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La limpida luce di Ezio Settembri – Nota

di Andrea Galgano

30 agosto 2023

D’altra luce di Ezio Settembri, pubblicato da Pequod, dona un ritrovamento di tempo come salvazione e, come afferma Giancarlo Sissa, nella prefazione: «è la sua una scrittura in versi colta e umile al tempo stesso […] attentissima alle possibilità del dialogo intertestuale con scrittori e poeti importanti della tradizione italiana e marchigiana – dall’amato e compianto Francesco Scarabicchi a Ferruccio Benzoni, da Vasco Pratolini a Guido Garufi a Sandro Penna e altri – poeti tutti letti e studiati par coeur con lucida passione e la cui comune lezione di limpida esposizione del dato umano sia storico che autobiografico sa qui concertarsi in una compiuta rapsodia di ritratti, istanti, miraggi».

Il respiro lieve si accompagna alla sicura destinazione del sangue, in cui il tempo d’anima, per usare un lessema di Sissa, apre una vastità di piano e di bellezza. Le figure genitoriali, i volti cari, gli accenti familiari divengono sipario e preludio di un attraversamento di stanze, di una limpidezza accentuata che riporta il mito, la stanza, la colta libertà di un piano a farsi penombra, in cui guardare le cose, riappropriarsene, varcarle.

L’altra luce esprime, dapprima, una provenienza e un’appartenenza, allo stesso tempo, che non solo rappresentazione memoriale dell’io ma cammino di «zolle fraterne».

Le incrinature paterne attingono a un’immersione nella ferialità del ricordo, nel fresco sorriso, nel guado di una sproporzione di incanto, con il cuore lieto: «Sogni e ricordi / dalla campagna / hanno la stessa materia, / abbiamo gli stessi panni vecchi / per sporcarci di terra / e dare acqua ai vasi. / Nient’altro che / gironzolare sul prato e / gustarci il sole».

È un moto onirico che ritorna alla sua stoffa per tagliare l’assenza, stonare le terre desolate, le sparizioni segrete e la durata del dolore: «Posso ritrovarti / nei mille volti che incrocio / ogni giorno, / l’euforia contagiosa, / un dopobarba troppo forte / per la mia pelle bambina. / Ma la voce che riempiva le stanze? / Ti rivedo al tavolo del Tresette / con “Gli animali”. / Sono tue le mie bestemmie / contro il televisore, / il gol fallito. / È fraterno al mio / il tuo dolore / il giorno del mio compleanno».

I dettagli e le inserzioni degli istanti racchiudono intensità che procedono come per abbagli, detriti di ombra, segni sul tempo che fracassano l’aria, come se si ripercuotessero sul presente, divenendo l’abbraccio e la carezza di un affetto spietato.

Poi la figura materna. Settembri non si appropria di un lessico familiare per riscriverlo. Egli condensa vicinanze nel respiro, nella pazienza dell’abbandono, nel dramma crudele dell’assenza, come un silenzio, un’attesa generosa, una mancanza di altura che si fa erranza: «Appoggiavo spesso la testa / sulle tue braccia scoperte, / anche da grande, / abbandonato come un infante. / Con non altri che te / era il colloquio, / un tacere di sguardi / prima della partenza. / Mi mancano i tuoi dolci silenzi, / pieni di consapevolezza, / l’attesa leale / del mio turno di parola, / una pazienza invincibile. / Un filo di rediviva tenerezza / mi lega ai compleanni / della mia infanzia, / ora che è notte / e rari lumini affiorano / dal ponte di nebbia».

La declinazione materna affresca sipari antichi, tocca l’inizio e la fine e l’opaca violenza incisa nel cuore. La destinazione familiare e il suo scorcio avvengono per recupero non per sottrazione, dove la sostanziale interezza della pienezza perduta, il fondo chiaro dei giochi, la lotta del tempo assediato destinano le linee dell’io a una gioia elementare.

Il tempo antico è scandito per particolari riversati, visioni, rapidità essenziali che ricamano il vento come lontananze e limpidi chiarori di soglia: «Vorrei lasciare un segno di rimando / di quelle estati interminabili, / scendendo i greppi / che mettono nell’uliveto / ascoltare il vento / modulare la nostalgia / di quelle voci bambine. / Posso sentirle gelare nel sangue, / attraversare il respiro, / penetranti dal buio / farsi luce».

Il grumo della nostalgia è un’apertura, sonda la solitudine, divenendo grafia interiore di uno sguardo e di una bellezza lucente, come una città, l’essere insegnante, una casa, una terra, un pezzo di luce che insegna a concepire silenzi e a diventare prima e unica tenerezza accesa.

Ezio Settembri, D’altra luce, Pequod 2023

Un omaggio a Francesco Nuti inaugura il Seminario Residenziale “Psicoanalisi e Cinema Contemporaneo” alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato-Padova

Comunicato Stampa

Un omaggio a Francesco Nuti inaugura il Seminario Residenziale “Psicoanalisi e Cinema Contemporaneo” alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato-Padova.

La Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato-Padova è lieta di annunciare l’apertura del suo atteso Seminario Residenziale “Psicoanalisi e Cinema Contemporaneo”, con un omaggio speciale a uno dei grandi autori del cinema italiano, Francesco Nuti. L’evento si svolgerà presso la sede in Via Giotto, 49 a Prato, e si protrarrà per tre giorni consecutivi, dal 13 al 15 luglio e prevederà anche due retrospettive su Dino Risi e Man Ray.

La cinematografia di Nuti, passando dalla commedia al drammatico, ha avuto come centro sempre le donne e gli uomini, approfondendone i tratti psicologici con profondità, poesia, estrema originalità e conoscenza dell’umano. L’omaggio a Nuti, a partire dal film “Stregati” (1986), sarà un’occasione per celebrare il suo contributo artistico e per approfondire le dinamiche psicoanalitiche presenti nelle sue opere cinematografiche.

Secondo Andrea Galgano, Direttore Umanistico della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm: “La grande capacità di Nuti è incastonare dentro di sé la dimensione artistica luminosa del sorriso e della battuta alla condizione lunare della malinconia e del dramma del quotidiano, scavando nella profondità di personaggi tutt’altro che banali”.

Un omaggio doveroso alla sua arte imprescindibile all’interno del seminario tematico residenziale che è il modulo formativo di punta della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm Prato-Padova, a matrice squisitamente psicodinamica, di ricerca e sviluppo di temi psicoanalitici e psicoterapici.

Il seminario del 2023 ha, infatti, per oggetto il rapporto, intriso di reciprocità, tra Cinema Contemporaneo e Psicoanalisi, perché come affermava Francesco Nuti: “La creatività è l’arma segreta per affrontare le difficoltà della vita” ed è proprio attraverso l’analisi dell’arte che possiamo conoscere appieno l’animo umano.

I partecipanti, Allievi e Tirocinanti dell’Istituto, organizzati in gruppi e aule dedicate, producono un elaborato critico “di gruppo” relativo ad un’opera proposta, con la guida costante dei docenti, che può contemplare anche linguaggi espressivi multimediali, psicodrammatici o letterari, volti a cogliere i collegamenti e i contenuti psicoanalitici evocati dal film.

Il Direttore della Scuola, Dott.ssa Irene Battaglini, coadiuvata dal comitato scientifico, formato da Andrea Galgano, Federico De Caroli e Francesco Pollastri concluderà i lavori di ogni singola giornata con una restituzione psicoanalitica finale dell’esperienza del Seminario Residenziale.

Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, via Giotto 49, Prato

www.scuoladipsicoterapiaerichfromm.it

segreteria@polopsicodinamiche.com

0574/ 603222

Referente: dott. Alessandro Campidori 342/ 0441653

Alessandro Moscè e le case dai tetti rossi

di Andrea Galgano  28 aprile  2022

leggi in Pdf Alessandro Moscè e le case dai tetti rossi

Con Le case dai tetti rossi[1], edito da Fandango, Alessandro Moscè (1969) ci consegna un mondo sepolto, in occasione della vendita della casa di nonna Altera e nonno Ernesto, ritornando alla grande struttura dell’ex ospedale psichiatrico di Ancona, un complesso di palazzine verdi e tetti rossi «color del sangue», che venne riconvertito dopo la legge Basaglia del 1978, che avrebbe cambiato lo studio e lo sguardo sulla realtà psichiatrica, portando, nel 1981, alla trasformazione, dapprima, in una struttura di assistenza e poi, successivamente, in un centro riabilitativo e sanitario, ed accoglieva

«i barboni, i malnutriti, gli ubriaconi, chi era tornato dalla guerra frastornato, con una pallottola conficcata da qualche parte, chi non riusciva ad alzarsi dal letto, chi era nato straccu, stanco, chi aveva una deformazione fisica e chi era figlio di genitori strani, spostati, con il diavolo in corpo, il diaolo. Ci finivano gli epilettici che cadevano a terra. Si pensava che le convulsioni fossero una malattia mentale ereditata, che il malocchio avesse consumato cuore e anima del paziente, non solo  il cervello. Questi erano i segnati da Dio, di cui bisognava diffidare. I fori de testa, gli schizofrenici, conservava vano lo sguardo fisso, l’orbita degli occhi sproporzionata e le braccia lungo un corpo filiforme o lievitato. Nessuno sembrava avere una linea normale, tutti avevano un fisico allungato, striminzito, ingrassato a dismisura. Negli anni Sessanta ai piani di sopra del manicomio risiedevano i violenti, gli incontrollabili, gli psicotici».[2] .

Il romanzo di Moscè, dunque, entra in quei sipari di cancelli, riportando la scena all’infanzia, quando era solito guardare quei matti al di là delle inferriate:

«Non ho mai dimenticato i racconti sventurati, le volte che mi sono avvicinato a quel luogo malfamato con il figlio del giardiniere, il mio amico Luca, il timore di superare il cancello, i rimproveri di mia madre quando fissavo i degenti appoggiati al cancello, le strattonate, le raccomandazioni di girare al largo se fossi uscito solo per comprare i fumetti incellofanati, a poco prezzo[3]».

Recuperando alcune cartelle cliniche degli anni Settanta e Ottanta, il suo sguardo tenta di riappropriarsi dell’umano spogliato, allontanato e condotto ai margini del vivere, spesso deriso, ricostruendo la soglia di una frattura di una quotidianità e di confini inconfessabili e invalicabili, recuperando il bagliore denudato delle esistenze invisibili:

«L’impianto seguiva i padiglioni che comunicavano, di arcata in arcata, per mezzo dei porticati. All’ingresso, dopo la portineria, due stabili erano riservati agli ospiti benestanti. A destra la palazzina confinava con la farmacia, il pronto soccorso e la cucina. I villini presentavano prospetti in laterizio a pasta gialla con cornicioni implementati in stucco dipinto. I porticati avevano gli archi a sesto ribassato da coperture di legno con manto tagliato in coppi. Nel mezzo c’era il villino della direzione affidata al professor Guido Lazzari e, attiguo, lo stanzone dei medicinali. Gli uomini e le donne, separati da una rete metallica che divideva gli stabili, erano tenuti in custodia da suore e infermiere».[4]

Le diagnosi, le cure, le camicie di forza, l’elettroshock, i bagni gelidi, l’isolamento, la figura compassionevole e carismatica del dottor Lazzari, «un signore di mezz’età con la fronte alta e spaziosa e pochi capelli in testa, con il riporto sul capo che partiva da sinistra. Indossava sempre giacca e cravatta. Un uomo serio, acuto, rivoluzionario nel senso migliore del termine», coadiuvato dai medici, da suor Germana e dal giardiniere Arduino, che dona fiori e piante medicinali, creano un mondo nel mondo, tolgono invisibilità, donano e porgono limpidità a ciò che è stato percosso, segregato, evitato, guidando il manicomio in un percorso di umanità che, dalla reclusione «conducesse all’autodeterminazione di molti pazienti, nonostante la paura per il diverso[5]».

Nazzareno che crede di essere speciale e nella sua andatura da clown spera di vedere la Signora, come Bernadette, e soffia bolle di sapone tra i padiglioni, Adele che ricorda solo Mussolini o Franca che vede uomini in processione in divisa nazista e il brusio allucinatorio nella sua testa la rendeva vittima di complotti.

E poi ancora il paziente di Osimo, Sebastiano, l’uomo-giraffa, che sostiene che la notte lo rincorrono i colori e poi, liquefacendosi, gli si incollavano addosso, Marta, i deliri mistici di Anacleto, Giordano e la maglia del Napoli, quando non colleziona bottoni, Carlo il pirata.

Moscè scrive un romanzo, affidando i suoi occhi a un intenso caleidoscopio, unendo i sipari familiari alle figure che si muovono sulla scena del romanzo, con asciuttezza dolce, come prima di lui aveva fatto Mario Tobino, con Le libere donne di Magliano o Per le antiche scale.

La frontiera di due mondi, di due epoche, di due condizioni si toccano nel ricordo, nel recupero di quella comprensione e compassione, di quella indulgenza di chi si pone raccontando per non perdere, di chi offre il nome per renderlo unico e irripetibile e, in definitiva, per affidarlo all’eternità che ha il sapore del taglio di luce.

 

Moscè A., Le case dai tetti rossi, Fandango, Roma 2022.

[1] Moscè A., Le case dai tetti rossi, Fandango, Roma 2022.

[2] ID., cit., pp.13-14.

[3] Id.,cit., p.8

[4] ID., cit., p.11.

[5] ID., cit., p.28.

August Von Platen: il nitore senza sosta

di Andrea Galgano 9 agosto 2019

leggi in pdf AUGUST VON PLATEN. IL NITORE SENZA SOSTA

Il gesto lirico di August von Platen (1796-1835) è una materia solitaria e fugace, che si dipana in un’epoca pervasiva di attriti e ombre, la Goethezeit («possiede qualità brillanti, e tuttavia non possiede l’amore», così affermò, di lui, Goethe), che tenta una via peculiare, che si discosta tanto

«dalla generazione dei Romantici, che a quell’influenza avevano cercato in tutti i modi di sottrarsi, quanto da quella dei suoi coetanei, che con fatica cercavano una propria via capace di condurli, che con fatica cercavano una propria via capace di condurli oltre le premesse. Solo e solitario per destino ma anche per vocazione, Platen seguì un proprio itinerario nel quale giocò un ruolo fondamentale l’idea, e l’ideale, della bellezza. […] Il mito della bellezza si esprime così in una poesia che, frutto di studio appassionato, aspira al nitore, alla perfezione e alla pregnanza della lirica classica e come questa tende a celebrare il poeta come divino artefice; ideale luogo di ambientazione di questo progetto tanto ambizioso quanto utopico è il paesaggio italiano, da Platen vissuto – sia a livello di reminiscenza, sia nella realtà fattuale – come un Altrove benefico rispetto all’angustia ispiratagli dal suo paese e dal suo tempo».[1]

La pubblicazione, presso Elliot, grazie alla solerte cura di Andrea Landolfi, delle Poesie (1816-1834)[2], restituisce una sosta di forma e di bellezza, e di nitore viandante, riappropriandosi, così, di un equilibrio raffigurativo fatato, quasi aereo: «Venne Flora, alle tue foglie / il profumo tolse, e disse: / Tu sarai gioia per gli occhi, / l’oro l’aria inebrieranno».

Il marchese di Hallermünde, il cui rapporto con la Germania, risulta essere conflittuale e straniante, sia per il conflitto della sua omosessualità e sia, come sostenuto da Landolfi, per una sorta di poetica «di impronta fortemente elitaria e solipsistica, che tende a trasformare il proprio sostanziale isolamento nella altera solitudine di colui che si sente prescelto a più alti destini[3]», avverte tutta la lacerazione splendente della materia, il suo irretimento e la dolcezza immortale: «Se fanno una ghirlanda questi fiori / a ornarti il capo di colori belli, forse / mi dirai grazie e non me ne vorrai / per quel che è buono e quel che lo è di meno: / Che mai potrebbe darti la poesia? / Tu stesso sei per me un dolce poema, / e se anche il tedio spesso ti intristisce / tu metti ali al canto del poeta».

O ancora, come una invocazione solenne e leggera, il canto di Platen è un’anima nascosta e febbrile, si espande come meta incerta, occulta sentimenti per renderli vitali e feriali nell’orizzonte sottile della poesia:

«Nel maggio voluttuoso della vita / quando l’anima ferve di entusiasmo / io sento che nel desiderio ardente / la mia fiamma vitale si consuma. / Non un vento che tiepido e dolce / mi sorprenda, mi scompigli i capelli; / oppresso e vuoto, inerte navigante / vago per il silente deserto dell’Oceano. / Chi mi dirà cosa devo fare? / Se valgo qualcosa, se posso tentare? / Se otterrò ciò che devo senza pianto? / Tanta fatica al prezzo di un sudario! / Venite dolci canti, dopo il lungo sonno / infondete coraggio al mio cuore / affinchè non sprofondi nel sogno, / non si perda in passioni sviate».

In mezzo l’aspra polemica con Heinrich Heine, che nei Bagni di Lucca, ne denigra la figura e la sua latente omosessualità, costretta ad essere occultata e dissimulata, nel sistema culturale tedesco del tempo e pagata a caro prezzo («Solo lievi parole avete per giudicarmi, / leggere nel mio cuore non vi è fato: / ah, ogni scherzo è solo oblìo di me, / ogni sorriso pago a caro prezzo»):

«Un animo gentile si esprime solo in forma confacente, e questa la si può apprendere solo dai greci, o dai moderni che tendono alla perfezione greca, pensano alla greca, sentono alla greca, e in tal modo comunicano all’uomo i propri sentimenti”. «All’uomo, s’intende, non alla donna, come sogliono i poeti romantici», osservai» […] «il volume recava sul frontespizio: “Poesie del conte Augusto von Platen”, […] e, sulla pagina interna, la scrittura a svolazzi: «Pegno di calda, fraterna amicizia.».[4]

Già nei Diari, Platen aveva espresso tutta la potenza del dolore cieco, la refrattaria precarietà, il suo amore sperduto per lo studente ventunenne Eduard Schmidtlein e per un primo, iniziale per una giovane nobildonna, la ferita o-scena e irrimediabile dell’indicibile, e il patimento oppresso e muto dell’alterità: «Io vado errando / oppresso e muto / chiedi perchè? / Oh, non lo chiedere! / Troppo dolore / mi opprime il cuore: / come potrei / non esser triste? / Si secca l’albero / smuore il profumo, / le foglie cadono / ingiallite al suolo, / un freddo brivido / irrompe impetuoso: / come potrei non esser triste?».

Lo stesso amore è una scheggia infilata nelle carni, un rimando di sogno e ardore, dove la stoffa onirica sedimenta la materia della poesia, il suo gesto vivente e alchemico che invoca la luce, prima di ogni tempo, e che fronteggia l’anima dispari di Arimane, già messo a fuoco da Leopardi:

«Cos’è che ci consola, che ci dà / voglia e coraggio di indugiare quaggiù? / Noi sogniamo vivendo, / noi viviamo sognando. / Non appena cediamo al sonno / ci abbandona il vano nostro io / e da altre sfere brividi presaghi / accorrono benigni a cullarci. / Dopo aver scontato dure pene / e superato prove dolorose / possiamo sperare di svegliarci / là dove ci addormentammo. / Lasciateci dunque aspirare / con fede e coraggio ai più beati spazi, / perché noi sogniamo vivendo, / perché noi viviamo sognando».

Ma le stagioni più profonde e intense, Platen le vive in Italia. Raggiunge Roma il giorno del suo trentesimo compleanno, Napoli e la costiera (Sorrento, Capri, Paestum, Amalfi, tra il 1827 e il 1834)  nel 1828, e poi ancora il Nord Italia e il Sud, tra Basilicata, Calabria, e l’ultima meta della Sicilia.

Andrea Landolfi scrive:

«l’Italia di Platen […] è minuziosa e minima […]. Libero dalle costrizioni e dalle dissimulazioni impostegli dal proprio ambiente, Platen trova in Italia una sua dimensione all’insegna di un vorace e febbrile attivismo volto a immagazzinare quante più immagini, nozioni, sensazioni, esperienze possibili. Ciò che soprattutto lo attira, accanto alle sopravvivenze dell’Antico, è quella presunta “innocenza” che, a lui come già al Goethe soprattutto siciliano, la tragica arretratezza del paese sembrava garantire».[5]

Camilla Miglio gli fa eco:

«Il suo non fu un Grand tour tradizionale. L’andare a sud non era solo una ricerca di radici culturali, o goethiani ringiovanimenti dell’anima, quanto una fuga. Il suo viaggio si può leggere anche come tentativo di sottrarsi a chi intendeva sorvegliarlo, e soprattutto punirlo, in seguito agli scandali sessuali che ne provocarono l’allontanamento dalla scuola militare e poi dall’università. Classicista ma anche orientalista, era preso dal demone della bellezza e della lontananza (degli antichi greci e latini ma anche dei persiani medioevali, maestri di versificazione erotica)».[6]

Negli anni napoletani e in particolar modo nel settembre del 1834 conosce Giacomo Leopardi e Antonio Ranieri. Alla vista del poeta recanatese scrive:

«Chi conosca Leopardi soltanto delle sue poesie proverà, al vederlo, un certo pavento. Egli è infatti piccolo e gobbo, ha il volto pallido e sofferente e accresce i suoi dolori col modo di vivere, poiché scambia la notte con il giorno e viceversa. Senza potersi muovere né, a causa dello stato dei suoi nervi, impegnarsi in alcuna attività, conduce un’esistenza davvero triste. Tuttavia, conoscendolo più da vicino, la sgradevolezza dell’aspetto scompare al cospetto della raffinata cultura classica e della simpatia della persona».[7]

È una vicinanza di intenti, la misura più vicina alla dismisura che li accomuna.

