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L’ultima riva di Michel Houellebecq

di Andrea Galgano 1 settembre 2016

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HouellebecqIl territorio di Michel Houellbecq (1956) scopre l’intima e sorgiva coltre della sopravvivenza, dell’urlo lacerato e della sofferenza dispiegata.

La vita è rara. Tutte le poesie[1] (2016) edito da Bompiani, che raccoglie l’intero corpus poetico, staglia e inizia con un “metodo”, già caro a Orazio e Rainer Maria Rilke, immaginando, come avviene nella prima opera Restare vivi (1991), che

l’esperienza accumulata possa in qualche modo essere utile a un principiante, permettendogli di trovare la sua strada, mostrandogli gli errori più comuni e l’atteggiamento mentale necessario a migliorarci. Come i lettori dei romanzi e dei saggi di Houellebecq potranno facilmente immaginare, nel suo «metodo» c’è ben poco di incoraggiante, e spesso, leggendo queste pagine nitide e angoscianti, siamo costretti a domandarci se quelle che abbiamo di fronte sono davvero delle istruzioni poetiche rivolte a un ipotetico novizio, oppure il cupo bilancio di una battaglia personale contro il mondo e contro la vita, battaglia che ovviamente è persa ancora prima di iniziare[2].

La strada della poesia vive di questo territorio di sofferenza dispiegata, appunto, che riconosce l’interstizio umbratile del nulla nell’essere, la sua prominenza scura, la peculiare vibrazione del dolore cieco come un nodo che si estende fino all’assenza che si cerca per la memoria, «e consapevoli del fatto che ogni passo in direzione della verità è anche un ulteriore approfondirsi della distanza tra sé e gli altri, una conferma della propria solitudine[3]».

Restare vivi è condensare la sopravvivenza solitaria della scrittura, per lavorare sul grido articolato dell’incarico della poesia, e il poeta, come un sacro scarabeo,  entra nel suo teatro debordante e fallimentare, ma è un docile fallimento che non ha paura della felicità perché non esiste e che cerca, indissolubilmente, l’eternità:

Il mondo è una sofferenza dispiegata. Alla sua origine, c’è un nodo di sofferenza. Ogni esistenza è un’espansione e uno schiacciamento. Tutte le cose soffrono, finchè esistono. Il nulla vibra di dolore, fino a giungere all’essere: in un abietto parossismo. Gli esseri si diversificano e diventano più complessi, senza perdere nulla della loro natura originaria. A partire da un certo livello di coscienza, si produce l’urlo. Ne deriva la poesia. E anche il linguaggio articolato. (Dapprima, la sofferenza).

Con Il senso della lotta (1996), la percezione del reale di Houellebecq «lo conduce a una specie di darwinismo di secondo grado, nel quale l’ambiente naturale ha ceduto il passo a un reticolo di scambi sociali nel quale, paradossalmente, proprio chi è più consapevole è più incapace di adattamento[4]»: «Ci sono state notti in cui avevamo perso anche il senso della lotta / tremavamo di paura, soli nella pianura immensa, / Avevamo male alle braccia / Ci sono state notti incerte e molto dense».

Esiste sempre una sorta di stanca trasparenza pervasa dalla sofferenza, come se ci fosse un lividore che intesse la superficie invisibile che delimita l’aria, le parti separabili e separate del corpo, il pomeriggio abbozzato dal dolore, l’attesa dell’avvenire non ancora venuto:

Fuori fa molto caldo e il cielo è splendido, / La vita fa volteggiare i corpi giovanili / Che la natura chiama alle feste primaverili / Lei è solo, ossessionato dall’immagine del vuoto, / E sente pesare la sua carne solitaria / E non crede più alla vita sulla Terra / Il suo cuore stanco palpita con difficoltà / Per rimandare il sangue alle sue membra troppo pesanti, / Ha dimenticato come si fa l’amore, / La notte cade su di lei come una condanna a morte (Pomeriggio).

