La lotta di Herman Melville

di Andrea Galgano             26 febbraio 2014

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Il prezioso equilibrio tra allegoria e simbologia e tra esperienza vitale e magma narrativo trova in Herman Melville (1819-1891), l’indizio di uno scandaglio universale.

Il dettaglio minuzioso che scopre l’approdo di vita vissuta su terre sconosciute, che non teme l’arcaica promessa di un incanto selvaggio, come testimoniano Typee (1846) e Omoo (1847), si unisce alla pervicace sapienza analitica che compone cromature inaspettate e si appropria della minuzia dell’anima «che tutto il pensiero profondo e serio non sia che lo sforzo intrepido dell’anima per mantenere l’aperta indipendenza del mare».

Ecco cosa scrive Melville all’editore Murray, il 25 marzo 1848: «la ripetuta accusa di essere un romanziere travestito mi ha indotto finalmente alla decisione di mostrare […] che un vero romanzo mio non è né TypeeOmoo ed è fatto di materia totalmente diversa […]. Procedendo nella mia narrazione di fatti ho cominciato a provare per essi un inguaribile disgusto; e un desiderio di spiegare le mie ali in volo; e a sentirmi infastidito, ostacolato e inceppato dal dover arrancare con banali luoghi comuni».

La rivista inglese John Bull commentò così il prodigioso Moby Dick uscito nel 1851: «Fra tutti i libri straordinari usciti dalla penna di Herman Melville questo è di gran lunga il più straordinario. Chi sarebbe andato mai in cerca di filosofia tra le balene e di poesia nel grasso di balena? Eppure pochi, tra i libri che trattano professionalmente di metafisica o reclamano una parentela con le muse, contengono vera filosofia e genuina poesia come la storia del viaggio a balene del “Pequod”».

Del resto lo stesso Melville scrisse della sua lotta con i propri fantasmi: «Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che mi interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. […] Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi getto in mare».

Nel 1951 Cesare Pavese, traduttore e colui che per primo ha introdotto in Italia questo testo, un secolo dopo l’uscita di Moby Dick, parlando della perfetta fusione di Melville con Poe e Hawthorne, annota: «[…] In altre opere, come Typee, Omoo e White jacket, vediamo Melville ispirarsi maggiormente alle proprie esperienze autobiografiche. Moby Dick, invece, possiede una qualità stilistica molto alta spesso paragonata al linguaggio biblico. […] Si legga quest’opera tenendo a mente la Bibbia e si vedrà come quello che potrebbe anche parere un curioso romanzo d’avventure, un poco lungo a dire il vero e un poco oscuro, si svelerà invece per un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano. Dal primo estratto di citazione «E Dio creò grandi balene» fino all’epilogo, di Giobbe «E io sono solo scampato a raccontarvela» è tutta un’atmosfera di solennità e severità da Vecchio Testamento, di orgogli umani che si rintuzzano dinanzi a Dio, di terrori naturali che sono la diretta manifestazione di Lui».

La straordinarietà dell’opera congiunge un doppio movimento: l’epopea eroica, innervata nella luce, nel buio e nella lotta contro il male e la poesia metafisica di una tensione netta e distinta, in un continuo alone e in una affermata processione di condizione.

«Melville», scrive Paolo Gulisano, «realizzò l’epica della giovane America dell’Ottocento che aveva conquistato con la forza l’indipendenza, distaccandosi dalle sue radici britanniche ed europee, lanciandosi alla conquista di nuove frontiere. È l’epica di una nazione ma anche di un tempo, l’Ottocento positivista e scientista, che vuole sfidare le leggi della natura e di Dio, che con la tecnica decide prometeicamente di scalare i cieli».

Il romanzo narra infatti le avventure marinare, predestinate e fatali, del capitano Achab, assetato di vendetta nei confronti dell’eburnea (una sensazione di morte, di vuoto, di nulla) balena Moby Dick («se il suo petto fosse stato un cannone, gli avrebbe sparato il cuore»), colpevole di avergli mozzato una gamba.

«Chiamatemi Ismaele» è il celebre incipit (come il nome nel libro della Genesi di uno dei figli di Abramo) che raffigura l’inizio di una autobiografia spirituale, l’incendio di una lotta e di un archetipo, mantenuti su un livello evidente e costante di realtà, simbolo e esperienza universale: «Ma per quale motivo io, dopo aver ripetutamente fiutato l’odore del mare in qualità di marinaio mercantile, mi fossi messo in testa di andar per balene; a questa domanda l’invisibile poliziotto delle Parche, che costantemente mi sorveglia, e segretamente mi pedina, e in modo inesplicabile m’influenza, potrà rispondere meglio di qualunque altro. E, senza dubbio, il fatto che io intraprendessi il mio viaggio a balene faceva parte di quel grandioso programma della Provvidenza che fu tracciato tanto tempo fa».

Il realismo di Melville si carica della profezia che contiene moltitudini e l’influenza biblica non si afferma solo nella scelta nominale, nelle citazioni trasparenti, ma nella forma “impura” che avvicina mondi e specchia temi sparsi: «Dove infatti, se non nella Bibbia, una coinvolgente epopea popolare viene improvvisamente raffreddata da capitoli di precettistica, una scelta di battaglia bilanciata da un trattato architettonico, una storia passionale contrapposta a elenchi genealogici, un racconto delle origini seguito da istruzioni rituali che comprendono persino la macellazione animale? Da quando l’umanità ha cominciato a scrivere non è mai apparso un testo altrettanto “impuro”, ovvero altrettanto impastato nelle vicende quotidiane degli uomini» (Paolo Pegoraro).

«C’è in ogni uomo che si eleva al di sopra della mediocrità un qualcosa che, per lo più, si percepisce d’istinto […]», scrive Melville, «Io amo tutti gli uomini che si tuffano. Qualunque pesce sa nuotare vicino alla superficie, ma ci vuole una grossa balena per scendere a ottomila metri o più, e se questa non ce la fa a toccare il fondo, beh,  tutto il piombo di Galena non basta a forgiare lo scandaglio in grado di farlo. Sto parlando dell’intero corpo dei “palombari del pensiero” che si sono immersi nel fondo per ritornare a galla con gli occhi iniettati di sangue da che è cominciato il mondo».  

Il giovane newyorchese, annoiato dalla vita, proietta lo specchio di Melville e, nella sua risorsa vitale, è attratto, in una sorta di brivido mistico, dall’oceano misterioso e immenso: la sua acqua, purificatrice, simbolica, originaria, cosmica.

Due episodi segnano la sua partenza, da una parte l’incontro con Queequeg, giovane tatuato pagano idolatra, appartenente a una tribù di cannibali della Polinesia e il sermone di padre Mapple sul racconto biblico di Giona.

