Lapo Gianni: la fragile gioia

di Andrea Galgano 23 aprile 2019

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La figura di Lapo Gianni (XIII-XIV sec., morto dopo il 1328) è stata contornata, nei secoli, da poca chiarezza. Non solo per le ipotesi e i dubbi sul suo riconoscimento in Ser Lapo Gianni Ricevuti, fiorentino, «imperiali auctoritate iudex ordinarius et notarius publicus» («per autorità imperiale giudice ordinario e pubblico notaio», come firmò in una pergamena del 2 febbraio 1300), che rogò atti dal 1298 al 1328 tra Firenze, Bologna, Cortona, nel Casentino e a Venezia, e intrattenendo importanti relazioni d’affari col poeta e notaio Francesco da Barberino, autore dei Documenti d’Amore e del Reggimento e costumi di donna,  quanto, come afferma Roberto Rea, nella recente edizione critica delle Rime[1] di Lapo, edita da Salerno, «per l’incerto statuto della sua lirica, collocata dagli studiosi ora al di qua ora al di là della novità del dolce stile, e gravata, inoltre, dalla diffidenza espressa dagli amici di un tempo nei sonetti Se vedi Amore e Amore e monna Lagia[2]».

L’orbita cavalcantiana e l’influsso dantesco, come già espresso da Contini[3], percepito in reciprocità, il possibile amore di lui per una monna Lagia (o Alagia ossia Adelasia) consentono di soffermarci sull’intensità di quel movimento lirico fiorentino chiamato Stilnovo, realtà storica viva e «nodo critico e decisivo della nostra storia letteraria[4]», come sostiene Mario Marti.

Il sodalizio con Guido Cavalcanti, per la verità più nascosto e onirico, e Dante si esprime nel sonetto Guido, i’ vorrei, in cui quest’ultimo, come afferma Roberto Rea,

«colloca Lapo sul medesimo piano del primo amico, rinunciando a qualsiasi gerarchia, affettiva e intellettuale. Benché il destinatario non possa essere che Guido, il sogno dantesco di evasione presuppone, come prescritto dall’ideale classico dell’amicitia intesa come idem velle, la piena corrispondenza ed eguaglianza tra i tre poeti, di cui è emblematico il corale noi collocato a sigillo dell’ultimo verso». Nel De Vulgari Eloquentia (I, 13), inoltre, pur senza qualche controversia di attribuzione, viene citato tra coloro che «vulgaris excellentiam cognovisse sentimus».

In tale eccellenza, se da una parte convergono i topoi cari alla figuralità stilnovistica, dall’altro si evidenziano come questi temi possano essere sottoposti a una sorta di alleggerimento attenuato e di una sovraesposizione meno marcata. Le 17 poesie (11 ballate, 3 canzoni, 2 stanze di canzone e sonetto doppio caudato) testimoniano la sua vigile predilezione per la ballata, non solo nell’eco dantesca e nell’apprendistato cortese.

L’intercessione di Amore, signore assoluto, presso la donna è un lacerto di gioia. Una sorta di meta ultima, sorta dall’inquietudine e permeata dal perdono. Amore si presenta come lenimento delle pene e dei tormenti e si muove a pietà, intercedendo in favore dell’amante, suo servitore fedele. La donna così concede la propria benevolenza, liberando l’amato dai vincoli angusti del dolore e degli occhi coperti, con cortesia affabile e giustizia. Il cuore sarà riportato. Rimanga saldo l’amore buono e puro e degno di lode:

«Eo sono Amor, che per mia libertate / venuto sono a voi, donna piagente, / ch’al meo leal servente / sue greve pene deggiate lenare. / Madonna, e’ no mi manda, e questo è certo; / ma io, vedendo ’l su’ forte penare / e l’angosciar che ’l tene in malenanza, / mi mossi con pietanza a voi vegnendo: / ché sempr’e’ tene lo viso coverto, / e gli occhi suoi non finan di plorare / e lamentar di sua debol possanza, / merzede a la su’ amanza e me cherendo. / Per voi non mora, po’ ch’io lo difendo; / mostrate inver’ di lui vostr’allegranza, / sì ch’aggia beninanza. / Merzé: se ’l fate, ancor poria campare».

Il ringraziamento per l’intercessione si cadenza nel battito delle rime, che seguono l’alternarsi di allegranza e benenanza, asservite al dio benevolo, che dà valore all’innamoramento, che ha permesso di riacquistare il cuore «in perdenza», e attraverso gli appelli verso gli altri amanti che possano, così, condividere il bagliore di questa esperienza.

In Gentil donna cortese e dibonare si assiste a una frattura. Il poeta ha rivelato la sua gioia d’amore, sottraendosi, con colpa, all’obbligo di recare riservatezza e onore all’amata:

«Gentil donna cortese e dibonare, / di cui Amor mi fè primo servente, / mercè, poi che ’a la mente / vi porto pinta per non ublïare. / I’fui si tosto servente di voi / come d’un raggio gentile amoroso / da’ vostri occhi mi venne uno splendore, / lo qual d’Amor sì mi comprese poi, / ch’ avante a voi sempre fui pauroso, / sí∙mmi cerchiava la temenza il core». Si presenta così alla donna, armato di contrizione e richiesta di perdono che viene concesso con intima generosità. Ma vi è ancora ostilità e sdegno, uno strappo che permane come una guerra: «Ora mi fate vista disdegnosa / e guerra nova in parte comenzate, / ond’ i’ prego Pietate / ed Amor che vi deggia umilïare».

