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L’assenza continua di Italo Svevo

di Andrea Galgano 1 marzo 2016

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svevo1Trieste era allora un terreno singolarmente adatto a tutte le coltivazioni spirituali. Posta al crocevia di più popoli, l’ambiente letterario triestino era permeato dalle colture più varie. Alla “Minerva” (la Società letteraria triestina) non si trattavano soltanto argomenti letterari paesani o nazionali. Le persone colte di Trieste leggevano autori francesi, russi, tedeschi, scandinavi ed inglesi. E nel piccolo ambiente si coltivava assiduamente e musica e pittura. Italo Svevo si trovò naturalmente attratto da tutti i cenacoli artistici e letterari della sua giovinezza1.

I. SVEVO

Ilmondo di Italo Svevo, estraneo alla letteratura e alla educazione linguistica classicistica, porta il respiro potente della Mitteleuropa, che nel suo dettato narrativo, poggia sulle inquietudini di Schopenhauer e di Nietzsche, preludendo alle ricerche freudiane e alla psicoanalisi 2.

Le lezioni disorganiche, apprese da autodidatta e segnate dai grandi maestri del realismo, della cultura del “negativo” e dell’agonia, rapportano la loro cifra sulla lucidità di analisi dei comportamenti umani, laddove, come scrive Gino Tellini3, la convivenza

con il “negativo” esclude (leopardianamente) i soccorsi della fede, laica o religiosa che sia, e significa pessimismo materialistico, lucida tolleranza, sentimento del relativo sul piano etico, politico, sociale. Ma la corrosione dei cardini stessi della vita borghese, tanto compenetrati nell’esistenza di Ettore Schmitz, è condotta con la personalissima leggerezza del distacco ironico, con l’inimitabile attitudine d’un io che riesce a guardarsi allo specchio senza infingimenti, esperto in quella «qualità particolare dell’ironia ebraica che viene praticata a spese dell’ebreo stesso» e che consiste nel «tentativo perpetuo di vedersi dal di fuori», nell’«astuzia» di «guardarsi con gli occhi degli altri»4.

Il “negativo” pervade, corrodendo, l’imprecisato istante inafferrabile, cosicché il presente, l’hic et nunc della realtà che si svolge, appare nella frattura svolta altrove, nel vizio rotto di una impossibilità e di una indifferenza per la vita che rivela l’essenza della vita intellettuale5 e l’indicibile insicurezza linguistica percepita nel vuoto riempito dal naturalismo e dall’origine tedesca, condizione di intraducibilità esistenziale e lessicale del suo tempo interiore, come il suo sogno dimentico del mondo:

Sai, ad onta che io sia tutto intento a divenire nel più breve tempo possibile un buon industriale e un buon commerciante io di pratico non ho che gli scopi. Resto sempre dinanzi al nuovo oggetto l’antico sognatore […]. Deve esserci nel mio cervello quache ruota che non sa cessare di fare quei romanzi che nessuno volle leggere e si ribella e gira vertiginosamente te presente e te assente […]. Devi pensare quanta violenza mi feci per saltare a piè pari nelle nuove occupazioni. Devo esserne intimamente scosso e quando senza chiamarlo mi viene fatto il romanzo, io che amai sempre tutto quello che feci resto stupito dinanzi all’evidenza delle mie immagini e dimentico il mondo intero. Non è l’attività che mi rende tanto vivo, è il sogno6.

O ancora come avviene in questa struggente lettera a Livia Veneziani, spesso, in Svevo, la dimensione proiettiva viene annullata o, invero, si cerca di racchiudere l’esiguo spazio del suo tempo in un enigma di mistero e divieto, che divengono strane subordinazioni e impedimenti al vero compimento di se stesso e alla vera ricchezza in fondo all’essere:

Devo ricordare che io mai invidiai la ricchezza altrui. Né la desiderai ma nell’ultimo tempo, dopo avvenimenti che tu conosci, ho molto cambiato in questo proposito. Assisto proprio alla fine dei miei sogni estetici, e questo, quando ci penso, trovo che sia male. Forse, se arrivo alla vecchiaia avrò tempo di pentirmene sentendo di avere offesa la mia intima natura, mancando al compito a cui per trentotto anni mi credetti nato. Il giorno in cui la vita pratica potrà esigere tale sacrificio non parlerò mai più di sogni. Mentre allorché ci unimmo, ti chiesi di sognare con me, ora ti chiederò di aiutarmi a restare fisso nella vita reale, con gli occhi spalancati, attento ai ladri.

È l’inetto, allora, che diventa la sua cifra esistenziale, il vizio per cui

quando nella vita accadono delle cose che possono significare un nuovo periodo, mi ripiego su me stesso e vedo passarmi dinanzi tutta la vita e la sua grande nullità in sé e tutta la vanità di tutti gli sforzi fatti in trentotto anni di esistenza […]. È la natura che mi fa essere così e tu non potrai mutarmi mai. […] Mi coglie il desiderio come una soffocazione. È sempre un desiderio iroso7.