È questa doppia marcatura che segna, dilata, il pernottamento nella Locanda del Baleniere. Egli si affida a Dio e inizia a compiere una scoperta incredibile: «Quantunque egli fosse un selvaggio, e orribilmente sfregiato in faccia, pure, a gusto mio almeno, aveva nell’espressione qualcosa che non era per niente spiacevole. Non si può nascondere l’anima. Nonostante quei tatuaggi pazzeschi, mi pareva di scorgere le tracce di un cuore semplice e onesto; e negli occhi grandi e profondi, fieramente cupi e arditi, si leggeva un coraggio da sfidare mille diavoli. E oltre tutto questo, il portamento di quel pagano aveva in sé una certa dignità che neppure la sua rozzezza poteva del tutto avvilire».

Il ramponiere Queequeg desta la simpatia e l’ammirazione di Ismaele ed accende la sua prossimità, e la spiritualità che questo incontro afferma, in una vertigine di accoglienza e mistero. Entrambi si dirigono verso l’isola di Nantucket, l’ultimo avamposto di iniziazione, l’angolo naufrago e il frammento di croce. La visita di Ismaele alla cappella del baleniere, prima del viaggio, è un incendio di anima, dove «il Dio dei venti favorevoli o contrari viene per la prima volta invocato perché mandi brezze benigne. Sì, il mondo è una nave su cui si compie una traversata e non un viaggio di andata e ritorno; e il pulpito è la sua prora».

Trovano imbarco sulla baleniera Pequod, popolata di gente di ogni sorta, tra cui Starbuck, primo ufficiale, concreto uomo prudente e antitesi di Achab, descritto come una sorta di antico cavaliere, Stubb, uomo tranquillo e allegro e Flask, il tozzo uomo di bordo.

Capitano della nave è Achab, Vecchio Tuono, come il nome nel primo Libro dei Re: «Sembrava un uomo strappato al rogo quando il fuoco gli abbia già trascorso e devastato le membra senza distruggerle né portar via nemmeno un briciolo della loro compatta e annosa robustezza. Tutta la sua alta e vasta figura sembrava fatta di solido bronzo, e forgiata in uno stampo inalterabile, come il Perseo fuso dal Cellini».

Quell’uomo è marchiato nella sua cabina, eroso dall’odio per la Balena Bianca, con la sua mutilazione, figlia di un destino avverso e di un rimpianto. Vuole schiacciare quel mostro, vendicarsi, ucciderlo. La sua cicatrice è il volto infernale della balena, il gemito di una lotta primaria con gli elementi, la furia che gela l’esistenza: «Ciò che ho osato, l’ho voluto; e ciò che ho voluto, lo farò! Mi credono pazzo… Starbuck per esempio; ma io sono un ossesso, sono la pazzia impazzita! Quella pazzia furiosa che è calma solo per comprendere se stessa! La profezia diceva che sarei stato smembrato e io… sì! Io ho perduto questa gamba. Faccio la profezia, ora, di smembrare chi mi ha smembrato. Siamo, dunque, ora, profeta ed esecutore la stessa persona. Questo vuol dire essere più di quanto voi, grandi dèi, siate stati mai. Vi derido e vi urlo dietro. […] La strada del mio fermo proposito è percorsa da rotaie di ferro, per andar sulle quali è scanalata l’anima mia. Su precipizi senza fondo, attraverso il cuore rigato delle montagne, sotto i letti dei torrenti io mi precipito infallibile! Niente è d’ostacolo, niente piega questa strada di ferro».

Scrive Ferdinando Castelli: «Achab è il prototipo tragico che richiama alla memoria prometeo della letteratura classica e romantica; ricorda anche il Capaneo del XIV canto dell’Inferno dantesco: pur sotto il martirio del fuoco, sembra sfidare la potenza divina».

Se, come commenta Paolo Gulisano: «Achab presenta tutte le caratteristiche peculiari dell’eroe tragico; faustianamente egli trascende la propria condizione deciso a perseguire il suo scopo fino all’estremo, condannando se stesso e i suoi marinai all’annichilimento della ragione e della morte», la sua è una lotta di demoni, dove l’accanimento si specchia nel corpo straziato e nell’anima ferita e persino nell’incuria, dove il viaggio persegue la sua specola di tappa e il suo dramma.

Guidato da Achab, il Pequod si inoltrerà nella vastità dei mari, ad oriente, doppiando Capo di Buona Speranza, giungendo nell’Oceano Indiano percorrerà il mare di Giava, fino all’isola di Borneo e nelle Filippine e toccherà l’Oceano Pacifico: «Questo Pacifico misterioso e divino cinge tutta la massa del mondo: fa di tutte le coste una sua baia; sembra il cuore della terra pulsante di maree. Sollevati da quegli ondeggiamenti eterni, vi è giocoforza riconoscere il seducente iddio, e chinare il capo dinanzi a Pan».

Poco dopo la baleniera punta a sud e raggiunge l’Equatore. Qui Achab è convinto che si trovi la Balena Bianca, il mostro che lo ha reso «balordo e incavigliato» e che ha dato origine alla sua cerca, all’opposizione verso un tempo sconosciuto e reale che si accanisce.

Vuole possedere quella creatura che, come scrive Pavese, «assomma in sé la quintessenza misteriosa dell’orrore e del male dell’universo».

La tensione verso questa ombra sfuggente, calante e inseparabile, tocca l’imperscrutabilità di un odio: «Quella cosa imperscrutabile è l’oggetto primo del mio odio; la balena bianca può esserne l’agente, la balena bianca può esserne il mandante: io quest’odio lo sfogherò su di lei. Non parlarmi di empietà amico: colpirei il sole, se mi offendesse. Perché se il sole fosse capace di questo, io dovrei essere capace di quello; c’è sempre una certa lealtà nel giuoco, poiché la rivalità presiede a tutte le cose create. Ma nemmeno quel giuoco leale, amico mio, può farla da padrone con me. Chi c’è sopra di me? La verità non ha confine».

È nello scontro con qualcosa di misterioso e leviatanico, forse ubiquo e immortale, che ha origine la sua sfida senza tempo, in una vigilia di vita insonne.

