L’insegna sopra la porta è sbiadita e contorta. / Dentro una camera, guarda / un ramo brullo, spinoso. / Aspetta. Si schiude una gemma: una rosa bianca. / Pensiamo, nel cuore della casa / una tavola è apparecchiata / con caraffa di vino e pane spezzato».

La sua sacra trama (o meglio, forse una co-creazione), dunque, che diviene elegia brunita della realtà, canto per gli amici e per la Scozia. Nel mondo distrutto dal calvinismo, la sua lode si riempie di luce solare[5]. Una poesia-marea, verrebbe da dire, in cui il respiro vitale non si dilegua. Esso è sì tragico ma è ritmo del sangue, acqua impregnata di attese e danza ininterrotta che cerca rifugio:

«Da Equinozio a Ognissanti, l’oscurità / cade come le foglie. / L’albero del sole è spoglio. / Sul telaio dell’inverno, le ombre / si raccolgono in un ordito; poi / la spola di Santa Lucia fa / una pausa; una trama scura / riempie il telaio. / Il buio ha la solidità della pietra / che sbarra una tomba. / Nessuna luce di stella là. / Poi inizia la vera cerimonia / del sole, quando l’ultima / fugace fiamma del solstizio / è ripresa da / una candela a mezzanotte. / I bimbi cantano sotto un lampione / stradale, le loro voci come / foglie di luce».

In questo canto che abbranca l’eternità come testimoniato dal fulgido esempio di san Magnus, patrono delle Orcadi, gli orli di George Mackay Brown rilasciano la loro esattezza trasparente, come un’avanguardia di incanto e di ansito remoto.

 

George Mackay Brown, Incidere le rune, a cura di Giorgia Sensi, prefazione di Kathleen Jamie, Interno Poesia, pp.164, Euro 15.

Light from the Orkneys: Edwin Muir and George Mackay Brown, Rt Rev Lord Harries of Pentregarth, (Public Lecture given at Gresham College, 5 February 2009).

Bold A., George Mackay Brown, The ‘Modern Writers’ Series, Barnes & Nobles 1978.

Brown G. M., Incidere le rune, a cura di Giorgia Sensi, prefazione di Kathleen Jamie, Interno Poesia, Latiano (Br) 2023.

Fumagalli L., “Incidere le rune”: le migliori poesie di George Mackay Brown finalmente tradotte in italiano, (https://www.radiospada.org/2023/09/novita-in-libreria-incidere-le-rune-le-migliori-poesie-di-george-mackay-brown-finalmente-tradotte-in-italiano/), 24 settembre 2023.

[1] Bold A., George Mackay Brown, The ‘Modern Writers’ Series, Barnes & Nobles 1978.

[2] Brown G. M., Incidere le rune, a cura di Giorgia Sensi, prefazione di Kathleen Jamie, Interno Poesia, Latiano (Br) 2023.

[3] Fumagalli L., “Incidere le rune”: le migliori poesie di George Mackay Brown finalmente tradotte in italiano, (https://www.radiospada.org/2023/09/novita-in-libreria-incidere-le-rune-le-migliori-poesie-di-george-mackay-brown-finalmente-tradotte-in-italiano/), 24 settembre 2023.

[4] Jamie K., Prefazione, in Brown G. M., cit., p.8.

[5] In Light from the Orkneys: Edwin Muir and George Mackay Brown, Rt Rev Lord Harries of Pentregarth, (Public Lecture given at Gresham College, 5 February 2009).

Rosa Salvia e la memoria del mondo

di Andrea Galgano

5 settembre 2023

La scrittura non svela, porta dentro il suo grembo l’attenta vertigine dell’enigma e la febbre remota dell’invito: un andirivieni, una soglia, un cielo aperto all’improvviso.

Il libro di Rosa Salvia, In questo mondo e accanto, pubblicato da Edizioni Esemble, con la prefazione di Augusto Pivanti, restituisce un doppio movimento di condizione che affiora nella cifra primigenia di un dono, come afferma Pivanti:

«Raramente si attribuisce a questa condizione un valore di generosità, essendo più portati a ritenere che un autore pubblichi per soddisfare la propria vanità: in Rosa si coglie invece la dimensione del dono, questo suo scrivere per sé ma anche per gli altri, dall’invito alla dimensione orante: “Bisogna che io impari a vivere / di nuovo, svolgendo avvolgendo / la fascia bianca della preghiera la nostra Madre eterna // per rimanere come un’età che / non ha nome: umana fra le umane / debolezze, e pur vivente di Maria / soltanto e solo in lei bambina”, alla nostalgia vissuta come elemento rassicurante e benevolente del ritrovare e del ritrovarsi: “una / foto in cornice misura del tempo / ambiguità e confini, […] dove i colori virano, punto per punto, / allegri come bambini ancora svegli / allo scoccare della mezzanotte”, ma anche come affannata confessione dell’io che si bilancia fra accoramento elegiaco e pacata riflessività.».

Tale dimensione orante sembra provenire in zone remote, in ritrovamenti e recuperi, in un frantume familiare che diviene albore elegiaco, verso cose e persone, luoghi e sé stessa.  La potenza evocativa delle sue liriche si attesta così in questa erotta emersione che sovrasta, si appropria di un tempo perduto e concilia opposti e situazioni. Vicino e accanto nel mondo e del mondo: «Da uno sguardo cangiante / tentare di continuare / il proprio tempo, / al di qua dell’orizzonte, / verso il tu che ti aspetta – / e scambiare un granello di sabbia / per un seme di pienezza, / contro finestre sorde / che non odono il sangue sgorgare dal buio».

Una benedizione, una sovraincisione, come la neve, che entra nella pagina, disvelando le tracce, riprendendosi il tempo, superando ogni passaggio transitorio: «Sono la curva stanca della luna – / anno per anno, entro di me, mutai / volto e sostanza, il palmo segnato / da tutte le mie morti. / Ma la neve copre le cesoie del / tempo, il tintinnio del dubbio, / e le tracce chissà dove nel nulla. / Bisogna che io impari a vivere / di nuovo, svolgendo avvolgendo / la fascia bianca della preghiera a nostra Madre eterna / per rimanere come un’età che / non ha nome: umana fra le umane / debolezze, e pur vivente di Maria / soltanto e solo in lei bambina».

O ancora la presenza della luce vela e rivela ogni spigolo: «Anche nel rifugio dei miei spigoli / la tua voce mi raggiunge sempre, / la mia ansia placando, con i modi / invisibili del cuore, lontano dal gioco / delle parti. Che entrino sempre in noi / la notte e il giorno, l’odore della neve, / il caldo dell’aurora, qualcosa di / preciso, fatto d’acciaio o d’altro, che / abbia azzurre luci – come se / esistessimo.»

La linea lucente e nevosa richiama sia la levità e sia l’abbondanza dettagliata di ciò che non muore, orienta la strana “buità” dei bordi, richiamando qualcosa che non regredisce nella pura rievocazione ma diviene sostrato cartografico di un io alla ricerca e all’inseguimento del tempo: «In questo mondo e accanto / un ronzio incerto, ineguale, / offerto in dono dalla cenere – / la sensazione che tutto è sogno, / mentre lo sguardo si abitua alla notte – / gravita all’interno – / nel crepuscolo dei fiori, dei frutti, / si abbandona – / Come sa fare la farfalla bianca».

Ed ecco che la scrittura diviene conservazione e disegno, ricerca del centro nel grido sfumato e nel tentativo di mantenere la memoria presente del mondo, fino a percepire la paurosa vastità della fine, della ferita e dell’agnizione come un silenzio: «Sempre una ferita ricorda la vita / e ogni nascita proviene dal suo antro, / si frantuma nel mio scrivere, / compagno di ogni mio sentiero, / asta d’appoggio del mio sguardo, / con numeri e simboli che mutano / come mutano gli specchi, fra cripte, / schegge di luce e migrazioni d’uccelli, / fino a che il mio nodo di marmo si / sciolga, non con uno strappo, ma con / un silenzio, come a settembre le cicale / si quietano, fra arsure che vanno / allentandosi e la luce stessa ricade, / rotta dal proprio peso».

La memoria è inquietudine di senso, mancanza e offerta d’amore: «Il centro ora parte da me – / in quell’esatto bruciare / imparare che tutto è sentire / con l’albero, la pietra, / il grido, le parole, il primo sogno, / il tu, il noi, / e persino la morte. / Il mio centro è fatto di tronchi, / li ho tagliati io stessa / e sistemati uno sull’altro / dove tutto è in evidenza sulla neve, / in un garbuglio sospeso / tra dolore e grazia. / Il mio centro disegna i suoi nodi di presenza / sempre uguale a sé stesso e uguale mai / con il suo amore accattone, disperato, / sacro come lo strillo di un bambino».