Lo sguardo cieco verso il significato dell’esistenza, il vuoto abissale che coglie la soglia della definitività e del rapporto con la realtà, lo straniamento della libertà, il precipizio del nulla divengono il prezzo pagato alla sua scrittura, dove lo spezzamento memoriale delle origini e la colpevolezza impediscono la sorpresa dell’incontro e la condizione della conoscenza amorosa che spalanca e fa vivere. L’implosione della senilità che fa terminare ogni anelito, ogni spasimo di ricchezza vivente:

Iersera (te lo dissi subito) mi sentii vecchio vecchio e sentii te giovine, giovine. Giammai non avevo sentito la disparità nella nostra età in un modo tanto evidente e cominciai a pregarti con violenza di dirmi che anche trovandomi vecchio, vecchio, sempre vecchio, mi avresti amato tout de même. Non mi desti mica questa soddisfazione, carogna! Mi dicesti di non comprendere, di non capire, di non pensare e mi congedasti. Oh! capra! (20 gennaio 1896, Diario per la fidanzata)

Sostiene Sandro Maxia:

Oggi – scrive Musil – l’essenziale accade nell’astratto e l’irrilevante accade nella realtà […]. È così che lo scrittore smarrisce la differenza tra possibilità astratte e possibilità concrete,e comincia ad esaltare il mondo ampio della possibilità contro il mondo limitato e volgare della realtà […] assoluta storicità dell’esistenza come caratteristica ontologica dell’esistere umano […]. Corollario inevitabile di questa totale estraneità dell’uomo alla sua storia, di questo iato tra coscienza e azione sentito come data e immutabile condizione umana, è la solitudine, anch’essa ontologica, dell’uomo tra gli uomini […] nessun rapporto tra uomo e uomo è possibile, che non sia puramente convenzionale ed estrinseco8.

Aggiunge Irene Battaglini:

In Svevo la tirannia dell’Altro, il Sé Crudele, si profila come uno spettro mai raggiunto, mai vinto, mai neppure affrontato guardandolo in volto, e porta il nome sfrangiato ed esistenziale della depressione. Silvano Areti osservò che molte persone affette da depressione spendono le proprie vite “per qualcun altro” invece che per loro stessi. Egli chiamava queste “altre” persone per cui il paziente depresso vivrebbe, “L’altro dominante”. Questa figura non è necessariamente una persona: può essere un principio, un ideale, un’intuizione, l’immagine di sé. La depressione vera e propria si instaura quando i pazienti si rendono conto che la persona o l’ideale per cui hanno vissuto non risponderà mai adeguatamente a soddisfare le loro aspettative. Si potrebbe dire che per Sevo l’altro dominante è costituito dall’ideale borghese cui l’inetto “tende”. Una debacle che non può essere estinta, e che non trova mai un respiro né di sconfitta né di vittoria.9

Una vita (1892, il cui titolo originario era L’inetto) si presenta come romanzo tradizionale e si collega al motivo del fallimento del personaggio inetto, Alfonso Nitti, nel processo di inurbamento e nelle sue ambizioni letterarie. È l’atto di apertura di un contrasto raffermo e duro tra l’io e la società, laddove l’individuo trova la corrosa conclusione di una sconfitta, di uno scontro perduto e di una impossibilità di riscatto e salvezza nella sua mancata integrazione borghese:

Andrea Caspani, soffermandosi sul peculiare interesse di Svevo per il suo giovane personaggio, afferma: «Egli coglie infatti nella rincorsa sociale di Nitti una dialettica più profonda che si svolge all’interno dell’individuo integrato e consapevole dell’integrazione […]. Questa dialettica che è in Nitti come è in Svevo, è la dialettica fondamentale che guida il giudizio radicalmente critico di Svevo sulla società del suo tempo, è la consapevolezza dell’irriducibilità delle esigenze dell’io al “fascino” della “civilizzazione borghese” che pure proprio in questi decenni registra i suoi maggiori successi»10.

La negazione della volontà nella storia di Alfonso Nitti diviene la negazione del proposito di riscatto sociale. Le sue mansioni di impiegato in banca, addetto alla corrispondenza, si decentrano in una dimensione inibitoria di sogno. La scrittura diventa, pertanto, il trait d’union con un mondo permanente e irraggiungibile che congiunge il tentativo all’inazione, la potenza immaginativa alla sospensione del reale, la malattia che coinvolge il territorio psicologico e l’indebolimento dei nervi. La nevrosi di Alfonso è l’irrimediabile immaginazione impossibile:

Alfonso credeva di avere dello spirito e ne aveva di fatto nei soliloqui. Non gli era stato mai concesso di farne con persone ch’egli stimasse ne valessero la fatica, e, recandosi dai Maller, pensava che un suo sogno stava per realizzarsi. Aveva meditato molto sul modo di contenersi in società e s’era preparato alcune massime sicure sufficienti a tener luogo a qualunque altra lunga pratica. Bisognava parlare poco, concisamente e, se possibile, bene; bisognava lasciar parlare spesso gli altri, mai interrompere, infine essere disinvolto e senza che ne trapelasse sforzo. Voleva dimostrare che si può essere nato e vissuto in un villaggio e per naturale buon senso non aver bisogno di pratica per contenersi da cittadino e di spirito11.