 

Ma la piaga di Houellebecq ha un contrabbando inquieto, l’incrocio senza amore corroso, l’immensità della notte che sfiora gli oggetti esitando, mentre a servizio del sangue si muove l’oscurità. Forse un ricordo di camera di giornate superflue, forse uno splendore azzurro che chiede dolcezza o fine, che sospende l’ultimo giorno precoce di un amore intero da vivere: «E per guardarci ore intere; / Tu spogliavi il tuo corpo davanti al lavabo / Il tuo viso si contraeva ma il tuo corpo restava bello / Mi dicevi: “Guardami. Sono intera, / Le mie braccia sono unite al mio busto, e la morte / Non colpirà i miei occhi come quelli di mio fratello, / Mi hai fatto scoprire tu il senso della preghiera, / Guardami, guarda, Posa i tuoi occhi sul mio corpo”» (Eccezione Rue d’Avron).

L’essenza della realtà e la sua similarità con l’essere lottano, impari, con l’alba livida delle ripetizioni identiche, con il futuro, divenuto anteriore, delle promesse, con la quotidianità divorata da un senso acre di ansia e precarietà che però cerca di trascendere nell’infinità preziosa e nel mistero, purtroppo irrisolto.

L’eternità inseguita allora è un urlo, un magma, un tono di attacco «che possa straziare il silenzio della notte», che possa spogliare  l’interludio di un breve silenzio dalla propria prigione, dalla propria inconsistenza, dal proprio sogno fragile e dall’ultima angolatura della scala, come la vita che si disegna sulle reti urbane o come la presenza nuda del mondo:

 

Muoiono talvolta d’un sol colpo, / Certe sere / C’erano abitudini che facevano la vita ed ecco che non / c’è più niente / Il cielo che sembrava sopportabile diventa d’un sol colpo / profondamente nero / Il dolore che sembrava accettabile diventa d’un sol colpo / lancinante / Non ci sono che oggetti, oggetti fra i quali si è se stessi / immobilizzati nell’attesa, / Cosa fra le cose, / Cosa più fragile delle cose / Gran povera cosa / Che aspetta sempre l’amore / L’amore, o la metamorfosi.

 

Ma la rincorsa dell’amore all’amore è un quasi-oblio vinto, un desiderio altro di vita, la fine prima dell’inizio, la sopravvivenza delle partenze, la divorato silenzio delle domande inconcluse come chiarore inevaso, il corpo dolente come testimonianza dei crepuscoli anneriti, la confusione della dolcezza lontana e l’anima che cerca il sole nel grigiore livido: «La sera si stabilizza e l’acqua è immobile; / Spirito di eternità, vieni a posarti sullo stagno. / Non ho più niente da perdere, sono solo e tuttavia / La fine del giorno mi ferisce di una ferita sottile».

Contiene una strana ferocia La ricerca della felicità. Ferocia che si dipana per tutta la durata di questo paesaggio interiore, attraverso il margine delle ragnatele urbane, dei luoghi svuotati di ipermercati e posteggi, dove le relazioni sembrano quasi una sorta di soglia di passaggio non riconciliata dove le particelle elementari sono lo sfondo di un’epica lacerata e confusa. Una domanda e una costatazione di amore tremende, una lontananza esclusa: «Perché non possiamo mai / mai / essere amati?».

È come scendere in un gorgo di catastrofe e caos, dove il remoto smarrimento dell’uomo, cavia e pedina, cerca la sua tessitura di speranza e sogno, di esistenza e lucidità di decifrazione.

Non esiste un punto di appoggio, nella notte lucida e attenta, l’orizzonte resta fluido negli orizzonti sgranati ma resta la dissolvenza del desiderio, stanato dall’oblio, irraggiungibile: «Mi disprezzavo tanto che volevo morire, / o vivere momenti forti ed eccezionali; / oggi mi sforzo di non soffrire troppo, / mi avvicino alla fine. Raggiungo il reale».

È la modulazione del tempo ispessito dal mancato contatto con la realtà interrotto, dal freddo di ciò che risulta estraneo, dal tempo ontologico in cui ritrovare la gioia, dalla linea retta delle tracce sicure di ciò che è raro:

I piccoli oggetti puliti / traducono uno stato di non essere. / In cucina, con il cuore stritolato, / aspetto che tu voglia ricomparire. / Compagna accovacciata nel letto, / più cattiva parte di me stesso / passiamo brutte notti, / mi fai paura. Eppure ti amo. / Un sabato pomeriggio, / solo nel rumore del boulevard. / Parlo da solo. Che cosa dico? / La vita è rara, la vita è rara.

