Ida Vitale: l’intima estremità

di Andrea Galgano  3 novembre 2020

leggi in pdf IDA VITALE. L’INTIMA ESTREMITÀ 

La pubblicazione, presso Bompiani, di Pellegrino in ascolto[1], della poetessa uruguaiana Ida Vitale (1923),a cura di Pietro Taravacci, non solo colma una lacuna editoriale e amplia la collana CapoVersi, ma riporta la visualità essenzialista della poesia ispanoamericana attraverso uno scavo caparbio, un caleidoscopio irripetibile della visura del tempo e una forza segnica che ricolma il disegno dell’opus musivum, che risale a Juan Ramón Jiménez, attraverso un residuo di sottrazione in cui

«la sua voce si è andata tuttavia modificando, in modi a volte impercettibili, lievi movimenti ondosi che nascondono correnti sotterranee, mentre cercano di ancorarsi ad alcune parole-chiave, ricorrenti come un basso continuo nella sua scrittura. I primi testi sono contemporanei della cosiddetta «Generazione del ’45», composta di scrittori e scrittrici che esordivano in un paese considerato ancora un’isola felice, lontano dai sommovimenti populisti, dalle rivolte contadine e dalle violenze dell’America Latina della metà del Novecento: fu un gruppo fondamentale per la cultura uruguaiana, che cercò di cogliere contraddizioni e false sicurezze di quell’ambiente borghese un po’ ovattato. Al suo interno Ida Vitale cominciava a distinguersi sia dalle voci veementi e passionali di Idea Vilariño e Amanda Berenguer, tra le tante donne protagoniste della letteratura uruguayana del momento, sia dall’incipiente colloquialismo di Mario Benedetti. Le parole-chiave che marcano questa prima fase si riferiscono al pozzo e al labirinto, evocando Onetti e Borges ma mantenendo da loro sempre una certa distanza: nella poesia di Ida Vitale, infatti, non funzionano come metafore di situazioni oniriche o metafisiche, ma come spazi dello spaventoso quotidiano, spazi costruiti dalle parole e dai quali il soggetto poetico potrà uscire solo grazie a un diverso intrico delle parole stesse, come la spesso rievocata Arianna, con il suo filo e il suo tentativo di orientamento, sempre potenzialmente fallimentare».[2]

Ed ecco che La luz de esta memoria (Luce di questa memoria) (1949), riscoprendo l’esatto legame di luce e memoria, che risale a Lope de Vega, Leopardi, Machado e Bergamin, coincide, come afferma Pietro Taravacci nell’introduzione, «con gli stringenti e già definitivi interrogativi a cui sottopone la realtà. Una realtà riconoscibile nella sua quotidianità, nella sua contingenza individuale e storica, ma al tempo stesso elevata a dimensioni e a tipologie di respiro già universale, già consapevole della pluralità di senso della poesia, già bisognosa di attestarsi in una zona intima dove è possibile ascoltare il rumore del mondo e l’insufficienza della parola stessa[3]».

La dimora del tempo tocca, accarezzando, il limite, lo prefigura e lo oltrepassa, incide realtà e sogno, destino e parola. Può la parola dire la vastità? Può la parola sillabare le nebbie del destino e del cielo fatto un buco senza voce e senza sponde? Ida Vitale entra nelle cresciute ombre del mondo, nella dolenza dell’aria, nella frusta di luce e si chiede «che resterà allora, passata ormai la nebbia, / nelle mie mani?».

Il linguaggio oscilla in una fitta tessitura di sguardo e cerca il significato per farsi bellezza:

«Notte, questa dimora / dove l’uomo si trova / e sta solo, / sul punto di morire e cominciare / a andare in altre arie. / Il mondo perderà nubi, cavalli, vacilla / meraviglia, / si dissolve, / cade come sul bordo del miraggio / ma ormai senza miracolo. / Pian piano la speranza / si riveste di oblio. / E non vedo più in là / di un nome che ho chiamato / lettera un bacio una carezza / una rosa aperta un volo cieco un pianto. / E poiché tutto è privo di se stesso, tutto col piede pronto / per atterrare in terra scura, / il cielo fatto un buco senza voce / e senza sponde, / non sono più io la povera, / compresa tra mortali, malinconiche arie, / corpo accecato di luce o pura lacrima. / Quello che questo mare, questa cresciuta ombra / va perdendo, / viene a salvarsi in me, / nuvola sempre, / cavallo azzurro, / eterno cielo». (Notte, questa dimora).

In Palabra dada (Parola data) (1953), l’inafferrabile contraddizione, l’intima estremità del silenzio, pone l’attesa come radicale stimmung che canta il vago profumo della notte, il ritorno indomito dell’amore, in una «cifra / nuova, estrema e mia, / sotto un nome finora inavvertito, e unico e necessario?», i bagliori delle cose, la domanda della finitudine degli odori, il giorno già ricordo, e ricerca uno specchio di paradiso e volto di sogno, come una luna senz’ombra e una sopravita.