La stretta congiuntura della ricerca estetica e della forma conclusa, del paesaggio in fieri, lagunare o rurale, del labirinto dell’essere, come iato inscindibile, non riescono a sanare una ferita di sperdimento: un amore totale, un desiderio ineffabile.

I suoi sonetti offrono il gesto chiaro di un mysterium tremendum, che tenta di rifuggire i falsi incanti, la sofferenza e la sparizione, ma che sente il duro e irrefrenabile bisogno di felicità, come cortina inafferrabile.

La sua libertà, promessa e colta come falce, diventa nostalgia, struggimento, bellezza irraggiungibile, come la gloria di Venezia («Perchè dov’è bellezza regna amore / nessuno si dovrà meravigliare / se non saprò nascondere del tutto / che l’anima ho divisa dal tuo amore. / Lo so, mai invecchierà il mio sentimento, / ché s’avvilupperà stretto a Venezia: / sempre dal petto sorgerà un sospiro / per una primavera appena in boccio. / Come può lo straniero ringraziarti / se anche il cuore tuo volle allietarlo / blandendo così in dolci pensieri? / mezzo non v’è che mi avvicini a te, / e solo vedi me muovere il passo / su e giù ogni notte per piazza San Marco»), perduta dentro un sogno di ombre, o di Firenze, anime immobili e respiri di carne:

«Libero io mi vorrei serbare, / nascosto al mondo intero / navigare vorrei su quiete acque, / dall’ombra delle nuvole coperto. / Accompagnato dagli uccelli in volo / dal peso della terra liberarmi, / cullato dal più puro elemento / fuggire gli uomini e le loro colpe. / Solo di rado toccherei la terra / e senza mai lasciare il mio vascello / un bocciolo di rosa coglierei / per ritornare poi subito al largo. / Vedrei da lungi pascolare i greggi, / crescere fiori e rinnovellarsi, / le contadine cogliere le uve, / falciare gli uomini il grano odoroso. / E null’altro godrei che il chiarore / del giorno, eternamente puro, / e una coppa d’acqua fresca, / che mai il sangue possa accendermi».

Il tempo dei Ghazal è un crampo di desiderio. Un sogno straziato, un pendolo continuo dell’io tra la fatalità e la fralezza, la diversità e la bellezza. Quest’ultima avvinta e ricercata, in tutto il suo tremendo e fertile dominio.

In questa ebbrezza, quasi intontita e chiara, si afferma tutta la vertigine della sua salmodia, l’appartenenza al sublime e chiaroscurale movimento dell’essere.

Platen è il poeta della spezzatura sontuosa dell’essere. Il cui regno radicale è quello della Bellezza, della primavera, della fioritura umbratile delle cose e delle sue piaghe.

Come se fosse presente alla tavola dell’amore. Un bacio, una bocca, un fondo di volti e notti estive, che nutrono abbondanze e giovinezze, che sentono la pena del cielo stretto e che diventano canto di ombra spaventosa:

«Se tacere dovrà i propri pensieri, / se la ragione cederà all’insania, / se la mollezza bacerà la sferza / del forte come un sacro scettro: / allora, sazio del variopinto giuoco, / mosso da brezze più serene e pure / il manto deporrà dell’illusione / e dei sensi la tramata veste”. / Esistono due anime che in tutto si comprendano? / Chi scioglierà l’enigma? Chi un’anima affine / di cercare non smetterà fino alla morte, / fino alla morte continuerà a cercare».

Nel 1835, Platen fugge da Napoli in mano al colera (se ne ricorderà Emilio V. Banterle nell’opera teatrale Leopardi. Storia di un’anima) e si imbarca per Palermo, passando per Caltagirone e Segesta. Poi sulla costa orientale, trova ospitalità presso il conte Landolina e qui si ammala di tifo. Gli sarà fatale. Muore il 5 dicembre e viene sepolto nel parco di Villa Landolina (oggi Museo Archeologico) a Siracusa.

Nel 1930, Thomas Mann innalza lo strazio di Platen attraverso un tempo oltre-tempo. Per la sua novella La morte a Venezia, cifra il protagonista chiamandolo Gustav, che oltre ad adombrare Mahler, diviene anche l’anagramma perfetto di August e il suo cognome Aschenbach, non è altro che il suono consonante di Ansbach, la città natale di Platen. Nella luce sirena di Venezia, appoggiato all’orizzonte, guarda ciò che prima sorgeva: le cupole e i campanili del suo sogno. La poesia era compiuta come un tremendo passaggio di bellezza nuda.

[1] Landolfi A., August von Platen o la trappola della bellezza, in Von Platen A., Poesie (1816-1834), cit., pp.11-12.

[2] Von Platen A., Poesie (1816-1834), a cura di Andrea Landolfi, Elliot, Roma 2019.

[3] Landolfi A., cit., p.12.

[4] Heine H., I bagni di Lucca, in Heine A., Italia, impressioni di viaggio, Rizzoli, Milano 1951. Vedi anche  Mayer H., La lite tra Heine e Platen, in I diversi, Garzanti, Milano 1977 (poi 1992), pp. 194-209.

[5] Landolfi A., cit.p.13.

[6] Miglio C., Le strade del desiderio in Heine e Platen, in “Il Manifesto”, 7 settembre 2014.

[7] Von Platen A., Die Tagebücher des Grafen August von Platen, a cura di G. von Laubmann e L. von Scheffler, 2 voll., Stuttgart, Cotta 1896-1900; ristampa anastatica: Hildesheim Olms, 1969, vol. II, p.962.

Von Platen A., Poesie (1816-1834), a cura di Andrea Landolfi, Elliot, pp. , Euro 19,50.

 Von Platen A., Poesie (1816-1834), a cura di Andrea Landolfi, Elliot, Roma 2019.

  • Die Tagebücher des Grafen August von Platen, a cura di von Laubmann e L. von Scheffler, 2 voll., Stuttgart, Cotta 1896-1900; ristampa anastatica: Hildesheim Olms, 1969, vol. II.

Heine H., I bagni di Lucca, in Heine A., Italia, impressioni di viaggio, Rizzoli, Milano 1951.

Mayer H., La lite tra Heine e Platen, in I diversi, Garzanti, Milano 1977 (poi 1992), pp. 194-209.

Miglio C., Le strade del desiderio in Heine e Platen, in “Il Manifesto”, 7 settembre 2014.

Rivoluzioni frommiane #4

di Guido Rutili 9 giugno 2019

PARTE QUARTA

leggi in pdf RIVOLUZIONI 4 

“Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche sé stesso; se può amare

solo gli altri, non può amare completamente.

Se l’amore per sé stessi non è disgiunto dall’amore per gli altri come ci spieghiamo l’egoismo, che ovviamente esclude qualsiasi interesse genuino per altri?

L’egoista s’interessa solo di sé stesso, vuole tutto per sé, non prova gioia nel dare ma solo nel ricevere. Vede il mondo esterno solo dal punto di vista di ciò che può ricavarne; non ha interesse per i bisogni degli altri, né rispetto per la loro dignità e integrità. Non riesce a vedere altro che sé stesso; giudica tutto e tutti dall’utilità che gliene deriva; è fondamentalmente incapace d’amare.

Questo non prova che l’interesse per gli altri e l’interesse per sé stessi sono alternative inevitabili?

Sarebbe così se l’egoismo e l’amore per sé stessi fossero la stessa cosa. Ma questa convinzione è l’errore che ha suscitato tante conclusioni errate riguardo il nostro problema.

Egoismo e amore per sé stessi, anziché essere uguali, sono opposti”[1].

Archimede, con una leva fisica, prometteva di sollevare un mondo particolarmente retrogrado rispetto alla propria capacità inventiva.

Erich Fromm, 1700 anni più tardi, costruiva una leva diversa, sociale, che avrebbe sollevato non solo il suo ma molti altri mondi a venire; negli anni ’60 del secolo scorso ridefinì l’amore per sé stessi.

Un’alternativa e non un sinonimo di egoismo, qualcosa di sovrapponibile all’amore per gli altri: principio fatto di una sostanza biofila capace di portarlo all’interno dell’individuo e veicolarlo verso gli altri con la medesima, sana, modalità propulsiva.

Una forma erotica produttiva che, al tempo in cui veniva pubblicato “L’Arte di Amare”, pareva presentare lacune importanti dovute a fattori sociali ed ambientali che rendevano difficile l’espressione lineare di una tendenza altruistica.

C’era forte necessità di rivendicare o rafforzare diritti umani a malapena sopravvissuti all’organizzazione precedente, belligerante, ormai superata.

L’individualità (intesa come attributo della persona, dello stato etc.), in un contesto in cui il mutuo aiuto era stato per duri anni rimpiazzato dall’aridità dell’affermazione individuale, aveva preso le sembianze di un’istanza potenzialmente pericolosa.

Ecco che l’egoista diveniva lo stereotipo del distruttore, dell’aggressore, di colui che cresceva nutrendosi dei frammenti di nemici onnipresenti, anche fantasmatici, anche ingiustamente investiti di questo ruolo.

Nel turbine di un tale stato reattivo, non c’era terreno che consentisse il fiorire di un amor proprio virtuoso, privo di effetti collaterali.

La consapevolezza che per dare in modo significativo è prima necessario essere, e che un’autenticità dell’essere presuppone la coscienza della centralità del Sé, non riusciva ad attecchire.

Eppure un Sé pienamente espressivo, capace di armonizzarsi alla comunità, abile ad erogare verso l’esterno in termini energeticamente positivi, non può esercitare nessuna funzione senza la contemplazione del proprio, solido centro.

Oggi le condizioni al contorno non sono le stesse: i valori conquistati e radicati dalle generazioni precedenti tremano sotto il peso di una coscienza collettiva annoiata, che li dà per scontati.

Non c’è belligeranza manifesta, ma solo aggressività velata.

Non si corrono pericoli e l’unica cosa che fa provare un brivido alle masse è l’horror vacui da assenza di saggi da seguire e nemici da debellare.

L’egoismo contemporaneo ha le spoglie del narcisismo maligno; non dunque quello che nutre il nucleo pulsante del singolo per permetterne la crescita, ma quello “fine a sé stesso”, che svaluta e appiattisce tutto ciò che lo circonda, al solo scopo di rivalutare la propria, neutra planarità.

Se l’egoismo di Fromm confliggeva con l’amore per sé stessi, l’odierno narcisismo cozza con l’individuazione dell’Io, aggravando la profondità del problema.

L’Io senza una casa non è più capace di amare, né in modo centrifugo né in modo centripeto, può solo illudersi di farlo, fraintendendo l’amore con una spinta di diversa origine.

La curiosa manifestazione sintomatica consiste nell’attribuzione di colpa verso un fantomatico neo-egoista dai tratti troppo tenui per godere del beneficio della rendicontazione verso la società.

La figura in luce, quella a lui contrapposta, è altresì l’enfatico promotore di un’affettività marcatissima, visibile anche ai miopi.

Ecco che torna il testo del maestro Fromm, che spiega bene questo neo-altruista nella metafora della “madre troppo premurosa”: “Mentre lei crede di essere particolarmente attaccata al suo bambino, in realtà ha una profonda, repressa ostilità per l’oggetto del proprio interesse.

È eccessivamente premurosa, non perché ami troppo il proprio figlio, ma perché deve compensare la sua incapacità d’amarlo[2].

Eccoci al punto.

Il problema non è più discernere tra egoismo e amore per sé stessi ma riuscire a salvare l’amore per sé stessi (fonte d’altruismo sano) dal falso altruismo (lampante ma caustico divoratore d’eros relazionale).

L’etero-tendenza spuria è infatti il fattore sociale dell’eccessiva (ma inautentica) preoccupazione per il bene di chi ci pare dipendente o richiedente: figlio adottivo di una collettività purtroppo incapace di concedersi eros ego-diretto.

Cogliendo la metafora della madre troppo premurosa, scoviamo così l’ombra motrice dell’accoglienza cieca: puro odio per il prossimo.

Abbiamo il vecchio problema del Super-Io inflativo, che taccia d’egotismo ogni faticoso moto auto-centrante, senza considerare il paradosso sotteso ad ogni intervento di castrazione: la rivoluzione del bene nel male e viceversa.

D’altra parte in psicoanalisi ogni atto positivo eccessivamente palesato è campanello d’allarme, poiché tende a cercare l’assoluto nel buono, esperienza soggettiva per eccellenza.

L’atto compiuto correttamente rende l’agente soddisfatto, la necessità di rimarcare il proprio operato lascia invece trasparire l’insoddisfazione strisciante e dolorosa di chi non ha tratto alcun piacere dalle proprie condotte.

La tendenza altruistica di oggi fa esplodere fragorosamente all’esterno un vuoto interiore incolmabile, nella falsa illusione che possa essere il fragore del botto a creare sostanza.

“L’egoista non ama troppo sé stesso, ma troppo poco; in realtà odia sé stesso. Questa mancanza di amore per sé, che è solo un’espressione di mancanza di produttività, lo lascia vuoto e frustrato.  È solo un essere infelice e ansioso di trarre dalla vita le soddisfazioni che impedisce a sé stesso di raggiungere.  Sembra interessarsi troppo di sé, ma in realtà non fa che un inutile tentativo di compensare la mancanza di amore per sé.  […] È più facile capire l’egoismo se lo si paragona ad un morboso interesse per gli altri”[3].

Si torna alla madre che enfatizza moti d’amore e cela l’odio, scambiando in definitiva l’autentico col falso.

L’obiettivo è morboso, come dice il sociologo tedesco, e porta ad un aggressivo interesse per l’altrui mondo, deformato dall’inflazione di elementi che non aveva e -probabilmente- neanche voleva.

Non c’è nulla di catartico, solo prodotti di scarto.

Quale tra tutti?

Frustrazione.

è sorpresa scoprire che (l’individuo), ad onta del proprio altruismo, è assai infelice e che i suoi rapporti con coloro che lo circondano non l’appagano[4]

La frustrazione è il primo stato psicologico a dominare il singolo e le masse che non nutrono il proprio nucleo narcisistico primario, secondo una sana ricetta a base di amore autentico per sé stessi.

Tale elemento, centralmente radicato nella struttura di personalità, è il sale della vita biologica, tanto da essere innato, bio-innestato.

È il successore della scossa coatta che porta lo spermatozoo a dimenarsi in modo tale da andare in una direzione ed un verso: dritto, avanti.

È il pronipote della forza che muove il primo respiro e il vagito liberatorio.

È la fame, la sete, la ricerca evolutiva.

Possiamo pensare che certi fattori, favorevoli alla vita, possano essere efficaci se presenti soltanto nel prossimo contestuale e non in noi?

No, assolutamente!

Ecco che compaiono dunque i casi particolarissimi di cui ci stiamo occupando: al “buon egoismo”, sfiorando l’ossimoro, accostiamo il “buon altruismo”, che si ottiene in primis dalla negazione dei luoghi comuni, passando dall’amore per sé stessi.

Oggi è un amore per sé stessi delicatamente ricodificato nei meandri di qualcosa di antico e primitivo, concesso dagli dei all’uomo per la virtù d’essere sceso dal paradiso terreste: la libertà di elargire amore, purché continui ad esistere, senza badare al luogo in cui lo si ripone, poiché più lo si usa, più si è capaci di generarne.

Come il Meister Eckhart citato nell’Arte di amare, siamo quindi capaci di affermare che “Se ami te stesso, ami gli altri come te stesso. Finché amerai un’altra persona meno di te stesso, non riuscirai mai ad amare te stesso, ma se ami tutti nello stesso modo, compreso te stesso, li amerai come una persona e quella persona è sia Dio sia l’uomo.

È grande e giusto chi, amando sé stesso, ama in egual modo il suo prossimo.”[5]

 

[1] Erich Fromm, L’arte di amare

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Ibidem

[5] Ibidem

 

LEGGI LE TRE SEZIONI PRECEDENTI

Rivoluzioni frommiane #3

 

Rivoluzioni frommiane

 

Il sogno individuativo di Roberto Bolaño

di Andrea Galgano 1 luglio 2018

leggi in pdf IL SOGNO INDIVIDUATIVO DI ROBERTO BOLAÑO

PRIMA PARTE

Roberto Bolaño (1953-2003) scrive la sua precaria galleria di suono e il suo itinerario di miraggi e dirupi onirici. Ne I cani romantici[1], pubblicati ora per le edizoni Sur, con traduzione di Ilde Carmignani, che vinse in patria il “Premio Literario Ciudad de Irún 1994”, racchiude testi scritti dal 1980 al 1998.

La nudità danzante dell’avanguardia (sotto un arcobaleno di fuoco) si sposa con la frantumata vitalità superstite, la rinascita della ripetizione, lo straccio sporco e intimo che deve sopravvivere per contenere, come ha detto Elias Canetti «la maggiore e la più pura quantità di vita[2]».

Precedentemente, in Tre[3], Bolaño avverte la rapsodia deserta del «sogno dei coraggiosi morti per una chimera di merda», gli spostamenti temporali delle asimmetrie, lo spettro misterioso della narrazione che affronta la trama della storia attraverso l’eliminazione del caos[4] e la disperazione della ragione. Affrontare la scrittura significa dimorare nell’inabitabile, inseguire, da detective, il doppio volto della realtà, la sconfitta, («Sono stato dentro il paradiso come osservatore e naufrago, là dove il paradiso aveva la forma del labirinto»), e il sogno come illuminata dismutazione di oblio.

Nell’esplorazione del dettaglio, dagli autunni di Girona all’invisibilità dell’io e all’Oñar, Roberto Bolaño condensa le atmosfere rarefatte del particolare in una nascita di morte e splendore. Condensare la nascita in una contaminazione di precarietà e flusso è percepire l’urgenza sorgiva di una dislocazione, di una registrazione di atti e metafore che affermano la pulizia elementare della lingua.

Il vertice puro della sua poesia è il deserto che la anima, scrive i contorni esiliati, stanchi, assetati e affamati. La vita che si esprime allo zenith dell’illusione, dell’illuminazione spodestata, dell’atomo dell’avventura (Arcimboldi, i realvisceralisti, le puttane assassine) e della malattia, in ciò che Filippo Polenchi ha chiamato «contagio dei deserti[5]», perché la poesia è l’universo che squaderna  e straborda il labirinto e lo spazio cancellato, rappresentando la ricerca della verità, l’epifania e la potenza del linguaggio nella geometria aliena, diventando:

una gigantesca isola, quasi un continente, nei cui viali assolati o nei bui cunicoli della capitale dell’orrore si aggirano senza scopo, come mossi da una insopprimibile necessità interiore, una moltitudine impaurita di esseri umani, individui i cui libri e le cui storie sembrano aver perso per strada l’intima motivazione del loro stesso essere racconto e narrazione. Il labirinto è, in fondo, un cimitero e la poesia e la letteratura sono i ferri del mestiere del detective-poeta, il bisturi con cui lo scrittore seziona le colpe storiche e individuali del proprio tempo in uno spazio che, come la Avenida Reforma di Amuleto, «si trasforma in un tubo trasparente, in un polmone cuneiforme da cui passano i respiri immaginari della città»[6] e appunto in un «cimitero del 2666, un cimitero dimenticato sotto una palpebra morta o mai nata, le acquosità spassionate di un occhio che per dimenticare qualcosa ha finito per dimenticare tutto».[7]

Così come aggiunge Alice Pisu:

«L’autore entra ed esce dal suo testo e, mentre immagina i suoi personaggi, vede il deserto, il vuoto, quel nulla che riempie ogni cosa e che gli permette di osservare la sconosciuta. Una solitudine profonda si nutre di sogni e disperazione, tra inquietudini e paure racchiuse in un caleidoscopio che  esi muove «con la serenità e la noia dei giorni». Ciò che si allontana può essere chiamato deserto, roccia con aspetto d’uomo, scrive Bolaño. La realtà può avere tante facce, anche essere “coniata nel vuoto”: risiede in questo la profonda differenza tra Bolaño e i suoi contemporanei, la consapevolezza che la realtà raccontata dal personaggio che appare da uno schermo bianco o la proiezione del sogno sono solo lati di un cristallo, quella che richiamerebbe l’immagine dell’esattezza o della vaghezza per Calvino. Credere di poter raccontare la realtà percependola come l’unica sarebbe illusorio perché, come scriveva Richard Linklater, anche il solo pensare ad altre direzioni le rende realtà distinte, che vivono una propria esistenza: «Ogni tuo pensiero crea la propria realtà [..] come se tutto ciò che decidi di non fare si separa dal resto e diventa una realtà a sé».»[8]

Nella poesia rilasciata come straccali, il poeta compie la sua passeggiata onirica lambendo Virgilio, Borges, Perec, Lihn, Teller e Parra ma anche frequentando il nitore recluso di Emily Dickinson o la pienezza di Whitman. La narrativa e la poesia si mescolano in una intuizione di notturni e stelle distanti, disfano le loro impronte in una irruzione di scontro e fertilità selvaggia che irrompe nel discorso e lo comprime fino a farlo saltare[9] attraverso l’esilio dell’essere:

«Siamo rimasti a metà, padre, né cotti né crudi, persi nella grandezza di questa discarica interminabile, errando e ammazzando, sbagliando e chiedendo perdono, maniaco-depressivi nel tuo sogno, padre, il tuo sogno che non aveva limiti e che poi abbiamo sviscerato mille volte e poi altre mille, come detective latinoamericani persi in un labirinto di cristallo e fango, viaggiando sotto la pioggia, vedendo film dove c’erano vecchi che gridavano tornado! tornado!, guardando le cose per l’ultima volta, ma senza vederle, come spettri, come rane in fondo a un pozzo, padre, persi nella miseria del tuo sogno utopico, persi nella varietà delle tue voci e dei tuoi abissi, maniaco-depressivi nell’immensa sala dell’Inferno dove si cucina il tuo Umore».