 

Scrive Laura Fusco su “L’Indice”:

La realtà è la solita, “gabbia laboratorio”, e l’individuo, un po’ alla Truman Show, molto cavia e «pedina». Lo sfondo grosso modo quello di Le particelle elementari: metropoli globali, immense «ragnatele» e soprattutto quei luoghi non luoghi come ipermercati e posteggi, scenari di una socialità negata, in cui si consuma l’angoscia di riti collettivi svuotati. Insomma Houellebecq, la sua rivisitazione «epica» del reale, con angeli che volano nella stanza, microbi, metallo, edifici vuoti che rimandano l’eco dei passi, quella sorta di gigantismo, horror vacui e senso di disperante catastrofe che è il mondo. Anche se «non abbiate paura, il peggio è passato, siete già morti». Tutto in modo più “caotico” del solito, come in un “pastiche” postmoderno. O, se si pensa ai suoi ricoveri in clinica psichiatrica, in certi deliri o negli incubi, in cui è la tessitura da cui non si riesce a uscire la sostanza e il pauroso del sogno. Houellebecq è lucido e consapevole, «secondo i medici sono il colpevole»[5].

La studiosa, analizzando l’inseguimento di Houellebecq della matrice dettagliata del reale, continua ancora:

Più che il contenuto del pensiero, scomodo, provocatorio e senza freni, è il flusso la cifra, qui più che nei romanzi. Anche perché nel libro, diviso in sezioni, come critico, saggista e poeta l’autore riesce a scavare e tessere associazioni, scarti, accumuli ed escheriane variazioni sul tema, spostando piani e cambiando linguaggi e prospettiva. «Il luogo magico in cui la parola è canto non esiste» – come la felicità – «ma noi camminiamo verso di esso[6].

Il punto iniziale del suo frattale diviene, allora, una meta irriproducibile in questa vita, come il grido rapido e brevissimo della sofferenza, del dolore, del limite creaturale del corpo battuto e mescolato alla terra come bestia impura, dell’amore sospeso e spento, della malattia e della paura della morte: «Fra cinque ore al massimo il cielo sarà tutto buio; / aspetterò il mattino schiacciando mosche. / Le tenebre palpitano come piccole bocche; / poi torna il mattino, secco e bianco, senza speranza».

Il limite di Houellebecq è l’adesione a una territorialità franta, alla parola quasi bianca degli ospedali, come il gemito della prima sigaretta, come la fame, sempre la stessa, della fase estrema dell’io che

 

parla per e a nome dei poeti e dell’umanità, esorta con furia calma, in una sorta di allucinata ebbrezza, indica una via che è contraddizione, «aderite e tradite subito». L’autore è solo «di fronte all’ininterrotta presenza di sé»: «nulla interrompe mai il sogno solitario che mi fa da vita». E ripropone all’infinito i dettagli di quella realtà frattale e matrigna che è il filtro della mente, specchio che lo chiude in una “non libertà” di sperimentare. Lui capovolge: «il mondo è sofferenza perché libero[7].

 

Questa deriva di incontri e incroci, ore trascorse, insinuazioni bruciate nel silenzio delle cose, incrinature silenziose e profonde, latitudini ricercate, chiede il riposo delle erbe impassibili, del ricordo che nulla cancella, come un tentativo morente di resistere, di essere divenire e tempo presente alla ricerca di una felicità pura e di una via d’uscita dalla paura e dalla mancanza: «Le persone se ne vanno, le persone si lasciano / vogliono vivere un po’ troppo in fretta / mi sento vecchio, il mio corpo è pesante / non c’è altro che l’amore»

La Rinascita (1999) che si compie è un azzardo di ciglia. Come una luce liquida che cola, nonostante il cielo rischiari solo rovine e la pioggia batte forte mentre il sole attraversa le nuvole: «Adesso il  sole attraversa le nuvole, / la sua luce è violenta; / la sua luce è possente sulle nostre vite schiacciate; / è quasi mezzogiorno e il terrore s’insedia».

In questa perdita di cocci e partite perse, in questo disordine amaro e fiori sbocciati, esiste come una brezza inappagata, un limite mortale che interviene nell’universo duro delle realtà sconnesse e della realtà da riconoscere come la vita: «L’anno della parola divina / è ancora da reinventare; / sul mio materasso, rumino / realtà sconnesse».