Nei suoi orizzonti, Rosa Savia compone distanze scagliate e ombre, nel silenzio scandaglia gli elementi in lotta «nel terreno fragile di un continuo esordio», come una salvezza, un’impronta, una confessione di sillabate distanze e smottamenti, che richiedono cose in controluce, lasciate imbrunire in preghiera, senza reciderle.

Rosa Salvia, In questo mondo e accanto, Edizioni Enseble 2023.

Ritratto di un giovane poeta nel tempo primo della sua poesia

di Carmen Cucinotta

Andrea Galgano, Argini, Lepisma Editrice 2012

E di un tempo rimase il tempo / di un tempo di tempo / secondo spogliato di piani / tempi soggioganti / furiosi come cieche fiere mercati / di sale le ore cavalli sulla rena […]”: la prima raccolta poetica di Andrea Galgano, Argini (Lepisma 2012), comincia con il ritmo serrato di versi che cavalcano liberi e furiosi sulla riva del mare, come tempo che scorre, portando con sé tutto il sale della Terra. I versi della poesia iniziale, Tempi, prendono forse avvio dalla lettura che Galgano svolge dei “Quattro quartetti” di T.S. Eliot, poeta modernista che concepisce il tempo come qualcosa di irredimibile, perché in esso confluiscono già tutte le dimensioni: passato, presente e futuro. Il tempo di Andrea, invece, è redento perché “spogliato di piani”, è una narrazione di tempi dei giochi infantili, di desiderio d’amore nelle sceneggiature dell’adolescenza, un tempo che può essere lentamente indossato, come mare che “scheggia i fiumi”, perché dall’oblio della forza corrosiva di esso ci si salva solo con una forza ancora più potente, quella che l’uomo possiede nello spirito. Bisogna rimanere svegli come dice il Vangelo, tenere gli “occhi schiusi come araldi”, ricreando in modo perpetuo la meraviglia divina di cui l’uomo e la natura partecipano insieme. Già nella prima poesia i segni interiori ed esteriori di questo fronte della resistenza sono dati da un sentimento ciclico del tempo, che con l’alternarsi dell’alba e del tramonto rivela l’eterno susseguirsi dei giorni, dalla dimensione onirica dell’uomo che non è fuga dalla realtà, ma fonte generatrice di senso, e soprattutto dal sussurro dei canneti, che per ora è solo ridotto a mera percezione uditiva, ma nella raccolta omonima del 2019, “Non vogliono morire questi canneti”, diventa emblema di questa resistenza cui è chiamata la fragile fibra dell’essere umano.

C’è poi la presenza fondamentale di un “tu femminile”, “albero sul mare/sposa di leggi illeggibili”, un “tu” in relazione generativa con il poeta, come grembo in cui le parole “a ventaglio” del poeta s’incarnano per farsi ontologicamente altro da sé e un altrove. Andrea ha sempre dichiarato che la sua poesia non è mai autoreferenziale, ma creazione attraverso un “tu” capace di aprire nuovi orizzonti possibili per i lettori. Per questo per lui la parola è centrale nella creazione di immagini, idee, e sensazioni che vanno al di là della siepe, come sponde d’oltremare cui aggrapparsi per scongiurare il naufragio. Parole come “argini” che frenano l’entropia del tempo e del caos interiore, il punto d’incontro tra apollineo e dionisiaco.

La prima silloge di poesie di Galgano si può quindi considerare il suo ritratto di artista da giovane, un poeta trentenne con un’educazione sentimentale ed estetica già forte e consolidata nel tempo.

Fin dalle prime poesie è chiara la sua matura visione poetica. In “Poiesi” leggiamo:

Esistono sceneggiature indigene / nel sangue primitivo e innocente / dopo i tigli e i platani vidi luci / come capoversi di cupole estive / scorsi sogni sui ristagni / su cui scivolò la fioritura / nei tagli di vette tra le fiumane / spesi orizzonti come fronti / cinema di chiusi monti / poi rimase un viso di donna / su cui intagliai le mie preghiere / negli acquitrini degli oblii / si annerì l’inchiostro dei diamanti / quando i melograni si svestiranno / mi vedrò nella cruna dell’oro / nel pavimento di una calendula / dove si inoltreranno i nuovi convogli / ruscelli uccelli di una stagione contadina / fisionomie ribelli / di tessuti lunari”. Gli “argini” di Andrea sono parole provenienti da lontano, apparentemente velate di arcano mistero. Provocano straniamento iniziale nelle molteplici combinazioni possibili, ma, sempre incastonate nel loro significato pregnante, rivelano epifanie di una terra primordiale, selvaggia come sangue primitivo e innocente, ma anche luminosa e splendente nell’interazione di piante e di fiori con la luna, il sole, le stelle e i fenomeni atmosferici. Il discorso poetico è un fiume in piena che lascia il suo fertile limo a nutrimento di una lunga e concitata sequenza di fotogrammi interiori.

Il terreno “creso” di questa scrittura fatta a grappoli di parole è seminato di meraviglia e bellezza di cui il poeta è un tramite come un traghettatore universale dell’invisibile. In “Kallias” leggiamo infatti:

“traghettiamo l’invisibile / perché gli accenti di sponda / graffiano le nostre unghie / ma annunciano l’universo / da uno squarcio di croce / sull’apertura delle palpebre”. Il dolore si fa condizione universale e necessaria per noi essere mortali, da attraversare per ritrovare la luce. Il poeta è vittima sacrificale di questa espiazione e si fa tramite per gli altri perché portatore di verità ultime nascoste nel dono della parola, che è “squarcio di croce”, ma anche scavo, scalpello e cesello. Il più delle volte, però, il tocco del poeta è delicato come un pennello che si posa delicatamente sulla tela, impalpabile come una palpebra o una calendula e impercettibile come il fruscìo di un abito di donna che provoca scompiglio nel cuore innamorato.

Galgano si pone più volte in rapporto con la parola nel suo discorso poetico, alla presenza spesso invocata del suo “tu” di donna-grembo e terra d’approdo, che lo aspetta come “voce d’attesa” di novella Penelope.

In “Balaustra di stelle “leggiamo:

ti porto parole / a grappoli d’uva / nelle foci indaco delle frasi / in una minuta spiata di chiome / devo decrittare i tuoi approdi / a te ritorno testimone / onda-metafora e crescente / pergamena inginocchiata alle stelle / linea sottile di firmamento”.

Un “Tu” così splendido, quando si ritrae in marea, da ricordare la Creazione, “l’indice del cielo” di Michelangelo (Neve di mare).

La figura femminile non è mai evanescente, ma corpo tangibile, sensuale fonte del desiderio e tramite verso l’elevazione spirituale:

ti toccano le pagine del mare / ellittiche e naufraghe verso l’Eterno […] ti toccano quelle cose / che ondeggiano perdute / cose sul tuo corpo / sulla sigla dei cascinali” (Ferimento naufrago).

Anche quando l’aura di Petrarca sembra infondersi nei suoi versi, il giovane poeta dimostra che l’amore è più forte della poesia e la donna amata ha “luce d’aria e mirtilli”.

Amare è perdersi e ritrovarsi nella fusione di corpo e anima: “vago in te / lo scoglio appartato / in cui l’amore pellegrino / contempla i frattali dell’edera” (Voce di attesa), “nella seta del respiro / accade il tuo essere nel mio / orlo di madreperla / nel mio vermiglio tepore” (Ferimento naufrago).

Ma amare è condizione necessaria per ricevere l’investitura poetica: “amare fu bere le sue mani dall’acqua / nei solenni campi di fragole / nell’imbrunire trasudato / il suo nudo rado / scoperchiava il sorriso / narciso avviso di paradiso” (Odori di eclissi).

Amare significa anche provare pietà, tenerezza e nostalgia per i cuori puri che ci abbandonano. Andrea è “uomo di pena” di ungarettiana memoria e dedica una poesia a Francesco Nuti, ancora vivente, ma già sofferente. Di lui esalta lo sguardo, così dolce e malinconico nei suoi indimenticabili film: “occhi in ginocchio / dischiusi sul buio”, ma anche così vivaci per uno spirito geniale e purtroppo spesso incompreso: “ti vedono i tuoi occhi accesi / biliardo di onde / dove ho visto la tua luna / nei gelsi delle cascine” (A Francesco Nuti).

La poesia per Andrea diventa un luogo dell’oltre per ritrovare tutte le persone che ci hanno lasciato e per instaurare con loro un dialogo perpetuo. Succede così che alla morte di Lucio Dalla, egli non esita a fermare le immagini che sempre si porterà nel suo cuore: “Sussurrami ora / i cani che annusano la sera / le mani dell’estate e delle isole / e le strade che si sollevano / come quando respira / la radura della luna / tra le stelle” (Il fresco delle stelle).