Il forte richiamo all’immaginale cavalcantiano segue sbigottimenti e desolazioni. La donna dapprima, spande salvezza, poi, avviene uno stravolgimento delle facoltà psichiche: l’anima e il cuore sembrano fuggire via, in un colpo fulmineo. Lo sconvolgimento dello sguardo è un apice di morte (come il famoso planh, improperium in mortem, della canzone O Morte, della vita privatrice, XIII) e di straniamento. Il cuore, anima sensitiva, è disorientato e spodestato dalla sua sede, in un’autentica afflizione, procurata da Amore.

Spesso l’amore di Lapo è un compendio di gioie improvvise, di abbandoni, laddove la cogitatio amorosa, pur seguendo la struttura trobadorica, ricerca compiutezza, nell’allegrezza e nella gioia. Il sigillo nel libro d’Amore reca conforto, nel luogo in cui la signoria dell’amata si porge in una visione di cortesia e giustizia.

L’anima del poeta unisce dolore e gaudio in un lessico sintomatico che chiede pietà del suo limite, invoca grazia e gentilezza, da cui attingere alimento nel desiderio vago e colpito. La sua sofferenza martoriata assomiglia a un referto di lontananze e leggiadrie sovrannaturali («Angioletta in sembianza / novament’ è apparita, / che·mm’uccide la vita / s’Amor no·lle dimostra sua possanza»), a una epifania celebrata di sogno («Tu vederai la nobile acoglienza / nel cerchio delle braccia ove Pietate / ripara con la gentilezza umana, / e udirai sua dolce intelligenza: / allor conoscerai umilitate negli atti suoi, se non parla villana, / e sembrerà meraviglia sovrana, / com’ formata ’n ‹an›geliche bellezze») e languore («Questa rosa novella, / che fa piacer sua gaia giovanezza, / mostra che gentilezza, / Amor, sia nata per vertú di quella»), che liberano dall’affanno, preghiera, euforia, speranza e nobiltà.

In questa sinossi di gioia, Lapo Gianni incide la sopita vertigine compiaciuta nell’anima, grazie al suo merito di amante che riceve ricompensa e sorriso:

«Appresso le direte che la mente / porto gioiosa del su’ bel piagere, / poi che m’ha fatto degno de l’onore; / e non è vista di cosa piagente / che tanto mi diletti di vedere / quanto lei sposa novella d’Amore; /  e non m’è aviso ch’alcuno amadore, / sia quanto vuol di gentile intelletto, / ch’aia rinchiuso dentro da lo petto / tanta allegrezza ch’apo·mme non moia».

 Amor, nova ed antica vanitate, innervata nella sillabazione contrastiva, è

«un’irriverente requisitoria contro il dio tesa a dimostrare l’irrazionalità e l’illusorietà della passione. È questo il componimento di Lapo piú distante dai modelli e dalla stessa ideologia stilnovista. Considerando inoltre che è impostato come una recusatio della passata esperienza amorosa, con qualche passaggio non del tutto neutrale in prospettiva cavalcantiana e dantesca (l’ingannevole potere di Amore di dare sembianze angeliche all’amata; la sua capacità di ottenebrare la mente e infralire la memoria), viene da chiedersi, come già accennato, se non possa avere qualcosa a che fare con il deterioramento del comune ideale di fedeltà al dio imputato a Lapo nel dantesco Amore e monna Lagia».[5]

I parallelismi, le simmetrie, i vocativi introducono, come afferma Donato Pirovano, «una rappresentazione tradizionale del dio: nudo, angelo, cieco, fanciullo, arciere […][6]».

La sacralità del saluto, simile al saluto dei Magi nella natività di Cristo, la celebrazione (plazer), soave ed enumerata di desideri fantastici e raffinati, di cui Amore si fa garante, raffigurate nel sonetto doppio caudato di Amor, eo chero mia donna in domino, narrano di una sproporzione e di una linea che richiamano i paradigmi cavalcantiani e le linee dantesche, e sembrano virare in un’atmosfera demarcata e fragile:

«Amor, eo chero mia donna in domino, / l’Arno balsamo fino, / le mura di Firenze inargentate, / le rughe di cristallo lastricate, / fortezze alt’ e merlate, / mio fedel fosse ciaschedun latino; / il mondo in pace, securo ’l camino, / no mi noccia vicino, / e l’aira temperata verno e state; mille donne e donzelle adornate / sempre d’amor pregiate / meco cantasser la sera e ’l matino; / e giardin’ fruttüosi di gran giro, / con grande uccellagione, / pien’ di condotti d’acqua e cacciagione; bel mi trovasse come fu Absalone, / S anson‹e› pareggiasse e Salamone, / servaggi di barone, / sonar vïole, chitare e canzone, / poscia dover entrar nel cielo empiro: / giovane, sana, alegra e secura / fosse mia vita fin che ’l mondo dura».

 

[1] Lapo Gianni, Rime, a cura di Roberto Rea, Salerno, Roma 2019.

[2]Rea R., Introduzione, in Lapo Gianni, Rime, cit., p. xiii.

[3] Cfr. Contini G., Poeti, ii p. 570.

[4] Marti M., Storia dello stil nuovo, Milella, Lecce 1973, p.337.

[5] Rea R., cit., p. xxv.

[6] Pirovano D., Il Dolce Stil Novo, Salerno, Roma 2014, p. 324.

Lapo Gianni, Rime, a cura di Roberto Rea, Salerno, Roma 2019, pp. 162, Euro 24.

Lapo Gianni, Rime, a cura di Roberto Rea, Salerno, Roma 2019.

Marti M., Storia dello stil nuovo, Milella, Lecce 1973

Pirovano D., Il Dolce Stil Novo, Salerno, Roma 2014.

 

Pubblicato anche su “Roma – Cronache Lucane”, 8 maggio 2019