Le mute cose respirano il loro diorama di dilatazioni e incarnazioni, il dettaglio degli indizi occultati, il crivello dell’orrore e il paesaggio acuto del dolore e della disperazione alla fine del mondo[10], fino al postumo respiro degli eventi:

«LA REALTA’. In qualche modo che non saprei spiegare la casa sembrava toccata da qualcosa che non c’era quando me n’ero andato. Le cose sembravano più chiare, per esempio, la mia poltrona mi sembrava chiara, brillante, e la cucina, anche se piena di polvere attaccata a strati di grasso, dava un’impressione di bianchezza, come se potessi vederci attraverso. (Vedere che? Nulla: altra bianchezza.) Allo stesso tempo, le cose erano più nette. La cucina era la cucina e il tavolo era solo il tavolo. Un giorno cercherò di spiegarlo, ma se allora, due giorni dopo essere tornato, appoggiavo le mani o i gomiti sul tavolo, provavo un dolore acuto, come se stessi mordendo qualcosa di irreparabile».

La consumazione del tempo celebra il tempo del proprio febbrile apprendistato oltre la sconfitta, la stratificazione dell’ombra e della carne, la povera bandiera dell’arte e dell’infinito, per afferrare anche l’impronta dell’oasi che

«è sempre un’oasi, soprattutto se uno esce da un deserto di noia. in un’oasi si può bere, mangiare, curarsi le ferite, riposare, ma se l’oasi è di orrore, se esistono solo oasi di orrore, il viaggiatore potrà confermare, stavolta in modo inoppugnabile, che la carne è triste, che arriva un giorno in cui tutti i libri sono stati letti e che viaggiare è un miraggio. Oggi, tutto sembra indicare che esistono solo oasi d’orrore o che ogni oasi va alla deriva verso l’orrore».[11]

I cani romantici restituiscono il mondo di una smarrita e avvolta precisione che lega sogno e incubo attraverso indicatori spaziali e temporali. Lo svolgersi del vivente si esprime in una raffigurata protrusione, in un soggiorno apprensivo di soglie, in meccaniche di ombra che restituiscono dolore e contorsione ma che, però, riportano l’apice dell’indefinitezza  e del miraggio. L’epica del sogno ha sperduta incisione e fonetica ombrata, tocca la perdita come ferita di realtà e efferatezza di un’immagine che include l’apogeo della sua malinconia vitalistica, che avvicina la guancia alla guancia della morte, come «spettacolo strano, lento e strano»:

«A quel tempo avevo vent’anni / ed ero pazzo. / Avevo perso un paese / ma guadagnato un sogno. / E se avevo quel sogno / il resto non importava. / Né lavorare né pregare / né studiare all’alba / insieme ai cani romantici. / E il sogno viveva nel vuoto del mio spirito. / Una stanza di legno, / in penombra, / in uno dei polmoni dei tropici. / E a volte mi guardavo dentro / e visitavo il sogno: statua immortalata / in pensieri liquidi, / un verme bianco che si contorce / nell’amore. / Un amore sfrenato. / Un sogno dentro un altro sogno. / E l’incubo mi diceva: crescerai. / Ti lascerai alle spalle le immagini del dolore e del labirinto / e dimenticherai. / Ma a quel tempo crescere sarebbe stato un delitto. / Sono qui, dissi, con i cani romantici / e qui resterò».

Il 20 luglio 2003 al quotidiano cileno “El Mercurio”, Bolaño afferma: «La mia poesia e la mia prosa sono due cugine che vanno d’accordo. La mia poesia è platonica, la mia prosa è aristotelica. Entrambe abominano il dionisiaco, entrambe sanno che il dionisiaco ha trionfato».

Giorgia Esposito così commenta:

«Tutta l’opera di Bolaño – entrambe le cugine che vanno d’accordo – canta la sconfitta dell’apollineo, attraverso una molteplicità di voci: da quella del calzolaio che, in Notturno Cileno, non vede realizzata la sua Collina degli Eroi, alla voce della madre della poesia messicana, Auxilio Lacouture, che, in Amuleto, si trova faccia a faccia con l’ombra dei suoi figli – una massa di bambini, unita solo dalla generosità e dal coraggio – che cammina inevitabilmente verso l’abisso. Ma l’abisso, ricorda Bolaño in Tra Parentesi, è anche l’unico posto dove si può trovare l’antidoto alla malattia che affligge Apollo. Per essere poeti occorre scandagliare il fondo inesistente del portafiori di Poe, quello che contiene tutti i crepuscoli e le porte segrete dell’inferno, che il poeta può contemplare, ma giammai varcare: più in là c’è solo la morte, e con essa innumerevoli storie di «generazioni sacrificate sotto la ruota e non raccontate» («I passi di Parra», I cani romantici). Bolaño era un sopravvissuto, un testimone, impegnato in una lotta contro il tempo, contro la malattia, che ha voluto dare voce ai poeti morti bambini, a quelli che non hanno potuto raccontare, ai cani romantici che hanno attraversato, con lui, le strade polverose del Messico, inseguendo assassini, puttane e poetesse».[12]

L’iniziazione poetica si conferma nella oscura rappresentazione di strade di ghiaccio nella sala di lettura dell’inferno. I suoi sogni conoscono il sentiero disertato della grazia, il bar e Soni dove si celebra l’immagine della poesia greca e la perdita della luce dei vetri sporchi prima di chiudere gli occhi, Ernesto Cardenal, Orfeo e Edna Lieberman e il suo sangue che gira come la luce di un faro, la puttana Lope, Città del Messico, i versi di Jimenéz che riportano isole che si gonfiano, si uniscono e si separano, Dino Campana e i fantasmi guardiani del sogno, e i crepuscoli annegati di Barcellona. E poi ancora il sanguinoso giorno di pioggia come un mondo scalzo e scarno, una cortina di giunchi «che si apre e ci sporca», gli artiglieri insieme. Pertanto, i paragoni, le metafore dell’aria libera muovono l’incontro sghembo dell’anima con il cuore sporco, malvestito e pieno d’amore, con lo spavento che arriva a toccare le stelle, che arriva a piangere di notte e ad avere le labbra febbricitanti nei villaggi abbandonati: «Solo la febbre e la poesia danno le visioni. / Solo l’amore e la memoria. / Non queste strade né queste pianure. / Non questi labirinti / Poi la mia anima finalmente incontrò il mio cuore».

Guido Mazzoni sostiene che le sue metafore «aprono il regno delle Idee: sovradeterminano ciò che esiste qui e ora, nella limitatezza del proprio essere – così, e lo fanno significare altro; liberano la vita particolare dalla propria tautologia, la redimono dalla finitezza, la rendono interessante[13]», e Ilde Carmignani, soffermandosi sulla tendenza al lirismo cursi (patetico, sentimentale, kitsch) e affermando il ritmo fratturato, il silenzio e  il punto di cesura di Bolaño, aggiunge:

«La mia sensazione, come traduttrice, è che la poesia, l’antico infrarealismo o realvisceralismo, irrompa spesso nella scrittura di Bolaño, e nel modo più inaspettato: è lo scarto repentino, l’espressione imprevedibile, l’immagine surreale, una specie di tempesta elettrica nel cielo notturno, per usare un’immagine ricorrente nei suoi romanzi. Mi dà sempre l’impressione di una rottura, come se la superficie della prosa si squarciasse di colpo per far emergere singole espressioni, frammenti talvolta minimi di frase che appartengono a tutt’altro linguaggio, un linguaggio molto più metaforico e spesso surreale».[14]

La poesia, dunque, frequenta l’incavo di ogni fondo, si immerge nuda in un lago senza confini, ama l’alveo del sogno, fino all’occhio di Dio. L’abisso del poeta sopporta di tutto, la lotta, l’esilio, il tempo sfrangiato dell’illusione, la morte e la malattia, la povertà minima e assassina a cui consacrare l’ostinazione e la volontà («Sulla strada dei cani, là dove non vuole andare nessuno. / Una strada che prendono solo i poeti / quando non gli resta altro da fare»): «La poesia entra nel sogno / come un palombaro in un lago. / La poesia, la più coraggiosa di tutti, entra e cade / a piombo / in un lago infinito come il LochNess / o torbido e infausto come il lago Balaton. / Contemplatela dal fondo: / un palombaro / innocente / avvolto nelle piume / della volontà. / La poesia entra nel sogno / come un palombaro morto / nell’occhio di Dio».

A proposito del respiro lirico ed epico della sua scrittura, che si impregna del soffio vitale che si trova nei condotti di sopravvivenza, Vasco Brondi scrive:

«Un paio di settimane fa ho suonato a Torino alle OGR era una serata pensata da Nicola Ricciardi per il Salone del Libro, mi hanno chiesto di fare un concerto acustico dove le canzoni si mischiassero alle letture e ho pensato che Bolaño poteva aiutarmi, ho pensato alla sua solarità anche quando parla di sparatorie, a quel soffio vitale che hanno le sue pagine. E mi sono ricordato di quelle ultime poesie di Tre che sono suoi sogni messi in fila. Sogni come sempre tra letteratura e vita, come sempre tra l’emisfero sud e l’emisfero nord. Con persone che si inseguono o che sono immobili da anni oppure irrazionalmente felici, e libri che vanno a fuoco, traduttori pazzi che traducono De Sade a colpi d’ascia in mezzo a un bosco, una legione di Tori Meccanici, spiagge dimenticate».[15]

L’inseguimento dello splendore rappresenta l’esito di questo scavo infinito, di questa coltre che si riconosce nel sogno che arriva a copulare persino con la morte. L’amore e il sangue compiono il passo salvifico nella notte: «sei come lo zoppo che l’amore ha trasformato in eroe: / non tornerai mai nella tua terra (ma qual è la tua terra?), / non sarai mai un uomo saggio, be’, nemmeno un uomo / ragionevolmente intelligente, ma l’amore e il tuo sangue / ti hanno fatto fare un passo, incerto però necessario, in mezzo / alla notte, e l’amore che ha guidato quel passo ti salva».

Nella sua consistenza viscerale, quasi primordiale, si rinviene l’amore, la consumazione dei letti bui, la nostalgia del non vissuto sulle labbra dove sgorgano i paesaggi dell’adolescenza mentre fuori cade la pioggia.

Nella bellezza e nella miseria: «Breve come la bellezza, / la bellezza assoluta, / Quella che contiene tutta la grandezza e la miseria del mondo / E che è visibile solo a chi ama».

Roberto Galaverni afferma:

«Ciò che più colpisce, semmai, è come questa costellazione, questa specie d’intensità e di spirito sodale che sono anche un miraggio d’armonia e di perfezione, siano diventati un elemento fondamentale della sua opera narrativa. La prosa di Bolaño non vuol essere di per sé poetica, non scimmiotta i ritmi, le clausole, insomma il passo del verso. Costantemente poetico è invece il suo tema. La poesia entra dappertutto: nell’esistenza e nell’immaginario dei personaggi, nella macchina narrativa, nella storia passata e, ancor più, nell’orizzonte d’attesa del racconto. Assieme alla violenza del potere, alla solitudine, alla disperazione, la poesia costituisce un’autentica ossessione, anche se, a differenza delle altre, come qualcosa di non dato. Potremmo dire allora che sia la vera posta in gioco di questo scrittore, ma una posta perduta, irrecuperabile, eppure, forse proprio per questo, costantemente allusa».[16]

Roberto Bolaño sogna i suoi detective, in cui approntare la sua anima segugia e versata, attraverso i volti amati o la donna che salvò la vita. Egli tocca la notte interminabile contemplando l’orrore e l’incubo peggiore e sa che essere nel fondo significa poi emergere nella pupilla dello splendore, nello strazio macchiato dell’abbraccio dello sguardo e nei frantumi innominabili:

«Sognai dei detective perduti nella città oscura. / Sentii i loro gemiti, le loro nausee, la delicatezza / Delle loro fughe […] Vidi i corridoi pieni di poliziotti, / Vidi liste di domande rimaste irrisolte, / Gli archivi ignominiosi, / E poi il detective / Tornare sul luogo del delitto / Solo e tranquillo / Come nei peggiori incubi, / Lo vidi sedersi per terra e fumare / In una camera con sangue secco / Mentre le lancette dell’orologio / Viaggiavano impaurite nella notte / Interminabile».

E dentro il respiro del sangue si rinviene tutta la potenza di un limite che se, da una parte, annuncia la fitta dell’essere («Strana ciurma imbarcata su una rotta / miserabile, strade cancellate dalla polvere e dalla pioggia, / Terra di mosche e lucertole, cespugli rinsecchiti / E tempeste di sabbia, l’unico teatro concepibile / Per la nostra poesia»), dall’altra testimonia il seme e il sudore e le lacrime di un tempo unico, di una veglia insonne in un hotel di paura e percezione inadempiente («Sei tu il rapinatore, lo stupratore, il ruffiano inetto / che si aggira per le strade inutili del sogno»): «nelle icone trasparenti della passione messicana, / si annidano il grande monito e il grande perdono, / quella cosa innominabile, parte del sogno, che molti anni dopo / chiameremo con vari nomi che significano sconfitta. / La sconfitta della poesia vera, quella che noi scriviamo col sangue».

Lo smarrimento di Bolaño concentra il dramma errante della meta in un corpo a corpo con il dettaglio, gli spigoli avvizziti, la moto e le tracce, Mario Santiago e i poeti perduti del Messico, o i passi di Nicanor Parra sull’orizzonte infinito. Nel territorio della grazia abbandonata, permane però una speranza smarginata e una dimensione innominabile, una resurrezione avvolta come una musa nel buio «ritrovato ai margini / Del sogno più remoto, / Nelle partizioni del sogno finale, / Sul sentiero confuso e magnetico / Degli asini e dei poeti»:

«Un’allegra canzone d’addio. / E forse sono i gesti di coraggio quelli che / Ci congedano, senza risentimento né amarezza, / In pace con la loro gratuità assoluta e con noi stessi. / Sono le piccole sfide inutili – o che / Gli anni e l’abitudine ci hanno permesso / Di credere inutili –  quelle che ci salutano, / Quelle che ci fanno cenni enigmatici con la mano, / In piena notte, sul lato della strada, / Come figli nostri amati e abbandonati, / Cresciuti da soli in questi deserti calcarei, / Come lo splendore che un giorno ci attraversò / E che avevamo dimenticato» (L’asino).

 

[1] Bolaño R., I cani romantici, traduzione di Ilde Carmignani, Edizioni SUR, Roma 2018.

[2] Cfr. Canetti E., Massa e potere, Milano, Adelphi 2015.

[3] Id.., Tre, traduzione di Ilde Carmignani, Edizioni SUR, Roma 2017.

[4] Montesano G., Bolaño. In realtà volevo fare il poeta, in “La Repubblica”, 10 aprile 2017.

[5] Polenchi F., Roberto Bolaño e il contagio dei deserti, (http://www.labalenabianca.com/2017/04/10/roberto-bolano-contagio-dei-deserti/), 10 aprile 2017.

[6] Bolaño R., Amuleto, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi 2010, p. 16

[7] Ibidem, p.71.

[8] Pisu A., Nella stanza di Bolaño, in “La Repubblica – Parma”, 3 maggio 2017.

[9] Bajani A., Scorribande poetiche di Roberto Bolaño, in “Il Manifesto”, 14 maggio 2017.

[10] Brancati F., Roberto Bolaño, poeta, (http://www.leparoleelecose.it/?p=31196#_ftnref13) 20 febbraio 2018.

[11] Bolaño R., Il gaucho insopportabile, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi 2017, pp. 135-136.

[12] Esposito G., “I cani romantici”. Le poesie di Roberto Bolaño, (http://www.minimaetmoralia.it/wp/i-cani-romantici-le-poesie-di-roberto-bolano/), 28 aprile 2016.

[13] Mazzoni G., “Totalità e frammenti. 2666 e la narrativa di Bolaño”, in «Allegoria», XXVII: 71-72 (2015), p. 235.

[14] Carmignani I., Mistero Bolaño. Conversazione con Ilide Carmignani, a cura di Marco Montanaro (http://www.leparoleelecose.it/?p=22282), 10 marzo 2016.

[15] Brondi V., Ho sognato che la vita mi amava e mi sono messo a scrivere poesie, in “La Stampa”, 9 giugno 2018.

[16] Galaverni R., L’incubo di Bolaño abita lo stesso sonno dei sogni, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 24 giugno 2018.

Bolaño R., I cani romantici, traduzione di Ilde Carmignani Edizioni SUR, Roma 2018, pp. 160, Euro 16,50.

 

Bolaño R., I cani romantici, traduzione di Ilde Carmignani, Edizioni SUR, Roma 2018.

  • Tre, traduzione di Ilde Carmignani, Edizioni SUR, Roma 2017.
  • Amuleto, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi 2010.
  • Il gaucho insopportabile, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi 2017.

Bajani A., Scorribande poetiche di Roberto Bolaño, in “Il Manifesto”, 14 maggio 2017.

Brancati F., Roberto Bolaño, poeta, (http://www.leparoleelecose.it/?p=31196#_ftnref13) 20 febbraio 2018.

Brondi V., Ho sognato che la vita mi amava e mi sono messo a scrivere poesie, in “La Stampa”, 9 giugno 2018.

Canetti E., Massa e potere, Milano, Adelphi 2015.

Carmignani I., Mistero Bolaño. Conversazione con Ilide Carmignani, a cura di Marco Montanaro (http://www.leparoleelecose.it/?p=22282), 10 marzo 2016.

Esposito G., “I cani romantici”. Le poesie di Roberto Bolaño, (http://www.minimaetmoralia.it/wp/i-cani-romantici-le-poesie-di-roberto-bolano/), 28 aprile 2016.

Galaverni R., L’incubo di Bolaño abita lo stesso sonno dei sogni, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 24 giugno 2018.

Mazzoni G., “Totalità e frammenti. 2666 e la narrativa di Bolaño”, in «Allegoria», XXVII: 71-72 (2015), pp. 230-237.

Montesano G., Bolaño. In realtà volevo fare il poeta, in “La Repubblica”, 10 aprile 2017.

Montieri G., I cani romantici sulla strada di Roberto Bolaño, (http://www.minimaetmoralia.it/wp/cani-romantici-sulla-strada-roberto-bolano/), 14 giugno 2018.

Pisu A., Nella stanza di Bolaño, in “La Repubblica – Parma”, 3 maggio 2017.

 

 

 

Maria Grazia Calandrone: il fondo poetico delle cose

di Andrea Galgano 7 febbraio 2018

leggi in pdf  MARIA GRAZIA CALANDRONE. IL FONDO POETICO DELLE COSE

sul sito di Maria Grazia Calandrone

Il nuovo lavoro di Maria Grazia Calandrone, Il bene morale[1], edito da Crocetti, lega figure, cose, scene e viste, ombre fuggitive e potenza della realtà, in un intenso polittico di resa e fasto, dolcezza e illuminata concavità.

La direzione della lingua sfiora le cose come sorpresa di scorcio, restituendo l’energia viva di un tempo non sfaldato e sempre congiunto, ravvivato dall’immagine che emerge e “si fa” nel testo, ed esprimendo, infine, la gemma della appartenenza vivente, sia al magma lessicale sia alla relazione con ciò che accade e la sua trafittura. Lo sguardo si forma nella densità e nella purità fertile:

«guarda le cose / con dolcezza / e con dolcezza tu verrai guardato / dalle cose: / con la tua anima / imita le cose / tu, che sei mondo, guarda / i fiori / come se fossi un fiore / e poi guarda / le api / come se fossi un’ape / poi guarda i fiori / con gli occhi / dell’ape / e vedi rosse, gialle, azzurre, bianche / tazze di nutrimento / fatte per te / bevi, / diventa forte / allora guardi / in alto / la radiazione azzurra / e sei cielo / sei la dolce giornata di settembre / che durerà per sempre».

Tale fertilità è la presenza commossa della realtà, in cui l’io porge il suo paradigma di narrazione e osservazione feconde, per amare la verità più di se stessi. Il centro di ogni rapporto è la relazione tra il gesto e la concezione del tutto, che in esso si implica, si sfodera e si offre.