Ossia un richiamo che oltrepassa l’oltre, lo avverte, lo segna nel mistero straniato e in questa inesorabilità, come scrive Pietro Taravacci, «di quell’azar, così ricorrente in Ida Vitale, nasce una nuova energia, l’occasione di un gioco poetico in cui la parola è cosciente del proprio limite ma anche del proprio potere di strumento atto a sovvertire la realtà data, a farsi complice dei sogni dell’individuo, delle sue infinite preguntas[4]».

La vita è il nucleo della domanda. Ed è la materia vivente a concepire fuga e ritorno di acqua madre, di un dispendio d’amore e «una scarsa nube di parole / estranee, a pioggia sulla nostra polvere».

Cada uno en su noche (Ciascuno nella sua notte) (1960) entra nella chiarità del mondo e nella appartenenza ad esso, nella rarità del grave suolo che schiude lo stupore, per rinascere, visitata dall’enigma dell’essere e dell’Esser-ci.

L’anima si consegna come una lettera frantumata di dolore e nel frammento illusorio cerca e ricerca il senso di quel favoloso volo che vive dentro di sé. È poesia di viscere, incendio chiaro, fedeltà di sogno e veglia, salvezza invocata come promessa. La cera bruna dei passi è passeggero vuoto spazio dove tutto è vigilia e soglia intatta di ombre, affinchè tutto non muoia e sia una pura sorgiva vena d’acqua o amore splendente: «Tutto e vigilia. / Tutto sogna un rinnovo / e muove il cuore a tenersi lontani / dai precipizi. / Nella sua notte ognuno / speranzoso chiede / il risveglio, l’aria, / una luce semenza, / qualcosa in cui non muoia. / Qualcosa d’intatto, esatto, affidabile, / per affrontare l’ombra, / una pura sorgiva, / vena d’acqua, / qualcosa / come quella caraffa tua, Isabel, / dove forse /c’è chiarità umana, / amore e il suo potere risplendente, / più misterioso della stessa ombra».

La drammatizzazione della scrittura si conferma in Oidor andante (Pellegrino in ascolto) (1972), che non solo separa, come uno spartiacque, la produzione precedente ma conferma

«la lucidità e l’attenzione disincantata di chi, osservando la vita reale e la scrittura con un sovrappiù di impegno filosofico, si presenta nella sua definitiva essenza e nella sua esperienza di essere peregrino, fuori e dentro il tempo, in perenne ascolto del mondo e con un rinnovato impegno verso la parola. Ancora più importanti, dunque, sono le citazioni in epigrafe in una fase che vede il soggetto in ascolto e continuo dialogo con la realtà e i quesiti che assillano la sua voce attraversati da una singolare ironia[5]».

La rarefazione della parola e del segno verbale, l’esattezza delle parole-arianne, il fuoco della battaglia della controversia quotidiana, che nella perpetua mota «brandisce enunciati contro il tempo / consegna la salvezza alla parola», la traccia del silenzio indicibile nel fiore dell’estate sono il termine estremo di un pronunciamento di piaghe salate e amore spietato.

La poesia di Ida Vitale non teme oscurità, la attraversa persino nella desolata landa dello spavento e della dispersione, nel cosmo umbratile striato di oro ed alloro di Montevideo e nella violenza del mondo. Essere pellegrino in ascolto significa obbedire alla propria fragilità viandante: «Vedo agitare le penne del tempo / che e un fagiano vecchissimo / su facce senza enfasi, / armate contro la vista del delitto. / Vedo la cecità suicida. / Re delle pene, apici di un sogno / inabissato, quelli ancora lirici, / i sempre speranzosi, / i pescatori di altri mari magici, / a ogni passo spostiamo i vetri / e temiamo».

Dopo il suo esilio in Messico, causato dal golpe militare del 1973 e dalla dittatura fino al 1985, Jardín de sílice (Giardino di silice) (1980), ci restituisce il suo nuovo territorio, l’influenza di Octavio Paz e la sotterranea potenza del neobarocco.

La fonte enigmatica dell’invisibile e dell’indicibile, caratterizzato dall’omaggio a Magritte e alla vertigine rovesciata di Escher, la sostenuta forza della chiarità e della distanza («Morte-vita: labirinto / giù nel fondo di un pozzo / o lattee stelle?»), cerca il miracolo intessuto nel limite, raffigura il dramma del presente che arde nella rovina e il tempo di polvere e cenere segna dapprima la dispersione, poi, ancora una volta, il tempio del destino e la sua ipostasi:  «Verrà il tempo per pascere parole / come oscuro alimento, / e per bruciar piccole salamandre, / tutti gli esorcismi, / quasi dei memoriali dove era aria libera, / e non luogo comune, / che nessuno / di fronte allo sgomento dei crocicchi / sogna o legge».

Sueños de la constancia (Sogni della costanza) (1984) approfondisce il respiro del disarmo, la luna delle maree desolate, il grigio resto della memoria, laddove i termini del caos impongono la cifratura di ogni addensamento. Vi è sospensione, attesa, resto di memoria, buio di gemme.