È un paradiso perduto la rinascita di Houellebecq, giace nel fondo, sembra essere inseguita nel cuore battuto dei colpi oppressi, nella stanchezza della lotta, in quel che muore ma forse non si rassegna a farlo nella luce declina (Nizza) o nell’amore che non basta mai, scavato nella città: «Creatura dalle labbra accoglienti / seduta di fronte, in metrò, / non essere così indifferente: / di amore non se ne ha mai troppo».

Nel sesso indocile, nel cielo vuoto, nella stanchezza del corpo, nel mattino dei giorni che scompare e tutto sembra cancellarsi e coprirsi di sabbia, il tentativo umano è cercare un contatto con un sapore di vita che non si annulli nella catastrofe e nella deriva, che entri nelle vene allontanandosi da ogni bestialità e dalla vita senza scopo.

La sopravvivenza è il cuore affranto verso la rinascita scampata dall’universo a brandelli e sprofondato mentre il corpo freme e desidera carezze. Una mano posata sul cuore, un soffio che diventerà profumo.

Si avverte sempre una sorta di estranea contemplazione, un interludio nella calma tremenda dell’azzurro inevitabile della luce uniforme: «nel disgusto, nel tedio / nell’indifferente natura / metteremo le nostre pelli allo studio, / cercheremo il piacere puro / le nostre notti saranno interludi / nella calma tremenda dell’azzurro», poi «la notte ritorna, fine del sole / sulla pineta inevitabile / e i tuoi occhi sono sempre uguali, / la giornata e completa e stabile» e «In mezzo a questo panorama / di montagne di media altezza / riprendo a poco a poco coraggio, / accedo all’apertura del cuore / le mie mani non sono più impedite, / mi sento pronto per la felicità».

Dopo l’immenso successo di Sottomissione, il romanzo-sintomo e archetipico della traccia profetica e possibile della Francia e dell’intera Europa, dove, nel 2022, le elezioni presidenziali vengono vinte da un partito islamico e in cui, come scrive Luigi Grazioli, la tendenza

 

a proporre scenari futuri, non sempre cupi o ironici a dire il vero, è una diretta conseguenza dell’impianto fortemente sociologico della sua visione, oltre che della convinzione, encomiabile, che un libro o influisce sulla realtà, o non è niente» e in cui le profezie diventano «l’orizzonte naturale di queste premesse, la loro logica deriva, prima che un vizio del loro autore, che sarebbe in fondo innocuo come quello di chi si diletta a far previsioni su questo o quello. E del resto non vale per se stessa, ma è solo un modo, estremizzato, per leggere il presente, per portarne alla superficie con maggior efficacia i meccanismi e le deficienze. Se andiamo a cercare negli scrittori previsioni o, peggio, rassicurazioni, sia pure negative, siamo fritti. Anche quando a pretenderlo è lo scrittore stesso[8],

 

Configurazioni dell’ultima riva[9], edito da Bompiani, con l’acuta traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, rappresenta la distintiva e derivata protrusione di uno sguardo, solo leggermente scostato, dalla drastica apocalisse della grave disperazione e dove le cose partecipano alla loro aurea manifestazione, vibrano in una prominenza tracimata e lucente che ama i contraccolpi, le pause impossibili, le esigenze di vita sofferente contro il fiato del vuoto: «Così, generazioni sofferenti, / Comprese come pulci d’acqua / Tentano di restare indifferenti / Ai sensori della vita vacua / E tutte fanno fiasco, senza pianto, / Tutto ricoprirà la notte grama / E la spossatezza monogama / Di un corpo affondato nel fango».

È un libro in bilico ed appartato che sussurra la distesa grigia di una gioia che rischia l’invalidamento e la cancellazione ma che fotografa la densità dell’istante spianato[10] e fuori asse e che segna una precaria solidità: «Se muore il più puro / La gioia si invalida / Il petto è come svuotato, / E l’occhio conosce bene l’oscuro. / Basta qualche secondo / Per cancellare un mondo».

Il perimetro di Houellebecq è abitato dall’assenza ciclotimica[11] che chiude la vista delle prossimità («[…] Abitiamo l’assenza. / Poi la vista sparisce / Degli esseri più prossimi»), fino a non avere fondo, fino a ridursi a una demolizione di calma.