In una bellissima intervista di Michele Paoletti su “Laboratori Poesia”, Maria Grazia Calandrone così afferma:

Il bene morale è quello che dovremmo portare gli uni agli altri: un bene etico, responsabile. Dieci anni fa ho intitolato un altro mio libro La macchina responsabile. Come tutti, ho le mie ossessioni: una tra le più radicate è la responsabilità dei nostri sentimenti, l’attenzione che dobbiamo al bene che proviamo e facciamo. Tradire o, peggio, rinnegare quello che abbiamo amato, oltre al male che arreca, ha la imprudente conseguenza di tradire noi stessi. Questo, per quel che concerne i micromondi privati. Ma l’etica del bene, nel libro, è ovviamente estesa alla storia, poiché la storia è agita da individui che, sommandosi uno all’altro, formano i popoli: scrivo dunque di Shoah, del Vajont, della Shoah contemporanea dei migranti e di singoli eventi come la misteriosa morte di Marilyn Monroe o il conflitto interiore di un padre indiano, cui è nata una figlia con otto arti – e tutto ciò a contrasto con un controcanto leggerissimo, infantile, che rappresenta la gioia alla quale abbiamo diritto, semplicemente per nascita.[2]

È in questo livello che l’ampio gesto poematico svela la sua radice e il dramma del nostro tempo. L’intreccio, la composizione del reale, l’invito, la spoliazione essenziale restituiscono il vigore di ciò che av-viene.

Nicola Bultrini scrive:

In questo ultimo lavoro […] il moto è tellurico e il dettato sussultorio. Il verso quindi si frantuma per poi ricomporsi in agglomerati intertestuali, assumendo un respiro piano, dilatato. […] Conseguentemente, la realtà è sempre chiamata per nome, l’anatomia del corpo (vivo o esanime) è giustificata e decrittata secondo verità. La trasfigurazione degli eventi (coerente con un laico ma pregnante lirismo) è sempre comunque aderente ad una concretezza materica […]. Ma la voce della Calandrone rivela sempre una matrice sottocutanea ed autobiografica di esperienze, avviluppate attorno a duri nodi e nudi sentimenti, dinamiche e dialettiche.[3]

Le cose procedono per apparizione, come gli alberi, ad esempio, colti nella loro risplendente corposità materica. È una traccia di genesi che espone un contatto, una precisione non annerita, un rimando, esortando a una «pulizia dello sguardo», per «eliminare il superfluo e le scorie, mentre si forma l’agglomerato dolce che diciamo frutto».

L’ascesi prospettica rappresenta il sì a ciò che c’è. Non si toglie alcun limite acuminato o senso, come se fosse un dialogo ora muto, ora acceso, con l’infinita promessa del vivente, la sua origine e la sua polpa di ombra («Nella struttura a strati dell’arancia c’è il cosmo / spiegato ai ragazzi. Soliloquio di prismi, calore, protuberanze e irregolarità – collisioni di plasma sotto la crosta oceanica / della buccia).

Poi si legge ancora: «Ma i ragazzi mangiano le arance / seduti in gruppo intorno alla fontana, sotto il sole / spolpano il cuore senza prima avere messo a nudo la sua sfera, senza prima avere / scalzato la scorza / dalla sfera. Così, da un incidente nasce uno stile»:

Essi hanno questo fiore dentro che comincia / con l’affermazione che non sanguinano, / ma hanno anzi una capacità variabile / di sopportare tagli / tra i filamenti vivi / con anelli dorsali e una frattura / marginale, con qualche escoriazione per il fuoco issato / una volta sulla bianca colonna del fusto come una bandiera di dolore. / Tutto portava una scucitura di silenzio / sulla corteccia: in quel punto
non passava più la voce. / Mimose e mandorli sono i primi a fiorire / ma tutti se amputati, rimarginano in lance di fogliami appesi alla faretra dei tronchi con tralci portanti e un fresco e vivo rampichìo di gambi / e un clamore di stami al culmine del pomeriggio
e un luccichio frontale, tutti sono strumenti per lasciare cadere / lingue e lamine d’oro, processioni con croci bianche di corolle e fiaccole / di stimme nel nettario, sono cose cresciute per dare / e per dimenticare. Dimenticare come s’innestava la tua voce / nel nettario del cuore, come i regoli e i timbri / delle vocali fossero fatti per impressionare / il fiore maturo. / Essi sfiorano il cielo in formazioni audaci, / si avvitano / con una pacatezza e una competenza / perfette pure nell’evidenza del corpo ferito, / pure a bagno nel nero e nell’amaro inverno. Dunque bisogna avvicinarsi a loro / senza il cupo ruminare notturno nella morchia dell’anima / ma come cinghiali, un entroterra bianco: essere terra / bisogna, sotto la loro macchina da fiore. (Alberi).

La rivelazione si afferma anche nelle metafore dell’amor perduto, addensandosi tra l’abbandono («La materia celeste della scomparsa / tra i fiori del giardino. / Qui tutto è colmo di benevolenza e le turbine / ronzano a mezzacosta»), la lauda fragile e violenta («Ti lodo per la dolcezza del suolo / e per la nullità degli oggetti / e per lo stare / e per l’avere amato / e per il portare / a memoria l’estate della nostra grandezza / quando salimmo il monte con le scarpe / vuote e smaglianti, quando la mano / sollevò il viso che cadeva in silenzio / sopra le prime lacrime dicendo / io non sono sensibile al dolore»), la continuata interminabilità di una tensione («Non toccarmi, ho sognato che in cielo / ruotavano i pianeti e io tra quelli / portavo il cuore / esposto, perché la terra è piccola per il dolore / ma qualcosa perdeva sangue, ancora»), i giorni dell’eroismo («Come vedi ho finito per amare / l’esposizione delle ossa / che buttano dal petto / qualcosa / come canto / agave / o torre / sgretolata / con le bave di linfa alle finestre / liane e ferro che s’innalza / dal vuoto del costato e quando dentro i tubi delle vene passa il vento fa ancora quella musica») e, infine, la bocca:

«Il corpo è un’esultanza della superficie / grido di gioia / del vuoto / ma tu abbassa lo sguardo su di me / come sopra una spoglia imminente: io me ne vado / in gloria all’abbondanza della terra / perché, vedi, non metto impedimento / dove butta una rosa / di sangue / al centro dell’oggetto. L’oggetto / non ha radici. Lo vedi / sono la regola / sono la mia radice / la rosa umana / una quota di acqua invulnerabile / che espelle corpi estranei / come la lince. Io porto / ruote di elitre / nella specola cranica / e il sangue perduto / nel coro muto / degli astri / è uno smagliante eccesso di fiducia / come di uccelli al primo sole nel senso della larghezza e della bellezza / del corpo più profondo della solitudine».

La dimensione tellurica di Maria Grazia Calandrone è, di fatto, una fluviale dinamica dell’essere, che capovolge altezze, stringe solitudini corali, attinge all’arcaica invisibilità del tempo, al vortice e al bacio del farsi del reale, inseguendo i rumori della notte, perché «l’amore dopo tutto lo strazio è ancora intero e mostra fiori grandi come meteore».

Lo strenuo equilibro, che unisce lo strappo alla elevazione, dipana le fibre d’amore in tutte le loro spalancate nudità e partiture, fino a salire alle alte stelle erose e al segreto movimento del logos:

come sono operose le creature, / con che attenzione passano i pennelli / sulle assi di legno / eppure sanno di dover morire / ma ora / fanno / e facendo / dimenticano / e sono dèi davvero, veramente immortali, in questa svolta di sole sulla prima verdissima erba di aprile / questi quattro ragazzi col pennello e l’odore di fresco e di vernice, / la birra nella tasca dei calzoni, il berretto a sghimbescio e / il sorriso che dice io sono vivo, io in questo momento / sono vivo per sempre

Non un ritiro per contemplare, anzi un proteso germoglio che è meta di sangue e mare nudo, leggerezza di resti e salvezza, nella schiarita in finitudine del canto:

«oh effusione del mondo / nella grazia dei suoi significati – grande / e muta – oh, paesaggio! / con gli alberi e le ruspe e tutti gli strumenti di lavoro / abbandonati all’empia, / alla succosa solidità dei grappoli – oh, fortuna! / di notare la scaglia di luce / interna alla scena, / considerare la maiolica scempia sulla quale si rompe / tutto l’irreversibile del corpo come un fenomeno sottomarino, / la porta di un travaso / provvisorio / e, nel provvisorio, notare solo un’apparizione copiosa – / il biancore dell’osso come l’esposizione di un sorriso».

Se la poesia salva il volto non comune di ogni individuo, come ha affermato Josif Brodskij, il suo recupero, in questo territorio, è farsi movimento e trama, per rinascere nell’incontro con l’altro, affermare i detriti perduti, recuperare il fondo dell’umano, per radicare la luce e dare testimonianza alla sua feconda e frangibile potenza (Verba Manent).

Il grande teatro ferino del mondo, in cui il corpo si immerge e, allo stesso tempo, deterge il suo limite plastico, tocca il magma del linguaggio della incompiutezza, del dolore, della sofferenza e del mistero dell’orfanità, per «mantenere la memoria della comunità umana», così come il compito del poeta «è ricordare la grandezza possibile della nostra persona. Il temporaneo dispiacere è vedere le cose come stanno, cioè che siamo creature sofferenti, crudeli e sole in misura variabile. Il massimo piacere, l’utopia del piacere, è la circolazione fluida dell’amore umano. Per ciò abbiamo inventato il paradiso»:

«immaginiamo siano i nostri corpi / questi corpi lasciati / a cadere nell’indifferenziato come orfani […] biancore sovraumano di legno morto / – figlio mio / fatto di carne / umana / combustibile, / marcescibile / figlio mio / nel bruciare / del sale, riconosco il tuo odore di selva / e di laboratorio solare, quel profumo sensibile di pelle fresca e cotone / lavato – poi / per un attimo, riconosco lo sguardo dei tuoi occhi / che ho portato con me, in questa vita / che non arriva più».

Il segno della sua poesia si situa, dunque, al centro dell’umano. È la cifra lucente e paziente di un gesto solenne e intimo, che toglie mosaici mobili e cerca identificazioni, e quando vede, nulla perde, nonostante l’oscurità del mondo che si rovescia su di esso e il suono divelto, per farsi comunione che ridona consistenza: «una vallata a picco / nell’innevato splendore / sotto la bretella autostradale / un sogno di potenza, una / esclamazione, un vapore di terre appena emerse, un fresco / di carne cruda / e il suono / antropomorfo, la voce umana del vento».

È la grafia che si imbeve della quotidianità e della singolarità della cronaca, per disserrare ogni occlusione o urlo strozzato, difendere la voce sola e unanime della parola che visita il suo termine inerme e la sua lacerazione nelle gradazioni minime e massime dell’abbandono.

E anche l’affioramento dell’irripetibilità dell’avventura umana e della sua carne indifesa esprimono il loro grido di gioia nella sperdutezza: «poi ho alzato la coperta / che gli avevano messo sulla testa / e non era rimasto più niente / di lui se non carne indifesa / se non voce, la sovraumana / carità del legno».

L’attenzione alla creaturalità dischiude la categoria della possibilità che non nega l’esistente, bensì raccoglie le dispersioni, i lamenti, l’abbandono, per fermarli, guardarli, domandarne la loro gemma essenziale.

Come accade nel poemetto di Marilyn, segno di decifrata innocenza e disperazione, e delicata nudità lunare: «Marilyn è il sarcofago d’oro / sopra un corpo scomparso / e / -dentro-/ sta rannicchiato il fossile di una bambina / con gli occhi chiusi / la bambina, se ancora parlasse, direbbe solo abbracciami / perché io non ho anima, solo un’infanzia / rimandata fino alla morte».

La vitalità primigenia dilata la gratitudine, il portato del buio e gli stracci della propria gloria, le tracce di vita attraversata, e la mendicanza superstite e sopravvissuta, che nel suo sì, dolente e posato, afferma il confine ultimo dell’esistere e l’essenza della vita comune: «Ma il tuo piccolo corpo non poteva reggere / il peso della terra, il tuo piccolo corpo venne sepolto su un’ala di cigno / e una scheggia di selce ti venne infilata / nella bocca, una lama di pietra / salina perché sarai / solo nell’ingiustizia della morte. / Questa cosa che io so pienamente / è la tua bocca / sparsa per tutta l’opera umana».

La forza sacrale delle cose vive è il necessario ottuso atto di fiducia nella bellezza, attraversa il suo sovrarespiro, la sua emersione di lembi rovesciati e l’affioramento del sangue, per risalire la legge di natura e agire «come non fossimo mai stati. Come non fossimo mai stati traditi. Come se non avessimo visto i nostri cari morire. Agire come se fosse la prima volta. Con la stessa innocenza di Cristo. Con la medesima mortalità elettiva».

Nel suo chirurgico scuotimento, la materia incantata porge il suo inno di gioia a ciò che vive, per stringere insieme il tempo dell’incontro, dell’amore disperato e della solitudine incomprensibile ai vivi:

«Io poso sulla terra del tuo petto il fiore bianco delle mie parole. / La nebbia degli aggettivi / fluttua su questa tua declinazione. / Io prosciugo la lebbra della parola / con mozziconi d’aglio. Il silenzio / è il maggiore dei canti. Resti / solo il metallo. Ferro del cuore e liquor / minerale. Tu ti disperdi nella torba in rivi / incorruttibili. Io mi devo piegare per leccarti / adesso. Assorbo il tuo silenzio / come fa la terra. Adesso / ti capisco. Ora la mente è metodo, spoglia / radioattiva, ora ha la fluorescenza del metallo arso. Tutto in me / tu lo hai fatto / increato e nativo».

E poi Roma, ricca di smarginature e rivista nell’improvviso slancio tenero e rapace delle sue manifestazioni: lo stupore dettagliato della tangenziale, ricolmo dei cambi di cromature e resistenze, come se da tutto rimanesse una ferma resistenza non disseccata e un volto da cui viene fuori la meridiana gialla e un sorriso canino.

Il paesaggio si delinea nella vertigine delle immagini e nello spettacolo di ordine amoroso: un fondo di simboli, uno scorrimento misterioso che si rivela, come «un paradiso caduto / sotto la fiamma liquida del cielo», dalle rovine e dagli oggetti e infine, da un’eccedenza di passaggi: «Sotto di voi è distesa la colata di pace / della carreggiata. Raramente qualcosa / deraglia. Solo talvolta il cuore – l’orbita / magna – guizza / nella maglia d’uranio / della sopraelevata. Solo talvolta / un soffio del sangue / porta fin qui, sui groppi / di cemento del ponte / la luce delle rose».

Gli inni di gioia cadenzano isole di parole che si consumano e si ricreano nelle dismisure di colore ed elementi. Come una sospensione che riguarda il pronunciamento dell’amore e del tempo, nelle selve di metafore, nelle cose che manifestano magnetismo e aderenza, per andare incontro alla bellezza involontaria, risvegliare l’uomo nell’uomo, essere stupore, elevazione e dono commosso di se stessi, evidenza dell’invisibile, e infine, piega di luce.

[1] Calandrone M. G., Il bene morale, Crocetti Editore, Milano 2017.

[2] Paoletti M., intervista a Maria Grazia Calandrone, in “Laboratori Poesia”, 25 novembre 2017.

[3] Bultrini N., recensione, in “Il Tempo”, 15 gennaio 2018.

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Calandrone M. G., Il bene morale, Crocetti Editore, Milano 2017, pp. 184, Euro 12,00.

Calandrone M. G., Il bene morale, Crocetti Editore, Milano 2017.

Bultrini N., recensione, in “Il Tempo”, 15 gennaio 2018.

Paoletti M., intervista a Maria Grazia Calandrone, in “Laboratori Poesia”, 25 novembre 2017.

 

 

 

Edward Thomas: le fenditure di acqua e di vento

di Andrea Galgano 16 gennaio 2018

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Quando inizia a scrivere poesia nel 1914, Edward Thomas (1878-1917), nato a Londra nel 1878 da genitori gallesi, è uno dei critici inglesi più autorevoli, autore prolifico di prosa d’arte e di viaggio, biografie, antologie, libri su commissione.

L’indefesso lavoro pagato con la dipendenza dall’alcool e dall’oppio, la depressione, il tentativo di suicidio, le camminate infinite, l’innamoramento per Hope Webb, il matrimonio, le fughe, la pulsione di morte e la campagna sono la cifra umbratile e sollevata di un altrove ricercato oltre la quotidiana guerra del limite e del lavoro, della densità e della terminale ekphrasis:

«[…] Quanto a me, / dove ho incontrato quell’aroma amaro / non so più. Anch’io sminuzzo le grigie cime, / le annuso e penso e le annuso ancora e provo / ogni volta a pensare cosa sto ricordando, / sempre invano. Quell’odore non può piacermi / però rinuncerei a ogni altro, più dolce / ma insignificante, per quell’amaro. / Ho smarrito la chiave. Annuso il ramoscello / e penso a nulla; vedo e sento un nulla / che pure sembra doversi ascoltare, aspettando / ciò che dovrei, e mai potrò, ricordare. / nessun giardino appare, né sentiero o cespuglio / di brina verde, assenzio, abrotano, né una bimba / lì accanto, o padre o madre, o compagno di giochi; / solo un viale, buio, senza nome, senza fine» (Assenzio).

Con la pubblicazione, presso Elliot di Roma, di una corposa antologia di cinquanta componimenti, La strada presa. Poesie scelte[1], a cura di Paolo Febbraro, la poesia di Thomas ci viene restituita nel suo setaccio di stupefatta austerità, di solcata freschezza e, allo stesso tempo, concentrando l’arma segreta dell’essere, l’appunto e la stesura di una fibra di contrasti.

Una forza enorme che attinge anche alla conoscenza condivisa con Robert Frost, laddove l’amore per le lunghe passeggiate e la dolcezza del Sud dell’Inghilterra diventano il taccuino di uno sguardo e il calore mitopoietico di una leggerezza brezzata:

«[…] Ma, per quanto io sia come un fiume / sul far della sera quando sembra che mai / il sole l’abbia acceso o scaldato, mentre / brezze oblique ne increspano la superficie, / il cuore, frazione di me stesso, felice / si libra per la finestra anche ora, verso l’albero / d’una nebbiosa e fioca, quieta valle; / non come un vanello che torni a gemere / per ciò che ha perso, ma come un colombo / che plani ad ali ferme sul nido amoroso. / Lì trovo riposo, e nel crepuscolo la brezza / solleva ciò ch’è vivo in me. È lì la Bellezza» (Bellezza).

La fuga dalla violenza espressiva indizia un convoglio, invece, di densità sofferta, di memoria cadenzata e nitida, di strettoie esistenziali e di liberazioni esuli, in continua librazione tra caducità e perennità:

«Un tempo avevo dato a ore come questa / il nome di malinconia, quando / non erano quelle di letizia e potenza / che stavano tornando come esuli in patria, / e le fragilità che lasciavano i propri tetti / sorridevano e si godevano, lontane da tutti, / dei momenti di perennità. / E fortunata fu la mia ricerca / finchè ciò che cercavo, nonostante / lo stessi cercando, ancora non indovinavo. / Fu breve quel momento: di nuovo in locande / e per le strade cercai il mio uomo / quando un giorno nel frastuono d’una mescita / a voce alta lui chiese di me, cominciò / a parlare, come fosse stato un peccato, / di come io pensassi e sognassi di lui / e dietro a lui corressi, un giorno dopo l’altro / viveva come uno messo al bando / per questo: cosa avevo da dire? / Non dissi nulla. Non feci che sfuggire. / e ora non oso seguitarlo troppo / da vicino. Provo a tenerlo in vista, / temendone il disgusto e peggio il riso. / Esco furtivo dal bosco della luce; / vedo il rondone lanciarsi dalle travi / presso la porta della locanda: prima d’approdarvi / aspetto e sento gli storni ansare / e piluccare come anatre: aspetto la sua fuga. / Lui va: io seguo: niente liberazione / finchè non finisce. Poi finirò anch’io».

L’annotazione e la memoria, l’accentuato solco della poesia, il rovello spazio-temporale sollecitano sovrapposizioni di colore e suono che si trasferiscono e si intersecano nella densa monografia dell’essere, nel suo ossimoro di voce poetante, che mai rimugina, bensì vive e lotta, nel violento permanere keatsiano dello sguardo e della percezione, come origine e conoscenza feroce nel mondo e del mondo:

«Tutto il giorno l’aria trionfa con due voci, / il vento e la pioggia: / come fosse in collera, forte si solleva / inglobando il suono della terra / che beve, nel soffocato sforzo, e vano, / d’ingoiare la pioggia. / A metà notte, pure, feroce è solo l’aria a parlare / con vento e pioggia, / finchè la muta fonte del fiume erompe / e ingloba pioggia e vento, / mugghia gigante nel gaio tuffo campestre / il trionfo terrestre» (La fonte).