L’argine è anche questo: creare terrapieni di vita contro la morte.

E alla fine di questo discorso poetico sembra quasi di vedere l’ultimo e meraviglioso argine che Andrea Galgano costruisce prima di congedarsi:

risalirti nelle superfici,

non fare in tempo

ansiosa di risplendere

nella coltura, nella dismisura

che irretisce le norme del mondo

 

 Il congedo è grazia acerba.

(Notturna acerba grazia)

Maria Rosaria Macchia. L’origine della trasparenza

di Andrea Galgano 15 giugno 2023

Leggere la poesia di Maria Rosaria Macchia è un’esperienza di trasparenza. Scorrendo il suo primo libro di poesia, Giro di cuore, appena edito da Laurita Edizioni, a cura di Gianfranco Blasi, la chiarità rappresenta non solo una caratteristica di sguardo ma una radice epistemologica che diviene origine vitale, battesimo e genesi d’amore.

Gianfranco Blasi, nella prefazione, scrive: «Nelle poesie d’amore la vita assume un senso, un signi­ficato solo se può dimostrare affetto e passione. Se può stornare sentimenti vitali. È l’amore a rendere la vita vera. Maria Rosaria Macchia […] osserva e fotografa. Eppure abbiamo in comune un’idea romantica dell’amore. Lei con più pu­dore e un pizzico di candore che la rende così trasparente da plasmare una poetica che sublima le sensazioni, ispira le pulsioni del cuore fino a offrire un autentico abbraccio al mondo. Non c’è ingenuità nel suo approccio alla sorgente delle parole. C’è verità, totale e pura libertà di esprimersi».

Questi due epicentri rispecchiano la forza della sua poesia che si presenta come essenziale, basica nella struttura ma che porge una limpidezza percettiva, una tensione mai oscura e un desiderio che entrano nel territorio della visione, portando all’estremo le domande elementari, che quando toccano la luce non si discostano e non si ritraggono ma vivono libere e sperdute. L’essenziale non è solo invisibile agli occhi. Per il poeta è così ma non solo. Perché egli cerca i segni dell’essere, i dati della realtà, la vertigine cromata del dolore e il lungo magma della gioia. A partire già da quel che si vede e poi, oltre, fino alle segrete trame dell’invisibile. Qui Maria Rosaria Macchia dispone i suoi segni, lambendo lo spazio elementare delle cose attraverso lo stupore, la bellezza e la polita nitidezza degli occhi di aurora.

Pertanto, entra nella fioritura delle cose, non sminuendone la grazia e non ponendo l’autoreferenzialità egoica di certa poesia contemporanea, bensì come dono all’altro, affermato e amato, proprio nel suo essere. Unendo, così, colore e aria insieme: «Rosso / Come le ciliegie di giugno. / Il fuoco, la rosa. / Passione e timidezza. / Come il cuore, il sole. / Alba e tramonto. / Come un bacio / di papaveri / nel blu».

La poesia annota sulla pelle luce d’azzurro che impara dal cielo («Ho imparato dal cielo. / Tutto passa, / come le nuvole / sull’azzurro»), appunta i movimenti del cuore caldo e pulsante e il silenzio che anticipa ciò che sboccia.

La dolcezza dell’istante diviene scarto elementare e apparizione del reale. Pertanto, entrare nelle aperture del cuore è come mappare, sorvolare e lasciarsi stupire: «La tela d’oro / dell’estate / si arrotola / sulle notti profumate / di mare e gelsomino. / Ora / tra le brume / un sole delicato / si accende / e fa promesse».

Questo cortocircuito di sensi avviene sia attraverso la rievocazione e sia grazie a una poesia che sembra un biglietto di memorie e non di distanze. Essa insegue il destino dell’amore, divenendo coscienza e presenza delle cose.

In tale apertura vi è tutta la pulizia della parola in movimento, la semina lessicale, il cuore e le sue insidie, che riesce a riportare la sua terra alla sua genesi primaria, all’asciutta esattezza di ciò che è e, infine, all’indocile brevità di chi si mette al servizio della realtà, per farla risplendere in una densità infinita.

 

La freccia di Mary Jean Chan

di Andrea Galgano 18 aprile  2023

Nel linguaggio degli schermidori, la flèche (la freccia) indica la frecciata, un’azione di attacco che si compie con sbilanciamento del busto, fino al disequilibrio e allo smorzamento del corpo, per toccare l’avversario.

Con questo lessema, Mary Jean Chan, nata e cresciuta ad Hong Kong e che ora vive ad Oxford, dove è Senior Lecturer di Scrittura Creativa (Poesia) alla Oxford Brooks University e supervisor dei Masters in Creative Writing all’Università di Oxford, restituisce il territorio della sua poesia, attraverso la pubblicazione di Flèche, appunto, edito da Interno Poesia, a cura di Giorgia Sensi.

La parata, la risposta, il corpo a corpo, l’affondo sono il punto germinativo di questa poesia, che gioca su vari registri, dal gioco innumere di parola al tocco e relazione verso l’altro, alla carne, al suono del desiderio e dell’accettazione sessuale.

Mary Jean Chan amplia il gesto poetico, innervando il suo lirismo verso una stoccata di gioia e desiderio, di comprensione e di amore, come fulcro vitale di tempo, verso ciò che nasce nella carne e nella stessa carne si rivela, come afferma Giorgia Sensi nella prefazione:

«Amore innanzi tutto per la sua famiglia – alla quale è dedicato – che è stata vittima del terrore della rivoluzione culturale cinese e delle sue Guardie Rosse e amore per la madre, che di quel terrore porta ancora i segni. Sono numerose nella raccolta le poesie sulla madre e sul difficile rapporto madre figlia a causa della ‘queerness’ e delle scelte ‘romantiche’ di quest’ultima, fortemente disapprovate dall’intera famiglia, compresa la nonna alla quale Chan dedica una poesia dal titolo ‘Alla nonna che mi scambiò per un ragazzo’» (pp. 5-6).

L’aspetto familiare ritorna nei segni dell’infanzia, attraverso il detrito memoriale fiabesco, il rapporto figurativo tra la realtà e i volti cari, come la balia che crebbe sua madre, ad esempio, in cui il senso generativo della maternità si accompagna al dolore e alla perdita.

Il battesimo della parola è segnato da un fuoco originario che è storia intrecciata alla scaglia temporale e allo zenith del materno («Tu sei sempre dove io comincio»), alla spoliazione delle maschere, alla lingua che trasforma il trauma e all’identità irrisolta.

La scherma avvicina al desiderio perché parte da una tensione interiore e si rivolge all’aria, alla meta, al petto delle cose. Ciò non toglie i lividi, l’oscurità sommersa e balbuziente, fino alla fioritura del dolore: «Spesso, mi restava un livido: la punta della lama rimbalzava / dall’imbottitura alla pelle. Tutte le volte sentivo gialle / fioriture di dolore dove la ragazza che mi sembrava bellissima / mi aveva trafitto il cuore. Ore dopo, mi sarei trasformata. / Mi sarei diretta verso casa con un profondo / senso di timore, i miei lividi affievoliti».

Il dramma della poesia è che nasce non solo dalla libertà e dall’avvenimento, ma porta dentro questa trafittura ed è lì che diviene gesto commosso, lingua che deve pronunciare il mondo per vivere, voce come corpo che parla. Qui la sillaba di Mary Jean Chan si fa ferita e luminosa presenza, sogno e desiderio di magnolie come il cielo che aveva il colore di nocche sbiancate.

Perlustrare gli spazi sicuri, scrivere lettere di fantasia, percorrere furiose pazienze come avamposti dell’io, vivere le terre della rabbia, del suono, del diniego, della profondità oscura, come se si sbalzasse il tempo e lo specchio, cercare la pura gioia, la fecondità di ciò che permette di stare al mondo: ciò permette la sua finestra aperta in attesa di grazia fertile, di una propria calligrafia che è lacrima partoriente e foglia di tè: «Le dita si immergono / di nuovo, scivolano, si alzano. / Non sono una ballerina, ma questa è / una danza. Le ore tracimano in / una teiera di foglie di tè mentre / mia madre dice: / Vedi, i caratteri cinesi sono / girasoli che cercano gli occhi. / Semi di inchiostro si srotolano / d’un tratto dal tuo polso, / e sbocciano nel tempo -».

L’uso ampio di ogni possibilità formale e letteraria, oltre che lessicale, porge la potenza della propria ricerca, fino ai disequilibri di versi, alla punteggiatura come una strana ellissi di significante e significato, ai segni e ai suoni quasi come pollini.

Pertanto, le lettere si dispongono come frecce lontane, tentano di raggiungere la nominazione, la sillabazione delle cose, passando per una guerra culturale, uno zodiaco sommerso, una cifra franta di istante e un grido lieve.