È la lotta continua e consolidata con l’ultimità, il compassionevole oblio che ha velato il mondo, come «L’elemento bizzarro / Disperso nell’acqua / Risveglia il ricordo, / Risale al cervello / Come un vino bulgaro» e tutto esita nel vuoto e, come spiega Fabrizio Sinisi, «Se ciò che domina la vita è un’assenza, se ogni fiducia è sparita, non è solo un problema ideale o culturale: viene meno la percezione stessa dell’essere».

L’ossessione che lavora segreta, «lieve come un sorriso lontano», in cui «Lo spazio fra due pelli / Quando si può accorciare / Apre mondi più belli / D’un grande scoppio ilàre», risolleva una domanda che è gloria e specimen moriendi di uno scandaglio che diviene l’annuncio di una manifestazione linguistica, come proclama Celan:

«La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica e quindi dialogica per natura, può essere un messaggio nella bottiglia, gettato a mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza -, che esso possa un qualche giorno e da qualche parte essere sospinto a una spiaggia, alla spiaggia del cuore, magari. Le poesie sono anche in questo senso in cammino: esse hanno una meta[12]».

La singolare domanda di Houellebecq si attesta in questo sottopasso di regni dissolti, dove la notte s’installa indifferente, attraverso l’irreparabilità di ciò che avviene nel deserto indolente:

 

Dove ritrovare il gioco innocente? / Dove e come? / Cosa bisogna vivere? / E perché dobbiamo scrivere / Libri nel deserto indolente? / Sotto la sabbia strisciano serpenti / (Hanno sempre il nord in testa) / Niente è riparabile dai viventi,. / niente dopo la morte sussiste. / Ogni inverno ha la propria esigenza / E ogni notte la propria redenzione / E ogni età del mondo, ogni età ha la sua / sofferenza / S’iscrive nella generazione.

 

Le sue assenze di durata limitata non consolano bensì occultano, soffocano, persino astraggono nel loro foglio inquieto e svuotato, finendo per imporre la loro vetrina solitaria e la loro inquietudine concretata nell’universo lirico, che solo puntualmente e irrimediabilmente, tenta conciliazioni e si fascia:

 

Ora soffro tutta la giornata, dolcemente, leggermente, ma con qualche punta orribile che si conficca nel cuore, imprevedibile e inevitabile, per un istante mi ritorco di sofferenza e poi battendo i denti ritorno al dolore normale. / La sensazione che mi si strappi un organo se smetto di scrivere. Meriterei il macello. / Vittoria! Piango come un bambino! Le lacrime scorrono! Scorrono!… / Ho provato verso le undici qualche minuto d’intesa con la natura. / occhiali neri in un ciuffo d’erba. / fasciato di bende, davanti a uno yogurt, in una centrale siderurgica.

Scrive Nicola Vacca:

Houellebecq poeta è diverso dall’Houellebecq romanziere. L’abbandono al verso lo rende meno isterico e inquieto. Qui viene fuori lo scrittore impolitico che si aggira tra le macerie della distesa grigia della terra e annota sul suo taccuino l’assenza che abita nella tragicità dell’essere. La sua poesia non rinuncia a un pensare per paradossi, dove una «calma demolita» gioca d’azzardo con un «cammino senza sapore e senza gioia. Per Houellebecq percepire la realtà significa vivere un momento forte, essere una definizione perfetta, qualcosa che oltrepassi la morte. Tra le righe dei suoi versi si può leggere la sfida a viso aperto di un uomo che ha orrore del vuoto che dilaga. Houllebecq afferma che il mondo lo sorprende ed è per questo che scrive poesie. Per lui la vita non ha nulla di enigmatico. Nonostante amiamo aggirarci nei paraggi del vuoto, il nostro disincanto universale lotta quotidianamente con il “naturalismo esistenziale” dell’amore che vive con tutta la sua fragilità nella gestualità dei corpi che si appartengono e si respingono. Houellebecq poeta cerca di dare un senso alla condanna. Paradossalmente attraversa un universo lirico in cui per un istante si intravede un futuro per la speranza ,anche se il nulla propone alla nostra inquietudine una pace relativa[13].