Paolo Febbraro scrive:

«Autore subalterno, compresso dalla proletarizzazione della funzione intellettuale, solo camminando e annotando Thomas cerca di agganciarsi a un tempo diverso, a una cadenza naturale, e quindi ciclica, stagionale, trans-individuale. Le vaste letture della tradizione poetica inglese, la conoscenza di ballate e canzoni del folclore anglo-gallese e le ampie escursioni a piedi o in bicicletta attraverso i territori amati (lo stesso Galles, il Wiltshire, il Gloucestershire, lo Hampshire…) gli forniscono una segnaletica identitaria al tempo stesso precisa e trascendente, ben collocata e metastorica. I tempi della Natura sussumono quelli del lavoro nell’industria culturale, li circoscrivono, invece di inserirsi in essi come un’evasione compensatoria».[2]

Edna Longley, soffermandosi sulla poesia di Thomas e di Frost, unitamente collegate e, allo stesso tempo, disciolte, sostiene:

Le prime poesie di Thomas sono particolarmente ricche di strade e sentieri; anche se questo visibile simbolismo […] deriva dall’intersezione fra il suo labirinto interiore e i suoi viaggi nella campagna inglese e gallese. Tuttavia, The Road Not Taken – e se è una sagoma profetica – può essere a conoscenza di tutto ciò. Può prefigurare più generalmente il paesaggio psicologico della poesia thomasiana. Chi parla è un “Io” diviso: un Sé frazionato sia nelle presente sia in incarnazioni presentie  future. E lo stesso titolo della poesia accentua non la strada potenzialmente presa, ma quella impedita: di qui il desiderio. Nella poesia di Thomas, la bramosia per una via “migliore”, per opzioni perdute e sequestrate, si connette con la forza motrice del desiderio.[3]

Se, quindi la poesia celebra il suo vortice epifanico, la taciturna densità dell’istante aggiunge «il ritmo dispiegato e tridimensionale di oggetti naturali, colline, alberi, prati, gorgheggi di uccelli, flussi d’acqua», la stessa epifania «si dispone negli spessori della memoria letteraria, e poetica in particolare, poiché la poesia è la descrizione grafica della propria stessa cadenza, e non ha paura dei propri echi e dei propri calchi, in quanto la memoria non è originalità lessicale, ma riattivazione, connessione con il già esistente, riscoperta sorprendente[4]».

Andrea Caterini afferma:

Ci sono scrittori per cui la poesia è qualcosa di innato, e la consumano così come si consuma o si incendia la giovinezza (Rimbaud, Keats, fino al nostro pittore visionario, Scipione). Per altri, che sembrano nutrire per la poesia un rispetto finanche reverenziale, arriva solo più tardi, quando gli strumenti per leggerla e giudicarla sono tanto solidi da fargli credere sia maturo il momento per poterne loro stessi scrivere. Thomas, che sulla poesia aveva un continuo confronto col suo amico Robert Frost, è di questi secondi (il primo componimento lo scrisse a trentacinque anni), e crediamo sia stata una fortuna abbia atteso, non abbia avuto fretta, così come al contrario ne aveva avuta lavorando agli altri suoi libri, con cui sosteneva se stesso e la famiglia. Ma quella scoperta tardiva della poesia la avvertiamo nel ritmo calmo e paziente dei versi. Non si confonda però la calma per apatia, e neppure per una forma di ostentata saggezza. Thomas è un uomo lacerato dentro (si era sposato giovanissimo perché aveva messo incinta la sua futura moglie, ma segretamente nutriva desideri omosessuali; soffre di depressione e ha fasi acute di irritabilità) e mentre osserva il mondo gli dona la sua cerebralità – come se la sua mente offrisse alle cose, e alla loro organizzazione (cioè a un sistema di significati) un ritmo.[5]

Il segreto pattern dell’esistente, vive di un consueto seppellimento ed esumazione, sommersione ed emersione (Il ponte). La parola appartata, il consorzio memoriale, la materia verbale celebrano, quindi, oblio e ricordo in un odore di interstizi e infanzia, percezione coperta e investimento, lievità di sogni e dimore perdute («E seppe di sale il mio cibo, e la mia quiete, / di sale e di senno poiché quel verso / parlava di quelli coperti dalle stelle, / i poveri e i soldati, esclusi dal riaversi»):

«Tante sono le cose che ho scordato / che un tempo furono – o non furono – molto per me, / perdute, come il figlio di una donna senza figli / e i figli di quel figlio, nell’incorrotto / abisso di ciò che non ci sarà mai più. / Ho scordato anche i nomi dei potenti / che combattendo hanno perso e vinto vecchie guerre, / dei re, dei demoni e degli dèi, e di molte stelle. / E adesso scordo quante cose ho scordato. Ma cose ci sono, ancora ricordate, minori di ogni altra. Un nome che non ho scordato / – per quanto sia solo un vuoto e nudo nome – / non può morire perché ad ogni primavera / i tordi imparano a dirlo col canto. / A mezzogiorno ce n’è almeno uno a  dirlo / chiaro e pungente – sempre e soltanto il nome. / Se sto pensando forse all’odore del sambuco / che sembra cibo, o mentre mi appago / con quello della rosa canina, uguale alla memoria, / ecco che a questo nome mi giunge gridato / chissà da quale cespuglio, detto e ridetto ancora / da un volatile, di un tordo la pura parola» (La parola).

Roberto Galaverni scrive:

Thomas è un poeta legato al mondo campestre, alla natura, al paesaggio del Galles e soprattutto dell’Inghilterra meridionale. […] Le sue poesie sono concepite da qualcuno che attraversa la campagna (quanti sentieri, quante stradine nei suoi versi; e poi gli uccelli, gli alberi, le acque, certe figure di viandanti, di uomini al lavoro, di bambini), e che intanto guarda, riflette, soprattutto ascolta. Sono le poesie di un passeggiatore che cammina e pensa, e che dunque si ferma anche ad annotare le sue osservazioni, come cercasse la legittimazione, la solidificazione reciproca tra immagini, pensieri e parole. Saranno proprio le annotazioni su suoi taccuini campestri il punto di partenza della sua scrittura poetica. Questa intensità percettiva, questo sentire così pieno e totale, potrebbe forse far pensare al nostro Pascoli più impressionista, se non fosse che Thomas non cerca nel paesaggio naturale e nei suoi elementi un punto di fuga, un’emozione circoscritta, uno sfondamento nel mistero, quanto un termine di commisurazione affidabile, un territorio non particolaristico su cui provare a definire la propria identità, la curvatura del proprio destino.[6

I field-notes rappresentano sì il tempo campestre, il viaggio naturale, il vissuto periscopio dell’anima e il pronunciamento delle notizie dal mondo («Tutto mi è stato annunciato; niente che potessi prevedere; / ma ho imparato il suono del vento / quando queste cose fossero state vere»), ma sono anche l’implacabile sostanza del parto della sua coscienza, la semina e la potenza dell’attesa, e, infine, la profondità verbale slogata del tempo («Fu un’ora distesa, allungata, / nulla è restato / incompiuto; ogni giovane seme / senz’altro disseminato. / E adesso, dà ascolto alla pioggia / lieve e senza vento, / per metà bacio, per metà pianto, / ad assopire l’evento»), come una faglia di una manciata di terra e di nome:

«Sì. Ricordo Adlestrop – / il nome, per un caldo pomeriggio / in cui il treno espresso vi si arrestò / insolitamente. Era la fine di giugno. / La vaporiera fischiò. Uno schiarirsi di gola. / Nessuno lasciò la nuda banchina, / nessuno vi giunse. Ciò che vidi / fu Adlestrop – il nome soltanto / e salici, epilobio, ed erba, / e regina-dei-prati, e secchi covoni / non meno fermi, disposti e solitari / che in cielo gli alti cirri. / E un merlo in quel minuto cantò / lì presso, e attorno a lui, più persi, / da molto più lontano, tutti gli uccelli / delle contee di Oxford e Gloucester» (Adlestrop).

La decisione di arruolarsi nel luglio del 1915 (morirà colpito da una granata tedesca nei pressi di Arras nell’aprile del 1917), è il fatto distintivo di una netta comunione di illuminazione e sconfitta, in cui la toponomastica e la geografia cadenzata del reale, la connettività del gesto e l’officina muta, il transito ineludibile e dimenticato, rappresentano la feconda energia di labilità diverse, di figure, di natura e di destino.

La sedimentazione esplorata della parola raggiunge l’apicale distinzione oltre l’anonimia dell’umano in guerra. Il tempo frazionato e sincopato del taccuino riconosce la dura e dislocata dis-umanizzazione della guerra meccanica.

È la relazione con le cose a solcare, a dissodare e incavare l’immaginazione decisa di ciò che vive (Scavare), come un acro trascurato e gioioso.

Il tempo, la sua fragranza, il colore accumulato, divengono rammemorazioni, schegge impazzite, restituzioni osservate che si fondono nell’ultima luce uscita dal mondo:

«Dovrei quest’oggi / prendere a cercare, anche se fino al cielo / e all’inferno, senno e forza pari a questa bellezza, calcando la polvere chiara macchiata di gocce scure, / nella speranza di trovare ciò che vado cercando, / dando ascolto a cose liete in apparenza / e passeggere, di cui nulla sappiamo, nel noccioleto? / O devo essere contento con lo scontento / come rondini e allodole lo sono con le loro ali? / O devo chiedere ancora, finito il giorno, / che sia la bellezza, e ciò che posso aver inteso / per felicità? E lasciare che tutto scivoli via, / lieto, sfinito o l’uno e l’altro? O sapere forse / d’esser stato spesso felice, prima, per un po’ / scordando quanto sono imprigionato, / quanto rapido a incupirsi, al nulla vagando, / sia il Tempo? Non so afferrare il cuore del giorno» (La gloria).

Facendosi voce del respiro, poi transitano, trascinandosi nell’analogia, nella metafora e nell’equivalente atonia delle intuizioni, in cui, come asserisce Febbraro:

ogni pianta e le diverse locande rurali, sono profondamente psicologizzati; ma questo non vuol dire totalmente espugnati dalle proiezioni mentali, né tradotti in equivalenze simboliche. È una strada a due sensi, come in ogni vero mondo poetico: gli elementi esterni alla coscienza sono investiti dalle proiezioni della mente, ma conservano una sufficiente autonomia per scompigliarne le geometrie. Le cose accolgono getti di luce – spesso oscura – del Sé, ma rimandano anche riflessi diversi, anche soltanto oggettivi, che agiscono come fattori in architetture più solide, cose, forse più sane, di certo esteticamente felici.

È una sospesa e decisa vitalità che si muove decisa verso il numinoso stupore epifanico e che, nella stessa direzione, frequenta ogni instabilità di luce e paesaggio.

Le strade rappresentano la continuazione non obliata della realtà. Una perdurata compiutezza che non esclude e in cui le curvature svelano un paradiso ottenebrato.

L’esito di una transazione, conclusa tra memoria conscia e inconscia, porta così  all’estremo la tesa finitudine, l’oscurità fatale e la rivelazione: «E tuttavia sono quasi innamorato del dolore, / di ciò che è imperfetto, di gioia e di guerra, / di quanto ha una sua fine, di vita e di terra, / di questa luna che mi abbandona oscuro sulla porta».

Il sentiero, sezionato e descritto, dischiude il suo rasentato e fragile percorso di stille, serpeggiante d’argento, intuito e battuto dai bambini, infine socchiuso di illusione e meraviglia:

«Al di là di un argine, di un parapetto / che protegge da un bosco che scoscende / sotto la via, corre un sentiero. Consente / ai bimbi di guardare il lungo e uniforme pendio, / fra i rami di faggio e di tasso, fin dove / un albero caduto ferma la vista: mentre gli adulti / si accontentano della via e di quanto vedono / al di qua dell’argine, e di quanto i bambini dicono. / Il sentiero, con un serpeggiare d’argento, è stillante, / rasentato e infine invaso dal muschio più sottile / che tenta di coprire le radici e il calcare friabile / con oro, olivastro o smeraldo, ma invano. / I bambini lo segnano. Hanno spianato l’argine / sulla cima e l’hanno inargentato fra il muschio / col camminarvi sopra, anno dopo anno. / Pure la via è senza case, e non conduce a scuole. / vedervi un bambino è raro, e lo sguardo / non coglie che la via stessa, il bosco che v’incombe / e sotto si spalanca, e il sentiero che sembra / condurre a qualche leggendaria o fantastica / contrada in cui gli uomini hanno voluto andare, / finchè, all’improvviso, cessa dove cessa il bosco» (Il sentiero).

Per Thomas, allora, la stessa poesia

vuol dire vitalità in attesa della condanna, intrattenimento della fine, intensificazione della presa su oggetti che si stanno per lanciare via da sé, per lasciarli al loro tempo permanente e fragilissimo. Combattere nel fango francese vuol dire salvare la terra inglese; lo stesso è scrivere poesie: rappresentare l’intero campo arato, non più il semplice solco della stenografia appoggiata sui taccuini.[7]

Il luogo è la bruta bellezza di una prodezza in atto, per dirla alla Hopkins, in cui poter sperimentare l’accento del mito e della tradizione, la narrazione tumefatta e stupefatta  di un culto di voce e sopraffina luce. La meditata estasi dei rimandi, che si increspano, si disabitano, chiude le sue aperture di interezza alla spezzata solitudine:

«Pioggia di mezzanotte, solo la pioggia selvaggia / su questa capanna tetra, e solitudine, ed io / a ricordare ancora che dovrò morire / senza ascoltare la pioggia o ringraziarla / perché mi dilava e mi fa puro come mai / da quando sono nato a questa solitudine. / Beati i morti cui la pioggia dà pioggia: / ma prego che chi ho amato, un tempo, / non stia morendo, stasera, o a letto sveglio / solitario, ascoltando la pioggia, / nel dolore o in tale impotente / compassione fra i vivi e i morti, / come un’acqua gelida fra canne spezzate, / spezzate a milioni, rigide e ferme, / come me, privo d’ogni amore che questa pioggia / selvaggia non abbia dissolto, tranne quello per la morte / se amore può esserci per ciò che è perfetto / e non possa, dice la tempesta, disilludere» (Pioggia).

L’elegia, il residuo, il detrito dei lasciti, il mondo conservato compiono il loro passaggio. La mentalizzazione delle sillabe raggruma ogni fatalità nell’attesa. L’opacità di Thomas è il riflesso di un’opzione negativa, laddove la creaturalità, e quindi la corporale presenza degli oggetti e della Natura, rappresentano la metafisica unione di ritagli splendenti e sbandamenti.

Non è evasione e nemmeno fuga ciclopica dello sguardo, bensì rifratta tenebra, somiglianza e accoglienza di immagini emergenti, che agganciano e intrecciano «abstract meditation» e «visible beauty».

Pertanto, «il suo materialismo darwinista gli impedisce le fughe nell’irrazionale, nell’animistico, e apre in lui piuttosto alla rappresentazione della quarta dimensione, il tempo[8]». Il suo ingresso nella dimensione naturale è subìto, diventa parcellizzazione della mens semplificata e poesia dell’io frantumato, come arguisce Febbraro:

«Va nella Natura per subirla, per farsi da lei interrogare, o sconcertare, incalzando la “strada ogni volta presa” con le altre potenziali, perdute e per questo attivanti. Un paesaggio di colline, stagni e boschi come quello dell’Inghilterra meridionale è anche una forma della mente: attraversarlo, rievocarlo, comporta condensamenti e rarefazioni, accostamenti alla pienezza e svuotanti emorragie».[9]

Tale frantumazione riprende la coscienza di una dislocata rappresentazione e narrazione sconvolta. È poesia-crocevia, dramma lacerato e lacerto di speranza, segno unico e irripetibile di un incontro fervido di figurazione e mondo, in cui la percussione di ogni abbozzo si situa nella nostalgia rifilata e congiunta della fitta scomoda della propria demarcazione, che ha forma nella sottigliezza[10], nella terminazione contrappuntata, nella sintassi esperita e nella mancanza come sparo di  flatus vocis.

[1] Thomas E., La strada presa. Poesie scelte, a cura di Paolo Febbraro, Elliot, Roma 2017.

[2] Febbraro P,., Introduzione, in Thomas E., cit., p.19.

[3] Longley E., Under the Same Moon. Edward Thomas and the English Lyric, Enitharmon Press, Londra 2017, pp.182-183.

[4] Febbraro P., cit., p. 20.

[5] Caterini A., Edward Thomas «La strada presa» per incontrare (tardi) la poesia, in “Il Giornale”, 1 dicembre 2017.

[6] Galaverni R., Il cantore gentile della natura che una granata mise a tacere, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 26 novembre 2017.

[7] Febbraro P., cit., pp. 23-24.

[8] Id., cit., pp.26-27.

[9] Id., cit. p.28

[10] Cfr. Schmidt M., in Lives of the Poets [1998], Vintage Books, New York 2000, p.571.

Thomas E., La strada presa. Poesie scelte, a cura di Paolo Febbraro, Elliot, Roma 2017, pp. 192, Euro 19,50.

Thomas E., La strada presa. Poesie scelte, a cura di Paolo Febbraro, Elliot, Roma 2017.

Caterini A., Edward Thomas «La strada presa» per incontrare (tardi) la poesia, in “Il Giornale”, 1 dicembre 2017.

Galaverni R., Il cantore gentile della natura che una granata mise a tacere, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 26 novembre 2017.

Longley E., Under the Same Moon. Edward Thomas and the English Lyric, Enitharmon Press, Londra 2017.

Marucci F., Storia della letteratura inglese. Dal 1922 al 2000. I. Il Modernismo, Le Lettere, Firenze 2011.

Schmidt M., in Lives of the Poets [1998], Vintage Books, New York 2000, pp.568-576.

Viaggio terrestre e celeste di Madonna Pia

di Vinicio Serino 12 agosto 2017

leggi in pdf Viaggio terrestre e celeste di Madonna Pia

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Chi era la Pia

Uno degli episodi più belli e fascinosi della Divina Commedia è, sicuramente, quello del Canto V del Purgatorio, quando Dante incontra una misteriosa Pia che, insieme al fanese Jacopo del Cassero, combattente a Campaldino tra le fila dei Guelfi ed a Buonconte da Montefeltro, combattente nella stessa battaglia alla testa delle milizie ghibelline – dove trovò la morte – condivide il secondo balzo dell’Antipurgatorio. Là dove sono confinate le anime dei “negligenti” che perirono per morte violenta e che solo “all’orlo della vita” (Casini, 1892) si pentirono dei propri peccati. “Ricorditi di me che son la Pia”, raccomanda quella donna misteriosa al Poeta, quando ritornerà nel mondo dei vivi. Aggiungendo che “Siena mi fè, disfecemi Maremma”, lo sa bene “colui che ‘nnanellata pria/disposando m’avea con la sua gemma” (Purgatorio, V, 133-136): ossia il suo (ignoto) sposo. Null’altro.

Come è noto i commentatori più antichi furono concordi nell’identificare quella donna misteriosa nella moglie di Nello della Pietra, ossia di Paganello Pannocchieschi, figlio di Inghiramo, signore del Castel di Pietra, Potestà di Volterra e di Lucca e futuro consorte di Margherita Aldobrandeschi, la donna dai molti mariti tra i quali il celebre  – e spietato – Guido di Montfort, vicario di Carlo D’Angiò.

Per Pietro Alighieri, uno dei primi commentatori della Commedia, ”Ista domna Pia de Tholomaeis de Senis fuit uxor domni Nelli de la Petra de Senis qui eam occidit …” Ossia questa donna – nel senso di domina, signora – Pia dei Tolomei da Siena andò sposa a Nello senese signore di Castel di Pietra che la uccise. Si tratterebbe dunque della discendente di una delle più potenti famiglie di Siena, i Tolomei, appunto, mercanti e banchieri. Secondo quanto vuole la tradizione Nello Pannocchieschi, per un imprecisato sentimento di gelosia, ovvero per impalmare Margherita Aldobrandeschi, ultima esponente di una delle famiglie più potenti del centro Italia, avrebbe deliberato l’assassinio della “sua” Pia facendola precipitare dal proprio maniero di Castel di Pietra, nel cuore della Maremma.

A partire dal XIX secolo la critica dantesca ha messo in crisi questa storia. In un recente lavoro, Roberta Mucciarelli, ricercatrice dell’Università di Siena, rifacendosi a quanto sostenuto da alcuni studiosi ed eruditi dello scorso secolo – Decimo Mori, Alessandro Lisini e Giulio Bianchi Bandinelli – riconosce la Pia in una nobildonna discendente dal lignaggio dei Malavolti che avrebbe sposato, tra il 1282 ed il 1283, un Pannocchieschi. Non Nello, ma Tollo, dei signori di Prata, nei pressi di Massa Marittima il quale, il 19 Aprile del 1282,  aveva sottoscritto un atto di sottomissione a Siena e che, nel 1283, impalmava la sua Pia, appunto dei Malavolti. Appena due anni dopo, nel 1285, Tollo veniva ucciso per mano dei tre nipoti, scatenando quindi la reazione dei senesi che solo nel 1289 avrebbero ripreso il suo castello. Nessuna traccia della Pia (dei Malavolti), però (cfr. Mucciarelli, 2011). Sì che il mistero rimane ancora …

Dubbi e nuove strade

Per cercare di ricostruire la vicenda terrena della Pia dantesca occorre quindi fare (saldamente) ricorso ad una (sana) categoria, il dubbio. Dubbio sulla sua identità; dubbio sull’atto commesso e configurato come peccato, e che Dante condanna come negligenza; dubbio sulle modalità della sua morte che, sempre attingendo alla Commedia dantesca, sarebbe avvenuta per atto violento (cfr. per tutti Mucciarelli, 2011). D’altra parte, come diceva un grande magister, Abelardo, con buona pace di San Bernardo e della sua mistica, “dal dubbio ci muoviamo alla ricerca, e attraverso la ricerca percepiamo alla verità”.

Visti i risultati, quanto meno non esaurienti, ottenuti dai medievisti moderni e dagli eruditi del passato che, nei secoli, si sono cimentati nel tentativo di dissolvere questi tre dubbi, proviamo a seguire una strada diversa da quella della ricerca storica. Seguiamo le tracce – e le suggestioni – dell’immaginario collettivo, ossia quello straordinario contenitore di rappresentazioni, di simboli, di ideologie che, ci dice J. Le Goff citando il padre Chenu, appartengono alla storia della coscienza di un popolo (Le Goff, 1988).