Il tempo della poesia qui raggiunge la verticalità del respiro. Anche lo stesso problema dell’identità taciuta, dolorosa e lacerata diviene la vertigine ombrosa di libertà intensa, che permane in ogni lacerto che qui emerge come lunga distanza, scissione, confine: «se voi adesso guardaste dentro di me, vedreste / che le mie lingue sono come una radice / contorta nel terreno, una e indivisibile, / solo che il mondo mi divide in continuazione / certi giorni non oso guardare gli alberi / sono delle creature così piene di speranza / se i legislatori di questo mondo / si facessero consigliare dagli alberi / riconsidererebbero tutto? / di recente ho cercato di scrivere / una poesia che desse vita a un albero / una vera accettazione dell’io / continua a sfuggirmi».

Nella doglianza delle sue giunture, come scrive in un testo scarnificato e indocile, Chan dona il suo sguardo libero sul mondo, la lingua del respiro, la sua luce improvvisa.

Chan M.J., Flèche. Poesia della scherma, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br), 2023, pp.176, Euro 15.

Il terzo tempo di Veronica Antonietta Mestice

di Andrea Galgano 17 gennaio 2023

È una dolce sorpresa la poesia di Veronica Antonietta Mestice (1992), avvocato prestato alla pubblica amministrazione, materana e socia dell’associazione culturale “Energheia”, che organizza da ventotto anni l’omonimo premio letterario.

La sua prima raccolta, Terzo Tempo, edita da Ensemble, con la prefazione di Alessio Arena, entra negli interstizi del tempo (anche attraverso il segno di Scotellaro nell’epigrafe e nel testo finale), nella sua edace tensione, nell’indagine investita di vento che tocca la nostra avventura e la nostra carne, cadenzando quella «azzurra nostalgia / sulle barricate dell’anima», lambendo le illuminazioni, le visioni e le mappe della densità del vivere.

Parlare il silenzio del tempo, in attesa di uno svelamento e di una rivelazione, che possa far parlare il silenzio, le tacite pieghe dei paesi, i mattini d’estate e il respiro di ogni omissione.

Nei suoi tempi, nella tensione speculativa della suo vitale diffondersi e promanarsi, nella inusitata perdita delle parole, quando si vorrebbe toccare il ricordo e tutto ciò che perde colore, ecco che l’agone e il gesto della poesia abbracciano, con lo scavo dell’abisso e del silenzio, persino i colpi del dolore e delle aurore domate.

Il vento è la cifra di ciò che unisce il nostro essere alla realtà: «Perdo ancora le parole, / mentre il tempo scivola piano / nella dolce sera d’ottobre. / Ottobre è un canto di nostalgia, / il mosto e l’ebbrezza / che sfiorano la vertigine del tempo. / È l’estate che perde i colori, / l’amore che dura e spera lontano / e toglie il respiro, / quando certe primavere si fanno ricordo. / Esistere è essere visti in un giorno di vento».

O ancora la notte che squaderna nell’abisso che può sprigionare la luce: «Dopo tutto, / possiamo accettare il disordine / tra le cose possibili / e i nostri precipizi. / Tutto può cambiare / in una notte che squaderna. / Il mattino non è stanco di domare le aurore. / Il dolore è un’occasione, / l’abisso che può sprigionare la luce. / Alle volte, basterebbe ascoltare, / attutire i colpi, / liberare l’ossessione di salvezza, / dimenticare caos e tempo. / Tanto, il cielo è lo stesso».

Riportare alla luce il tempo nelle tenerezze e nei deliri: il suo concentrarsi tenue e opaco con l’alfabeto dell’attesa, lo spostamento naufrago dell’io rivelano l’ardore di una leggera dissolvenza, di una perdita di città, che avvicina la poesia per sottrazione e per livellamento: «Forse la poesia è utile a questo: avvicinarsi per sottrazione / come viaggiare per liberarsi / dai superflui contrappesi. / È la necessità di un tempo di narrazione, / il bisogno di dare alla vita un respiro, / sentire la forza di un vento, / ovunque e in nessun luogo».

La ruminazione del vento, verrebbe da dire. Questa poesia aerea di spirito, respiro e di vento viene da un giacimento lontano di stagioni inosservate. Le veglie brumate ed estive, destinate alla mancanza, le scalfitture della pioggia, lo stare al mondo per cercare bellezza nella giovinezza spavalda diventano avamposto di osservazione, come se la festa delle cose, la vertigine di tutte le cose riporti alla nascita che si oppone alla morte e le parole così risalgono il vento, non mutano la risacca del cielo: «Nascere è una perdita. / Vivere, poi / una somma di piccole cose. / Mitighiamo la primavera divampata / sui bracieri del crepuscolo. / Ho solo una forsennata nostalgia / del tuo respiro / nelle grandi notti d’estate. / L’istante tentenna – lasciato all’inerzia del tempo / mentre niente dura».

Libro di vento e di perdita, dunque. Ma anche di abbandono, di forza naturale e di lingua consapevole della sua mortalità, ma non per questo non protesa alla musica dell’essere, a ciò che salva l’istante, alla voce che preme dentro e all’assedio della luce antica: «I sogni hanno perso gli argini / nei deserti d’oltremare. / I grandi temporali estivi / mitigano le attese, / mentre il nemico ci assedia. / Non solo sirene d’allarme / nel dialogo sfibrato che si protrae ad oltranza. / E la vita come va? / Non c’è fretta – / eppure tutto si compie nello spettacolo».

La ferita che abita una sorta di voce del limite è una lettera di inizio e, allo stesso tempo, indizio di comunione con il vivente che resta al di là dell’oblio, come una nostalgia, un punto, un mistero di destinazione.

 

 

 

La luce che prospera. Su Rive di Valerio Mello

di Andrea Galgano

La caratteristica migliore della poesia di Valerio Mello (1985) è l’avamposto prima dell’avvenimento delle cose. Come avviene nella sua raccolta Rive (Ensemble 2022), non solo l’attesa ma la linea dell’attesa, come se fosse un orizzonte primario, è la prima parola che dice la realtà e il tratto unico che la esplora.

L’approdo nasce dal viaggio, che non è solo caratteristica mai satura dell’essere, bensì è voce e salmodia segreta, fluire che mormora, come questa apertura notturna su Milano:

«I platani scendevano sull’acqua del laghetto e qualcosa risuonò alla porta dell’aria. Lo stridio delle stelle al tramonto sul velluto finale. I platani scoprivano sempre di più le radici, si liberavano dei rumori, erano pronti. La sera arrivò dopo una lunga giornata. Anche gli ippocastani cominciarono ad avanzare, uscivano da un monumento di sonno, da un lungo filare di statue. Le piante chiacchieravano nella locanda delle nuove espressioni, uno sfogliare di luci che restavano sospese come schegge sul vialetto. Fu necessario appuntarsi quel tempo sul foglio della mente –quel posto, quel punto… quello spazio che si svolgeva indisturbato sul davanzale di sensazioni scagliate.

Olmi e abeti aspettavano il loro turno – l’epoca dell’acqua nel drappo bianco della sera. Il falso cipresso decorava il respiro della superficie – e polvere si sgretolava sulle rive».

O nelle vie diurne di via Palestro, dove l’emersione delle cose sembra nascere da un punto sommerso, da un farfugliare, da una scena sognata o intrapresa. La luce percorsa è un gesto, uno sketch o patchwork della mente e da ciò che egli chiama «remoto in movimento».

E così i luoghi diventano frecce di volto, come la lucentezza scagliosa di Scapanto («Talvolta, lo si sente respirare / all’ombra cerulea delle rocce; / talvolta, lascia rotolare il fiato / insieme con le onde fin dentro le cavità della scogliera. / Certamente, sa riconoscere da sé come agire: se essere più /  grande, come una scheggia, o più piccolo, come un granello. / E quando il tramonto inizia a gorgheggiare / – l’aria regola il timbro della voce / e seppellisce le pause della luce sotto manti di pietrosa lucentezza»), la natale Agrigento, dove « Il sogno è la vita nascosta dell’anima che non sa come essere corpo per sempre», i passaggi della luce e delle ombre di Varazze, i blu di Porto Venere, Torino.

Vi è, in questi passaggi, una memoria sommersa che si concede, un pasto di veglia, una descrizione che mostra e non descrive, un’interrogazione sottesa che è sguardo che fiorisce nello spostamento dell’io.

La visione che spazia dalla poesia alla prosa, consegnando nascite, non ama solo il frammento per ricomporlo, le tracce lasciate, la solitudine della Sfinge del tempo ma è stagione di luogo e snodo segreto che sboccia («Proseguo nel profondo, prosciugato naufragio di una pietra, / nel brontolio del crepuscolo abbattuto, / come acqua che scorre sotterraneamente»), in cui viaggio e attesa coincidono nelle aree di confine come sogno che si ripete e comprensione ospite.