 

Esiste un punto sincopato ma splendente, dove sembra trasparire una possibilità impercettibile di riscatto: è l’esperienza amorosa, violenta e definitiva che disincanta e spezza questo magma spento e subìto, dapprima come esigenza di completezza, poi come manifestazione e «gioia di ritrovare qualcuno che si è già incontrato, che si è sempre incontrato, per sempre, in un’infinità d’incarnazioni anteriori. Se non ci si crede, è un mistero».

Perderlo significa perdersi, separarsi è annullare la propria smagliatura lucente, perché tutto ciò che non è affettivo diventa insignificante e allora esso serve «per legittimare una vita», come sostiene ancora Fabrizio Sinisi, nonostante la sua affermazione «necessita di una libertà che oggi sembra un peso troppo grave[14]».

Il narcisismo macerato e diviso di Houellebecq, nutrito da Baudelaire, Verlaine e Drieu La Rochelle, come afferma Camillo Langone[15], è pieno di fame, si porge al respiro vitale, rimanendo nella traccia di un’esistenza possibile, di un colpo di vento che venga a purificare lo spazio, sebbene conosca ciò che nella vita sempre declina, quando «tutte le strade portano a stanze chiuse», e quasi finendo per declamare il bordo infinito dell’essere, tenta una lotta disperata contro l’evidenza di diminuizione: «Non sapevo di avere nel petto / Questa orrenda ostinazione d’essere / Anche privato di ogni diletto, / Di ogni piacere, di ogni benessere, / Questa imbecille e sorda forza / Che vi spinge a proseguire / mentre ogni istante rafforza / L’evidenza di diminuire».

L’esigenza di felicità è un crampo che assomma il bisogno di «avere una fede, minuscola o sublime, / un insieme di gesti / Come una danza idiota, diciamo la moresca, / una danza modesta / Che si balla senza sforzo, minimo apprendistato / pochissima riflessione», per raggiungere «la felicità immobile e ciclica della ripetizione».

È un tempo decostruito e viaggiatore che invoca, a denti serrati, la lucidità di un tratto condiviso, di un corridoio che si agita e sente pena e tremor, avviluppato nella conca drammatica dell’umano:

 

Osservando tutti questi corridori, / fra cui certi social-democratici, / Sentivo pena e tremori: / è nel soffrire che schiattano. / Esaminando questo danese / Come Bjarne Riis noto al paese, / Non penso più affatto a me; / Il suo viso torturato diventa plissè / Come un viso d’essere umano / Che trova salvezza nella pena / Con i testicoli, con le mani, / Scriveva la storia umana / Senza bellezza vera, senza esultanza, / Con la coscienza di un dovere. / Tutto questo si agitava in me: / La coscienza, la pietà, la speranza.

 

Ha scritto Chiara Farangola che la Weltanschaung di Houellebecq si inscrive

 

nella linea di un pensiero tragico che esprime la crisi profonda nelle relazioni tra gli uomini e il mondo sociale e cosmico. Il «mondo senza qualità» dell’opera houellebecquiana è un mondo definitivamente abbandonato da Dio, nel quale Dio non è solamente morto, ma non è nemmeno mai esistito. L’uomo che Houellebecq descrive è lacerato tra l’aspirazione all’infinito e la realtà della morte, è l’uomo che avendo elaborato lo spazio della scienza razionale, ha rinunciato al concetto stesso di Dio e perciò a qualsiasi norma veramente etica. Il problema centrale della coscienza tragica in Houellebecq diventa allora sapere se in questo spazio razionale sia ancora possibile reintegrare un’etica, dei valori morali sovraindividuali e, se sarà possibile, pensare di nuovo in termini di «comunità» e di «universo». Questa tesi si propone proprio di mettere in rilievo l’importanza, nella visione del mondo veicolata dai romanzi di Michel Houellebecq, dei ressorts esistenziale e spirituale, rispetto a quello socio-teorico già analizzato in altri studi. Inoltre, vedremo come questa metafisica houellebecquiana si nutra nell’intuizione poetica di un immaginario materiale di acqua e di luce e di come questi momenti intuitivi costituiscano la vera voce dell’autore, quella più intima e sofferta che si strugge nell’assenza dell’Amore[16].

