La luce che prospera. Su Rive di Valerio Mello

di Andrea Galgano

La caratteristica migliore della poesia di Valerio Mello (1985) è l’avamposto prima dell’avvenimento delle cose. Come avviene nella sua raccolta Rive (Ensemble 2022), non solo l’attesa ma la linea dell’attesa, come se fosse un orizzonte primario, è la prima parola che dice la realtà e il tratto unico che la esplora.

L’approdo nasce dal viaggio, che non è solo caratteristica mai satura dell’essere, bensì è voce e salmodia segreta, fluire che mormora, come questa apertura notturna su Milano:

«I platani scendevano sull’acqua del laghetto e qualcosa risuonò alla porta dell’aria. Lo stridio delle stelle al tramonto sul velluto finale. I platani scoprivano sempre di più le radici, si liberavano dei rumori, erano pronti. La sera arrivò dopo una lunga giornata. Anche gli ippocastani cominciarono ad avanzare, uscivano da un monumento di sonno, da un lungo filare di statue. Le piante chiacchieravano nella locanda delle nuove espressioni, uno sfogliare di luci che restavano sospese come schegge sul vialetto. Fu necessario appuntarsi quel tempo sul foglio della mente –quel posto, quel punto… quello spazio che si svolgeva indisturbato sul davanzale di sensazioni scagliate.

Olmi e abeti aspettavano il loro turno – l’epoca dell’acqua nel drappo bianco della sera. Il falso cipresso decorava il respiro della superficie – e polvere si sgretolava sulle rive».

O nelle vie diurne di via Palestro, dove l’emersione delle cose sembra nascere da un punto sommerso, da un farfugliare, da una scena sognata o intrapresa. La luce percorsa è un gesto, uno sketch o patchwork della mente e da ciò che egli chiama «remoto in movimento».

E così i luoghi diventano frecce di volto, come la lucentezza scagliosa di Scapanto («Talvolta, lo si sente respirare / all’ombra cerulea delle rocce; / talvolta, lascia rotolare il fiato / insieme con le onde fin dentro le cavità della scogliera. / Certamente, sa riconoscere da sé come agire: se essere più /  grande, come una scheggia, o più piccolo, come un granello. / E quando il tramonto inizia a gorgheggiare / – l’aria regola il timbro della voce / e seppellisce le pause della luce sotto manti di pietrosa lucentezza»), la natale Agrigento, dove « Il sogno è la vita nascosta dell’anima che non sa come essere corpo per sempre», i passaggi della luce e delle ombre di Varazze, i blu di Porto Venere, Torino.

Vi è, in questi passaggi, una memoria sommersa che si concede, un pasto di veglia, una descrizione che mostra e non descrive, un’interrogazione sottesa che è sguardo che fiorisce nello spostamento dell’io.

La visione che spazia dalla poesia alla prosa, consegnando nascite, non ama solo il frammento per ricomporlo, le tracce lasciate, la solitudine della Sfinge del tempo ma è stagione di luogo e snodo segreto che sboccia («Proseguo nel profondo, prosciugato naufragio di una pietra, / nel brontolio del crepuscolo abbattuto, / come acqua che scorre sotterraneamente»), in cui viaggio e attesa coincidono nelle aree di confine come sogno che si ripete e comprensione ospite.

Il territorio della memoria mescola acqua e terraferma. Lo spazio e il tempo non sembrano dividersi ma offrono dismisure e abissi lenti, apertura di occhi e germoglio sconfinato come «grembo di intuizione»: «Gli occhi fanno offerte. / Perché la luce sta cadendo, perché adorare i segni di riconoscimento? / Distesa di stelle, lampione, punto della luce».

Nelle schegge non dissolte, nel tempo trascorso, anche la scrivania è riva, anche la parola lo è, perché segna il tratto umbratile delle cose attraversandole, nomina il mondo, mostrando ciò che accade, si fa corpo d’archivio, donando orizzonti di terra e di intervallo:

«Agli esseri mantenuti nella fissità pietrificata mi rivolgo con un atto di fede assoluta. Non osservo per la quiete degli occhi, ma per distinguere con devozione le aperture di un largo accadere. Potrò ammirare le linee delle radici che terminano, a un certo punto, sopra un vuoto conchiliforme e potrò seguire quel vuoto che accusa una mancanza o una grandezza; mi costringerò a riprendere con la mente le conchiglie dell’Egeo in preghiera – finestra: le differenze e i contrasti di una meditazione sempre inserita nella realtà ribaltata. Sarà necessario rendere fondata la descrizione ricevuta al di fuori dell’oggetto catturato. Nell’alcova toracica tengo la molteplicità incostante dei dati sulla parvenza e sull’appartenenza».

Nella postfazione, a proposito del rapporto stretto tra valore e parola, Gianmarco Gaspari scrive: «Valore e senso della parola che il lettore (è lui l’Edipo chiamato a sciogliere il dilemma) non può identificare che con il senso stesso dell’esistere. Difficile pensare a un rapporto più diretto del poeta con la parola, rapporto che la restituisce al suo significato originario, senza ulteriori mediazioni, verso o prosa che sia. E che si tratti indifferentemente dell’uno o dell’altra, giusto per chiudere qui il discorso, eccolo dimostrato dai frequenti affioramenti della metrica classica – puntiamo pure sul solo endecasillabo – che s’incontrano in Rive […]».

La verità e la rivelazione della parola concedono visitazioni ai luoghi, ammantandoli, spesso sfrondandone ogni orpello, per renderli vivi, consegnando, infine, la densità dell’istante in tutta la sua essenza.