Il territorio della memoria mescola acqua e terraferma. Lo spazio e il tempo non sembrano dividersi ma offrono dismisure e abissi lenti, apertura di occhi e germoglio sconfinato come «grembo di intuizione»: «Gli occhi fanno offerte. / Perché la luce sta cadendo, perché adorare i segni di riconoscimento? / Distesa di stelle, lampione, punto della luce».

Nelle schegge non dissolte, nel tempo trascorso, anche la scrivania è riva, anche la parola lo è, perché segna il tratto umbratile delle cose attraversandole, nomina il mondo, mostrando ciò che accade, si fa corpo d’archivio, donando orizzonti di terra e di intervallo:

«Agli esseri mantenuti nella fissità pietrificata mi rivolgo con un atto di fede assoluta. Non osservo per la quiete degli occhi, ma per distinguere con devozione le aperture di un largo accadere. Potrò ammirare le linee delle radici che terminano, a un certo punto, sopra un vuoto conchiliforme e potrò seguire quel vuoto che accusa una mancanza o una grandezza; mi costringerò a riprendere con la mente le conchiglie dell’Egeo in preghiera – finestra: le differenze e i contrasti di una meditazione sempre inserita nella realtà ribaltata. Sarà necessario rendere fondata la descrizione ricevuta al di fuori dell’oggetto catturato. Nell’alcova toracica tengo la molteplicità incostante dei dati sulla parvenza e sull’appartenenza».

Nella postfazione, a proposito del rapporto stretto tra valore e parola, Gianmarco Gaspari scrive: «Valore e senso della parola che il lettore (è lui l’Edipo chiamato a sciogliere il dilemma) non può identificare che con il senso stesso dell’esistere. Difficile pensare a un rapporto più diretto del poeta con la parola, rapporto che la restituisce al suo significato originario, senza ulteriori mediazioni, verso o prosa che sia. E che si tratti indifferentemente dell’uno o dell’altra, giusto per chiudere qui il discorso, eccolo dimostrato dai frequenti affioramenti della metrica classica – puntiamo pure sul solo endecasillabo – che s’incontrano in Rive […]».

La verità e la rivelazione della parola concedono visitazioni ai luoghi, ammantandoli, spesso sfrondandone ogni orpello, per renderli vivi, consegnando, infine, la densità dell’istante in tutta la sua essenza.

 

 

War Poets: splendore e frantumi

di Andrea Galgano 30 novembre 2022

Il fango, le trincee, la morte, i reticolati, il gas, le granate, la fine della gioventù e l’esperienza del limite compongono l’esperienza dei War Poets, ora racchiusa nel volume, curato da Paola Tonussi, per Ares, in cui viene restituito un bagliore come fiore estremo, attraverso racconti, testimonianze, versi del primo grande conflitto del ‘900.

Può la parola dire l’orrore? Non già raccontarlo ma esserne all’altezza? Il dolore muto, l’angustia, il deserto, la tumefazione segreta e la violenza, la guerra come simbolo della vita umana in ogni enigma dicono che solo la poesia può essere qualcosa di imperituro e cavato dall’abisso, perché fa i conti con l’eternità, la sente addosso, anche nella dolenza estrema, nel limite senza respiro e nello scontro:

«Parecchie poesie qui raccolte sono state buttate giù di fretta, sul retro di una busta da lettera, di un messaggio, o inviate a casa con le lettere. Molte non hanno mai visto una revisione finale: trovate e recuperate dopo la morte dell’autore tra i suoi oggetti o nelle tasche della divisa, o ancora spedite  a casa con lo zaino e le altre cose dopo la sua morte» (p.32).

Lo smarrimento e la resistenza della parola, spesso nell’opacità fioca di un fiammifero, di una luce piccolissima narrano la compassione, il coraggio e la rabbia, il grido e la visione, fino alle viscere della vita, dove il primo entusiasmo patriottico della Grande Guerra, dove giovani andarono a combattere «consapevoli delle proprie promesse», preda dell’enfasi retorica e poi dell’agguato della distruzione, come dirà Richard Aldington nelle sue frantumazioni di soliloquio o Laurence Binyon che ha raffigurato la folgore dilaniata della distante marea di Ypres:

«Non perché stanchi, / non perché abbiamo paura, / Non perché ci sentiamo soli / Sebbene non siamo mai soli – / Non questo ci distrugge; / Ma ogni colpo e ogni schianto / Di mortaio e di granata, / Ogni crudele sibilo amaro di pallottola / Che strappa il vento come lama, / Ogni ferita sul seno della terra / Di Demetra, nostra Madre, / Ferisce anche noi, / Strazia e lacera la fine trama / Delle nostre fragili anime alate, / E disperde in cenere le ali lucenti / Di Psiche».

Ci sarà Rupert Brooke la cui «inquietudine screzia la sua poesia poesia prebellica, di grande ricerca formale, con il senso della morte, lieve ma costantemente presente, e una stanchezza della routine e delle certezze del «mondo di ieri» che investono di nuova luce anche i sonetti» (Tonussi, p.8)

Il pericolo, gli orizzonti esili, la proiezione simbolica della polvere nascosta fino al sacrificio finale dello sparso rosso vino della giovinezza toccano i testi di Brooke e accompagnano i bracieri e gli appostamenti di Robert Graves che accolgono, come scrive Paola Tonussi, «delusione, cinismo, amarezza, senso di tradimento per l’incoerenza etica di quanto sta vivendo: inizia  ascrivere il terrore lucido, la paura delle trincee. Sconvolto dalla consapevolezza delle migliaia di vite distrutte negli attacchi frontali per guadagnare pochi metri di terreno, come nel bombardamento di Vimy e nella carneficina dell’offensiva della Somme, disperato, getta il nastro della sua Croce al Valore militare nel fiume Mersey» (pp.39.40).

E poi ancora  la terra nuda e l’aria abrasiva nel fango di Julian Grenfell, i bagliori tumefatti e gli strani inferni di Ivor Gurney, gli sfaceli di Thomas Hardy, le deformazioni terragne di Harold Monro «dove la natura abolisce ogni visione», fino alla perdite di Francis Ledwidge o «l’eternità spazzata via», come cacciata dal Paradiso, di Wilfred Owen, che rievoca Orazio e denuncia la condanna della gioventù, nello spavento dei bagliori, calzati di sangue:

«via la visione romantica della natura amica, via lo spettacolo del mondo, lasciate le letture. L’usignolo ketsiano per lui non canta più né l’allodola di Shelley, la notte non splende più nella sua «quieta luce» per il poeta (Alla Poesia)». Invece devastante, assurdo si spalanca «un nuovo cielo» sugli uomini, per sempre «dall’alto Paradiso maledetti e scacciati» (Un nuovo cielo). Bandito dal paradiso-natura, al poeta resta la tragedia: la trincea, l’offensiva senza possibilità di sopravvivenza, nel cielo buio, senza più stelle» (pp.44-45),

Troviamo poi Isaac Rosenberg che dipinge prosodie di fiamma precaria, nella sua elegia perduta e isolata. La notte si sbriciola, il papavero coglie la sua polvere bianca, la vita rinnovata coincide con il tramonto e i corpi sono sommersi nei loro volti sinistri.

Il senso della crisi e il baratro che annichilisce segnano la pagina di Charles Hamilton Sorley, il racconto tumefatto e il sordo realismo di porpora di Siegfried Sassoon, dove la disumanizzata realtà macchinica impone il suo vessillo, fino al rifugio improtetto di luci spente di Philip Edward Thomas compongono gli ultimi poeti di questa raccolta di splendore e frantumi, dove la lesione del tempo diventa respiro franto e universale e le cose sono piene di lacrime.

 

La carrozza del capitano: il ventaglio della memoria

di Andrea Galgano 31 ottobre 2022

La caratteristica principale della vis narrativa di Rosario Angelo Avigliano è la scrittura-ventaglio. Leggendo La carrozza del capitano, edito da UniversoSud, a cura di Carmen Cangi e Donato Antonio Loscalzo, ci troviamo di fronte a questa peculiarità e a questa forza, che partendo dalla contaminazione dell’oralità, raggiunge una intensa specificità di visione, per capacità di ascolto, attraversamento, accoglimento e densità segnica.

Il suo affresco, che copre la metà degli anni ’30 fino agli anni ’60, ha la profondità del romanzo familiare, ma anche la radicale tensione della memoria individuale e collettiva che attornia la figura di colui che sarebbe poi diventato una figura di spicco dell’imprenditorialità lucana: Faustino Somma.

