Il sogno individuativo di Roberto Bolaño

di Andrea Galgano 1 luglio 2018

leggi in pdf IL SOGNO INDIVIDUATIVO DI ROBERTO BOLAÑO

PRIMA PARTE

Roberto Bolaño (1953-2003) scrive la sua precaria galleria di suono e il suo itinerario di miraggi e dirupi onirici. Ne I cani romantici[1], pubblicati ora per le edizoni Sur, con traduzione di Ilde Carmignani, che vinse in patria il “Premio Literario Ciudad de Irún 1994”, racchiude testi scritti dal 1980 al 1998.

La nudità danzante dell’avanguardia (sotto un arcobaleno di fuoco) si sposa con la frantumata vitalità superstite, la rinascita della ripetizione, lo straccio sporco e intimo che deve sopravvivere per contenere, come ha detto Elias Canetti «la maggiore e la più pura quantità di vita[2]».

Precedentemente, in Tre[3], Bolaño avverte la rapsodia deserta del «sogno dei coraggiosi morti per una chimera di merda», gli spostamenti temporali delle asimmetrie, lo spettro misterioso della narrazione che affronta la trama della storia attraverso l’eliminazione del caos[4] e la disperazione della ragione. Affrontare la scrittura significa dimorare nell’inabitabile, inseguire, da detective, il doppio volto della realtà, la sconfitta, («Sono stato dentro il paradiso come osservatore e naufrago, là dove il paradiso aveva la forma del labirinto»), e il sogno come illuminata dismutazione di oblio.

Nell’esplorazione del dettaglio, dagli autunni di Girona all’invisibilità dell’io e all’Oñar, Roberto Bolaño condensa le atmosfere rarefatte del particolare in una nascita di morte e splendore. Condensare la nascita in una contaminazione di precarietà e flusso è percepire l’urgenza sorgiva di una dislocazione, di una registrazione di atti e metafore che affermano la pulizia elementare della lingua.

Il vertice puro della sua poesia è il deserto che la anima, scrive i contorni esiliati, stanchi, assetati e affamati. La vita che si esprime allo zenith dell’illusione, dell’illuminazione spodestata, dell’atomo dell’avventura (Arcimboldi, i realvisceralisti, le puttane assassine) e della malattia, in ciò che Filippo Polenchi ha chiamato «contagio dei deserti[5]», perché la poesia è l’universo che squaderna  e straborda il labirinto e lo spazio cancellato, rappresentando la ricerca della verità, l’epifania e la potenza del linguaggio nella geometria aliena, diventando:

una gigantesca isola, quasi un continente, nei cui viali assolati o nei bui cunicoli della capitale dell’orrore si aggirano senza scopo, come mossi da una insopprimibile necessità interiore, una moltitudine impaurita di esseri umani, individui i cui libri e le cui storie sembrano aver perso per strada l’intima motivazione del loro stesso essere racconto e narrazione. Il labirinto è, in fondo, un cimitero e la poesia e la letteratura sono i ferri del mestiere del detective-poeta, il bisturi con cui lo scrittore seziona le colpe storiche e individuali del proprio tempo in uno spazio che, come la Avenida Reforma di Amuleto, «si trasforma in un tubo trasparente, in un polmone cuneiforme da cui passano i respiri immaginari della città»[6] e appunto in un «cimitero del 2666, un cimitero dimenticato sotto una palpebra morta o mai nata, le acquosità spassionate di un occhio che per dimenticare qualcosa ha finito per dimenticare tutto».[7]

Così come aggiunge Alice Pisu:

«L’autore entra ed esce dal suo testo e, mentre immagina i suoi personaggi, vede il deserto, il vuoto, quel nulla che riempie ogni cosa e che gli permette di osservare la sconosciuta. Una solitudine profonda si nutre di sogni e disperazione, tra inquietudini e paure racchiuse in un caleidoscopio che  esi muove «con la serenità e la noia dei giorni». Ciò che si allontana può essere chiamato deserto, roccia con aspetto d’uomo, scrive Bolaño. La realtà può avere tante facce, anche essere “coniata nel vuoto”: risiede in questo la profonda differenza tra Bolaño e i suoi contemporanei, la consapevolezza che la realtà raccontata dal personaggio che appare da uno schermo bianco o la proiezione del sogno sono solo lati di un cristallo, quella che richiamerebbe l’immagine dell’esattezza o della vaghezza per Calvino. Credere di poter raccontare la realtà percependola come l’unica sarebbe illusorio perché, come scriveva Richard Linklater, anche il solo pensare ad altre direzioni le rende realtà distinte, che vivono una propria esistenza: «Ogni tuo pensiero crea la propria realtà [..] come se tutto ciò che decidi di non fare si separa dal resto e diventa una realtà a sé».»[8]