Alla vigilia dell’ultimo combattimento, il capitano Achab sale in coperta e si affaccia sul mare, accanto a lui c’è Starbuck: «Oh, Starbuck, è un vento dolce, e un cielo dall’aspetto dolcissimo. In un giorno simile, di altrettanta dolcezza, ho colpito la mia prima balena: ramponiere a diciott’anni! Quaranta, quaranta, quaranta anni fa! Quarant’anni di caccia continua. Quarant’anni di privazioni e di pericoli e di tempeste! Quarant’anni sul mare spietato! Per quarant’anni Achab ha abbandonato la terra tranquilla, per quarant’anni ha combattuto sugli orrori dell’abisso! Proprio così Starbuck; di questi quarant’anni non ne ho passati a terra tre. Quando penso a questa vita che ho fatto, alla desolazione di solitudine che è stata, all’isolamento da città murata di un capitano, che non ammette che ben poche delle simpatie della verde campagna esterna… quando penso a tutto questo, sinora soltanto sospettato, non mai veduto così chiaro, e come per quarant’anni non ho mangiato che cibo secco salato, giusto emblema dell’asciutto nutrimento della mia anima! Mentre il più povero uomo di terra ha avuto frutta fresca quotidiana e ha spezzato il pane fresco del mondo, invece delle mie croste muffose… lontano, lontano oceani interi da quella mia moglie bambina che ho sposato dopo i cinquanta, mettendo la vela il giorno dopo al Capo Horn e non lasciando nel cuscino nuziale che un’ infossatura… Moglie? Moglie? Vedova piuttosto, col marito ancor vivo. Sì, quando ho sposato quella povera ragazza io l’ho resa vedova, Starbuck. E poi, la pazzia, il delirio,l il sangue in fiamme e la fronte bollente, con cui in migliaia di discese il vecchio Achab ha dato la caccia furiosa, schiumosa, alla preda, da demonio più che da uomo.. Mi sento stracco a morte, piegato ricurvo come fossi Adamo, barcollante dal tempo del Paradiso sotto il cumulo dei secoli. Stammi accanto, Starbuck; fammi guardare un occhio umano; è meglio che guardare nel mare o nel cielo; è meglio che guardare in Dio».

Paolo Gulisano afferma che «Il mito di Moby Dick ci parla anche del problema del dolore: il male oscuro che tormenta Achab, il dolore acuto del capitano Gardiner, che incrocia il Pequod, e che ha il proprio figlio disperso in mare, un dolore al quale il sofferente Achab rimane totalmente indifferente, troppo preso dal proprio inseguimento della Balena Bianca per perdere tempo ad aiutare chi ha bisogno. […] Achab è l’icon dell’uomo della modernità, deluso dall’arroganza dell’antropocentrismo da un lato e disilluso nei confronti di Dio».

Ecco l’uomo abbandonato alla fioca esilità della miseria e alla nostalgia esiliata, tremenda di luce e felicità, come un re ferito e mutilato che scrive la sua mappa afflitta. E allora Starbuck tenta di distoglierlo e lo invita a ritornare a Nantucket e ai suoi dolci colori azzurri: «Che cosa è mai, quella cosa senza nome, imperscrutabile e ultraterrena è mai; quale signore e padrone nascosto e ingannatore, quale tiranno spietato mi comanda, perché contro tutti gli affetti e i desideri umani, io debba continuare a sospingere, ad agitarmi, a menare gomitate senza posa, accingendomi temerario a ciò che nel mio cuore vero, naturale, non ho mai osato nemmeno di osare? È Achab, Achab? Sono io, Signore, che sollevo questo braccio, o chi è? Ma se il sole immenso non si muove da sé, e non è che un fattorino del cielo; se nemmeno una stella può ruotare se non per un potere invisibile, come può dunque questo piccolo cuore battere, e questo piccolo cervello pensare, se non è Dio che dà quel battito, che pensa quei pensieri, che vive quella vita,e  non io?». Così Achab è di fonte al suo esodo di solitudine, davanti al mare e al dramma della sua libertà che sfida un dio minore, un diavolo bianco che fa vittime e corrode il destino.

Il dramma inizia ad avere compimento. La baleniera, dopo ripetuti contatti, si perde nell’abisso assieme a tutto l’equipaggio e Achab lancia il suo ultimo e spaventoso grido: «Io volterò la schiena al sole. […] mi è tolto anche l’ultimo caro orgoglio del più meschino capitano naufrago? Oh, una morte solitaria dopo una vita solitaria! Ora sento che la mia maggiore grandezza sta nel mio maggior dolore. Olà, olà!. Dai più lontani confini rovesciatevi ora quaggiù, flutti audaci di tutta la mia vita trascorsa, e ammucchiatevi in questo grande cavallone della mia morte! A te vengo, balena che tutto distruggi ma non vinci, fino all’ultimo lotto con te; dal cuore dell’inferno ti trafiggo; in nome dell’odio, vomito a te l’ultimo mio respiro».

Il suo ultimo arpione come il suo ultimo respiro trascinato. Si salva solo Ismaele, aggrappato alla bara che Queequeg aveva costruito per il suo corpo. Verrà raccolto da un veliero, la “Rachele” che raccoglie orfani e salva dal naufragio.

L’uomo di Melville è in bilico su un disastro. Incalzato, spintonato dai mari dell’essere e della vita, afflitto dalle sue lotte, piene di lampi, contro miserie, tradimenti e lacerazioni.

Scrive un libro malvagio e si sente immacolato come un agnello, come egli stesso afferma in una lettera del 1851, sosta nell’ombra per dipanare una luce fioca, confusa e predestinata, quasi di esclusione.

Nell’esclusione e nella ribellione, la carità suprema attracca nel suo porto celeste e immolato, un disegno che accetta, un’ombra che si muove.

 

 

Melville H., Moby Dick, Rizzoli BUR, Milano 2012.

Id., Opere scelte, Mondadori, Milano 1972-1975.

Id., Viaggi e balene. Scritti inediti, Clichy, Firenze 2013.  

Amoruso V., Alla ricerca di Ismaele. La narrativa di Herman Melville, Graphis, Bari 2005.

Bacigalupo M. (a cura di), Rotte di lettura intorno a «Moby Dick», Marietti, Genova 1992.

Baird J., Ishmael, Harper, New York 1960.

Bianchi R.., Invito alla lettura di Melville, Mursia, Milano 1997.

Castelli F., Herman Melville: «Moby Dick», in «La Civiltà Cattolica», IV, 2012.

Gulisano P., Fino all’abisso. Il mito moderno di Moby Dick, àncora, Milano 2013.

Storia letteraria degli Stati Uniti, vol.2, il Saggiatore, Milano 1963.

Pavese C., La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi 1951.

Pegoraro P., Moby Dick ovvero l’importanza della forma, «www.zenit.org», 5 aprile 2011.

Weaver R.M., Herman Melville: Mariner and Mystic, Doran, New York 1921.

 

L’uxoricidio

uccide-mogliedi Emanuele Mascolo

25 febbraio 2014

Poiché le fonti non sono molte a riguardo e, perchè il caso in essere è stato abrogato con la Legge numero 422/1981, parleremo, in maniera essenziale, dell’uxoricidio, che, sostanzialmente, è l’omicidio della moglie causato per gelosia o per onore.