Lasciata la madre al paese, si impiega in banca. Quando viene invitato a casa del banchiere Maller («Era un uomo forte, grasso, ma alto di statura. Lo si sentiva respirare talvolta, non affannosamente però. La testa era quasi calva, la barba intiera aveva folta, non lunga, di un biondo tendente al rosso. Portava occhiali con filetti d’oro. La sua testa aveva l’aspetto volgare per il color rosso carico della pelle»), fa la conoscenza di Macario, arrivista sicuro di sé e suo rovescio della medaglia, che riesce a districarsi con padronanza nella voracità del mondo borghese, ma soprattutto di Annetta, di cui si innamora e con la quale egli inizia una relazione affettiva, grazie alla comunanza di intenti e di interessi letterari. Annetta sconvolge la dimensione pseudo-onirica e crepuscolare del protagonista. Viene esibito subito il conflitto di confusione che avvolge Alfonso:

La donna era per lui la dolce compagna dell’uomo nata piuttosto per essere adorata che abbracciata, e nella solitudine del suo villaggio, ove il suo organismo era giunto a maturità, ebbe l’intenzione di serbarsi puro per porre ai piedi di una dea tutto se stesso. In città quest’ideale perdette ben presto qualunque influenza sulla sua vita per non vivere che nel suo proposito, un proposito vago che non aveva forza che quando non c’era bisogno di lotta.

L’intero rapporto con l’universo femminile lo destina a una agitazione che è perturbante. Il contatto con l’universo femminile, per Alfonso, si sospende in un simbolismo che vuole annullare ogni viltà.
Ogni sensualità, fintamente puritana, che egli mette in scena, dipanandosi nel territorio di un simbolismo materno e riparato, ma che, alla fine, diviene sicurezza sociale, sistemazione e posizione.
La densità espressiva che afferisce alla sfera femminile, dalla fugace Maria all’apparente stabilità di Francesca, ridesta l’inquietudine perplessa della sua frustrazione, l’ambizione di voler essere qualcosa che non potrà essere e, in particolar modo, il caricamento ideale di ciò che è inappagabile.
La catalogazione ambientale e interiore, che Svevo mette in atto, diventa ciò che segna il romanzo, dove la mediocrità, la meschinità e l’aspettativa franta diventano la sorgente spezzata della narrazione, il suo involucro senza destinazione, la sua tappa rigida, la sua paternità perduta e dimenticata:

Centro dei suoi sogni era lui stesso, padrone di sé, ricco, felice. Aveva delle ambizioni di cui consapevole a pieno non era che quando sognava. Non gli bastava fare di sé una persona sovranamente intelligente e ricca. Mutava il padre, non facendolo risuscitare, in un nobile e ricco che per amore aveva sposato la madre, la quale anche nel sogno lasciava quale era, tanto le voleva bene. Il padre aveva quasi del tutto dimenticato e ne approfittava per procurarsi per mezzo suo il sangue turchino di cui il suo sogno abbisognava12.

Ben presto la situazione precipita perché sul punto di sposarla, Alfonso fugge e ritorna al paese di origine per assistere la madre, che già gravemente malata muore. Tornato a Trieste, sembra volersi ritirare in campagna, per distogliersi dalla progressiva e avviluppante degradazione cittadina, ma ancora una volta, la sostanzia di questo cambiamento è illusoria e inconsistente. Venuto a sapere del fidanzamento della volubile Annetta (questa non intende perdonarlo) con Macario (quest’ultimo verrà sfidato persino a duello e dopo una balbettante e infinita serie di equivoci) sceglie di togliersi la vita.
Un suicidio13 stile Ortis ma che ne diventa l’antitesi. Lo sceglie come miserabile fuga, exemplum del disadattamento alla vita che significa, in definitiva, abbandonarla e uccidere ogni mistificazione: per incapacità, per difficoltà a comprenderne i meccanismi, e perché la lotta è senza risoluzione e il suo doloroso epilogo «segna la fine antieroica, meritata e senza onore, di un inconsapevole camuffatore di se stesso che, messo alle strette, preferisce orgogliosamente disertare la vita»14:

Che cosa poteva sperare? Gli rimaneva soltanto una via per isfuggire a quella lotta in cui avrebbe fatto una parte miserabile e ridicola, il suicidio. Il suicidio gli avrebbe forse ridato l’affetto di Annetta. Come in quell’istante non l’aveva amata giammai. Non si trattava più d’interesse né di sensi. Quanto più egli l’aveva vista allontanarsi da lui tanto più l’aveva amata; ora che definitivamente perdeva ogni speranza di riconquistare quel sorriso, quell’affettuosa parola, la vita gli sembrava incolore, nulla. Una volta scomparso, Annetta non avrebbe più avuto il ribrezzo della paura per lui, per il suo ricordo, ed era tutto quello ch’egli poteva sperare. Non voleva vivere dovendo continuare ad apparirle quale un nemico spregevole sospettato di voler danneggiarla e farle pagare a caro prezzo gli stessi favori da essa accordatigli. Non aveva pensato mai al suicidio che col giudizio alterato dalle idee altrui. Ora lo accettava non rassegnato ma giocondo. La liberazione! Si rammentava che fino a poco prima aveva pensato altrimenti e volle calmarsi, vedere se quel sentimento giocondo che lo trascinava alla morte non fosse un prodotto della febbre da cui poteva essere posseduto. No! Egli ragionava calmo! Schierava dinanzi alla mente tutti gli argomenti contro al suicidio, da quelli morali dei predicatori a quelli dei filosofi più moderni; lo facevano sorridere! Non erano argomenti ma desiderî, il desiderio di vivere. Egli invece si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle migliori circostanze aveva sofferto più che altri nelle più dolorose. L’abbandonava senza rimpianto. Era la via per divenire superiore ai sospetti e agli odii. Quella era la rinunzia ch’egli aveva sognata. Bisognava distruggere quell’organismo che non conosceva la pace; vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo15.

Scrive Gino Tellini:

Alfonso, verghianamente il «vinto», non è né un eroe sconfitto né una vittima innocente che suscita pietà (come accade di preferenza in Verga), bensì – giusto il titolo originario – «un inetto». Un inetto però smanioso, pieno di progetti, di calcoli, di iniziative (anche aspro e violento con Annetta), ma iniziative sbagliate: un ambizioso velleitario fallito, non rassegnato alla sorte del «travetto», privo delle «ali necessarie» per «piombare a tempo debito sulla preda», come di lui dice il cugino di Annetta, l’avvocato Macario16.

In Senilità, le tensioni psico-morali, la lotta, il confronto tra desiderio e capacità di vivere, tra realtà e volontà, la sfumatura della rappresentazione realistica tende ad assorbirsi e mette in scena un quartetto, costituito dal letterato inetto, nevrotico e contraddittorio, che è Emilio Brentani, descritto in tutta la sua ombra nascosta («[…] egli traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità. A trentacinque anni si ritrovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza17»), il suo amico esuberante, artista fallito, ma grande seduttore, Stefano Balli («era un uomo alto e forte, l’occhio azzurro giovanile su una di quelle faccie dalla cera bronzina che non invecchiano: unica traccia della sua età era la brizzolatura dei capelli castani, la barba appuntata con precisione, tutta la figura corretta e un po’ dura. Era talvolta dolce il suo occhio da osservatore quando lo animava la curiosità o la compassione, ma diveniva durissimo nella lotta e nella discussione più futile18»), Angiolina che riporta l’autobiografia, densa in tutta la sua didascalia chiara, nel romanzo («una bionda dagli occhi azzurri grandi, alta e forte, ma snella e flessuosa, il volto illuminato dalla vita, un color giallo di ambra soffuso di rosa da una bella salute, camminava accanto a lui, la testa china da un lato come piegata dal peso del tanto oro che la fasciava, guardando il suolo ch’ella ad ogni passo toccava con l’elegante ombrellino come se avesse voluto farne scaturire un commento alle parole che udiva19»), e sua sorella Amalia, dipinta in tre fugaci attimi impalpabili («lunga, secca, incolore»). Da una parte, la coppia senile degli sconfitti e degli indecisi dell’esistenza, e dall’altro l’inquietante e sana vitalità, disegnata in uno spettacolo corporeo, di Angiolina e di Balli.
Emilio Brentani, rovescio e antitesi dello Sperelli dannunziano, esprime la vorace esasperazione del silenzio, l’incomprensione, la gravità, l’inerzia e il limbo di una brama insoddisfatta:

A trentacinque anni si trovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza. La carriera di Emilio Brentani era più complicata perché intanto si componeva di due occupazioni e due scopi ben distinti. Da un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni, egli traeva giusto il denaro di cui la famigliuola abbisognava. L’altra carriera era letteraria e, all’infuori di una riputazioncella, – soddisfazione di vanità più che d’ambizione – non gli rendeva nulla, ma lo affaticava ancor meno. Da molti anni, dopo di aver pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non aveva fatto nulla, per inerzia non per sfiducia20.