Nella poesia rilasciata come straccali, il poeta compie la sua passeggiata onirica lambendo Virgilio, Borges, Perec, Lihn, Teller e Parra ma anche frequentando il nitore recluso di Emily Dickinson o la pienezza di Whitman. La narrativa e la poesia si mescolano in una intuizione di notturni e stelle distanti, disfano le loro impronte in una irruzione di scontro e fertilità selvaggia che irrompe nel discorso e lo comprime fino a farlo saltare[9] attraverso l’esilio dell’essere:

«Siamo rimasti a metà, padre, né cotti né crudi, persi nella grandezza di questa discarica interminabile, errando e ammazzando, sbagliando e chiedendo perdono, maniaco-depressivi nel tuo sogno, padre, il tuo sogno che non aveva limiti e che poi abbiamo sviscerato mille volte e poi altre mille, come detective latinoamericani persi in un labirinto di cristallo e fango, viaggiando sotto la pioggia, vedendo film dove c’erano vecchi che gridavano tornado! tornado!, guardando le cose per l’ultima volta, ma senza vederle, come spettri, come rane in fondo a un pozzo, padre, persi nella miseria del tuo sogno utopico, persi nella varietà delle tue voci e dei tuoi abissi, maniaco-depressivi nell’immensa sala dell’Inferno dove si cucina il tuo Umore».

Le mute cose respirano il loro diorama di dilatazioni e incarnazioni, il dettaglio degli indizi occultati, il crivello dell’orrore e il paesaggio acuto del dolore e della disperazione alla fine del mondo[10], fino al postumo respiro degli eventi:

«LA REALTA’. In qualche modo che non saprei spiegare la casa sembrava toccata da qualcosa che non c’era quando me n’ero andato. Le cose sembravano più chiare, per esempio, la mia poltrona mi sembrava chiara, brillante, e la cucina, anche se piena di polvere attaccata a strati di grasso, dava un’impressione di bianchezza, come se potessi vederci attraverso. (Vedere che? Nulla: altra bianchezza.) Allo stesso tempo, le cose erano più nette. La cucina era la cucina e il tavolo era solo il tavolo. Un giorno cercherò di spiegarlo, ma se allora, due giorni dopo essere tornato, appoggiavo le mani o i gomiti sul tavolo, provavo un dolore acuto, come se stessi mordendo qualcosa di irreparabile».

La consumazione del tempo celebra il tempo del proprio febbrile apprendistato oltre la sconfitta, la stratificazione dell’ombra e della carne, la povera bandiera dell’arte e dell’infinito, per afferrare anche l’impronta dell’oasi che

«è sempre un’oasi, soprattutto se uno esce da un deserto di noia. in un’oasi si può bere, mangiare, curarsi le ferite, riposare, ma se l’oasi è di orrore, se esistono solo oasi di orrore, il viaggiatore potrà confermare, stavolta in modo inoppugnabile, che la carne è triste, che arriva un giorno in cui tutti i libri sono stati letti e che viaggiare è un miraggio. Oggi, tutto sembra indicare che esistono solo oasi d’orrore o che ogni oasi va alla deriva verso l’orrore».[11]

I cani romantici restituiscono il mondo di una smarrita e avvolta precisione che lega sogno e incubo attraverso indicatori spaziali e temporali. Lo svolgersi del vivente si esprime in una raffigurata protrusione, in un soggiorno apprensivo di soglie, in meccaniche di ombra che restituiscono dolore e contorsione ma che, però, riportano l’apice dell’indefinitezza  e del miraggio. L’epica del sogno ha sperduta incisione e fonetica ombrata, tocca la perdita come ferita di realtà e efferatezza di un’immagine che include l’apogeo della sua malinconia vitalistica, che avvicina la guancia alla guancia della morte, come «spettacolo strano, lento e strano»:

«A quel tempo avevo vent’anni / ed ero pazzo. / Avevo perso un paese / ma guadagnato un sogno. / E se avevo quel sogno / il resto non importava. / Né lavorare né pregare / né studiare all’alba / insieme ai cani romantici. / E il sogno viveva nel vuoto del mio spirito. / Una stanza di legno, / in penombra, / in uno dei polmoni dei tropici. / E a volte mi guardavo dentro / e visitavo il sogno: statua immortalata / in pensieri liquidi, / un verme bianco che si contorce / nell’amore. / Un amore sfrenato. / Un sogno dentro un altro sogno. / E l’incubo mi diceva: crescerai. / Ti lascerai alle spalle le immagini del dolore e del labirinto / e dimenticherai. / Ma a quel tempo crescere sarebbe stato un delitto. / Sono qui, dissi, con i cani romantici / e qui resterò».

Il 20 luglio 2003 al quotidiano cileno “El Mercurio”, Bolaño afferma: «La mia poesia e la mia prosa sono due cugine che vanno d’accordo. La mia poesia è platonica, la mia prosa è aristotelica. Entrambe abominano il dionisiaco, entrambe sanno che il dionisiaco ha trionfato».

Giorgia Esposito così commenta:

«Tutta l’opera di Bolaño – entrambe le cugine che vanno d’accordo – canta la sconfitta dell’apollineo, attraverso una molteplicità di voci: da quella del calzolaio che, in Notturno Cileno, non vede realizzata la sua Collina degli Eroi, alla voce della madre della poesia messicana, Auxilio Lacouture, che, in Amuleto, si trova faccia a faccia con l’ombra dei suoi figli – una massa di bambini, unita solo dalla generosità e dal coraggio – che cammina inevitabilmente verso l’abisso. Ma l’abisso, ricorda Bolaño in Tra Parentesi, è anche l’unico posto dove si può trovare l’antidoto alla malattia che affligge Apollo. Per essere poeti occorre scandagliare il fondo inesistente del portafiori di Poe, quello che contiene tutti i crepuscoli e le porte segrete dell’inferno, che il poeta può contemplare, ma giammai varcare: più in là c’è solo la morte, e con essa innumerevoli storie di «generazioni sacrificate sotto la ruota e non raccontate» («I passi di Parra», I cani romantici). Bolaño era un sopravvissuto, un testimone, impegnato in una lotta contro il tempo, contro la malattia, che ha voluto dare voce ai poeti morti bambini, a quelli che non hanno potuto raccontare, ai cani romantici che hanno attraversato, con lui, le strade polverose del Messico, inseguendo assassini, puttane e poetesse».[12]

L’iniziazione poetica si conferma nella oscura rappresentazione di strade di ghiaccio nella sala di lettura dell’inferno. I suoi sogni conoscono il sentiero disertato della grazia, il bar e Soni dove si celebra l’immagine della poesia greca e la perdita della luce dei vetri sporchi prima di chiudere gli occhi, Ernesto Cardenal, Orfeo e Edna Lieberman e il suo sangue che gira come la luce di un faro, la puttana Lope, Città del Messico, i versi di Jimenéz che riportano isole che si gonfiano, si uniscono e si separano, Dino Campana e i fantasmi guardiani del sogno, e i crepuscoli annegati di Barcellona. E poi ancora il sanguinoso giorno di pioggia come un mondo scalzo e scarno, una cortina di giunchi «che si apre e ci sporca», gli artiglieri insieme. Pertanto, i paragoni, le metafore dell’aria libera muovono l’incontro sghembo dell’anima con il cuore sporco, malvestito e pieno d’amore, con lo spavento che arriva a toccare le stelle, che arriva a piangere di notte e ad avere le labbra febbricitanti nei villaggi abbandonati: «Solo la febbre e la poesia danno le visioni. / Solo l’amore e la memoria. / Non queste strade né queste pianure. / Non questi labirinti / Poi la mia anima finalmente incontrò il mio cuore».