Ma alla luce di una Sentenza della Corte di Cassazione del 2012, possiamo comprendere  che è dato incontestato che il delitto de quo ebbe a maturare in condizioni molto particolari, visto che a stimolare l’azione delittuosa fu certamente la condotta della parte offesa, affetta da una forma psicotica ingravescente, con disturbi paranoici, resasi autrice di condotte, da un lato provocatorie nei confronti del marito, accusato ripetutamente – quanto del tutto pretestuosamente – di furti di vestiti, dall’altro di contrapposizione “a prescindere” su qualsivoglia scelta della vita quotidiana. E’ emerso che tale situazione era risalente nel tempo e che la carica di esasperazione si era accumulata, fine a che non occorse un fattore scatenante, che produsse nell’imputato l’esplosione, allorquando la donna, non contenta della sistemazione del televisore, buttò il telecomando a terra e lo ruppe. Questa situazione, così come rappresentata, delinea senza forzatura alcuna quella forma peculiare di “provocazione”, c.d. da accunulo o sedimentazione (Sez. I 13.1.2011, n. 4695), che presuppone sempre e comunque lo “stato d’ira” ispiratore dell’azione offensiva, che a sua volta rappresenta la ragione giustificatrice del riconoscimento di una minore gravità del fatto. La particolarità del caso di specie sta nel fatto che il fatto scatenante l’ira trova origine nella malattia della persona offesa. A fronte di questa realtà peculiare, la corte territoriale ha ritenuto di escludere che la condotta tenuta dalla vittima possa essere considerata obiettivamente ingiusta, poiché derivante dalla malattia di cui la vittima era sofferente, malattia che l’imputato ben conosceva, con la conseguenza che la reazione avuta dal ricorrente non poteva che valutarsi del tutto inadeguata.Tale modus operandi si discosta nettamente dalla linea interpretativa segnata da questa Corte di legittimità, che ha affermato che il “fatto ingiusto” può essere costituito da ogni comportamento, intenzionale o colposo, legittimo o illegittimo, purchè idoneo a scatenare la reazione altrui, presupponendo esclusivamente la volontarietà dell’atto, nel senso chi viene meno solo quando la reazione iraconda sia determinata da un fatto del tutto accidentale (Sez. I, 17.2.1999, n. 6285). In altre parole, l’ingiustizia del fatto deve essere valutata alla luce di parametri oggettivi, a nulla rilevando le condizioni psicologiche di colui che provoca o vessa, poiché ciò che deve essere considerato è l’attitudine del comportamento a provocare lo stato d’ira: anche il comportamento di una persona non sana di mente è idoneo a provocare un turbamento nell’animo di chi lo subisce, a cui non si può fare carico di una capacità di autocontrollo tale da portare a resistere non ad uno, ma ad una serie di atti similari ripetuti nel tempo, capaci di potenziare la carica offensiva e provocatoria e tale da incidere sul funzionamento dei freni inibitori.” ( Cass. n. 14270/2012)

La moderna scienza penalistica insegna, tuttavia, che il desiderare, il volere un determinato risultato non esclude per ciò solo l’esistenza del dolo concernente un diverso, più grave evento prodotto dalla condotta dell’agente.

Invero, proprio in tema di omicidio la Suprema Corte ha specificato che il criterio distintivo tra omicidio volontario e omicidio preterintenzionale consiste nell’elemento psicologico, nel senso che nell’ipotesi della preterintenzione la volontà dell’agente è diretta a percuotere o a ferire la vittima con esclusione assoluta di ogni previsione dell’evento morte, mentre nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è quella di uccidere la vittima. Tale volontà deve ritenersi sussistente non soltanto quando l’agente abbia agito con l’intenzione di uccidere, ma anche quando egli si è rappresentato l’evento morte come conseguenza altamente probabile della sua condotta che, ciò nonostante, ha posto in essere (Cass. pen., Sez. I, 03/03/1994, Mannarino; Cass. pen., Sez. I, 14/12/1992, Di Grande; Cass. pen., Sez. V, 28/05/1990, Moschetti).

La domanda che, dunque, occorre porsi nel caso di specie è se la morte dell’aggredito possa ritenersi come evento non voluto dall’imputato neppure nella forma eventuale ed indiretta della previsione e del rischio. Ed a tali fini occorre avere come parametro di riferimento la risolutiva statuizione delle sezioni unite della Suprema Corte  (Cass. pen., Sez. un., 14/02/1996, n. 3571 Mele), secondo cui “Sussiste il dolo eventuale quando l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, agisce accettando il rischio di cagionarle; quando invece l’ulteriore accadimento si presenta all’agente come probabile, non si può ritenere che egli, agendo, si sia limitato ad accettare il rischio dell’evento, bensì che, accettando l’evento, lo abbia voluto, sicchè in tale ipotesi l’elemento psicologico si configura nella forma di dolo diretto e non in quella di dolo eventuale.” È quanto sostiene chiaramente il Tribunale di Rossano del 04/10/2002.

L’ ”animus nocendi” nel delitto d’onore

delitto d'onoredi Emanuele Mascolo

7 febbraio 2014

Cos’è il delitto d’onore, o meglio quando si configura?

Il delitto d’onore ha la caratteristica di avere alla base dell’actio criminis: l’emotività soggettiva di colui che lo commette.

Di solito viene commesso nell’ambito della famiglia e alla base c’è la difesa dell’onore, fino ad arrivare all’annientamento fiscio e morale di un altro soggetto.

La legge riconosce l’onore come un “ valore socialmente rilevante” da dover difendere visto che la mente umana, soprattutto a contatto con la tradizione, può arrivare a commettere gesti seppur istintivi, ma disumani ed estremi come quello di uccidere e pertanto deve tenersi conto dell’ “animus nocendi,” cioè della volontà di nuocere ad altri.

Fino a qualche anno fa, in Italia, per reati finalizzati a difendere l’onore, le sanzioni penali venivano comminate tenendo conto delle attenuanti ritenendo che per la difesa dell’onore, commettere un reato era una provocazione per riparare l’onore compromesso o perduto.

Il codice penale, all’articolo 587, nel testo originario, prevedeva espressamente che “ chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.”

È evidente che la norma faceva riferimento ad uno stato d’ira seppur temporaneo.

Attualmente le disposizioni sul delitto di onore, nello specifico, non esistono perché abrogate dalla Legge n. 422/1981.

Attenzione però a non confondere i delitti d’onore di cui stiamo parlando con i delitti contro l’onore disciplinati dal codice penale, che sono tutt’altra cosa.