Per raccontare l’esistenza è necessaria non solo la narrazione, la scultura biografica, la sceneggiatura in movimento, ma anche mostrare la realtà prima di dirla, entrare nel percorso familiare e, allo stesso tempo, fare di una vicissitudine singolare un territorio universale, in cui il tempo delle vicende della famiglia Somma e di Faustino Somma possa intessere storia, romanzo, contesto, dettaglio di epoca.

Come scrive nella prefazione Francesco Somma, figlio di Faustino e presidente della Fondazione, che del padre porta il nome:

«Faustino Somma è stato un eroe positivo, imprenditore dalla forte caratterizzazione sociale, sempre attento al mondo circostante, pronto a nuove sfide imprenditoriali in campi e settori da lui inizialmente, inevitabilmente poco conosciuti, aiutato dalla curiosità, dalla sua sete di conoscenza e dalla sua tenacia che, in breve, lo mettevano nelle condizioni di masterizzare nuovi scenari, nuove tecnologie, nuovi mercati con l’ambizione costante di far crescere il contesto sociale in cui operava» (p.13).

Il luogo, il legame, l’identità e le radici, la nostalgia compongono l’ornato di questo mondo, che non viene solo descritto, ma reso, come si diceva, un profumo di ventaglio vivace, come afferma Gianfranco Blasi nella postfazione, recuperando certi anfratti e certe atmosfere, alimentate da La luna e i falò di Pavese, solcati dalla sua “esigenza permanente” :

«Rosario Angelo Avigliano in La carrozza del capitano sembra ispirato da Cesare Pavese, ne ripete in lunghi tratti il tragitto narrativo. Radici, identità, luoghi, legami hanno lo stesso sapore agro dolce, nostalgico, Persino il tempo della storia solca quasi gli stessi decenni. In Avigliano il fascino e il dolore, la tragedia degli anni ’30 e ’40 appaiono in tutta la loro sostanza. Le atmosfere della provincia più estrema, i contorni bucolici della fotografia di questo romanzo richiamano, mi hanno condotto fin dentro La luna e i falò». (p.176).

La storia di Faustino, che Blasi rapporta, pur in sipari diversi, a quella del pavesiano Anguilla, non è solo un peculiare ritratto, è un’opera in movimento che entra dentro la storia per appropriarsene. La letteratura non conosce periferie: il dramma di un singolo (o la sua storia di libertà) è quella in cui l’umano può scorgersi in trasparenza, avviluppata negli enigmi del reale e raccolta in una impossibile sottrazione.

Cambiare la storia del proprio paese (Vaglio), piccolo come uno spillo nell’albo del tempo, significa creare un’opera per l’uomo e la comunità, segnato nella sua cifra identitaria novecentesca, che appartiene alla terra per farla vibrare, crescere, portare acqua anche dove spesso la cruenta durezza dei luoghi fa ostacolo. Quindi, doppiamente difficile.

Lo sdipanarsi del romanzo familiare si nutre di sapori e odori che appartengono all’antico. Avigliano riesce a riportare l’origine ancestrale di riti e luoghi che sottendono alla nascita e alla crescita, entrando nel dramma della guerra e al tripudio della liberazione, in cui l’idea geniale di Faustino prende corpo: costruire una carrozza simile al camion americano, vicino al monumento dei caduti.

Questo episodio di prima fanciullezza espone la prima reale caratteristica di conoscenza: lo stupore. Nato dal sogno, accolto nell’entusiasmo della realizzazione. Il pensiero si fa gesto. Troveremo questa tensione in tutto il romanzo, per cui il segno del gesto anticipa la visione, innervando emozionalità, gioia, amore e vendemmia del cuore.

L’emigrazione e la partenza per Napoli al Collegio dei Salesiani e poi la Facoltà di Giurisprudenza, il ritorno e il lavoro presso l’Industria Lucchini consentono di far crescere l’aria attraverso l’amore per la propria terra, con l’I.S.L. INDUSTRIA SIDERURGICA LUCANA, coacervo di lavoro e finezza imprenditoriale, la Banca Mediterranea, fino alla presidenza vincente del leggendario Potenza Calcio degli anni’70.

Il lirismo di Avigliano segue la  parabola esistenziale di Faustino Somma senza un attraversamento agiografico, bensì attraverso una sorta di preparazione di vigilia della realtà: le cose si espongono, il ricordo si porge come una guancia densa, il passaggio delle epoche segna gli intervalli come un orizzonte di coltri di estate.

Dentro questa vigilia di appartenenza si nutre la fiamma narrativa di Avigliano, che ha saputo non solo raccontare ma mostrare, dispiegando orizzonte antropologico e cura lirica, narrazione storica e finezza sensibile, perché, in questo affresco di tempo nel tempo, si possa scorgere una ricca compattezza umana, Di questo gliene saremo sempre grati.

 

Viaggio esistenziale di una canna poetica mossa dal vento

di Carmen Cucinotta

9 settembre 2022

Apparteniamo tutti allo stesso canneto: ciascuna canna è mossa dal vento in maniera unica, inconfondibile, ma tutte seguono insieme lo stesso movimento indistinto.

Le poesie della raccolta di Andrea Galgano, Non vogliono morire questi canneti, sono così, seguono il vento come canne fragili e forti al contempo, divenendo meravigliosa metafora dell’esistenza umana.

Rainer Maria Rilke afferma nelle Lettere milanesi[1]:

<<Nasciamo, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte; soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno più definitivamente>>.

Andrea Galgano compie all’inizio della raccolta un viaggio di ricomposizione di sé, alla ricerca di ciò che ha avuto origine prima del sole, della luna e della terra e lo va cantando nel suo tragitto, mosso dal vento di quanto ha amato e ama ancora nella sua vita. Il desiderio dell’Amore primordiale, che ha dato origine a tutto, lo porta a celebrare i suoi luoghi della rivelazione, cartografie del suo cuore, come richiama il titolo della prima sezione delle sue poesie.

I paesaggi interiori sono luoghi realmente esistenti nella geografia delle sue personali esperienze e si affacciano alla viva memoria col nome delle splendide località che si stendono su un lembo di costa lucano straordinariamente risparmiato dal tempo e dall’uomo. Veri e propri paradisi terrestri hanno il nome di Acquafredda, Maratea, Cersuta, Castrocucco, Fiumicello, Cala Grande e Cala Jannita. Ciascuna località ha caratteristiche proprie e parla all’autore nella lingua dello stupore primordiale di sentirsi parte del Creato. Una lingua scomposta, frammentata in visioni e sensazioni allo stato puro, senza mediazioni di sorta, se non quelle della forma poetica, fatta principalmente di analogie, assonanze, metafore, similitudini, personificazioni. Il poeta non si rivolge mai a sé stesso, ma si apre costantemente ad un “Tu” che è presente prima di tutto: un io altro da sé nelle cose, altrove, nella terra a cui si rivolge, nella donna amata, nei ritratti umani tracciati.

Cartografie

Il primo componimento poetico è un vero e proprio punto di partenza, una via da intraprendere, “Via Lilio”, tracciata da una figura adulta e cara al poeta, una guida scomparsa purtroppo prematuramente. Una presenza visibile attraverso “l’incavo dei palmi”, le mani che lo accompagnavano da bambino. E di un compagno in effetti si tratta, con cui condividere “l’assalto/del sangue e il riso /tra le aiuole.” Via Lilio” sembra evocare la figura di Virgilio, la guida di Dante nei suoi mondi ultraterreni.

La pietra opaca del Baltico” è invece la seconda poesia, dedicata alla città di San Pietroburgo, con i suoi canali e monumenti. In un’atmosfera alquanto oscura, nebbiosa e tremolante, il fiume che attraversa la città, la Neva, di notte scorre simile al sangue nelle vene. All’improvviso, con il suo guizzo esso dona al poeta quella straordinaria visione del “lampo della luce genitrice”, un fascio di luce che tutto rischiara (un’immagine analoga, ma di luce albeggiante era già presente nella prima poesia) e disvela le cose nella loro policromia, come “dono o cominciamento” di un tutto. Il poeta sembra in tal modo uscire dalla “selva oscura” dantesca.

Le sette poesie successive sono quelle dedicate ai luoghi percorsi nella costa tirrenica della sua terra, la Lucania, tutti paesaggi femminili bellissimi da incontrare, scoprire, contemplare, annusare, sfiorare, amare. C’è un amore del poeta verso queste spiagge lambite dal mare che diventa non solo colloquio intimo e personale con esse, ma soprattutto adesione totale di corpo e anima verso l’origine di ciò che è stato creato.