Guido Mazzoni sostiene che le sue metafore «aprono il regno delle Idee: sovradeterminano ciò che esiste qui e ora, nella limitatezza del proprio essere – così, e lo fanno significare altro; liberano la vita particolare dalla propria tautologia, la redimono dalla finitezza, la rendono interessante[13]», e Ilde Carmignani, soffermandosi sulla tendenza al lirismo cursi (patetico, sentimentale, kitsch) e affermando il ritmo fratturato, il silenzio e  il punto di cesura di Bolaño, aggiunge:

«La mia sensazione, come traduttrice, è che la poesia, l’antico infrarealismo o realvisceralismo, irrompa spesso nella scrittura di Bolaño, e nel modo più inaspettato: è lo scarto repentino, l’espressione imprevedibile, l’immagine surreale, una specie di tempesta elettrica nel cielo notturno, per usare un’immagine ricorrente nei suoi romanzi. Mi dà sempre l’impressione di una rottura, come se la superficie della prosa si squarciasse di colpo per far emergere singole espressioni, frammenti talvolta minimi di frase che appartengono a tutt’altro linguaggio, un linguaggio molto più metaforico e spesso surreale».[14]

La poesia, dunque, frequenta l’incavo di ogni fondo, si immerge nuda in un lago senza confini, ama l’alveo del sogno, fino all’occhio di Dio. L’abisso del poeta sopporta di tutto, la lotta, l’esilio, il tempo sfrangiato dell’illusione, la morte e la malattia, la povertà minima e assassina a cui consacrare l’ostinazione e la volontà («Sulla strada dei cani, là dove non vuole andare nessuno. / Una strada che prendono solo i poeti / quando non gli resta altro da fare»): «La poesia entra nel sogno / come un palombaro in un lago. / La poesia, la più coraggiosa di tutti, entra e cade / a piombo / in un lago infinito come il LochNess / o torbido e infausto come il lago Balaton. / Contemplatela dal fondo: / un palombaro / innocente / avvolto nelle piume / della volontà. / La poesia entra nel sogno / come un palombaro morto / nell’occhio di Dio».

A proposito del respiro lirico ed epico della sua scrittura, che si impregna del soffio vitale che si trova nei condotti di sopravvivenza, Vasco Brondi scrive:

«Un paio di settimane fa ho suonato a Torino alle OGR era una serata pensata da Nicola Ricciardi per il Salone del Libro, mi hanno chiesto di fare un concerto acustico dove le canzoni si mischiassero alle letture e ho pensato che Bolaño poteva aiutarmi, ho pensato alla sua solarità anche quando parla di sparatorie, a quel soffio vitale che hanno le sue pagine. E mi sono ricordato di quelle ultime poesie di Tre che sono suoi sogni messi in fila. Sogni come sempre tra letteratura e vita, come sempre tra l’emisfero sud e l’emisfero nord. Con persone che si inseguono o che sono immobili da anni oppure irrazionalmente felici, e libri che vanno a fuoco, traduttori pazzi che traducono De Sade a colpi d’ascia in mezzo a un bosco, una legione di Tori Meccanici, spiagge dimenticate».[15]

L’inseguimento dello splendore rappresenta l’esito di questo scavo infinito, di questa coltre che si riconosce nel sogno che arriva a copulare persino con la morte. L’amore e il sangue compiono il passo salvifico nella notte: «sei come lo zoppo che l’amore ha trasformato in eroe: / non tornerai mai nella tua terra (ma qual è la tua terra?), / non sarai mai un uomo saggio, be’, nemmeno un uomo / ragionevolmente intelligente, ma l’amore e il tuo sangue / ti hanno fatto fare un passo, incerto però necessario, in mezzo / alla notte, e l’amore che ha guidato quel passo ti salva».

Nella sua consistenza viscerale, quasi primordiale, si rinviene l’amore, la consumazione dei letti bui, la nostalgia del non vissuto sulle labbra dove sgorgano i paesaggi dell’adolescenza mentre fuori cade la pioggia.

Nella bellezza e nella miseria: «Breve come la bellezza, / la bellezza assoluta, / Quella che contiene tutta la grandezza e la miseria del mondo / E che è visibile solo a chi ama».