Proviamo dunque con una indagine intorno alla mentalità diffusa in un tempo – il Medioevo – ed uno spazio, quello di una delle più dinamiche città stato dell’epoca e del suo territorio, Siena. Una ricostruzione non erudita eppure “reale” di quello che lo stesso Le Goff definisce Umanesimo medievale, fatto di “imprese economiche”, di “alte creazioni culturali e spirituali”, configurate in un corpus capace di far emergere le “immagini profonde, più o meno sofisticate secondo la condizione sociale e il livello di cultura dell’universo mentale degli uomini e delle donne dell’Occidente medievale” (Le Goff, 1988).

Per comprendere bene questo invito a seguire la via dell’immaginario basta pensare alla cattedrale gotica, alla congerie di messaggi veicolati attraverso la sua pietra.”La cattedrale”, dice G. Duby, “… è proclama pubblico, discorso muto che si rivolge alla autorità del popolo fedele , e innanzitutto dimostrazione di autorità”, l’autorità dei due poteri associati, quello laico del principe, o della città; quello del vescovo espressione della Chiesa universale (Duby, 1987). Una lingua “chiara e sublime”, in grado di “parlare all’anima dei più umili come a quella dei più colti” (Fulcanelli, 1972). Una dimensione entro la quale si sono “accatastati” modelli culturali molto diversi, ed alla apparenza persino inconciliabili, dove si incontrano rappresentazioni, simboli, allegorie del mondo cristiano con quello “pagano”.

Cattedrale di Siena, straordinario liber mutus che parla attraverso il messaggio del simbolo

Cerchiamo allora di penetrare il “mistero della Pia” col ricorso all’immaginario, ed in particolare ad un immaginario per così dire arturiano, fatto di molte citazioni, dirette ed indirette, al mondo della cavalleria medievale e del c.d. amor cortese. Un mondo al quale, forse, qualche manifestazione archetipica, non è del tutto estranea.

Sulle orme della Pia

Usiamo allora i canoni dell’immaginario ripercorrendo il viaggio della Pia, attraverso due dimensioni spaziali antitetiche, Siena che la “fece” e la Maremma che la “disfece”. Ed è nel mezzo di questi due estremi che occorre ricercare battendo, appunto, la strada dell’immaginario. E’ teoricamente possibile ricostruire questa strada che la Pia ha preso per raggiungere, secondo la tradizione, Nello Pannocchieschi, suo sposo, in quel di Castel di Pietra. Una via ancora esistente – e quindi rintracciabile – che si sviluppa attraverso luoghi, scenari, contrade di grande significato: un autentico spazio dell’immaginario, capace di creare straordinarie suggestioni …

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Ambrogio Lorenzetti, particolare da Effetti del Buon Governo in città

Il viaggio inizia da Siena, dal Palazzo Tolomei, probabilmente, presso il punto dovesi toccavano i termini dei tre Terzi … poco lungi dalla Croce del Travaglio presso alla gran piazza del campo , celebre per la svelta altissima torre detta del Mangia , per il palazzo pubblico e per il gioco più popolare e più allegro di quanti contar ne può tutta Italia; e costà dove i due poggi riuniti tornano a biforcare in due rami, uno de’ quali dirigesi a scirocco verso la Porta Romana, mentre l’altro verso libeccio sale al Duomo , al Castel vecchio, e di là sino alla Porta S. Marco , donde esce la strada regia Grossetana”(Repetti, 1833). Così il Repetti nel suo celebreDizionario Geografico Fisico e Storico della Toscana”.

Da qui, Costa Fabbri  al di sotto del monastero di Sant’Eugenio, già  Abbazia di S. Eugenio in  Pilosiano : ”forse … la più antica Abazia della Toscana Granducale, avvegnachè la sua fondazione risale all’anno 730 per opera del Longobardo Warnifredo castaldo regio di Siena, che generosamente la dotò” (Repetti, 1833). Di ascendenza longobarda era la famiglia di Nello …

Il percorso della Pia si sviluppa quindi da Certano, antico possesso di S. Eugenio, alla Fonte al pino (costeggiando le tombe etrusche), per il Ferratore, fino a Ponte al Rigo e Palazzaccio (Proprietà Bonsignori). Finalmente Ponte allo Spino  in prossimità del castello di  Sovicille. Qui si erge la pieve di Ponte allo Spino, vero e proprio (piccolo) libro di pietra dove si consuma, attraverso immagini di forte valore simbolico, una contaminazione culturale tra il cristianesimo e gli antichi culti delle prime popolazioni abitanti il territorio, etruschi e romani …

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Pieve romanica di Ponte allo Spino, Sovicille (SI)

Ed ecco, dopo la località di Malignano, dove è stata rinvenuta una piccola necropoli etrusca, costeggiando il padule di Rosia – oggi non più esistente – che si giunge al castello di Rosia. “Fu il castel di Rosìa insieme con altri vicini castelletti di Brenna, di Stigliano, di Orgia ecc. signoreggiato dai conti dell’Ardenghesca finché con lodo del 27 maggio 1202 quei conti dovettero dichiararsi tributarj del Comune di Siena insieme con i vassalli ad essi soggetti … “ (Repetti, 1833). Di qui, a circa un miglio, il fatidico ponte, ora detto della Pia, ma fino agli anni ’30 più noto come ponte di Santa Lucia.

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Il ponte della Pia

Un ponte a schiena d’asino, probabilmente ricostruito nel Medioevo là dove insisteva un precedente manufatto romano. L’opera, che sembra risalga all’ XI secolo, consentiva di raggiungere il vicino eremo di Santa Lucia, collocato entro una suggestiva vallata. Quella strada è denominata “Strada Manliana“ e, sulla fede del Repetti, sappiamo che doveva esistere, nei pressi di Gavorrano, ossia nell’area di Castel di Pietra, “l’antica mansione di Maniliana, ossia Manliana, per ragione che essa vedesi segnata nella tavola Teodosiana fra Populonia e la Bruna, con tutto ciò sino al secolo XII …” (Repetti, 1833)

Il ponte possiede una straordinaria valenza simbolica, è un intermedio che, come sapeva bene il ”Pontifex maximus” e come sa la Chiesa Cattolica, mette in comunicazione due dimensioni diverse, due mondi diversi, la terra col cielo: in questo caso il passato, Siena e il futuro, la Maremma. La tradizione vuole che Madonna Pia, nell’attraversarlo, abbia avuto come una premonizione e che, sospirando, si sarebbe girata (per l’ultima volta) in direzione della sua amata città. Al “simbolismo del passaggio” si affianca “il carattere frequentemente pericoloso di questo passaggio”(Chevalier, Gheerbrant, 1989) a designare l’ignoranza che il viaggiatore ha del suo approdo.

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Notturno sul Rosia

A sottolineare la forte valenza simbolica che il ponte ha in questa storia basterà citare una diffusissima credenza: si vuole che  qui, nelle notti senza luna, compaia una bianca figura di donna, vestita di bianco, con la testa coperta da un velo e  circondata da una soffusa luce bianca. E’ il fantasma della Pia, ormai consapevole della fatale scelta che ha compiuto quando è transitata su quell’antico passaggio. Una manifestazione che avrebbe sicuramente suscitato l’interesse di Jung, convinto come era che quelle forme eteree ed impalpabili andavano intese quali esteriorizzazioni della grande mole di materiale arcaico contenuto, ab origine, nell’inconscio collettivo … Ma c’è di più …

Assonanze arturiane

Rileva, dal punto vista dell’immaginario, il riferimento ad un’altra dama bianca, sicuramente molto più nota della Pia, Ginevra, la consorte di Artù. Il suo nome rimanda, con molta verosimiglianza all’antico gallese, l’impronunciabile Gwenhwyvar che, appunto, significa bianco spettro, spirito bianco. Ma le somiglianze non finiscono qui: Ginevra è rapita da un cavaliere straniero, il malvagio Meleagant, che la rinchiude nel suo castello.

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Archivolto della Porta della Pescheria, Winlogee (Ginevra) prigioniera di Mardoc, Cattedrale di Modena

Solo un cavaliere valoroso come Lancillotto, racconta Chrétien de Troyes nel suo “Il cavaliere della carretta”, saprà liberarla: ma, per compiere l’impresa, sarà costretto a salire sulla carretta, infamante, dei malfattori, perché, come gli rivela il nano che la guida, è il solo modo per giungere alla diletta dama.

Ginevra, anche in virtù dell’ impresa di Lancillotto, consumerà l’adulterio col più valoroso dei cavalieri: colpevole – come la Pia dantesca ?- del tradimento del proprio consorte, Artù, da arkto, orso. Intrigante la possibile etimologia del nome Lancillotto che non avrebbe radici celtiche evidenti: forse  Lance ap Lot (“Lance, figlio di Lot“). O forse dall’ebraico “Aziloth” (ovvero “Nobile”) che diventando “L’Aziloth“ esprime l’animo del Cavaliere, “Il Nobile”. Il che apre ad una serie teoricamente infinita sui rapporti tra modelli culturali molto diversi … eppure coesistenti …

La vicenda, narrata da Chrétien de Troyes –  autore anche del Perceval, il primo dei romanzi del Graal – viene ricostruita tra il 1170 ed il 1180 su richiesta di Maria, contessa di Champagne, figlia di Eleonora d’Aquitania. Dunque in una dimensione molto evocativa sul versante dell’immaginario, perché riferibile al contesto del così detto amor cortese, uno straordinario movimento culturale in lingua d’oc e d’oil, che si sviluppa nella seconda metà del XI secolo nelle corti dell’Aquitania e della Provenza, ad opera dei trovatori, trobadours e dei trovieri, trouvères, dal verbo trobar (trovare), da riconnettere a sua volta al tardo latino tropare (sinonimo di invenire).  Si tratta di poeti che compongono  liriche piene di passione, portatori di una idea dell’amore – molto diversa da quella, castigata, dell’Alto Medioevo – ispirata, in parte, alla Ars amandi di Ovidio. E che disciplinava, in una maniera assolutamente nuova, il rapporto d’amore tra la dama e il cavaliere, il “tema dell’amore per una dama superiore ed irraggiungibile, destinataria dell’omaggio e del canto di un io lirico che ama” (Meliga,1991).

Nel “Cavaliere della carretta” ritroviamo due singolari assonanze con la vicenda della Pia dantesca. Il rapitore di Ginevra è il malvagio cavaliere Meleagant – che sarà poi ucciso da Lancillotto – il cui nome assomiglia tanto – ovviamente è solo una suggestione – a quel “Magliata da Piombino” che, secondo l’anonimo chiosatore del Codice Laurenziano XL 7 (risalente al secolo XIV), sarebbe il sicario di cui si servì Nello Pannocchieschi per liberarsi della sua sposa, facendola precipitare dal Castel di Pietra.

Un’altra singolare assonanza, quella del ponte con tutta la sua forte valenza simbolica. Il ponte, “tagliente come una spada”, grazie al quale Lancillotto raggiunge il castello nel quale è rinchiusa la sua dama. Lo stesso che Parzival attraversa per ritornare  al castello del Graal.

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Il ponte-spada di Lancillotto, miniatura del XV secolo

Anche Galgano, il santo che infigge la spada nella pietra di Montesiepi, inizia la sua vicenda “visionaria” superando, sotto la guida dell’Arcangelo Michele, patrono della Cavalleria, un ponte “che non poteva attraversare per eccessiva difficoltà” e al di sotto del quale“un mulino con una ruota che girava, sembrava gridare”.

Superato il ponte sul Rosia madonna Pia raggiungerà, dopo un breve tragitto sulla via Manliana, l’eremo di Santa Lucia. Ai suoi inizi un semplice romitorio che si vuole fondato, alla fine del XII secolo, dall’eremita Bonaccorso, il quale, unitamente ad un gruppo di asceti che si erano uniti a lui, avrebbe iniziato la costruzione del suggestivo edificio, anche grazie al patrocinio ed al sostegno degli Spannocchi, proprietari del luogo. La chiesa, dedicata a Santa Lucia la santa protettrice degli occhi e della vista, dovrebbe risalire al 1252 e la sua consacrazione al 1267. Per tutto il medioevo il complesso fu importante punto di riferimento per viaggiatori e pellegrini che da Siena si recavano verso le Colline Metallifere e la Maremma.

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Eremo di Santa Lucia, Montagnola senese

Santa Lucia è la fanciulla di Siracusa, vissuta alla fine del III secolo che, ottenuta per intercessione di Sant’Agata la guarigione della madre, decise di mantenere la propria verginità consacrandosi al Signore. Denunciata dal promesso sposo come cristiana, e mentre il carnefice la sottoponeva al supplizio dell’accecamento, dichiarò che il suo sacrificio avrebbe tolto i non credenti dal buio in cui li aveva costretti la loro superbia. Forse, grazie a lei, simbolo per Dante della Grazia illuminante, Madonna Pia potè “vedere” la triste sorte che l’attendeva.

Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
quando l’anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond’è là giù addorno
venne una donna, e disse: “I’ son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via“ (Purgatorio, IX, 52-57).

Così Virgilio al risveglio del poeta gli rivela che, mentre era addormentato, una “donna” è venuta per aiutarlo a trovare la sua via …

Con la forza della sua luce la santa è in grado di risvegliare, ossia di “aprire gli occhi” degli uomini altrimenti accecati dall’orgoglio e della passioni …

Nei romanzi del Graal, poi, la figura dell’eremita compare spesso per consigliare i cavalieri dubbiosi sulla loro missione, indirizzandoli sulla via della virtù e della saggezza, come fa Trevrizent con Parsifal, suo nipote che, nel racconto di Wolfram von Eschenbach, ammonisce rammentandogli che la sua gioventù potrebbe indurlo “a mancare alla virtù della rinuncia”.  Proprio questa capacità di rinunziare al “mondo” ed alle sue lusinghe consente agli eremiti di condurre una vita ascetica – da ascesis, esercizio – che li prepara alla unione mistica con Dio rendendoli degni, attraverso il distacco delle cose terrene, della sua illuminazione.

Anche madonna Pia, transitando lungo l’eremo di Santa Lucia, avrà incontrato questi uomini solitari, che cercano – e trovano – la propria strada nella solitudine, nella foresta come quella che si stende lungo il corso del Rosia . Un luogo, la foresta che, nell’immaginario  è, al tempo stesso, deserto ed rifugio.  Un luogo inospitale, una terra desolata, popolata di esseri ostili e, soprattutto,di demoni tentatori. Gli eremiti vi si ritirano per contrastare e dominare, in quel mondo carico di oscure minacce, la forza delle proprie passioni. E’,dunque, il loro campo di battaglia, dal quale possono uscire sconfitti o radiosi vincitori. E se vi riescono aprono davvero la vista a coloro che incontrano,(Le Goff, 2007), magari interpretandone il linguaggio oscuro dei sogni, o manifestando  una straordinaria capacità profetica  Alvar, 1998).

Castelli e castellani

Dopo l’eremo di S. Lucia, ecco Spannocchia in Val di Merse, “Villa signorile, già Castello o casa torrita, con fattoria omonima della nobile famigli senese de’conti Spannocchi nella parrocchia di S. Maria ai Monti di Malcavolo, ora a Frosini, Comunità Giurisdizione e circa 9 miglia toscane a libeccio di Chiusdino, Diocesi di Volterra, Compartimento di Siena. La tenuta di Spannocchia fa parte della Montagnola posta alla destra del torrente Rosia e della strada che viene da Chiusdino, poco al di sotto di Castiglion Balzetti, ch’è al suo libeccio nel popolo di Brenna, mentre esiste al suo grecale dentro la tenuta medesima la chiesa profanata degli Eremiti Agostiniani di S. Lucia a Rosia con annesso claustro attualmente ridotto ad uso di casa colonica” (Repetti, 1833). La famiglia degli Spannocchi, destinati a diventare grandi banchieri, possedeva quella tenuta già nel XIII secolo, dunque al tempo della Pia. Il riferimento a Castiglion Balzetti, ossia Castiglion che Dio sol sa per la difficoltà che si ha nell’individuarlo, rimanda a tenebrose credenze popolari che vuole quello come il luogo dove “si marchiavano” le streghe  che poi volavano alla volta di Siena (Biliorsi, 1995). Forse un rito di iniziazione alla pubertà femminile che si teneva nel fitto impenetrabile di quei boschi.

Madonna Pia dovette quindi giungere a Pentolina, “Casale con chiesa plebana (S. Bartolommeo) nella vicaria foranea di Rosia, Comunità e 6 miglia toscane a grecale di Chiusdino …”

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Casale di Pentolina, Montagnola senese

Qui “ebbero signoria i conti Pannocchieschi fino dal principio del secolo XIV almeno, stantechè il potente milite Nello d’Inghiramo signor del castel di Pietra in Maremma con testamento del 21 febbrajo 1321 lasciò allo spedale di S. Maria della Scala di Siena un legato di mille lire compresi tutti i suoi diritti e beni che possedeva nel castello e corte di Tatti a condizione fra le altre cose di doversi erigere nella villa di Pentolina un sufficiente spedalelto per i poveri” (Repetti, 1833).

Il riferimento alla generosità post mortem di Nello, evocata dal Repetti,  quel Nello che la credenza vuole abbia fatto uccidere la Pia, sua sposa, è molto interessante. Dal suo testamento, vergato in Gavorrano, avanti al notaro Francesco di Bizzino da Massa Marittima, si apprendono, con ricchezza di particolari “le … malefatte. Il maltolto e le usure, le violenze e le rapine, le relazioni illecite … (Mucciarelli, 2011). Nello, consapevole dei suoi delitti – tra i quali la soppressione della Pia ? – aspirava evidentemente ad una collocazione benevola nell’al di là. Difficilmente il Paradiso, per quante ne aveva fatte, ma con buone probabilità di approdare al Purgatorio, il luogo di purgazione delle anime penitenti, scoperto, o inventato come dice Le Goff, dalla Chiesa solo nella seconda metà del ‘200.

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Domenico di Michelino, Il Purgatorio, particolare da “Dante e il suo poema”

Più facile se la penitenza comportava sostanziosi lasciti a chi aveva il potere del lasciapassare per questa dimensione intermedia, e provvisoria, tra Inferno e Paradiso. Una dimensione dell’immaginario religioso che ironiche considerazioni aveva indotto in quella mala penna di Giovanni Boccaccio.

Chissà se la Pia, transitando per il castello di Pentolina, di proprietà Pannocchieschi, avrà incontrato il serpente dalla testa di Uomo che, secondo la tradizione popolare, avrebbe abitato nelle fitte selve che circondavano – e circondano – il castello? Una ibrida creatura che, dice M. Biliorsi, un cercatore di funghi avrebbe visto, in età moderna, penzolare da un albero, mentre mugolava strane parole”  (Biliorsi, 1988). Una evidente citazione del “cifero serpente” nella versione che, ad esempio, ne dà Michelangelo nell’episodio della tentazione dei nostri (dissennati) antenati.

Da qui la Pia deve aver raggiunto Mulinaccio e poi, percorrendo l’ antica strada maremmana, costeggiato l’ Abbazia di San Galgano, costruita ai piedi di Montesiepi, là dove è conservata la spada nella roccia legata alla vicenda di un cavaliere la cui storia presenta un’ impressionante consonanza con quelle dei romanzi del Graal, di Artù e dei suoi cavalieri: aprendo quindi una serie di importanti quesiti quali, tra i tanti, il fatto che il primo di questi romanzi, il Perceval di Chrétien de Troyes è stato composto sicuramente dopo il 1181, data della morte di Galgano. Come era stato possibile?

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Abbazia di S. Galgano

Nella fraternità guglielmita

Il percorso della Pia si snoda quindi lungo il Piano di Campora (antica area etrusca); passa per la  Pieve di Luriano, dove si fermò il cavallo di Galgano, inducendone la conversione nel giorno del solstizio d’inverno del 1180; raggiunge le Osterie delle macchie e il paese di Torniella, “villaggio che fu Castello, con chiesa plebana (S. Gio. Battista) … dominato un tempo da una consorteria di nobili detti i signori di Torniella e di Sticciano …” (Repetti, 1833). Da qui al bivio ora di Sassofortino (valle del torrente Bai) e, finalmente, all’antica abbazia di Giugnano …

“GIUGNANO (BADIA DI) nella Valle della Bruna in Maremma. Quest’antico monastero di monaci eremiti”, dice il Repetti, “era situato in mezzo ai boschi sul fosso delle Venaje, tributario del fiume Bruna, fra Monte Lattaja, Monte Massi e Roccastrada, in luogo detto attualmente le Casaccie, nella Comunità Giurisdizione e circa 4 miglia toscane a libeccio di Roccastrada  … Poche notizie di questa badia restano fra le carte degli Eremiti Agostiniani di Siena, ai quali furono riuniti gli eremi di Val d’Aspra, dell’Ardenghesca, e di Val di Rosia de’Pannocchieschi, che sino dal secolo XIII possedevano la badia di Giugnano con le sue foreste.  … Era una piccola badìa dei Cisterciensi di S. Galgano concessa loro dal Pontefice Innocenzo IV, e quindi ai medesimi confermata dall’Imperatore Ottone IV con privilegio spedito all’abate di S. Galgano lì 31 ottobre 1209” (Repetti, 1833).