Sotto un sole che scalda fino a screpolare la “spalla dei canneti”, “Acquafredda” si stende in tutta la sua bellezza sensuale: “le gambe distese, /il crepuscolo delle palpebre/e il seno nudo della sabbia, separato dal vento/sullo smalto flesso”. La bellezza corporea del paesaggio-donna attraversa l’io lirico e lo trascende fino alla contemplazione dell’”argento di baia”, delle spiagge come strofe poetiche e delle “calligrafie delle maree”. Qui è evidente come la visione della Natura in Galgano si pone nettamente in antitesi con quella di Leopardi nel Dialogo della Natura e di un Islandese.

Cersuta, la donna curcuma” è invece il paesaggio-donna lunare che instilla il desiderio d’amore nell’animo (“La falce delle lune marine/ha faville di sete). Un “nardo d’acqua” rivela l’anima lieve del luogo, mentre le sue rocce scure raccontano la storia della loro conformazione come croste di sangue rappreso, il mistero della vita come nascita e morte, ascesa e caduta (“il mistero/ del fiorire e del cadere”) in un ciclo perenne.

La luna del pastore errante leopardiano non è mai stata tanto vicina e amica quanto nell’io lirico di Galgano, altrettanto errante. Il paesaggio lunare, infatti, continua “Verso Castrocucco” con il suo “novilunio di acqua limpida” nel ricordo di una notte trascorsa dal poeta in compagnia della persona amata. Gli isolotti di scogli somigliano a una “veste di mare sfogliato” e le sere d’estate si ricoprono di veli leggeri come nella località di “Fiumicello”, dove il velo remoto dell’estate è “il lembo delle fiamme di Venere”, mentre tremano gli amanti nell’abbraccio della loro “deriva riarsa”.

“Cala Grande (Macarro)” è ancora una poesia della rimembranza, il paradiso perduto e ritrovato tra le “pinete scoscese” e il profumo di mirto portato nell’aria dal vento caldo dello scirocco, tra le spiagge laviche e roventi del luogo. Il nostos dell’autore è desiderio di recuperare la felicità perduta nel “cupo oblio delle onde” generate dalla luna e racchiusa all’interno di una splendida pietra simbolica, il diaspro, che con la sua durezza minerale corrobora la fragilità umana che intanto si perde nei suoi “fragili raggi” tra le insenature della costa.

Le spiagge nere dello straordinario lembo lucano accolgono il viandante a “Cala Jannita”, dove la visione dell’isola di Santo Janni restituisce un’immagine che non rasserena, “come un duomo nudo/di roccia violata”, mentre la spiaggia diventa “Chimera /che scioglie/ il fasto di onde a gradini/ sul congedo di ogni oscurità”.

La visione si apre e si riempie di sole e di luce quando si giunge a “Maratea”, città raffinata e omaggiata dai fiori dei balconi, labirintica nei suoi dedali di strade, segnata dal tempo e dalle calamità naturali, tra le “tende desuete/ la scala delle logge e dei portali” e i vicoli ancora cosparsi di cenere nera. La forza erosiva del sale non vince sui soliloqui d’amore davanti alle porte aperte delle case silenziose e segrete come le absidi delle chiese. Maratea è l’emblema della resistenza dei canneti: i versi del poeta qui diventano “canto”, d’amore e di bellezza, autodifesa dalla distruzione del Tempo e della Materia.

Con “Maratea” il canto del poeta è ormai stillato come acqua di sorgente e “Oltre il fiume”, la decima poesia della raccolta, rappresenta una sorta di spartiacque tra ciò che di scomposto si è rivelato alle origini e ciò che adesso si presenta più strutturato. Le dieci poesie successive sono dedicate a strade e a città dove l’esperienza umana del poeta si è formata ed è diventata consapevolezza poetica, ma sempre accompagnata da una figura amante e amata, una presenza che lo accompagna.

[…]

“Ricordi quando digradava

la nostra mano

non vogliono morire questi canneti

scaldati dai lidi

sul corpo delle pietraie”

[…]

Di fronte alla ferocia della forza distruttiva del Tempo, che piega le “colonne porpora” al tepore del cielo, incide di rosso la linea del volo dei gabbiani e “strema il tramonto” già spoglio sulle correnti, resta il ricordo della “nostra mano”, capace di plasmare il mondo, e la visione struggente della resistenza dei canneti, in social catena come la ginestra tanto amata da Leopardi.

Le dieci poesie successive sono cartografie di paesaggi antropici, luoghi che insegnano all’uomo come resistere e durare nel tempo, in armonico e simbiotico rapporto con la Natura, esercitando i cinque sensi per la comprensione della realtà sensibile a cui appartiene.

Livorno” è un’“anima terrazza” con “balaustre e scacchi di albe”; “Il sole di Salerno” ride al mattino rischiarando il porto con i suoi giacinti e la facciata del duomo. La costiera lascia il posto ai viali, al lungomare, “alle bitte e agli intonaci stinti”. Le luci del treno si muovono rapide e rischiarano i luoghi circostanti riflettendosi nell’acqua del mare.

“Rimini” d’estate è un felice connubio di spiagge, di darsene e “moli trasparenti”; i lettini dei lidi si gonfiano di pioggia mentre i gabbiani si levano in volo, le luci dei litorali, dove passeggiano le donne scollate, accendono di desiderio i cuori innamorati.

Marsiglia” non è solo porti e traghetti: profuma delle tante varietà dei suoi fiori e dona scorci dai mille colori.

A “Paestum” si sente il richiamo all’antico tra le baie di “malta romana e giallo indiano”. La frescura della sera cala come una preghiera tra le rondini in volo “illese/come loquele”.

Le due successive poesie sono riservate a Firenze. La prima, “Via Gioberti” è una strada poetica attraversata da meravigliose assonanze, parole che sembrano richiamarsi a vicenda come passanti.

“L’anagrafe del sole

è il sale della luce

nell’estate delle rondini

o quando le ali di freddo come cortili

sfiorano le persiane”.

Particolari sinestesie si legano invece alla visione del cielo, che di notte strepita di stelle e di mattina si tinge di rosa appena accennato, mentre sulla strada si riversano gli uomini con le loro storie fatte di sguardi di donne che rimescolano antiche ferite e di desiderio di tenerezza nell’intimità inviolabile della casa.

Nella “Via Panzani”, invece, a dominare sono oggetti legati al vetro e al cristallo in un raffinato gioco di luce filtrata e di riflessi come promesse future.

Monopoli” è un nuovo gioco di luci e colori, un omaggio alle tele di Edward Hopper, esponente di quel realismo americano dove la vivacità dei colori brillanti viene stemperata dalle note struggenti di ciò che si prova: un forte senso di solitudine e d’inquietudine.

“Le inclinazioni dei litorali

le tinte dei tavolati

occhio abraso e mercurio

sulle statue serali

 

acque selci che assiepano

i pavimenti

dei muri scrostati”

[…].

Merita infine un’attenzione particolare la poesia dedicata a Potenza, città delle origini del poeta. In “Via del popolo”, infatti, aleggia un’atmosfera densa di baci, ricordi, case e muri familiari, campagne in lontananza, pensieri che s’involano nella routine quotidiana delle macchine in difficoltà di transito nelle strettoie, striature dei marciapiedi come consolazione di errori nel tempo. Non manca la visione dei cortili in preda alle bufere e ricordi legati alle estati sui balconi o alle grida nelle sere tra i portoni. C’è la vita di tutti i viandanti, passata, presente e futura, lungo questa strada che attraversa lo spazio ed il tempo.

Je suis un autre

Rainer Maria Rilke in Quaderni di Malte Laurids Brigge[2] scrive:

<<I versi, sono esperienze. Per scriverne anche uno soltanto, occorre aver prima veduto molte città, molti uomini, molte cose. Occorre conoscere a fondo gli animali; sentire il volo degli uccelli; sapere i gesti dei piccoli fiori, quando si schiudono all’alba. Occorre poter ripensare a sentieri dispersi in contrade sconosciute, a incontri inattesi; a partenze a lungo presentite imminenti; a lontani tempi d’infanzia ravvolti tutt’ora nel mistero; al padre e alla madre, che eravamo costretti a ferire quando ci porgevano una gioia immensa incompresa da noi perché fatta per altri; alle malattie di puerizia, che così stranamente si manifestavano, con tante e sì profonde e gravi metamorfosi; a giorni trascorsi in stanze e silenziose e raccolte; a mattini sulla riva del mare; a tutti gli oceani; a notti di viaggio che scorrevano altissime via, volando sonore con tutte le stelle. E non basta. Occorre poter ricordare molte notti d’amore, sofferte e godute; e l’una, dall’altra, diversa; grida di partorienti; lievi e bianche puerpere che risarcivano in sogno la ferita. Occorre aver assistito moribondi; aver vegliato lunghe ore accanto ai morti, nelle camere ardenti, con le finestre chiuse e i rumori che v’entravano a flutti. E anche ricordare, non basta. Occorre saper dimenticare i ricordi, quando siano numerosi; possedere la grande pazienza di attendere che ritornino. Perché i ricordi, in sé, non sono ancora poesia. Solo quando diventano in noi sangue, sguardo, gesto; quando non hanno più nome e più non si distinguono dall’essere nostro, solo allora può avvenire che in un attimo rarissimo di grazia dal loro folto prorompa e si levi la prima parola di un verso>>.