Roberto Galaverni afferma:

«Ciò che più colpisce, semmai, è come questa costellazione, questa specie d’intensità e di spirito sodale che sono anche un miraggio d’armonia e di perfezione, siano diventati un elemento fondamentale della sua opera narrativa. La prosa di Bolaño non vuol essere di per sé poetica, non scimmiotta i ritmi, le clausole, insomma il passo del verso. Costantemente poetico è invece il suo tema. La poesia entra dappertutto: nell’esistenza e nell’immaginario dei personaggi, nella macchina narrativa, nella storia passata e, ancor più, nell’orizzonte d’attesa del racconto. Assieme alla violenza del potere, alla solitudine, alla disperazione, la poesia costituisce un’autentica ossessione, anche se, a differenza delle altre, come qualcosa di non dato. Potremmo dire allora che sia la vera posta in gioco di questo scrittore, ma una posta perduta, irrecuperabile, eppure, forse proprio per questo, costantemente allusa».[16]

Roberto Bolaño sogna i suoi detective, in cui approntare la sua anima segugia e versata, attraverso i volti amati o la donna che salvò la vita. Egli tocca la notte interminabile contemplando l’orrore e l’incubo peggiore e sa che essere nel fondo significa poi emergere nella pupilla dello splendore, nello strazio macchiato dell’abbraccio dello sguardo e nei frantumi innominabili:

«Sognai dei detective perduti nella città oscura. / Sentii i loro gemiti, le loro nausee, la delicatezza / Delle loro fughe […] Vidi i corridoi pieni di poliziotti, / Vidi liste di domande rimaste irrisolte, / Gli archivi ignominiosi, / E poi il detective / Tornare sul luogo del delitto / Solo e tranquillo / Come nei peggiori incubi, / Lo vidi sedersi per terra e fumare / In una camera con sangue secco / Mentre le lancette dell’orologio / Viaggiavano impaurite nella notte / Interminabile».

E dentro il respiro del sangue si rinviene tutta la potenza di un limite che se, da una parte, annuncia la fitta dell’essere («Strana ciurma imbarcata su una rotta / miserabile, strade cancellate dalla polvere e dalla pioggia, / Terra di mosche e lucertole, cespugli rinsecchiti / E tempeste di sabbia, l’unico teatro concepibile / Per la nostra poesia»), dall’altra testimonia il seme e il sudore e le lacrime di un tempo unico, di una veglia insonne in un hotel di paura e percezione inadempiente («Sei tu il rapinatore, lo stupratore, il ruffiano inetto / che si aggira per le strade inutili del sogno»): «nelle icone trasparenti della passione messicana, / si annidano il grande monito e il grande perdono, / quella cosa innominabile, parte del sogno, che molti anni dopo / chiameremo con vari nomi che significano sconfitta. / La sconfitta della poesia vera, quella che noi scriviamo col sangue».

Lo smarrimento di Bolaño concentra il dramma errante della meta in un corpo a corpo con il dettaglio, gli spigoli avvizziti, la moto e le tracce, Mario Santiago e i poeti perduti del Messico, o i passi di Nicanor Parra sull’orizzonte infinito. Nel territorio della grazia abbandonata, permane però una speranza smarginata e una dimensione innominabile, una resurrezione avvolta come una musa nel buio «ritrovato ai margini / Del sogno più remoto, / Nelle partizioni del sogno finale, / Sul sentiero confuso e magnetico / Degli asini e dei poeti»:

«Un’allegra canzone d’addio. / E forse sono i gesti di coraggio quelli che / Ci congedano, senza risentimento né amarezza, / In pace con la loro gratuità assoluta e con noi stessi. / Sono le piccole sfide inutili – o che / Gli anni e l’abitudine ci hanno permesso / Di credere inutili –  quelle che ci salutano, / Quelle che ci fanno cenni enigmatici con la mano, / In piena notte, sul lato della strada, / Come figli nostri amati e abbandonati, / Cresciuti da soli in questi deserti calcarei, / Come lo splendore che un giorno ci attraversò / E che avevamo dimenticato» (L’asino).