Quella vanità inerte, sospinta dall’accumulo di piaceri e forme, ossessionato da Angiolina e in cerca di un involucro alla sua immaginazione sbigottita e alla sua misura delle cose, l’ozio geometrico di Brentani si esplica in una prudenza borghese:

Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso così: -T’amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d’accordo di andare molto cauti-. La parola era tanto prudente ch’era difficile di crederla detta per amore altrui e un po’ franca avrebbe dovuto suonare così:- Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia21.

Commenta Giovanni Fighera:

Brentani si inganna, non può instaurare una relazione senza creare un legame e alla fine ritornerà solo, lascerà Angiolina, dopo aver perso la sorella Amalia, che rappresenta ancor di più l’esasperazione dell’incapacità a vivere. La sorella muore alcolizzata, senza che il fratello si avveda della sua inquietudine e tristezza, senza aver neppure provato l’avventura dell’amore, ma avendo solo vagheggiato in sogno la possibilità di un legame con l’affascinante, quanto superficiale e impossibile, scultore Stefano Balli. La senilità, cioè una vecchiaia precoce, propria di chi pensa di saper già tutto della vita e dell’amore e che perciò la realtà non abbia più niente da insegnare, si impadronisce di Brentani, che, dopo la vicenda amorosa con Angiolina, ritorna allo sguardo lucido, intellettuale, cinico e triste che aveva prima22.

Il ripiegamento culturale di Brentani, dunque, rappresenta l’infecondo istante evasivo di una materia inerte, di una obnubilata tensione relazionale che evidenzia una condizione di dramma imbrigliato di un io senza giudizio, rappreso in «una grande diffidenza e un grande disprezzo dei propri simili».
L’allontanamento dall’impegno esistenziale, per dedicarsi ai doveri familiari e sociali, impongono ad Emilio, nell’incontro con Angelina, il dominio del caos irruento, generato dalla sua figura, attraverso la religione («oh! la dolce cosa ch’era la religione! Di casa sua e dal cuore d’Amalia egli l’aveva scacciata […], ma ritrovandola presso Angiolina, la salutò con gioia ineffabile. Accanto alla religione delle donne oneste, gli uomini sul muro gli parvero meno aggressivi23»), i topoi dell’idealizzazione educativa e della sottomissione, toccando persino il vertice basso della sensualità sublimata:

gli venne la magnifica idea d’educare lui quella fanciulla. In compenso all’amore che ne riceveva, egli non poteva darle che una cosa soltanto: La conoscenza della vita, l’arte di approfittarne. Anche il suo era un dono preziosissimo, perché con quella bellezza e quella grazia, diretta da persona abile come era lui, avrebbe potuto essere vittoriosa nella lotta per la vita. così, per merito suo, ella si sarebbe conquistata da sé la fortuna ch’egli non poteva darle! Subito le volle dire una parte delle idee che gli passavano per il capo. Cessò di baciarla e d’adularla e, per insegnarle il vizio, assunse l’aspetto austero di un maestro di virtù […]. Per una sentimentalità da letterato il nome d’Angiolina non gli piaceva. La chiamò Lina; poi, non bastandogli questo vezzeggiativo, le appioppò il nome francese Angèle e molto spesso lo ingentilì e lo abbreviò in Ange24.

È la sottomissione del reale che si invischia nel possesso, nello devastato e abnorme amor sui e in quella invasiva gelosia che porta all’annientamento di ogni dimensione integra di umanità.
Scrive Novella di Nunzio:

Ora, va notato che, come Alfonso, anche Emilio è indubbiamente un sognatore; tuttavia è proprio questo elemento in comune che mette in luce in modo ancora più esplicito la differenza tra le due figure, e dunque tra l’inettitudine e la senilità. Infatti, se nel caso di Alfonso l’inetto e il sognatore si pongono sullo stesso piano, nel caso di Emilio la senilità e la tendenza al sogno appaiono in un rapporto contraddittorio per cui l’una esclude l’altra: «e dire che poche ore prima egli aveva pensato d’aver perduto la capacità di sognare. Oh! la gioventù era tornata! Correva le sue vene prepotente come mai prima e annullava qualunque risoluzione che la mente senile avesse fatta». In presenza del sogno, dunque, la senilità scompare, trasformandosi in giovinezza.
Alla differenza tra inettitudine e senilità in rapporto al sogno corrisponde poi una differenza anche nell’entità del sogno stesso, per cui ancora una volta si nota l’opposizione tra l’orientamento delle visioni di Alfonso, rivolte verso la propria persona con l’obiettivo di ampliarne sensibilmente la portata, e l’orientamento delle visioni di Emilio, rivolte al mondo esterno con l’obiettivo di limitarne il disordine25.