 

Il fondo della sua vibrazione è la «souffrance ordinaire», calcata nelle miserie quotidiane e nella separatezza dalle cose, densa nell’amarume ebbro di solitudini, come attesa di venti forti e inesorabili, nella vita sbattuta e alienata della mancanza d’amore, divenuta spietata e piena di «oggetti variabili / Di mediocre interesse, fuggevoli e instabili, / Una luce smorta scende dal cielo astratto. / è il lato B dell’esistenza, / Senza piacere e senza vera sofferenza / salvo quelle dovute all’usura, /  Ogni vita è una sepoltura / Ogni futuro è necrologico / Solo il passato ci strazia, / Il tempo del sogno e della grazia, / La vita non ha nulla di enigmatico».

La propria derelitta spersonalizzazione si affaccia sul mondo muto, sopravvivendo, senza conduzione al significato ultimo e profondo che radica l’esistere, si sporge persino nella provocazione sessuale e ribelle, mercificata e indotta, di uno struggimento di soglie inavvicinabili che interrompe le frasi di un paradiso perduto e immane.

È lotta narcisista e laterale, male di vivere che sussume lo scuro profilo della perdita, dell’abbandono, della dissacrazione di ogni promessa bandita e maledetta che, attraverso un processo di reificazione, scompone la scena del mondo, disciogliendo i suoi residui: «le strutture del piacere munite del proprio fusibile / Che è la paura. Dell’altro. E della sua innocenza. / Il sospetto al di là di un’immobile assenza, / Di qualche cosa infine che rassomigli a un senso / Oltre le nostre pelli. Fantasma di trascendenza».

L’apocalisse di Houellebecq rappresenta, dunque, il teatro di un destino scarnificato e catastrofico che ha dismesso la libertà, rendendosi emergenza sognata e distrutta di un mistero segreto, come egli stesso proclama in questa contraddittoria confessione a Stefano Montefiori, dal titolo Contro la responsabilità: «Della libertà l’uomo non ne può più, troppo faticosa. Ecco perché parlo di sottomissione. […] In fondo la religione per me non è la fraternità, ma la comunione con una potenza spirituale realmente esistente e attiva. Una potenza anche fisica. […] Il riconoscimento di una potenza, voglio dire, tale da rendere superflua l’esistenza stessa di una morale[17]».

Tutti i paraggi del vuoto, dissociati dalla vita, attendono una promessa d’amore, come speranza e desiderio inesorabile e schiuso, profezia tenera malgrado «il limite del mio reame» che va riempiendo il sollievo di una vita di breve durata e ineluttabile e di un amore di passaggio, sempre cercato e abolito, come testamento sparito e isolato: «In fondo l’ho sempre saputo / Avrei aspettato l’amore / E sarebbe arrivato / poco prima che morissi. / Ho sempre avuto speranza, / Non ho rinunciato / Molto prima della tua presenza, / Mi eri stata annunciata. / ecco, sarai tu / la mia presenza effettiva / sarò nella gioia / della tua pelle non fittizia / così dolce alle carezze, / Così leggera e fine / Entità non divina, / Animale di tenerezza».

La sua nuda disperazione e il peso di una nullità bruciata, pertanto, entrano nel bisogno chiuso dei giorni sperduti, nella vecchiaia, nel tremore dell’essere che non esita a sparire ma che lascia, solo ed esclusivamente, nell’amore e in mezzo al tempo, «la possibilità di un’isola».

E poi ancora si addentrano nel dono di una vita intera in tutto lo splendore delle carezze del sole, nel colore di miele di Joséphine, nel cielo in fondo agli occhi come lacrime che colano, nel risveglio spesso oscurato, assillato dall’eterno («Bisogna attraversare un universo lirico / Come attraversi un corpo che hai molto amato / Bisogna risvegliare le potenze oscurate / l’assillo dell’eterno, dubitoso e patetico») e nello sguardo che scava in fondo al vuoto il tremare di un desiderio confessato e ultimo, sussurrato quasi con vergogna, come la lettera a Bernard-Henry Lèvy: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora[18]».