 

[1] Bolaño R., I cani romantici, traduzione di Ilde Carmignani, Edizioni SUR, Roma 2018.

[2] Cfr. Canetti E., Massa e potere, Milano, Adelphi 2015.

[3] Id.., Tre, traduzione di Ilde Carmignani, Edizioni SUR, Roma 2017.

[4] Montesano G., Bolaño. In realtà volevo fare il poeta, in “La Repubblica”, 10 aprile 2017.

[5] Polenchi F., Roberto Bolaño e il contagio dei deserti, (http://www.labalenabianca.com/2017/04/10/roberto-bolano-contagio-dei-deserti/), 10 aprile 2017.

[6] Bolaño R., Amuleto, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi 2010, p. 16

[7] Ibidem, p.71.

[8] Pisu A., Nella stanza di Bolaño, in “La Repubblica – Parma”, 3 maggio 2017.

[9] Bajani A., Scorribande poetiche di Roberto Bolaño, in “Il Manifesto”, 14 maggio 2017.

[10] Brancati F., Roberto Bolaño, poeta, (http://www.leparoleelecose.it/?p=31196#_ftnref13) 20 febbraio 2018.

[11] Bolaño R., Il gaucho insopportabile, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi 2017, pp. 135-136.

[12] Esposito G., “I cani romantici”. Le poesie di Roberto Bolaño, (http://www.minimaetmoralia.it/wp/i-cani-romantici-le-poesie-di-roberto-bolano/), 28 aprile 2016.

[13] Mazzoni G., “Totalità e frammenti. 2666 e la narrativa di Bolaño”, in «Allegoria», XXVII: 71-72 (2015), p. 235.

[14] Carmignani I., Mistero Bolaño. Conversazione con Ilide Carmignani, a cura di Marco Montanaro (http://www.leparoleelecose.it/?p=22282), 10 marzo 2016.

[15] Brondi V., Ho sognato che la vita mi amava e mi sono messo a scrivere poesie, in “La Stampa”, 9 giugno 2018.

[16] Galaverni R., L’incubo di Bolaño abita lo stesso sonno dei sogni, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 24 giugno 2018.

Bolaño R., I cani romantici, traduzione di Ilde Carmignani Edizioni SUR, Roma 2018, pp. 160, Euro 16,50.

 

Bolaño R., I cani romantici, traduzione di Ilde Carmignani, Edizioni SUR, Roma 2018.

  • Tre, traduzione di Ilde Carmignani, Edizioni SUR, Roma 2017.
  • Amuleto, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi 2010.
  • Il gaucho insopportabile, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi 2017.

Bajani A., Scorribande poetiche di Roberto Bolaño, in “Il Manifesto”, 14 maggio 2017.

Brancati F., Roberto Bolaño, poeta, (http://www.leparoleelecose.it/?p=31196#_ftnref13) 20 febbraio 2018.

Brondi V., Ho sognato che la vita mi amava e mi sono messo a scrivere poesie, in “La Stampa”, 9 giugno 2018.

Canetti E., Massa e potere, Milano, Adelphi 2015.

Carmignani I., Mistero Bolaño. Conversazione con Ilide Carmignani, a cura di Marco Montanaro (http://www.leparoleelecose.it/?p=22282), 10 marzo 2016.

Esposito G., “I cani romantici”. Le poesie di Roberto Bolaño, (http://www.minimaetmoralia.it/wp/i-cani-romantici-le-poesie-di-roberto-bolano/), 28 aprile 2016.

Galaverni R., L’incubo di Bolaño abita lo stesso sonno dei sogni, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 24 giugno 2018.

Mazzoni G., “Totalità e frammenti. 2666 e la narrativa di Bolaño”, in «Allegoria», XXVII: 71-72 (2015), pp. 230-237.

Montesano G., Bolaño. In realtà volevo fare il poeta, in “La Repubblica”, 10 aprile 2017.

Montieri G., I cani romantici sulla strada di Roberto Bolaño, (http://www.minimaetmoralia.it/wp/cani-romantici-sulla-strada-roberto-bolano/), 14 giugno 2018.

Pisu A., Nella stanza di Bolaño, in “La Repubblica – Parma”, 3 maggio 2017.