Lo stato di malattia di Emilio è morbus moriendi, che dapprima, attraverso il cinismo e la concezione di ineluttabilità senza sostanza del destino, tenta di estirpare la sua inettitudine, prosciugando l’umanità degli altri che gli stanno vicino e facendogli mantenere il bisogno di assolversi, di rendere, in qualche modo, silente e silenziato ogni rimorso possibile, attraverso la dimenticanza, la tabula rasa della sua coscienza e della sua tranquillità insolente e, infine, dell’acquietamento del desiderio («Erano passati per la sua vita l’amore e il dolore e, privato di questi elementi, si trovava ora col sentimento di colui cui è stata amputata una parte importante del corpo. Il vuoto però finì coll’essere colmato. Rinacque in lui l’affetto alla tranquillità, alla sicurezza, e la cura di se stesso gli tolse ogni altro desiderio»):

L’immagine della morte è bastevole ad occupare tutto un intelletto. Gli sforzi per trattenerla o per respingerla sono titanici, perché ogni nostra fibra terrorizzata la ricorda dopo averla sentita vicina, ogni nostra molecola la respinge nell’atto stesso di conservare e produrre la vita. Il pensiero di lei è come una qualità, una malattia dell’organismo. La volontà non lo chiama né lo respinge. Di questo pensiero Emilio lungamente visse. La primavera era passata, ed egli non se n’era accorto che per averla vista fiorire sulla tomba della sorella. Era un pensiero cui non andava congiunto alcun rimorso. La morte era la morte; non più terribile per le circostanze che l’avevano accompagnata. Era passata la morte, il grande misfatto, ed egli sentiva che i propri errori e misfatti erano stati del tutto dimenticati […].
Quando la sua commozione s’affievolì, gli sembrò di perdere equilibrio. Corse al cimitero. La strada polverosa lo fece soffrire, e indicibilmente, il caldo. Sulla tomba prese la posa del contemplatore, ma non seppe contemplare. La sua sensazione più forte era il bruciore della cute irritata dal sole, dalla polvere e dal sudore. A casa si lavò e, rinfrescata la faccia, perdette ogni ricordo di quella gita. Si sentì solo, solo. Uscì col vago proposito d’attaccarsi a qualcuno, ma sul pianerottolo dove un giorno aveva trovato il soccorso invocato, ricordò che poco distante poteva trovare una persona che gli avrebbe insegnato a ricordare, la signora Elena. Egli – se lo disse salendo le scale egli non aveva dimenticata Amalia, la ricordava anche troppo, ma aveva dimenticata la commozione della sua morte. Invece che vederla rantolare nell’ultima lotta, la ricordava quando triste, spossata, con gli occhi grigi lo rimproverava del suo abbandono, oppure quando, sconfortata, riponeva la tazza preparata per il Balli o, infine, ricordava il suo gesto, la sua parola, il suo pianto d’ira e di disperazione. Erano tutti ricordi della propria colpa. Bisognava coprire il tutto con la morte d’Amalia; la signora Elena gliel’avrebbe rievocata. Amalia stessa era stata insignificante nella sua vita. Non ricordava neppure ch’ella avesse dimostrato il desiderio di riavvicinarsi a lui quando egli, per salvarsi da Angiolina, aveva tentato di rendere più affettuosa la loro relazione. La sua morte sola era stata importante per lui; quella almeno l’aveva liberato dalla sua vergognosa passione26.

Commenta Gino Tellini:

Come Alfonso non è Jacopo Ortis, né un eroe sconfitto né una vittima innocente, ma un mediocre pronto al compromesso più avvilente, un «travetto» responsabile della propria dolente (non tragica) fine ingloriosa, così Emilio non è l’inetto reso cieco dall’amore, l’idealista incantato, estasiato, tradito e spinto alla perdizione da una demoniaca malafemmina, bensì un mancato superuomo di provincia, arrovellato dal tarlo della gelosia, un sofista accanito, esperto del bleffare con se stesso e nel fabbricarsi paraventi protettivi, un modesto esteta dannunziano che vive nella doppiezza, pavido e timoroso, ma che riesce con gli altri a essere senza pietà27.

Dopo questi romanzi, Svevo sente il pericolo del fallimento, dell’inessenzialità, e il silenzio dell’appello per scomparire nel cielo grigio opaco e impiegatizio dove riuscire a dire io, arrivando a credere che vent’anni di silenzio siano la cartina al tornasole della verità, la lampante nettezza del detrito che rimane e dell’anagrafe di un passaggio, come scrive nel Soggiorno londinese (1926):

L’insuccesso di Senilità che pubblicai a 37 anni mi fece risolvere di abbandonare del tutto la letteratura. M’ero sposato, avevo avuta una figlia e bisognava diventare serii. Non solo abbandonai la Banca che pur mi lasciava il tempo per pensare e scrivere e mi misi in un’industria che mi caricava di grandi responsabilità e m’imponeva un’attività illimitata, ma per non ricadere una terza volta nella letteratura, sentendo che qualche cosa in me domandava un’esplicazione artistica, dedicai le poche ore che mi restavano libere allo studio del violino28.