La Cassazione, recentemente, ha ritenuto, richiamando l’orientamento univoco dellaGiurisprudenza, che, “la cd. causa d’onore non può assurgere al rango di circostanza attenuante generale secondo il dettato dell’art. 62 c.p., n. 1, in quanto espressione di una concezione angusta e arcaica del rapporto di coniugio, apertamente confliggente con valori ormai acquisiti nella società civile che ricevono un riconoscimento e una tutela anche a livello costituzionale, quali il rispetto della vita, la dignità della persona, l’uguaglianza di tutti i cittadini senza discriminazioni basate sul sesso, l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi all’interno della famiglia, quale società naturale fondata sul matrimonio (Cass., Sez. 1^, 8 febbraio 1988, n. 12863; Cass., Sez. 1^, 6 marzo 1992, n. 5428; Cass., Sez. 1^, 14 ottobre 1992, n. 9254; Cass., Sez. 1^, 26 settembre 1977, n. 15665). Pertanto l’omicidio commesso dal marito per salvaguardare l’onore asseritamente offeso da una pretesa relazione sentimentale della moglie e dettato da un malinteso senso dell’orgoglio maschile è l’espressione di uno stato passionale sfavorevolmente valutato dalla comune coscienza etica, in quanto manifestazione di un sentimento riprovevole ed esasperato di superiorità maschile(Cassazione penale , sez. I, sentenza 10.10.2007 n° 37352)

Il viaggio inciso di Charles Wright

di Andrea Galgano                                         5 febbraio 2014

poesia contemporanea Il viaggio inciso di Charles Wright

charles-wright

La poesia di Charles Wright (1935), è una immersione nell’esperienza totale. Nato nel Tennessee, dopo aver studiato nell’Iowa e insegnato nella California, oggi insegna a Charlottesville, in Virginia. Vincitore di premi prestigiosi, come il Ruth Lily Poetry Prize o nel 1998 del Premio Pulitzer per la poesia nel 1998, è anche noto traduttore di Montale e Campana e inseguitore dei crocevia danteschi.

Nella visionarietà torrenziale ed ulteriore si trova la traccia potente e dolce del suo slargo, in cui alla solida poesia statunitense di Whitman, Dickinson, Wallace Stevens o Pound, si accompagna una sua peculiare intensità epifanica, fradicia di talento e immagine: «le nostre preghiere – come vestiti, come scaglie di cenere – che prendono il volo senza di noi / in un sempiterno, / che continua senza di noi, / azzurro dentro azzurro dentro azzurro – / le nostre preghiere, come schegge di vetro esauste d’acqua, / vorticanti nella risacca, levigate e indistruttibili e lucenti, / le nostre vite un graffio nel cielo, indolori, impossibili da rievocare» (Vita negativa).

Commenta padre Antonio Spadaro: «Poeta di epifania spirituale, Wright è poeta legato, sia per immagini sia per atteggiamenti interiori, ai paesaggi rurali o comunque connessi alla natura selvaggia. Sembra così accostare implicitamente le foreste indiane alla selva oscura dantesca con echi e rimandi di grande intensità alla ricerca di una via».

La via aurale e concepita scommette invocazioni, apre schemi essenziali come scrittoi stellati e insolubili: «Inizio di novembre nell’anima, / Pioggia forte e oro scuro / dagli alberi, luce obliqua / del pomeriggio inoltrato e greve peso sul cuore. / Come sempre svigorito e spento. / Sessantaduenne, voce incolta, incline alla notte, / sono in piedi e tranquillo sul vialetto vuoto. / Sblocca il mio habitat, luce stellare, fammi insolubile».

La contemplazione del divino scardina nuove sorprese, in cui l’architettura intensa e perfetta dei versi forgia le sue forme in una coincidenza ultima, in una estremità di viaggio peregrino, teso alla redenzione, come un diagramma che si estende fino all’anima: «E qui, dove il cigno mugola nel suo incavo, dove la sanguinaria / e la belladonna insistono a confortarci […] come una goccia di limpido olio il Guaritore ruota nel vento della notte».

Pertanto già nei suoi primi testi, come Bloodlines (1975) e China Trace (1977), come afferma Antonella Francini, «si trovano già definiti gli inconfondibili tratti della sua scrittura dal taglio fortemente autobiografico (aneddotico, appunto), affidata ad una lingua icastica, netta, che sembra incidere la pagina. Vi si trovano già la struttura del viaggio, la figura di un alter ego in cammino verso un’elusiva e improbabile spiritualità, cosciente dei propri limiti conoscitivi; il tema dei morti chiamati in causa come ispirazione e monito per chi vive, metafora estrema dell’inconoscibile, presenza eterna nella continua rigenerazione del mondo di cui tutta la poesia di Wright è un altissimo canto; la percezione di un io inquieto che continua a interrogarsi sul suo viaggiare («E dove ci porta, pellegrino, / questo andare avanti e indietro sulla terra, sapendo / che niente cambia, o tutto; / e, per raccontarlo,  solo questi tristi segni, / frasi analizzate a metà, ellissi e fregi sul terreno?»); il ruolo fondamentale del paesaggio che freme di invisibili presenze metafisiche epifanie; la struttura geometrica, infine, a chiudere il tutto».

I suoi lampi di memoria costeggiano la dimensione terrena, inseguendo redenzioni e impronte salve, rigenerando la superficie del mondo, in una geometrica compiutezza che richiama patrie e risurrezioni («Se noi, come siamo, siamo polvere, e la polvere, com’è certo, risorge» o ancora «allora risorgeremo, e ci raduneremo / nel vento, nella nuvola, e saremo il loro effluvio, / una cascata di cose nella cascata del mondo, e scivoleremo / fra i rami puntuti e le giunture schiantate dei sempreverdi»): «Le foglie mi cadono dalle dita. / Fiori di mais si spargono sui campi come stelle, / come stelle di fumo, / presso i binari del treno, le foglie turbinano / sotto le nuvole lente / e i nove gradini ai cieli, / la luce cade a grandi lenzuoli fra gli alberi, / lenzuoli quasi veri. / Penso che la trasfigurazione comincerà così, / fiato mozzato, / lama veloce tra gli alberi, / qualcosa di rosso che mi cade dalle mani, / l’aria che si raffredda … / E allora / uscirò da questo corpo stanco, un nodo sanguigno di luce, / pronto ad accogliere in me il buio. / – O per l’arrivo del vento / che, osso dopo osso, mi trasporterà per il cielo, / la sua ostia un’ustione sulla mia lingua, / il suo vino oblio profondo».

Le presenze invisibili abitano il presente nel loro sipario mitico, il ricordo effonde il suo richiamo di spazi fragili e potenti, si assiste, persino, all’interrogazione sul destino ultimo dei cieli, alla popolosa partecipazione dell’essere («Che c’entri tu, anima mia, col Paradiso?») e alla domanda di folgore che incanta e poi scompare, per scrivere poesia «su Dio o sull’uomo – e credo che esistano poche altre categorie – il solco da lui tracciato ci precede. Non ci resta altro che seguirlo».

«Wright», ha scritto sul “Corriere della Sera”, Sergio Perosa il 19 luglio 2001, «gioca superbamente con ciò che resta e non resta, ci elude e ci afferra, ci incanta e scompare; è un metafisico del cuore e del quotidiano, con voce cristallina»: «Lentamente una foglia si sgancia da un ramo. / Lentamente le mani velate dei morti svolazzano dai loro antri. / Una fiammella rosata è estinta nella mia bocca».