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Cripta dell’abbazia di Giugnano

Cripta dell’abbazia di Giugnano

La vicenda della abbazia di Giugnano è complessa. Verosimilmente  la sua fondazione si deve ai Benedettini, e solo agli inizi del 1200 passerà sotto i cistercensi di S. Galgano ma … Per un breve indeterminato periodo quel luogo fu appannaggio dei Guglielmiti, uno straordinario ordine monastico di forte connotazione cavalleresca che si fa risalire a Guglielmo della Malavalle e, soprattutto, al suo discepolo Alberto, che ne raccolse gli insegnamenti nella “Regula” . E’ con molta verosimiglianza che  qui fosse “accolto … in un collegio di circonvicina fraternità di servi di Dio e di chierici”, dopo essere stato inizialmente respinto, Galgano, da cavaliere divenuto eremita.

E’ forse nella vicenda di Guglielmo la chiave per comprendere il peccato di negligenza commesso, secondo Dante, dalla Pia. Guglielmo proviene dall’Aquitania. In talune circostanze é definito persino Duca d’Aquitania.

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Mattia Preti, San Guglielmo di Malavalle in meditazione

E nel periodo della sua esistenza terrena,ossia nella prima metà del XII secolo, l’Aquitania ha avuto come Duca un Guglielmo, Guglielmo IX – che naturalmente non é il santo di Malavalle – un importante, se non il più importante dei Trovatori provenzali, autore di composizioni cortesi che esaltano la dottrina d’amore, dell’amore cortese.

immagine15La donna, la Dama diventa un simbolo, l’idea stessa di un mondo che é quello delle corti provenzali. Molto libere, molto affascinate da dottrine anche eretiche, come quelle catare, forse non aliene dalla conoscenza delle antiche culture precristiane – e quindi pagane – dei luoghi …

E’ forse attraverso personaggi come Guglielmo di Malavalle che il fantastico mondo dell’amor cortese è giunto in questa parte di Toscana?

Amor cortese e servizio d’amore

Cosa c’entrano i Trovatori con la Pia? Forse la Pia non potrebbe essere stata la Dama corteggiata – ancorchè più o meno felicemente maritata – da qualche fascinoso nobile cavaliere  secondo i principi e le modalità dell’amor cortese, di cui i trovatori sono, con le loro canzoni, gli incontrastati produttori? Circostanza che allora giustificherebbe la “gelosia” di Nello. Amor cortese significa servizio d’amore e culto della dama da parte del suo cavaliere: il legame che li unisce non ha un valore carnale, ma costituisce una sorta di visione, nella quale l’amante pensa all’amato “come il mistico a Dio, fa tutto per lei e per mezzo di lei; dall’amore nascono tutte le virtù, esso è fonte di ogni ricchezza interiore e progresso morale. La femminilità è esaltata dunque come forza morale, spirituale e nobilitante. L’idea centrale è che questo rapporto d’amore è il principio motore che muove e attiva tutte le forze spirituali portando al compimento di atti meritevoli …” (Orlando,S.I.D.).

Dunque un gioco, forse ambiguo, dove non prevale – ovvero non dovrebbe prevalere – la sensualità ma un desiderio inestinguibile di crescita spirituale, una sorta di iniziazione all’Amore  “che muove il sole e l’altre stelle”, dove il rapporto tra l’amata e l’amante è lo stesso che corre tra il Signore – l’amata – e il vassallo, l’amante. Esemplare la storia attribuita al trovatore Jaufré Rudel perdutamente innamorato della contessa di Tripoli (forse Melisenda, figlia del re Baldovino II di Gerusalemme), della quale avrebbe sentito parlare da alcuni pellegrini di Antiochia senza averla mai vista e per la quale si fece Crociato. La storia vuole che si ammalasse proprio a Tripoli e che fosse spirato tra le braccia della contessa vista per la prima ed ultima volta .

immagine16Jaufré  Rudel, uno dei più noto trovatori, nel suo “ Amore di terra lontana”, così descrive la sua infelice passione.

“ … Triste e gioioso me ne partirò,
dopo averlo visto, l’amore lontano:
ma non so quando la vedrò,
perché le nostre terre sono troppo lontane :
vi sono molti valichi e strade,
e perciò non posso indovinare quando la vedrò:
ma sia tutto secondo la volontà di Dio!

… Dice il vero chi mi chiama ghiotto
e desideroso dell’amor lontano,
che null’altra gioia tanto mi piace
come il godere dell’amor lontano.
Ma ciò che voglio mi è negato,
che così mi dette in sorte il mio padrino,
che io amassi e non fossi amato.
Ma ciò che voglio mi è negato.
Sia sempre maledetto il mio padrino,
che mi ha dato la sorte di non essere amato …”

Il  modello ispirativo di questo “gioco” è il De Amore, un  trattato in tre libri ad opera di Andrea Cappellano (1150-1220), vera  summa dei precetti dell’amor cortese, composto in latino attorno al 1185, verosimilmente presso la corte di Maria di Champagne, protettrice di  Chrétien de Troyes  e nipote di Guglielmo IX di Aquitania, nonché figlia di Eleonora di Aquitania, la madre di Riccardo cuor di leone.. Un gioco che è anche culto per l’amata, nella consapevolezza che quel sentimento resterà inappagato, nonostante la sua sensualità che lo distingue dal c.d. amor platonico.  Di qui la sofferenza del cavaliere consapevole di non poter giungere al possesso dell’amata.

 “Amor, ch’a nullo amato amar perdona,/mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona”… fa dire Dante a Francesca da Polenta nel Canto V dell’Inferno. E’ la storia d’amore impossibile tra la dama ed il cognato, Paolo Malatesta, detto il bello, giovane aitante, già Capitano del popolo a Firenze nel 1282, quando Dante era un giovinetto. L’attrazione erotica si consuma mentre i due stanno leggendo, “per diletto, /di Lancellotto, come amor lo strinse”. E’ allora, dice Francesca, “quando leggemmo il disiato riso/esser baciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso,/la bocca mi baciò tutto tremante” (Inferno, Canto V,127-128 e 133-136).

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Alexandre Cabanel, Morte di Francesca da Rimini e di Paolo Malatesta

Quel libro fu Galeotto, e Galehaut, galeotto appunto, era il siniscalco di Ginevra che ne aveva favorito l’amore adulterino

Forse madonna Pia potrebbe aver partecipato ad un gioco d’amore con qualche ignoto cavaliere, ma senza cadere preda della passione per il piaceri carnali; come quelli provati da Paolo e Francesca che scontano per l’eternità il loro peccato travolti dal vento impetuoso ed inarrestabile che tormenta le anime dei lussuriosi. Forse questo “gioco” potrebbe spiegare, con riferimento all’immaginario dell’epoca, la gelosia di Nello e, quindi, al di là del suo desiderio di impalmare Margherita Aldobrandeschi, la volontà omicida. Non lo sapremo mai …

E forse la condanna di Dante, l’attribuzione del peccato di negligenza, potrebbe essere dovuta al suo modo di intendere il “dolce stil novo”, quello espresso dallo stesso Dante con la celeberrima Canzone “Donne, ch’avete intelletto d’Amore”, la prima della “Vita nova”. Non più l’amore inteso, alla maniera dei provenzali e dei siciliani, come sudditanza feudale dell’uomo alla donna, ma come straordinaria tensione dell’animo. Un desiderio, inarrestabile ed infinito, per una Donna che non è più reale ma, come Beatrice, angelicata, vero tramite, che nulla possiede di terreno, tra Dio e l’Uomo.  “Beatrice tutta ne l’etterne rote/fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di là sù rimote … Trasumanar significar per verba/non si poria; però l’essemplo basti/a cui esperienza grazia serba” (Paradiso, I, 64-66 e 70-72)

Il peccato della Pia

Allora, in una prospettiva di immaginario medievale, la colpa di Pia può essere stata quella di essersi dimostrata negligente nei doveri coniugali perché presa dal gioco d’amore dei trovatori provenzali, giunti anche in questa parte di Toscana come sembrerebbe autorizzare la vicenda di Guglielmo di Malavalle, prima della sua conversio. Dal castellare di Lattaia, sulla piana di Maremma, passando da Pian del Bichi (Palazzo della Dogana), attraverso la valle del Bruna, madonna Pia, superata Casa di Pietra, giungeva infine a quel Castel di Pietra dove, secondo la tradizione, si sarebbe consumata la tragedia. “Rocca rovinata resa celebre dall’Alighieri per la tragica fine della Pia moglie di Nello Pannocchieschi signore di cotesta prigione” diceva ai suoi tempi il Repetti.

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Castel di Pietra (GR), veduta aerea

Da qui la Pia aveva iniziato il suo viaggio celeste,

“… Contessa, che è mai la vita?

E’ l’ombra d’un sogno fuggente.

La favola breve è finita,

il vero immortale è l’amor…”

(G. Carducci, Jaufré Rudel)

Ringraziamento: un sentito ringraziamento all’architetto Andrea Brogi per la competente assistenza prestata nella ricostruzione del percorso di madonna Pia.

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Fromm e l’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari

Lettura di Irene Battaglini e Giorgio Risari 15 giugno 2017

leggi in pdf Fromm e l’Antiedipo

gustave_moreau_-_oedipus_and_the_sphinx_-_wga16201Dalla mano l’autunno mi bruca la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
il tempo ritorna nel guscio.

Nello specchio è domenica,
nel sogno si dorme,
la bocca parla vero.

Il mio occhio scende al sesso dell’amata:
noi ci guardiamo,
noi ci diciamo cose oscure,
noi amiamo come papavero e memoria,
noi dormiamo come vino nelle conchiglie,
come il mare nel raggio sanguigno della luna.

Noi stiamo alla finestra abbracciati, dalla strada ci guardano:
è tempo che si sappia!
È tempo che la pietra si degni di fiorire,
che l’affanno cresca un cuore che batte.
È tempo che sia tempo.

È tempo.

Paul Celan

Non possiamo identificarci con le nostre idee. Le idee hanno importanza, ma una importanza relativa. Chi non sa superare la dicotomia tra l’essere e il pensare, tra ciò che uno è e ciò che uno pensa, diventa schiavo del proprio pensiero e in ultimo termine perde il senso cristiano dell’esistenza.

Raimon Panikkar

Come Edipo, viviamo inconsapevoli dei desideri che offendono la morale, di quei desideri che ci sono stati imposti dalla natura; quando ci vengono svelati, probabilmente noi tutti vorremmo distogliere lo sguardo dalle scene dell’infanzia.

Sigmund Freud

L’Anti-Edipo è un’opera complessa, la cui collocazione nel periodo intorno al Sessantotto ha innescato filoni critici in contraddizione: risulterebbe, con le parole dello stesso Deleuze, da una parte il frutto azzardato e controverso di un pensiero anarcoide, che Deleuze definisce parafrasando Kant: «una specie di Critica della ragion pura al livello dell’inconscio»[1] e, dall’altra, uno «spinozismo dell’inconscio».[2]

Così prosegue Deleuze in uno scritto fondamentale[3] in cui accoglie l’idea di Spinoza ad assumere come “modello” di conoscenza (come vera e propria mappa psicologica esperienziale) il corpo:

Si tratta di mostrare che il corpo va oltre la conoscenza che se ne ha, e che nondimeno il pensiero oltrepassa la coscienza che se ne ha. Non vi sono meno cose nella mente che oltrepassano la nostra coscienza che cose nel corpo che sorpassano la nostra conoscenza. E dunque per un solo e medesimo movimento che arriveremo ad afferrare la potenza del corpo al di là delle condizioni date della nostra conoscenza a cogliere la potenza della mente al di là delle condizioni date della nostra coscienza. Si cerca di acquisire una conoscenza delle potenze del corpo per scoprire parallelamente le capacità della mente che sfuggono alla coscienza, per poter comparare le potenze. In breve, il corpo, secondo Spinoza, non implica alcuna svalorizzazione del pensiero in rapporto all’estensione, ma cosa assai più importante, una svalorizzazione della coscienza in rapporto al pensiero, e una scoperta dell’inconscio, e di un inconscio del pensiero, non meno profondo che I’ignoto del corpo.[4]

L’inconscio del corpo sottende, in questa esperienza di conoscenza, alla nascita di un «Io» corporeo, il quale deve evidentemente trovare la sua condizione privilegiata per esprimersi, proprio attraverso il corpo: e come, se non attraverso il «desiderio»? Il tema del desiderio è propriamente centrale all’Edipo, come si legge nella letteratura psicoanalitica classica. Scrive Freud:

Già da piccolo, il figlio comincia a sviluppare un’affettuosità particolare per la madre, che considera come cosa propria, e ad avvertire nel padre un rivale che gli contrasta questo possesso esclusivo; e, allo stesso modo, la figlioletta vede nella madre una persona che disturba il suo affettuoso rapporto con il padre e che tiene un posto che lei stessa potrebbe occupare molto bene.

Apprendiamo dall’osservazione quanto sia precoce l’età cui risalgono questi atteggiamenti.

Li designiamo col nome di “complesso edipico”, perché la leggenda di Edipo realizza con un’attenuazione minima i due desideri estremi risultanti dalla situazione del figlio: uccidere il padre e prendere in moglie la madre. (Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, 1915-32).

Poggiandosi sull’idea di fondo che:

Nel complesso di Edipo si ritrovano i principi insieme della religione, della morale, della società e dell’arte, e ciò in piena conformità coi dati della psicoanalisi che vede in questo complesso la sostanza di tutte le nevrosi, per ciò che della loro natura siamo finora riusciti a penetrare. (Sigmund Freud, Totem e tabù, 1913)

La tesi fondamentale di Deleuze e Guattari, sostenuta nell’opera L‘Anti-Edipo, è che l’obiettivo – non riuscito- della psicoanalisi sia la liberazione dal desiderio degli oggetti parentali della famiglia, obiettivo nel quale la stessa psicoanalisi freudiana rimane invischiata: il complesso di Edipo teorizzato da Freud, colpevolizza e imbriglia il “desiderio” che, intrappolato dai e nei legami familiari, viene poi dato, reso disponibile con la sua energia immensa alle forze della riproduzione sociale. Sostiene il filosofo Treppiedi nella rivista «La Deleuziana»:

Appaiono ancora rilanciabili tre domande dell’Anti-Edipo: I) Quali le traiettorie della psicanalisi dopo la scoperta freudiana di un principio di produzione inconscia? II) Perché il disagio psichico è vissuto con un certo imbarazzo nell’ambito di diversi saperi e di diverse istituzioni? III)

In che modo l’inconscio incide sulle contraddizioni del presente, dunque, sui conflitti tra realtà differenti e sempre più estese quali società, gruppi, schieramenti?

Il noto attacco dell’Anti-Edipo alla psicoanalisi non si separa dal tentativo, sviluppato nel corso dell’intero libro, di fondare una politica del desiderio.

Tentativo, questo, che Deleuze e Guattari articolano sui due piani strettamente connessi di una critica alle letture «edipizzanti» del sociale e di un’analisi dei modi di riproduzione del capitalismo.

Ponendo le questioni nel segno di questa duplice tensione, Deleuze e Guattari concepiscono la «schizoanalisi» come una pratica mediante cui rilevare criticamente, nel loro contesto, i limiti di psicoanalisi e marxismo nelle loro stesse capacità di lettura e trasformazione della realtà e della storia. [5]

Scrive Deleuze: «La psicoanalisi parla parecchio di inconscio ma poi in pratica lo fa per ridurlo, distruggerlo, emarginarlo. L’inconscio viene visto come un negativo, è il nemico». Continua il filosofo francese:

Che errore aver detto l'(es). Ovunque sono macchine, per niente metaforicamente: macchine di macchine, coi loro accoppiamenti, colle loro connessioni. Una macchina-organo è innestata su una macchina-sorgente: l’una emette un flusso, che l’altra interrompe. Il seno è una macchina che produce latte, e la bocca una macchina accoppiata a quella. La bocca dell’anoressico oscilla tra una macchina da mangiare, una macchina anale, una macchina da parlare, una macchina da respirare (crisi d’asma). Così si è tutti bricoleurs; a ciascuno le sue macchinette. Una macchina-organo per una macchina-energia, sempre flussi e interruzioni.[6]

Il “vuoto edipico” sarà riempito di “merci” e “macchine sociali”, questa è la sintesi meno improbabile che avrebbe dato Erich Fromm, che dedicò al tema il saggio Il complesso di Edipo e il mito di Edipo (1949), per esplorarlo ulteriormente all’interno del più ampio Il linguaggio dimenticato. Introduzione alla comprensione dei sogni, delle fiabe e dei miti del 1962.

La critica di Deleuze e Guattari è che la psicoanalisi freudiana è solidale con la famiglia e con l’assetto sociale tradizionale conservatore se non reazionario, rifiutando trasformazioni politiche e sociali.

Si pone comunque una questione a priori legata al significato che nella società contemporanea si attribuisce all’ideologia, e che posto l’idea di ideologia con il suo campo semantico, abbia avuto nella psicoanalisi, il cui è establishment è radicato nella società occidentale.

Sappiamo che Fromm coltivò una sua “personale” ideologia,[7] come sostiene Marco Bacciagaluppi, tuttavia fuggì sempre una modalità centralizzante, basata sul suo pensiero, restando sempre in una posizione mobile e a-dogmatica, senza mai imporre ad una scuola di costituirsi in nome di una ortodossia della tecnica. Possiamo ipotizzare che Fromm immaginò una psicoanalisi forte di una carica umanistica sorretta dall’ortoprassi, verosimilmente nel senso in cui la intende Panikkar, in risposta all’adesione al binomio ortopoiesi-ortodossia.[8]

Se per Freud l’inconscio è da produrre, per Fromm il “desiderio” dev’essere costruito e mantenuto libero dai legami familiari, verso la società e la storia ma in senso rivoluzionario, dato che il desiderio, da un punto di vista umanistico -sempre buono e naturale – è libertà dell’individuo al di là della storia e della società, al limite persino la libertà assoluta della e nella schizofrenia.

Nella lettura deleuziana, l’Edipo e l’Anti-Edipo sembrano due polarizzazioni, o almeno rischiano di diventarlo, in questo modo di procedere, non tenendo conto della dimensione esperienziale in cui è possibile sfiorare il desiderio senza esserne abitati, accettare un livello edipico in cui sia inclusa la transizione, la capacità di stare in equilibrio, di guadare la palude vorticosa dell’abbraccio. Sostiene Roland Barthes nei Frammenti di un Discorso Amoroso:

  1. Oltre all’accoppiamento (e al diavolo l’Immaginario), vi è quest’altro abbraccio, che è una stretta immobile: siamo ammaliati, stregati: siamo nel sonno, senza dormire; siamo nella voluttà infantile dell’addormentamento: è il momento delle storie raccontate, della voce che giunge a ipnotizzarmi, a straniarmi, è il ritorno alla madre (nell’amorosa quiete delle tue braccia, dice una poesia musicata da Duparc). In questo incesto rinnovato, tutto rimane sospeso: il tempo, la legge, la proibizione: niente si esaurisce, niente si desidera: tutti i desideri sono aboliti perché sembrano essere definitivamente appagati.
  2. Tuttavia nel mezzo di questo abbraccio infantile, immancabilmente, il genitale si fa sentire; esso viene a spezzare l’indistinta sensualità dell’abbraccio incestuoso; la logica del desiderio si mette in marcia, riemerge il voler prendere, l’adulto si sovrappone al bambino e, a questo punto, io sono contemporaneamente due soggetti in uno: io voglio la maternità e la genitalità. (L’innamorato potrebbe definirsi un bambino con il membro eretto: tale era il giovane Eros).[9]

Vediamo i nodi critici della teoria di Guattari alla luce della psicoanalisi umanistica di Erich Fromm e della sua revisione dialettica:

Innanzitutto il “complesso di Edipo” non è universale ma è tipico della società occidentale “patricentrica”: esistono infatti tribù extraeuropee australiane (isole Tobriand) dove il ruolo paterno è svolto dallo zio o dalla zia. L’universalità, stigmatizzata da Freud in Totem e Tabù, del complesso edipico, risulterebbe eccessivamente generalizzata. Con lo stile amabile e persuasivo, allo stesso tempo rigoroso e piano, che contraddistingue i suoi scritti, Freud (da L’interpretazione dei sogni, 1900):

Se Edipo Re è in grado di scuotere l’uomo moderno come ha scosso i greci suoi contemporanei, ciò non può che significare che l’effetto della tragedia greca non è basato sul contrasto tra destino e volontà umana, ma sulla particolarità della materia sulla quale questo contrasto viene mostrato. Deve esistere nel nostro intimo una voce pronta a riconoscere nell’Edipo la forza coercitiva del destino, mentre soggetti come quello della Bisavola o di altre simili tragedie del destino ci fanno un’impressione di arbitrarietà, e non ci toccano. Ed effettivamente nella storia di Re Edipo è contenuto un tale motivo. Il suo destino ci scuote soltanto perché avrebbe potuto diventare anche il nostro, perché prima della nostra nascita l’oracolo ha pronunciato ai nostri riguardi la stessa maledizione. Forse è stato destinato a noi tutti di provare il primo impulso sessuale per nostra madre, il primo odio e il primo desiderio di violenza per nostro padre; i nostri sogni ce ne convincono. Re Edipo, che ha ucciso suo padre Laio e che ha sposato sua madre Giocasta, è soltanto l’adempimento di un desiderio della nostra infanzia. Ma a noi, più felici di lui, è stato possibile, a meno che non siamo diventati psiconevrotici, di staccare i nostri impulsi sessuali dalla nostra madre, e dimenticare la nostra invidia per nostro padre. Davanti a quel personaggio che è stato costretto a realizzare quel primordiale desiderio infantile, proviamo un orrore profondo, nutrito da tutta la forza della rimozione che da allora in poi hanno subito i nostri desideri. Il poeta, portando alla luce la colpa di Edipo, ci costringe a conoscere il nostro proprio intimo, dove, anche se repressi, questi impulsi pur tuttavia esistono. Il canto, con il quale il coro ci lascia: …”Vedete, questo è Edipo, i cittadini tutti decantavano e invidiavano la sua felicità; ha risolto l’alto enigma ed era il primo in potenza, guardate in quali orribili flutti di sventura è precipitato!” – è un’ammonizione che colpisce noi stessi e il nostro orgoglio, noi che a parer nostro siamo diventati cosi saggi e così potenti, dall’epoca dell’infanzia in poi.