Léxico de afinidades (Lessico di affinità) (1994) celebra libertà inedite, in cui la consapevolezza di ogni meta onirica non teme ricominciamenti e «per innamoramento dell’istante / cede la luce le ultime difese», come se la rarefatta vitalità del tempo conosca il suo stesso limitare («Parca paziente / che dà il seno alla morte / invia oscuri messaggi / da azzurrati viola, / corolle e corolle»), o come Procura de lo imposible (Ricerca dell’impossibile) (1998), in cui la parola è nuda e austera, percepisce sempre il senso dell’esilio ma contamina la sua stessa essenza precaria, la parola si riduce, diventando sospiro e balbettìo di dissolvenze e assenze ostinate: «Là nell’aria stava / tenue, imprecisa, la poesia. / Pure lei imprecisa / la farfalla notturna arrivò / né bella né profetica, / a perdersi tra fogli e paraventi. / Il debole affilato nastro di parole / si dissipò con lei. / Torneranno ambedue? / Forse, in un momento della notte, / quando non vorrò scrivere / nient’altro di profetico / che quella occulta farfalla / che evita la luce, come le Fortune». (Farfalla, poesia).

La velocità di Reducción del infinito (Riduzione dell’infinito) (2002) scoperchia l’anima dilatata dei miracoli dell’ombra, il mistero dell’esistere e il pericolo della profondità dell’essere attraverso una breve mescolanza di sguardo e di centro, come se i passaggi da opacità a scintilla, sogno e veglia siano vortice di senso tradotto e goccia trasognata.

Le ultime raccolte Trema (2005), Mella y criba (Frattura e cernita) (2010) e Mínimas de Aguanieve (Minime di nevischio) (2015), fino alle Antepenúltimos si aprono al valore lucente della meta poetica, in cui l’avido vetro dei luoghi e la parola che si lascia spaccare, l’accettazione della finitudine e della fedeltà alla natura («Come un uccello / che per cantare attende / che la luce finisca, / scrivo dentro il buio») diventano ricognizione franta di verità e di sospensione («Penetra l’incomprensibile / e amalo. Vivi il rovescio del fine: / sii cardo, se arrivasti come lana, / pietra, se, filo di seta, fluttuassi»), di visibilità sacra e di speranza, come ombrato silenzio, dove tutto è sipario: «Ritornare è / tornare a occuparsi / di rendere alla terra / la polvere degli ultimi mesi, / ricevere dal mondo / la posta assopita, / cercare di sapere / quanto dura / una memoria di colomba».

O ancora nell’intenso scintillio mai sazio di bellezza, l’inseguimento di Ida Vitale si addentra nel tempo oscuro, per immergersi nella profondità cromata del tempo e nelle sue vestigia minuziose:

«M’addentrai nella sera / per dove non dovevo e la sorprendo / nel rituale che apre all’autunno: / forse sono ancor gialli / gli aranci, non hanno raggiunto / i rossi un loro tono d’amaranto / e vengon fuori sorprendenti verdi, / distratto ritardo. / Devo scordare i piccoli errori, / tornar per donde venni alla pazienza, / corregger l’orologio, unico errore». (Nell’ora credula).

Roberto Mussapi, guardando alla forza ungarettiana e alla sorgività sapiente e innocente di Ida Vitale, commenta:

«Entra nella sera quasi come Dino Campana (quasi, Campana è irraggiungibile nei suoi ingressi e coleridgiano, preluziano, ma più immediato ancora, nelle sue visioni). Il rituale che s’apre all’autunno, il poeta vede l’aprirsi della stagione come di un palcoscenico e un capitolo della vita. Osserva il ritardo della natura misticamente compartecipe, ma non misticamente, come poesia esige, lo sa narrare, in felici immagini cromatiche nel suo epifanico svelarsi. Scordare i piccoli errori, il tempo dell’orologio: non per uscire dal tempo, senza ritorno, come un viaggio sciamanico sbagliato da un discepolo che poi si perde. No, correggere l’unico errore del tempo analiticamente cronologico, entra nel tempo metamorfico della natura».[6]

[1] Vitale I., Pellegrino in ascolto, a cura di Pietro Taravacci, Bompiani, Milano 2020.

[2] Tedeschi S., Ida Vitale, transumanza di parole in versi, in “Il Manifesto”, 27 settembre 2020.

[3] Taravacci P., Labile esattezza: L’itinerario poetico di Ida Vitale, in Vitale I., cit., p.8.

[4] Id., cit., p.10.

[5] Id., cit., pp. 12-13.

[6] Mussapi R., Nel fuoco di Ida Vitale, (www.succedeoggi.it/2020/10/nel-fuoco-di-ida-vitale/).

Vitale I., Pellegrino in ascolto, a cura di Pietro Taravacci, Bompiani, Milano 2020, pp. 432, Euro 20.

Vitale I., Pellegrino in ascolto, a cura di Pietro Taravacci, Bompiani, Milano 2020.

Mussapi R., Nel fuoco di Ida Vitale, (www.succedeoggi.it/2020/10/nel-fuoco-di-ida-vitale/).

Tedeschi S., Ida Vitale, transumanza di parole in versi, in “Il Manifesto”, 27 settembre 2020.