L’ombra che si staglia e affossa ritardi, pregna di immagini care, estremità correlata, nascosta realtà trascendente che sistema le presenze e le assenze in un messaggio partecipe e invisibile. Non si allontana mai dal vissuto la sua frequentazione di dolore e gioia, come una persistente iconografica che disegna viaggi nel mondo, raggiunge l’indaco sidereo delle costellazioni, si dissolve nelle tappe dell’io proteso all’infinito: «Come sempre il silenzio avrà l’ultima parola, / e Venezia s’adagerà come seta / sul bordo del mare e del cielo notturno, / albeggiante di luna. / Si vive tutti la stessa vita / se si vive abbastanza».

Ma c’è sempre un andirivieni di alterità non toccate, nei lividi verdi, nelle promesse alle finestre, nelle sopravvivenze ripetute per sempre: «Ho parlato d’una una cosa sola per trent’anni, / l’ho detta e ripetuta, / vento come grossi pali fra gli alberi – / voglio dire il piccolo punto immobile nel punto dove tutte le cose si incontrano; / voglio dire la forma che muove il  sole e le altre stelle».

Nelle sue trilogie, il passo del tempo è una sfaldatura di suono, una scatola che contiene punti nascosti ed emersi che percorre la volta delle cose in una viva e sperata estremità: «L’Orsa Maggiore mi ha seguito ogni giorno della mia vita. / Sotto le sue stelle di latta ilo mio passato è arrivato e partito. / Stanotte, nello smalto d’aprile / e negli intagli eburnei del cielo, / mi benedice ancora una volta / con la sua acqua nera, e mi spinge avanti».

Venezia, Verona, il Tennessee o gli Appalachi impongono percorse immersioni attonite, dialogo serrato con i trapassi, respinti dai limiti, ma uniscono distanze reali e ideali «verso un’agognata quanto elusiva epifania spirituale dell’autobiografico protagonista e narratore che instancabilmente rivisita i luoghi che sente legati a intense emozioni e rivelazioni, e pertanto, a lui “sacri”».

Il paesaggio, la lingua, l’idea del divino coordinano il suo azzardo imprevedibile, la frontiera delle cose perdute e ritrovate, come le pietre nere e rare degli episodi, della mitologia e dei segreti.

Il paesaggio, «risurrezione della parola», raccoglie il ciclo delle stagioni, il vetro segreto degli anni, le rive altre dei fiumi che amano giocare nelle foglie quando il crepuscolo raggruma di ombre l’aria e l’argenteo alfabeto del mare: «è di legami che sto parlando, / di armonie e strutture / e di tutte le cose che serrano i nostri polsi al passato. / Qualcosa d’infinito appare oltre ogni cosa, / e poi scompare. / è solo questione di come / si restringono le superfici. / è solo questione del nostro posto nel cielo».

La natura si accende, proclama i suoi chiarori lunari, tinteggia i meriggi e scoperchia le notti assorte, per raggiungere il remoto avamposto dell’io, immerso in un lembo remoto: «Immagino sempre una bocca / dentro di me che comincia a aprire / le sue labbra blu, un braccio / che s’incurva triste su una finestra aperta / la sera, e rospi che balzano nell’erba umida. / Di nuovo il silenzio dei fiori. / Di nuovo le flebili note di musica di piano là nei boschi / Come riempie facilmente la stanza l’estate».

La comparsa e disparizione delle cose non concedono un terrificante progetto di nulla, ma conoscono il chiaroscuro delle autobiografie, in cui il paesaggio non è cornice, ma bagliore innamorato, solco di vento, segno di lingua addosso che si appropria di blues, contry, jazz e gospel: «Tutto è più essenziale nella luce del nord, cavalli / distesi sul prato secco, / nuvole in fila come carri di pionieri / sul bordo sinistro dell’orizzonte, / forbici di rondini si tuffano ad angelo, / bip d’api e cantilena di mosche, Dio con l’orecchio buono / al suolo. / Tutto è più intenso, il vento / ristagna quasi invisibile tra i larici, / linfa dorata sull’ombrello del pino, / un mosaico bizantino / dentro la cupola del giorno, / caratteri cuneiformi sfumati sul fondo della foresta. / Tutto sembra immediato, / come schegge del divino / d’improvviso screziate sulla punta delle nostre dita, / conoscenza proibita dell’oltre ciò che possiamo appena / decifrare, / fili d’erba inclini ad abbagliare e piegarsi, / acque mnemoniche, picchi, uccelli del crepuscolo».

La caccia e l’inseguimento a Dio che compie Charles Wright è un abbaglio scomparso che ogni volta, prepotentemente, torna a galla per accarezzare il limite e attendere trasmutazioni «dalla prospettiva di un monaco nella sua cella»: «Cammino nel freddo della notte d’autunno pieno / come Orfeo, / pensando il mio canto, ansioso di voltarmi, / la mia vita svanita un ornamento, una / nuvola alla deriva dietro di me, / dolce trascendenza di cenere / sepolta e risorta una volta, e poi ancora / e ancora …».

Antonella Francini scrive che: « […] Il paesaggio e la lingua sono il negativo del trascendente, come il passato lo è del presente. La poesia metafisica di Wright lavora nello scarto minimo tra il visibile e il buio, in una zona di crepuscolo che prelude all’inevitabile sconfitta della luce e del poeta affinchè un nuovo viaggio inizi e la mappa dell’anima continui ad estendersi entro le sue geometriche strutture come, secondo un’immagine cara a Wright, una ragnatela sempre più ampia concentrica alla sua origine»: «Sotto i peschi, gli ideogrammi che le foglie gettano / sull’erba acconciata dal sole dicono / purgatio, illuminatio, contemplatio, / parole còlte in una luce dolce e duratura, / al contrario di quella dove conducono, / la cui vista ci fa colare a picco e incolti come campi abbandonati».

Il suono scrive e cerca la sua redenzione, come quando risuona il fiume «E siamo ancora qui fuori immobili a guardare lassù, a guardare lassù i cieli pensando» (Sky Diving). Il paesaggio è lì, tramato nelle percezioni memoriali, negli sconquassi dei fatti minimi, nei confini di vetro istoriato che affresca il suo tempo mitico, in una traccia visibile che sfiora l’invisibile tempo «nel punto in cui tutte le cose s’incontrano»: «La raffica di pioggia si è bloccata di schianto, / ciondolano seducenti le fronde della palma. / La vita, come si dice, è bella».

L’estensione dell’io, come la sua contrazione e la sua sfrangiatura, accerchia la sua domanda elementare, spinta verso l’alto e indomita nei suoi chiari abissi di vertice ascendente: «Cosa c’è per noi d’imperturbabile nelle stelle? / Quale impulso, quale bassa marea / ci attrae lassù come vertigine / quale / inversione di quota ci spinge verso i loro abissi chiari? […] Chi dirà che il respiro d’un angelo non m’ha sfiorato l’orecchio?».