Gli anni di allontanamento recano il mistero di un distacco, vincendo i limiti di una condizione che annuncia una rinuncia ma dispone un orizzonte che si scopre ineludibile:

Derivava la necessità della rinunzia. Il silenzio che aveva accolto l’opera sua era troppo eloquente. La serietà della vita incombeva su lui. Fu un proposito ferreo. Gli fu più facile di tenerlo perché in quel torno di tempo entrò a far parte della direzione di un’industria alla quale era necessario dedicare innumerevoli ore ogni giorno. In complesso finì con l’avere una vita più felice di quanto avesse temuto. In gran parte si vide esonerato dal tedioso lavoro d’ufficio e visse coi suoi operai in fabbrica. Dapprima a Trieste, poi a Murano presso Venezia, e infine a Londra. Restavano certamente delle ore libere e lo Svevo racconta volentieri che non poteva dedicarsi al piacere di scrivere, perché bastava un solo rigo per renderlo meno adatto al lavoro pratico cui giornalmente doveva attendere. Subentrava subito la distrazione e la cattiva disposizione. Trovò il modo di occupare anche quelle ore eliminando ogni pericolo. Si dedicò con grande fervore allo studio del violino che nella giovinezza aveva suonato discretamente. (Profilo autobiografico).

L’ «imo del proprio essere» dove «un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale di qualche cosa che sia o non sia il puro pensiero, che sia il puro pensiero, che sia o non sia sentimento, ma bizzarria, rimpianto, un dolore, qualche cosa di sincero, anatomizzato» sembra essere eliminato. Ma Svevo sembra voler tentare di arrivare al «complesso del proprio essere» attraverso l’autoanalisi che possa decifrare, scandagliare e, in definitiva, fargli abitare se stesso:

Dicembre 1902. Noto questo diario della mia vita di questi ultimi anni senza propormi assolutamente di pubblicarlo. Io, a quest’ora e definitivamente ho eliminata dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. Io voglio soltanto attraverso a queste pagine arrivare a capirmi meglio. L’abitudine mia e di tutti gl’impotenti di non saper pensare che con la penna alla mano (come se il pensiero non fosse più utile e necessario al momento dell’azione) mi obbliga a questo sacrificio. Dunque ancora una volta, grezzo e rigido strumento, la penna m’aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere. Poi la getterò per sempre e voglio saper abituarmi a pensare nell’attitudine stessa dell’azione: In corsa, fuggendo da un nemico o perseguitandolo, il pugno alzato per colpire o per parare. (Pagine di diario).

La voracità di allontanamento dai propri fantasmi, che si innerva nella stesura dei primi romanzi, trova ora il desiderio di appropriarsi della coscienza, volendo sostare nel fondo di ciò che accade e la scrittura diventa, allora, l’attracco tremolante dell’autoterapia. La psicoanalisi rappresenta l’esperienza di uno sbocco che nell’epoca triestina raggiunge l’apice di un interno di curiosità e distacco:

Il secondo avvenimento letterario e che allo Svevo parve allora scientifico fu l’incontro con le opere del Freud. Dapprima le affrontò solo per giudicare delle possibilità di una cura che veniva offerta ad un suo congiunto. Per vario tempo lo Svevo lesse libri di psicanalisi. Lo preoccupava d’intendere che cosa fosse una perfetta salute morale. Nient’altro. Durante la guerra, nel 1918, per compiacere un suo nipote medico che, ammalato, abitava da lui, si mise in sua compagnia a tradurre l’opera del Freud sul sogno. La compagnia del dotto medico (che però non praticava la psicanalisi) rese quella traduzione più interessante. Fu allora che lo Svevo talora si dedicò (solitario, ciò ch’è in perfetta contraddizione alla teoria e alla pratica del Freud) a qualche prova di psicanalisi su se stesso. Tutta la tecnica del procedimento gli restò sconosciuta, cosa della quale tutti possono accorgersi leggendo il suo romanzo». (Profilo autobiografico).