Le poesie di Andrea Galgano riflettono in pieno il pensiero di Rilke. Le Cartografie sono la mappatura delle esperienze sensoriali che il poeta compie per comprendere l’essenza di sé e gli permettono di compiere il secondo passo cui l’uomo è chiamato nella sua esistenza: aprirsi nei confronti dell’esterno, del reale inteso come Altro e Altrove. Questo comporta un decentramento di sé e un compimento attraverso l’incontro dialettico con l’Altro. Di qui lo stravolgimento della frase di Artur Rimbaud come titolo della seconda sezione del libro: “Je suis un autre” e non “Je est un autre”. L’io esistenziale, che è frammentato nel magma primordiale della Creazione, si ricompone proprio riconoscendosi nel sé in quanto Altro.

Scrive a proposito Lorenza Colicigno in “Talenti lucani”[3]:

Nella seconda parte del libro, “Je suis un autre”, Galgano confronta la sua solitudine con compagni di viaggio che sceglie diversi tanto quanto consente l’ampiezza del campo di gioco della vita, allora la solitudine si fa ansia di dialogo, di reciproco riconoscimento”.

Io credo invece che tutte le sensazioni provate da Andrea in precedenza siano diventate adesso sentimento: l’io riesce a sentire amore, solitudine, paura, compassione, speranza, fede negli altri e ritrova sé stesso nell’incontro con il loro essere più puro e profondo. Questo gli permette di ritrovarsi come canna mossa dal vento in mezzo a un canneto dove si può resistere alla morte soltanto se si rimane stretti gli uni con gli altri, nella comprensione e nel sostegno reciproco.

Alcune poesie sono dedicate a personaggi famosi che sono morti lasciando nei cuori un vuoto incolmabile e il ricordo indelebile di ciò che di bello hanno saputo creare e donare. Galgano riesce a cogliere in loro l’essenza più nascosta e misteriosa dell’anima traducendola in versi. In intimo colloquio con loro, come Dante e i suoi personaggi o Leopardi con Silvia, si pone in ascolto delle loro parole segrete, ne interpreta sguardi e gesti, pone loro domande di senso, riflette e apre orizzonti di meditazione al lettore.

L’animo schivo e discreto di Andrea va alla ricerca di chi ha vissuto il suo passaggio terreno con la stessa umiltà e discrezione, come Massimo Troisi, Enzo Jannacci, Pino Mango e Paolo Villaggio che hanno sempre lavorato in religioso silenzio, mettendo la loro arte in ascolto dell’Altro. Autori che sono stati capaci di trasformare le ferite dell’umanità in Memoria e Bellezza.

A Troisi, attore e regista che ha saputo mettere in scena “l’amore che si sbaglia: e poi ritorna”, domanda:

“Dimmi Massimo, questo caldo bagliore

che sgretola le ruggini degli angiporti

o delle macchine

è striatura di labbra?”

Soltanto l’Amore può ridare luce al dolore e significato alla gioia. Ed Enzo Jannacci scriveva canzoni per questo, con “le lacrime che parlano con le matite”, calzando “le scarpe nelle ferite” e indossando “sciarpe dei colori/calpestati di gioia”.

Più solare di Jannacci si rivela invece Pino Mango, cantante e compositore lucano come Galgano, con il quale Andrea condivide l’adesione totale, pura e sincera con la natura come fonte generatrice di senso e di vita. L’amore sensuale di Mango si traduce in dolci parole e melodie “che smagliano il bilico/dell’anima nei suoi capitoli”, disvelando in questo mondo corporeo “ciò che per l’universo si squaderna” nella dimensione trascendentale del Paradiso di Dante.

La dimensione terrena come limite umano è un tratto importante della cinematografia di Paolo Villaggio, autore a cui Galgano si accosta con un sentimento di misericordia, posando gli occhi sul buffo copricapo di Fantozzi, allo stesso modo con cui l’attore velava con un sorriso la miseria umana di fronte alle avversità.

Un discorso a parte meritano invece le poesie di Andrea dedicate ai fari di luce morale e spirituale della sua vita. Oltre allo zio evocato in “Via Lilio” nella precedente sezione, il poeta ha tre figure importanti a cui rivolgersi sempre: gli zii Anna Antonia e Michele, e don Luigi Giussani.

Non mancano appelli a personaggi mitici ancora viventi, come Paolo Maldini e Mel Gibson che hanno incarnato per molti della generazione di Andrea valori come il coraggio, il rispetto, la dedizione al lavoro, la fede, la capacità di sognare in grande e di sapersi rialzare nelle inevitabili cadute della vita.

C’è un componimento che rimane in un certo senso isolato dai modelli delle poesie precedenti, “Mancusedda”, una donna a sua volta isolata dalla cattiveria del mondo per il suo aspetto esteriore e la sua semplicità, morta tragicamente anzitempo. Andrea la fa rivivere in un dolce ricordo, guardandola con gli occhi del cuore, quasi levando a Dio una preghiera perché quest’angelo possa adesso riposare al Suo fianco:

“[…]

non finirà

il tuo scampato numero

che non è più solo, non ha bisogno

di camminare,

di poggiare le mani

avute l’una sull’altra

giunte nella vertigine di Dio”.

 

Quando la vita è un cammino consapevole, come quello tracciato da Galgano fino a questo momento, le direzioni intraprese diventano destinazioni, “Meridiani nel vento”, come il titolo della tredicesima poesia della seconda sezione della raccolta.

“Non conoscevo ancora

l’estate del vento

le tende come meridiani

allora la mia voce era pioggia

senza vederla

la notte delle angurie

come clessidre”.

“Meridiani nel vento” è un’altra poesia spartiacque, come “Oltre il fiume” nella prima sezione. E’ la linea di longitudine immaginaria che s’interseca con tutte quelle parallele che incontra nel suo cammino, la metafora dell’incontro con quel “Tu” vivente capace di farci non solo provare il sentimento, ma soprattutto l’esperienza dell’amore, quel passaggio vitale che fa passare il poeta all’uso sempre più frequente del “noi” e del “nostro”. Le poesie che seguono a questa sono infatti narrazioni retrospettive dei primi sguardi e baci adolescenziali, i tremori, i sogni comuni, fino al raggiungimento dell’amore maturo, con il quale è davvero possibile aggrapparsi alla vita come canna mossa dal vento:

In “Partenza riflessa” c’è tutto il compimento del sé nell’Altro, l’amore come abbandono felice, donazione totale:

“[…]

dirsi mani aperte

il granello che freme sui seni

sa essere altare di eco

e tramontana

sulle penisole azzurre

 

e aprire i sensi

è una partenza riflessa”.

 

Algoritmi

Il nostro Rainer Maria Rilke profetizza un futuro redento in Lettere a un giovane poeta[4]:

<<Un giorno […] esisterà la fanciulla e la donna, il cui nome non significherà più soltanto un contrapposto al maschile, ma qualcosa per sé, qualcosa per cui non si penserà a complemento e confine, ma solo a vita reale: l’umanità femminile.

Questo progresso trasformerà l’esperienza dell’amore, che ora è piena d’errore, la muterà dal fondo, la riplasmerà in una relazione intesa da uomo a uomo non più da maschio a femmina. E questo più umano amore somiglierà a quello che noi con lotta faticosa prepariamo, all’amore che in questo consiste, che due solitudini si custodiscano, delimitino e salutino a vicenda>>.

Andrea Galgano abbraccia questa speranza e ne compone gli algoritmi per la resistenza alla morte: “chiudere i tuoi occhi/è radunare il sole/prima delle cene” (“Tortora, Estate”).

Le illusioni non salvano l’uomo, soltanto l’amore può farlo:

“Il taglio del nudo mondo

ci insegue

nei muri spezzati

 

è grazia

è terra”.

 

[1] Rilke R.M., Lettere milanesi, Mondadori 1956

[2] Rilke R.M.,Quaderni di Malte Laurids Brigge, Garzanti 2014

[3] Colicigno L., Andrea GalganoNon vogliono morire questi canneti”, in https://www.talentilucani.it/cronache-di-carta-viaggio-nelluniverso-della-scrittura/

[4] Rilke R.M,, Lettere a un giovane poeta, Adelphi Edizioni 1980

 

Andrea Galgano, Non vogliono morire questi canneti, Capire Edizioni 2019.