La sua «dolce trascendenza di cenere» ammanta i suoi punti inafferrabili ma toccabili, come ricami in filigrana, sospesi tra le stelle e i loro vortici. Il tempo è inviolato, la coltre è una luce accesa: «C’è un’ultima solitudine dove non sono ancora giunto, / la stanchezza come polvere in gola. / Ma fremo dentro il suo contorno, / e mi sento al sicuro, mentre le stelle traboccano, per una notte ancora / come un viandante medievale affrescato con in mano il suo poema, / intorno sempre i cieli. / E come lui, qualcosa di rosso e inviolato sotto i miei piedi».

 

Wright C., Crepuscolo americano e altre poesie (1980-2000), Jaca Book, Milano 2001.

Id., Breve storia dell’ombra, Crocetti, Milano 2006.

Spadaro A., Nuova poesia degli Stati Uniti, in «La Civiltà Cattolica», II, 3767, 2007, ora in Id., Nelle vene d’America, Jaca Book, Milano 2013. 

L’immagine emergente, recensione a Mosaico

di Irene Battaglini

2 febbraio 2014

recensione a Mosaico, di Andrea Galgano

pdf: L IMMAGINE EMERGENTE – RECENSIONE A “MOSAICO”, 2014

2013-1378 copertina - Copia

Mosaico (Aracne, 2014, p. 600) non nasce dallo spirito di una collezione di tessere giustapposte, ma dall’idea della composizione che da antico reliquiario di idee trascorse – come quelle degli autori che vi si sono interfacciati per grazie della felice e colta penna di Andrea Galgano – si trasforma in una gestalt che è propria della rappresentazione pittorica nella concezione psicologia più avanzata come quella sostenuta dallo stesso Ernst Gombrich in “Arte e Illusione”.

In questa occasione dovrei parlare di Mosaico e di come è composto, dei tanti scrittori e pittori che il critico d’arte – oramai affermato protagonista del proprio destino di letterato – in qualche modo “affronta”, in questa sorta di “corpo a corpo” con la materia letteraria, per dirla con Giovanni Testori.

Tuttavia vorrei invece fare un’operazione completamente diversa per presentare questo saggio così ricco ed importante che abbiamo l’onore di ospitare in questa giovane e prestigiosa collana. Vorrei portare l’attenzione proprio sulla facoltà del Mosaico di produrre un’illusione di immagine lasciando che questa si costelli nell’immaginazione dello spettatore, che per fuggire allo spaesamento della mente, si aggrappa alla sola certezza della percezione che va a definire un tutto più netto e più coeso che prende il nome di figura. Tutto questo è generato da un autoinganno che nell’arte si chiama illusione, e che gli junghiani chiamano Anima. Alla fine della mia riflessione su Mosaico, vorrei arrivare a dimostrare che se l’Illusione è un processo cognitivo a-specifico proprio di Anima, la percezione complessiva che deriva da questa illusione è governata dal più grave archetipo di Estia, dea Vergine dell’architettura, la più alta e la più composita, e di come questa più vasta operazione psichica della definizione dell’immagine nel mosaico attraverso l’accostamento di elementi più piccoli sia in effetti un’operazione propria della congiunzione di due poli opposti dell’archetipo (femminile), nella fattispecie Anima ed Estia, e che è questo il motivo per il quale questo libro prende il nome di Mosaico.

Mosaico non già base e prodotto della pazienza del conservatore di tesserine isolate (che nel sistemarle ha già dentro di sé un’immagine preconcetta: questo sarebbe se il titolo fosse stato scelto prima, se fosse stato studiato due anni prima a tavolino come un volgare edificio di ragionamento, quale il prodotto di un progetto editoriale e commerciale che si consuma con la mera vendita, e per questo sarebbe non già sotto Anima, ma sotto il glaciale saturno vestito da imprenditore dalle belle vesti di Anima dai grandi occhi di acquatici e penetranti, dal disegno preciso), ma Mosaico complessa dimensione percettiva e compositiva all’interno della vasta babele letteraria del mondo, quale creatura per sua natura frammentaria eppure armonica, emblema di una sintassi che volge alla perfezione seduttiva della paratassi degli elementi, che se messi tutti sullo stesso piano divengono qualche altra cosa, una struttura dotata di un comportamento emergente, per dirla con Humberto Maturana, eppure declinata nei volti delle tre Muse, che sono dotate si di pariteticità, ma ciò nonostante sempre capace di una triplice mutevolezza gerarchica, con la precipua competenza di valutare senza conflitto la posizione subalterna di una a favore della necessaria dominanza dell’altra.

Il termine autopoiesi è stato coniato nel 1972 da Humberto Maturana a partire dalla parola greca auto, ovvero se stesso, e poiesis, ovverosia creazione. Un sistema autopoietico è un sistema che ridefinisce continuamente se stesso ed al proprio interno si sostiene e si riproduce. Un sistema autopoietico può quindi essere rappresentato come una rete di processi di creazione, trasformazione e distruzione di componenti che, interagendo fra loro, sostengono e rigenerano in continuazione lo stesso sistema. Inoltre il sistema si autodefinisce, di fatto, ovvero il dominio di esistenza di un sistema autopoietico coincide con il dominio topologico delle sue componenti. Un mosaico è qualche cosa di diverso da un affresco, da un graffito, da un acquerello. Somiglia ad un sogno che si autodetermina con ordine, ed è per questo che distrattamente potrebbe essere considerato razionale ad apollineo. Se l’immagine quindi è netta, non è altrettanto lineare il processo che ascende a questa creazione. È un processo della mente, che ha che fare quasi con la formazione di un fiore, La rosa profunda di Jorge Luis Borges. Lui dice «Vedo la fine e vedo l’inizio, non ciò che sta nel mezzo. Questo mi viene rivelato a poco a poco, quando gli astri o il caso sono propizi. Più di una volta devo tornare indietro e ripercorrere la zona d’ombra. Cerco di intervenire il meno possibile nell’evoluzione dell’opera. Non voglio che snaturino le miei opinioni, di certo insignificanti. […] Uno scrittore, ammise Kipling, può concepire una favola, ma non penetrarne la morale. Deve essere leale con la sua immaginazione, non con le mere circostanze effimere di una supposta “realtà”. La letteratura inizia col verso e può impiegare secoli a ravvisare la possibilità della prosa. Dopo quattrocento anni, gli anglosassoni lasciarono una poesia non di rado mirabile e una prosa appena esplicita. La parola sarebbe stata all’origine un simbolo magico, che l’usura del tempo avrebbe indebolito. La missione del poeta sarebbe restituire alla parola, sia in modo parziale, il suo primitivo o oggi nascosto vigore. Due doveri avrebbe il verso: comunicare un fatto preciso e toccarci fisicamente, come la vicinanza del mare». In questo inizio a La Rosa Profunda (1975), «una raccolta di trentasei testi poetici densi di fatalismo, di un destino crudo e doloroso, dove anche i sogni diventano incubi. Dove però la poesia emerge quasi come salvezza della memoria, come costruzione migliore del sé, della vita. Del destino anche. Perché la poesia sta al di là del sé, della vita, del destino. È l’opera che non appartiene per eccellenza. Non appartiene al poeta perché dopo che l’ha scritta è altro rispetto al poeta. Non appartiene al lettore perché dopo che questi l’ha letta è altro rispetto al lettore (come necessariamente lo era anche prima della sua lettura). Ma nasce e giunge dal poeta al lettore in maniera inesorabile, altrettanto inesorabilmente siglando la propria profondissima tangenza al poeta e al lettore pur essendo a loro inappartenente. La poesia è perché non appartiene, ma proprio in virtù di questo è ancor più profondamente ciò che è».[1]