Gli fa eco Erich Fromm, con altrettanta autorevolezza:

II mito di Edipo offre un eccellente esempio dell’applicazione del metodo freudiano e allo stesso tempo un’ottima occasione per considerare il problema sotto una prospettiva diversa, secondo la quale non i desideri sessuali, ma uno degli aspetti fondamentali delle relazioni tra varie persone, cioè l’atteggiamento verso le autorità, è considerato il tema centrale del mito. Ed è allo stesso tempo una illustrazione delle distorsioni e dei cambiamenti che i ricordi di forme sociali e di idee più antiche subiscono nella formazione del testo evidente del mito. […]

Il concetto del complesso di Edipo, che Freud ha così efficacemente espresso, divenne una delle pietre angolari del suo sistema psicologico. Egli credeva che esso fosse la chiave per comprendere la storia e l’evoluzione della religione e della morale e che costituisse il meccanismo fondamentale dello sviluppo del bambino. Sosteneva inoltre che il complesso di Edipo è la causa dello sviluppo psicopatologico e il «nocciolo della nevrosi».

Freud si riferiva al mito di Edipo secondo la versione contenuta nell’Edipo Re di Sofocle. La tragedia ci racconta che un oracolo aveva predetto a Laio, Re di Tebe, e a sua moglie Giocasta, che se essi avessero avuto un figlio, questi avrebbe ucciso il padre e sposato la propria madre. Quando nacque Edipo, Giocasta decise di sfuggire alla predizione dell’oracolo, uccidendo il neonato. Ella consegnò Edipo a un pastore, perché lo abbandonasse nei boschi con i piedi legati e lo lasciasse morire. Ma il pastore, mosso a pietà per il bambino, lo consegnò a un uomo che era a servizio del Re di Corinto, il quale a sua volta lo consegnò al padrone. Il Re adotta il bambino e il giovane principe cresce a Corinto senza sapere di non essere il vero figlio del Re di Corinto. Gli viene predetto dall’oracolo di Delfi che è suo destino uccidere il proprio padre e sposare la propria madre e decide quindi di evitare questa sorte non ritornando più dai suoi presunti genitori. Tornando a Delfi egli ha una violenta lite con un vecchio che viaggia su un carro, perde il controllo e uccide l’uomo e il suo servo senza sapere di aver ucciso suo padre, il Re di Tebe.

Le sue peregrinazioni lo conducono a Tebe. In questa città la Sfinge divora i giovinetti e le giovinette del luogo e non cesserà finché qualcuno non avrà trovato la soluzione dell’enigma che essa propone. L’enigma dice: «Che cos’è che dapprima cammina su quattro, poi su due e infine su tre?» La città di Tebe ha promesso che chiunque lo risolva e liberi la città dalla Sfinge sarà fatto Re e gli sarà data in sposa la vedova di Laio. Edipo tenta la sorte. Trova la soluzione all’enigma cioè l’uomo che da bambino cammina su quattro gambe, da adulto su due e da vecchio su tre (col bastone). La Sfinge si getta in mare urlando, Tebe è salvata dalla calamità, Edipo diviene Re e sposa Giocasta, sua madre.

Dopo che Edipo ha regnato felicemente per un certo tempo, la città viene decimata dalla peste che uccide molti cittadini. L’indovino Tiresia rivela che l’epidemia è la punizione del duplice delitto commesso da Edipo, parricidio e incesto. Edipo, dopo aver disperatamente tentato di ignorare la verità, si acceca quando è costretto a vederla e Giocasta si toglie la vita. La tragedia termina nel punto in cui Edipo ha pagato il fio di un delitto che ha commesso a sua insaputa, nonostante i suoi consapevoli sforzi per evitarlo.[10]

Fromm gerarchizza il tabù dell’incesto in termini socialmente funzionali rispetto al problema, più ampio dal punto di vista della gestione del potere, del parricidio: l’incesto sarebbe quindi «uno dei simboli della vittoria del figlio che prende il posto del padre e con questo tutti i suoi privilegi»,[11] collocando la rivalsa di Edipo su un piano simbolico, quasi volesse essere l’espressione del desiderio madre-figlio come forza rivoluzionaria in grado di dare potere alla società matriarcale rispetto a quella di discendenza paterna, prendendo spunto dalla tesi di J.J. Bachofen, il cui saggio del 1861 Mutterrecht [= Diritto Materno],[12] viene esplicitamente citato da Fromm.[13]

Il complesso edipico è quindi inteso in senso umanistico come situazione psicologica di protezione, sicurezza, affetto, cibo, ovvero come ricerca di unità e di fusione fra il bambino e il mondo esterno, mediata dai genitori o altre figure parentali. Scrive Fromm, approfittando del discorso su Freud per esercitare una lettura del mito:

È giustificata la conclusione di Freud secondo la quale questo mito conferma la sua teoria che inconsci impulsi incestuosi e il conseguente odio contro il padre-rivale sono riscontrabili in tutti i bambini di sesso maschile? Invero sembra di sì, per cui il complesso di Edipo a buon diritto porta questo nome. Tuttavia, se esaminiamo più da vicino questo mito, nascono questioni che fanno sorgere dei dubbi sull’esattezza di tale teoria. La domanda più logica è questa: se l’interpretazione freudiana fosse giusta, il mito avrebbe dovuto narrare che Edipo incontrò Giocasta senza sapere di essere suo figlio, si innamorò di lei e poi uccise suo padre, sempre inconsapevolmente. Ma nel mito non vi è indizio alcuno che Edipo sia attratto o si innamori di Giocasta. L’unica ragione che viene data del loro matrimonio è che esso comporta la successione al trono. Dovremmo forse credere che un mito, il cui tema è costituito da una relazione incestuosa fra madre e figlio, ometterebbe completamente l’elemento di attrazione fra i due? Questa obiezione diventa ancora più valida se si considera che la profezia del matrimonio con la madre è ricordata una sola volta da Nicola di Damasco, che secondo Cari Robert attinge a una fonte relativamente tarda.[14]

L’umanista tedesco mette l’accento sul contrasto generazionale, spostando la collocazione intrapsichica dell’incesto ad un’area psicodinamica interpersonale, mediando il passaggio attraverso un acuto salto di paradigma sulla sponda socio-antropologica. Puntualizza Fromm, ampliando la lettura del mito ad una domanda di senso metastorico e filologico:

Come possiamo concepire che Edipo, descritto come il coraggioso e saggio eroe che diviene il benefattore di Tebe, abbia commesso un delitto considerato orrendo agli occhi dei suoi contemporanei? A questa domanda si è talvolta risposto, facendo notare che per i greci il concetto stesso di tragedia stava nel fatto che il potente e forte venisse improvvisamente colpito da sciagura. Rimane da vedere se una tale risposta sia sufficiente o se ne esista un’altra più soddisfacente.

Questi problemi sorgono dall’analisi di Edipo Re. Se consideriamo soltanto questa tragedia senza tenere conto delle altre due parti della trilogia, Edipo a Colono e Antigone, non è possibile dare una risposta definitiva. Ma siamo almeno in grado di formulare una ipotesi e cioè: che il mito può essere inteso come simbolo non dell’amore incestuoso fra madre e figlio, ma della ribellione del figlio contro l’autorità del padre nella famiglia patriarcale; che il matrimonio fra Edipo e Giocasta è soltanto un elemento secondario, soltanto uno dei simboli della vittoria del figlio che prende il posto di suo padre e con questo tutti i suoi privilegi.

La validità di questa ipotesi può essere verificata coll’esame del mito di Edipo nel suo complesso, specialmente nella versione di Sofocle contenuta nelle altre due parti della sua trilogia, Edipo a Colono e Antigone.[15]

Non dimentichiamo che uno de più agguerriti contestatori di Freud fu lo studioso della mitologia greca Jean-Pierre Vernant, che scrive:

Come può un’opera letteraria che appartiene alla civiltà ateniese del V sec. a.C. e che traspone essa stessa in maniera molto libera una leggenda tebana molto più antica, anteriore al regime della polis, confermare le osservazioni di un medico degli inizi del XX secolo sulla clientela di malati che frequentano il suo studio?[16]

Il “desiderio”, categoria centrale di Deleuze inteso come libertà del soggetto e sua espansione continua autoindotta in una spirale sempre più stringente, per Fromm è sottoposto alla relazione soggetto umano-legge di realtà, libertà-necessità, io-Mondo: non è desiderio e libertà assoluta ma impulso congenito a “essere ciò che io sono” in base alla natura umana che si esprime nel mondo e grazie al mondo” (qui la società può assumere una funzione favorevole o ostile riguardo a tale attività di realizzazione della personalità e della natura umana). La ricerca di libertà assoluta del desiderio che si “desidera” è una fuga inconscia dalla realtà e dalle sue leggi. In questa direzione, di negazione e non accettazione della necessità della realtà, culmina nella malattia mentale e quindi nel delirio schizofrenico.

Il “desiderio” vuoto ma assoluto, senza contenuto e valori etici umani discriminanti, è invece secondo Fromm interno al dinamismo della natura umana intesa come insieme di poteri e facoltà autenticamente umane: amore, pensiero, libertà, immaginazione “produttiva”, capaci di portare l’essere umano al miglior sviluppo in relazione al mondo e alla società. Tale sviluppo umano è aiutato da valori umani positivi che sono combinati con lo sviluppo dei tratti caratteriali, da quelli dipendenti orali, a quelli accumulatori anali, a quelli sfruttanti orali sadici aggressivi, a quelli genitali” produttivi”. Tale perfezionamento dei poteri e facoltà umane producono “gioia della funzione”, vale a dire l’uomo gode della e nella propria attività, provando piacere e felicità intesa come vita ben vissuta.

Per Deleuze, l’inconscio è al servizio e in funzione del desiderio sempre “buono e naturale”, per Fromm, al contrario, il desiderio è al servizio dell’inconscio umanistico dell’essere umano – inconscio che può avere un valore positivo ma anche negativo –, insomma il desiderio non sempre è buono e “desiderabile” ai fini della felicità e anche della salute mentale dell’individuo. (Basti pensare a un carattere sadico o masochistico che prova desiderio e piacere nell’infliggere o subire dolore a sé o agli altri). Il desiderio insomma va vincolato a valori umani positivi e “umanistici”, etici e spirituali, nonché sociali ed interpersonali. Per dirla con Fromm bisogna essere “responsabili del proprio inconscio”, quindi del proprio “desiderio”.

L’energia liberata grazie alla terapia analitica dalle dissociazioni e dal complesso edipico o meglio dalla fase preedipica secondo Fromm, serve a emancipare l’individuo dai propri complessi psicologici, blocchi ostruttivi ed inibizioni caratteriali che gli impediscono di essere se stesso in modo originale, autentico e creativo, perfezionando se stesso e in modo “produttivo” la società “alienata” ed alienante: così si riduce la “patologia della normalità” ed accedendo ad un più alto livello di coscienza di sé (eliminando dissociazioni e distorsioni paratattiche intrapsichiche) di intuizione dell’Essere della Realtà Umana, raggiungendo una condizione di Ben-essere, di “illuminazione” e di vita ben-vissuta cioè in armonia con se stesso e con il mondo circostante.

Restando in contatto con Erich Fromm, con il suo modo di concepire l’Essere, incontriamo il pensiero di Leopardi, che ha conosciuto il desiderio e percorso il sentiero dell’insolvibilità nel gorgo muto di una poesia estrema eppure vitale:

Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana.[17]

Umanizzare l’uomo e “de-patologizzare la società” (anche con riforme politiche sociali economiche) vanno di pari passo.

Una società migliore consente un migliore sviluppo umano e inversamente un umanità migliore, in senso psicologico etico spirituale, realizza una migliore organizzazione e funzionamento della società.

Insomma secondo Fromm la psicoanalisi è una teoria e pratica terapeutica al servizio della salute mentale come pure dell’umanesimo, nel senso più alto del termine, cioè come perfezionamento della vita del soggetto umano realizzando la sua identità soggettiva in relazione alla natura umana che gli inerisce e alle condizioni sociali economiche esistenziali in cui è situato.

Nasce, intorno alla soggettività, una domanda tutta interpersonale. Che cosa sarebbe l’Uomo, senza un Edipo? Senza sperimentare il desiderio e senza conoscere il significato che si esperisce per il tramite della limitazione? Scriveva Karen Blixen:

Fino ad oggi […] nessuno ha veduto gli uccelli migratori dirigersi verso sfere più calde che non esistono, o i fiumi dirottare attraverso rocce e pianure per correre in un oceano che non può essere trovato. Perché Dio non crea una brama [un desiderio] o una speranza senza aver pronta una realtà che le esaudisca. La nostra brama [il nostro desiderio] è la nostra certezza, e beati siano i nostalgici, perché torneranno a casa.[18]

Edipo e anti-Edipo, dovranno abbracciarsi nella psicologia dell’adulto, nell’affermazione della sua soggettività. D’altro canto, la psicoanalisi è uno scenario di discussione lacerato, in alcuni casi, dallo scontro ideologico. È necessario ricondurre il confronto, come avrebbe voluto lo stesso Fromm, ad una dialettica dei saperi, dei punti di vista, e non ad un conflitto di potere tra ortodossia e invidia del potere. Con la brillante sintesi di Luigi Longhin:

Il problema dell’ortodossia è presente fin dagli inizi della storia della psicoanalisi. Intorno agli anni cinquanta dello scorso secolo si iniziò a ritenere che la metapsichica di Freud non era sostenibile, pur essendo ritenuta una dottrina sacra. Nascono nuove metapsichiche, ma in modo celato, perché l’ortodossia deve essere rispettata. Sorge il problema epistemologico che permette di indicare quando una disciplina può dirsi scientifica con la concezione analogica di scienza e la precisazione dei pilastri fondamentali di ogni scienza, ivi compresa la psicoanalisi. Da qui l’importanza dell’approfondimento scientifico: una delle conquiste più qualificanti dell’epistemologia attuale per poter distinguere la scienza dall’ideologia.[19]

La dirompente rivolta anti-ideologica tout court, non mediata da una morbidezza interpretativa, rischia di essere distruttiva, e di tradire se stessa, aderendo ad un nuovo, più temibile e cieco potere furioso, invidioso, a qualche livello strettamente edipico. L’adesione alla teoria fondazionale che si regge sull’Edipo, «sull’eccessivo spostamento di accento sul Super-Io paterno»[20], rischia invece di costruire una tecnica schiacciante, inglobante, facendo della psicoanalisi una sorta di madre-cattiva, e disconoscendo quindi il fondamento maschile su cui millantava di reggersi. Non è possibile, quindi, affermare conclusioni mature restando intrappolati nella paura della polarizzazione: occorrerà stare in questa tensione, accogliere e nello stesso tempo archiviare tutte le voci contrastanti, ammettere che la psicoanalisi “buona”, dipende da chi la esercita, e da come l’Edipo – in qualità di struttura interna, di modello operativo – si debba rapportare alle spinte anti-edipiche interne, che pure devono esistere, poiché ci permettono di vigilare sull’abuso di potere, di evitare la tremenda deriva delle letture unipolari, monoculari, senza profondità. Riconoscere il mito, quale che sia, che è in grado di utilizzare il nostro mondo emotivo, di abitarlo. Scrive Hillman:

Se abbiamo una grande inquietudine e dei problemi, il primo passo per uscire dal problema è capire che al centro del problema in questione c’ è un mito. Allora capiamo che non siamo solo noi come individui la causa di quella inquietudine. È il perdurare di una strutturazione mitica del comportamento umano a operare in me.[21]

D’altro canto, ad un certo punto si sancisce il passaggio da un mito paterno ad un mito “materno”, inteso come prospettiva interpersonale, proprio nella psicoanalisi.

Grotstein (1981) parla di una rivoluzione epistemologica nella psicoanalisi, che è insita nello spostamento «dai meccanismi di rimozione ai meccanismi di scissione e di identificazione proiettiva».[22]

La materia della tragedia, il tessuto del mito, le fasi della psicodinamica, allora si intrecciano, come piani che si incrociano, a ricordare Escher, e il suo gioco metafisico di scale.

Concludiamo con Roland Barthes, sempre dall’Abbraccio nei Frammenti:

  1. Momento dell’affermazione, per un po’, anche se limitatamente, disordinatamente, qualcosa è andato per il verso giusto: sono stato appagato (tutti i desideri aboliti attraverso la pienezza del loro soddisfacimento): l’appagamento esiste, e io lotterò senza tregua per ottenerlo di nuovo: attraverso tutti i meandri della storia amorosa, mi ostinerò a voler ritrovare, rinnovare, la contraddizione, la contrazione, dei due abbracci.[23]

 

[1]  G. Deleuze (1975-1995), Due regimi di folli e altri scritti, Einaudi, Torino 2010, p. 255.

[2] G. Deleuze (1972-1990), Pourparler, Macerata, Quodlibet, 2000, p. 192.

[3] Cfr. G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione (1968), Spinoza (1970), Spinoza. Filosofia pratica (1981).

[4] G. Deleuze (1981), Spinoza: filosofia pratica, Guerini e Associati, Milano 1991, p. 29

[5]  ladeleuziana.org

[6] G. Deleuze, F. Guattari (1972), L’Anti-Edipo. Capitalismo e Schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, p. 3.

[7] Cfr.: M. Bacciagaluppi, L’ideologia personale di Erich Fromm, in A. Imbasciati, L. Longhin, Psicoanalisi, Ideologia ed Epistemologia, a cura di L. La Stella, Aracne, Roma 2014, pp. 253-258.

[8] Panikkar (1996) fa ricorso ad un nuovo concetto, ortoprassi, per parlare di due espressioni della fede e della credenza che non possono né essere mescolate né si escludono a vicenda: dottrina e morale. La prima identifica la fede con l’ortodossia, adesione ad una giusta dottrina, ma identificare la fede con l’ortodossia può portare al “dogmatismo” (che mette in risalto rigidamente il valore di una determinata formulazione intellettuale della fede). «La formulazione della fede non può essere essenzialmente legata al suo contenuto perché ciò ne violerebbe il carattere trascendente. La fede è un mistero che non può essere vincolato a una forma di espressione definitiva né riferito univocamente ad alcuna formulazione» (La nuova innocenza). La seconda insiste sul carattere morale dell’atto religioso, supremazia del bene, tendendo ad identificare la fede con un determinato comportamento morale corretto (ortopoiesis). Identificare però la fede con la rettitudine morale porta al “moralismo” (esasperazione dell’atto di fede); quindi “si distrugge il fondamento stesso della religione che pretende essere ben più che un mero perfezionismo”. Panikkar propone, come superamento di entrambi gli estremi, il concetto di fede quale ortoprassi. L’uomo è più che semplice spettatore e interprete del mondo, è prima di tutto un attore; l’ortoprassi vuole essere un autentico cammino di salvezza, “divinizzazione”. La fede dunque non è tanto una dottrina o una morale, quanto “un atto fondamentale che ci apre alla possibilità di perfezione” (L’homme qui devient Dios, Paris 1970).

[9] R. Barthes (1977), Frammenti di un discorso amoroso, p. 13, «Abbraccio», Einaudi, Torino 2014.

[10] E. Fromm (1962), Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1995, pp. 188-193.

[11]  E. Fromm, ibidem, pp. 193 e segg.

[12] Cfr. Bachofen, in E. Fromm (1962), Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1995, p. 196.

[13] Bachofen sostiene che agli albori della società prevalessero le organizzazioni matriarcali, anche per la necessità di verificare l’attendibilità della discendenza. Giocasta protende verso il marito Laio, consentendo un ulteriore rinforzo della forma patriarcale.

[14] E. Fromm, Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1962, pp. 188-193.

[15] E. Fromm, ibidem.

[16] J.P. Vernant (1967), Edipo senza complesso, Mimesis, Milano 1996, p. 33.

[17] G. Leopardi (1831-1835), Poesie e prose, «Pensieri» LXVIII, Mondadori, Milano 1980, v.II, p. 321.

[18] K. Blixen (1958), Capricci del destino, Feltrinelli, Milano 2003, p. 40.

[19] L. Longhin, La psicoanalisi può contenere un’ideologia?, in A. Imbasciati, L. Longhin, Psicoanalisi, Ideologia ed Epistemologia, a cura di L. La Stella, Aracne, Roma 2014, pp. 233-252.

[20] F. Fornari, La lezione freudiana, Feltrinelli, Milano 1983, p. 213.

[21] J. Hillman, L’anima del mondo. Conversazione con Silvia Ronchey, Rizzoli, Milano 1999.

[22] L. Longhin, ibidem.

[23] R. Barthes, op. cit., p. 13 e segg.