In questa grazia immobile, «sensibilmente schiacciante, / Che risulta dal passaggio delle civiltà» e «non ha la morte come corollario», esiste e si percepisce l’unione paradossale di morte, amore, piacere che destano la consapevolezza della rovina separata, dell’universo carnale, della scrittura del corpo precario e in cardine instabile, arreso in una splendente limitatezza, fuso in un’opportunità amorosa che attraversa lo sfacelo e si rivela come irriducibile e sublime desiderio di eternità, e, infine, assorbito nella sua interrotta genesi sacrale, come scrivono, in un’interrogativa finale che ci tocca e ci impasta, Alba Donati e Fausta Garavini, nella nota di copertina al testo:

 

Sì, oltre le notti senza cielo, oltre le mattine in cui la speranza esita a raggiungere gli uomini, c’è un momento di possibile dolcezza, quando le pelli si toccano, si incontrano, in cui il mondo può addirittura risplendere. Così appena finito di leggere le quasi cento poesie di uno dei più grandi scrittori francesi “sopravviventi” ci toccherà rimanere indecisi: ci avrà contaminato quel suo senso di condanna, di maledizione e disincanto, oppure ci avrà fatto sentire tutta l’esitazione, la fragilità e la bellezza dell’amore, della compassione, dei corpi?[19].

 

Bibliografia

Houellebecq M., La vita è rara. Tutte le poesie, Bompiani, Milano 2016.

  • Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, Bompiani, Milano 2015.

Id. – Lévy Bernard H., Nemici pubblici, Bompiani, Milano 2009.

Id., Contro la responsabilità. Conversazione con Stefano Montefiori, Libri del “Corriere della Sera”, 17 febbraio 2015.

Celan P., La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993.

Farangola C., Il mondo senza qualità. L’universo romanzesco di Michel Houellebecq, tesi di laurea, Roma.

Fusco L., recensione a La ricerca della felicità, in «L’Indice».

Grazioli L., Houellebecq lercio misantropo (http://www.doppiozero.com/materiali/parole/houellebecq-lercio-misantropo).

Langone C., Quanto Baudelaire nelle nuove poesie di Michel Houellebecq, in “Il Foglio”, 18 novembre 2015.

Sinisi F., «Eppure confesso che persiste il desiderio di essere amato», in «Tracce – Litterae Comunionis», dicembre 2015, p.93.

Trevi E., Consigli disperati per rimanere vivi, in “Corriere della Sera”, 28 aprile 2016.

Vacca N., Michel Houellebecq. Configurazioni dell’ultima riva

(http://www.satisfiction.me/michel-houellebecq-configurazioni-dellultima-riva/).

 

 

 

 

 

[1] Houellebecq M., La vita è rara. Tutte le poesie, Bompiani, Milano 2016.

[2] Trevi E., Consigli disperati per rimanere vivi, in “Corriere della Sera”, 28 aprile 2016.

[3] Id., ivi.

[4] Id., ivi.

[5] Fusco L., recensione a La ricerca della felicità, in «L’Indice».

[6] Id. cit.

[7] Id., cit.

[8] Grazioli L., Houellebecq lercio misantropo (http://www.doppiozero.com/materiali/parole/houellebecq-lercio-misantropo).

[9] Houellebecq M., Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, Bompiani, Milano 2015.

[10] Montefiori S., Le mie fotopoesie, in “Corriere della sera – La Lettura”,  12 giugno 2016.

[11] Id., Michel Houellebecq. Il mondo mi sorprende, perciò scrivo poesie: sull’amore, e sulle lavatrici, in “Correiere della Sera – La Lettura”, 25 ottobre 2015.

[12] Celan P., La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, pp. 35-36.

[13] Vacca N., Michel Houellebecq. Configurazioni dell’ultima riva

(http://www.satisfiction.me/michel-houellebecq-configurazioni-dellultima-riva/).

[14] Sinisi F., «Eppure confesso che persiste il desiderio di essere amato», in «Tracce – Litterae Comunionis», dicembre 2015, p.93.

[15] Langone C., Quanto Baudelaire nelle nuove poesie di Michel Houellebecq, in “Il Foglio”, 18 novembre 2015.

[16] Cfr. Farangola C., Il mondo senza qualità. L’universo romanzesco di Michel Houellebecq, tesi di laurea, Roma.

[17] Houellebecq M., Contro la responsabilità. Conversazione con Stefano Montefiori, Libri del “Corriere della Sera”, 17 febbraio 2015.

[18] Id. – Lévy Bernard H., Nemici pubblici, Bompiani, Milano 2009.

[19] Donati A. – Garavini F., Nota al testo in Houellebecq M., Configurazioni dell’ultima riva, Bompiani, Milano 2015.