E il mosaico con la sua qualità di immagine emergente è anche metafora di una poiesi mediata da processi neurosensoriali altamente specializzati. «Hegel nella sua Estetica del 1842 diceva che l’idea derivante dal concetto ha la peculiarità di elevarsi al di sopra di ogni dato sensibile. In un’ottica neurologica tale superiorità deriva dalle innumerevoli registrazioni visive immagazzinate nel cervello: si tratta di immagini mnemoniche selezionate in modo da poter estrarre le caratteristiche essenziali degli oggetti, le loro costanti. In un quadro, allo stesso modo, l’artista può mostrare ciò che è visibile, ma anche ciò che al momento sussiste solo nella sua memoria per accumulazione; così l’arte rappresenta la cosa in sé, traendola dall’interno della mente»[2]. Tuttavia è alla psicologia della gestalt che ci dobbiamo rivolgere, per comprendere la dinamica dell’immagine emergente che è evocata dal mosaico stesso. La psicologia della forma si è occupata della composizione analitica dell’attività di percezione visiva; le percezioni derivano da un feedback sensoriale soggettivo sul modo in cui una certa costellazione di punti crea una forma. La legge dell’organizzazione visiva detta della “chiusura”, per esempio, recita che vi è una «tendenza a vedere un’unica forma definita in un insieme di punti disposti su di una scia circolare, “il destino comune”, la tendenza a ricondurre ad un’unica forma più elementi e punti moventi verso una stessa direzione e “la contiguità di particolari ravvicinati” e la preferenza delle curve, delle forme cioè senza spigoli – individuano le caratteristiche comuni di un oggetto e sono pertanto possedute da tutti gli uomini che appuntano rivelano avere una identica struttura visiva».[3]

La stretta correlazione tra isomorfismo cerebrale e processi di «raggruppamento dinamico» (Richard Gregory), ci risolleva dalla condizione di incerti viaggiatori nella sfera mitografica, ci offre mappe sofisticate, ma ci allontana dalla prospettiva iniziale, quella della nostra necessità di comprendere.

Il Mosaico di Andrea Galgano è come un mandala letterario, il cui «motivo di base è l’idea di un centro della personalità, di una sorta di punto centrale all’interno dell’anima al quale tutto sia correlato, dal quale tutto sia ordinato e il quale sia al tempo stesso fonte di energia: l’energia del punto centrale si manifesta in una coazione pressoché irresistibile, in un impulso a divenire ciò che si è; così come ogni organismo è costretto ad assumere la forma caratteristica della propria natura. Questo centro non è sentito o pensato come IO, ma – se così si può dire – come Sé» (Jung, Simbolismo del Mandala, Opere vo. IX).

Mosaico quindi come primo elemento della costellazione del Sé di questo autore giovane si, ma abitato da un’antica saggezza, una luce di terra, come direbbe Marìa Zambrano nei suoi scritti sulla pittura intitolati Dire luce (Bur, 2013), che non troviamo né in Argini né in Radici di Fiume né in Frontiera di Pagine. Nelle opere precedenti di Andrea Galgano, pubblicate in pochissimo tempo, non si intravvedono ancora quegli elementi architettonici arcaici e silenziosi che invece costruiscono Mosaico: mosaico non è sponda, non è navigazione. Mosaico è chiaritudine, è costellazione, è appunto architettura vergine propria del dominio di Estia. Scrive T.S. Eliot in Quattro Quartetti, che «la dea possiede la libertà interiore […], tuttavia è circondata da una grazia di senso, una bianca luce immobile eppure mobilissima». Estia è vergine, nel senso che è collegata ad uno stato psicologico di integrità interiore, libera dalla dipendenza emotiva e materiale. Ella è sacralizzata al punto che in antichità nessuna casa potesse considerarsi sacra se non dopo avere ad ella dedicato un fuoco. Primogenita di Crono, è il prerequisito dell’azione illuminante della ricerca interiore, dell’edificazione e della centratura, ricorda un mosaico-mandala, polarizzato ma non monadico, immobile di una bianca luce mobilissima al suo interno, come un vero e proprio sistema autopoietico.

Mosaico è libro da leggersi in silenzio. Nel silenzio della casa illuminata dal fuoco bianco della solitudine, in contatto con il proprio sacro fuoco, alla ricerca di quelle riviviscenze che si trovano sfogliando le pagine, come danzando tra le 600 pagine dell’opera tra i poeti, gli scrittori, i grandi romanzieri italiani e stranieri.

Quel che rende speciale Mosaico è di essere un caposaldo, un fortilizio in cui fare scelte personali ma al sicuro, protetti dalla Dea che da Crono ed Era porta la propria anima in porto anche dopo una lunga e tumultuosa navigazione.

Se quindi la percezione dell’immagine completa che emerge dalle infinite tessere, i 90 articoli che si dipanano tra i Opus Musivum, Xenia e Policromi (le tre sezioni di Mosaico) è inevitabilmente dentro l’illusione dell’archetipo di Anima, alimentata dai nostri desideri, dalle nostre proiezioni, dai nostri bisogni emotivi, dalle sirene di Odisseo che disperatamente cerca la forza per tornare a casa; la pienezza dell’immagine, e la sua sostanza viva che è ricca di caleidoscopiche mutazioni, sono invariabilmente sotto l’egida di Estia, la prima, la vergine, la madre ricca di luce e di ombra nella sua dimensione impersonale e introversa che si aggira nella solitudine di una casa sì ritrovata e sicura, ma qualche volta autoreferenziale. I due versanti dell’archetipo, congiungendosi nel Mosaico, offrono quella prospettiva di cammino di cui l’uomo ha bisogno, e quindi anche il lettore: la ricerca si, ma forte di alcune grandi certezze.


[1] http://alessandrocanzian.wordpress.com/2014/01/31/la-rosa-profunda-jorge-luis-borges/

[2] http://www.stateofmind.it/2014/01/neuroestetica/

[3] ibidem