Il passaggio a La coscienza di Zeno (1923) si impone come liberazione fantasmatica dalle velleità di Alfonso Nitti e dalle frammentazioni superomistiche di Emilio Brentani e «c’è bisogno», scrive Gino Tellini, «di una lunga meditazione, di quest’incremento d’esperienza umana e intellettuale che si decantano nel periodo del cosiddetto “silenzio”, perchè dalle spoglie di Alfonso e di Emilio si stacchi, aerea e libera, l’inedita figura di Zeno»29.
Si passa alla prima persona che scandisce il nuovo tempo disgregato e memoriale, in cui Zeno Cosini diventa pagina autobiografica e nevrotica ossessiva, su invito del suo psicoanalista, il dottor S. (da molti associato al seguace di Freud, Edoardo Weiss e solo ultimamente allo psicologo ginevrino Charles Baudouin30), per fini terapeutici. Egli adempie un vuoto e costituisce uno spazio innocente, dove la scrittura, come annota Gioanola, è «il contrario dell’analisi perché è la custode delle resistenze e delle reticenze, quelle che fanno la “malattia” ma nutrono la genialità, generano dolore ma anche capacità di sublimazione creativa: attribuire al dottor S. la cura dello scrivere è un modo per fare di un uomo senza qualità uno scrittore e di un analista un imbecille, secondo tutte le migliori intenzioni dell’autore»31:

Zeno si presenta come uno che scrive la propria vita controvoglia, per ordine medico: quindi per uno scopo prevalentemente fisico e non morale, sebbene poi il senso della malattia fornisca una delle principali immagini che egli ha della propria psiche: sia cioè una vera e propria affezione morale. E poi il diario è pubblicato, non da Zeno, ma dal suo medico: di conseguenza Zeno è, almeno in parte, irresponsabile di ciò che noi leggiamo. Di più: il medico si è indotto a rendere pubblico questo diario psicoanalitico per punire il cliente, scettico verso la cura, di non essersi confessato con la dovuta serietà. […] Zeno è dunque . per lo meno nell’impianto del libro, che è quello che gli dà tono – pressoché assente da ciò che narra. Se può prendere coscienza di sé in maniera molto disincantata, come accade al vecchio che ripercorra i giovanili errori questa maniera risulta nel contempo molto rasserenata, ricca di possibilità ottimistiche e di ravvedimenti che più non dolgono. Eppure l’ottimismo di Zeno riesce sempre sofistico. Proprio quando sembra concludere che a conti fatti lui, il presunto malato, è più sano che tanti sani, lui, presunto anormale, è più normale di tutti i sedicenti uomini normali – proprio allora, dietro la conclusione apparente, serpeggia quella vera: che cioè la vita è sempre andata a posarglisi dove lui non prevedeva, dove i suoi calcoli e i suoi piani non lo aspettavano. La vita, quando lui crede di averla colta in un punto preciso, si incarica sempre di dargli un cazzotto cieco e sconcertante. Proprio come fa suo padre, già fuori di sé per l’agonia, allorchè lui si pensava aver toccato infine il sublime momento, in cui i difficili rapporti tra padre e figlio si spogliano dei loro aspri e incomunicabili pudori, per semplificarsi in chiara intelligenza di affetti. L’eroe di Svevo è generato dalla sensazione fondamentale di uno scompenso tra l’orientamento che l’individuo dà alla propria vita, e la curva che poi la vita descrive: incarna questo difetto, questo errore di calcolo e, con le sue vicende, viene a testimoniarlo e a patirlo tra il gioco delle sorti umane32.

Ma Zeno si sottrae per “antipatia”, parodiando la terapia psicoanalitica, evitando di rapportarsi al medico e al suo trattamento, considerato inutile. «Per Zeno il compito della psicoanalisi», sostiene Giuseppe Panella, «non dovrebbe essere la ricostruzione (storico-psicologica) del passato bensì la preparazione del soggetto a un futuro diverso. In sostanza, per Zeno, la psicoanalisi […] è una forma di reinvestimento dell’Io che dovrebbe comportarne non tanto (o soltanto) la rimozione delle stratificazioni nevrotiche di senso che impediscono una presa di possesso più salda sulla vita e sulla propria soggettività quanto il ritorno indietro ad una condizione pressochè edenica, una forma di ripetizione del suo passato più felice e più ingenuo33».
Il medico, per vendetta, decide di pubblicare quelle memorie, come egli stesso scrive nella prefazione, figurando, in Zeno, «una pura proiezione di odio, per questo appare tanto “caricato”, al punto da non possedere nessuna delle qualità “realistiche” degli altri personaggi e da figurare soltanto, molto fugacemente, alla fine del romanzo come una specie di macchietta, di caricatura appunto, valida a siglare il concetto di “psico-analisi” del protagonista e del suo autore34»:

Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico–analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica. Di psico–analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico–analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico–analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie. […]35.

Mario Lavagetto, così commenta:

Il dottor S. […] mostra una grande incertezza nel definire il testo che si trova tra le mani e che si accinge a pubblicare con intenzioni vendicative: parla prima di novella, poi di autobiografia, poi di memorie. Non è soltanto la sua scarsa familiarità con i “generi letterari” ad essere messa in causa, è anche l’oggettiva resistenza ad ogni classificazione dei materiali che si trova tra le mani36.

Inserendo questo punto e indagando la parte poco veritiera di Zeno, il romanzo appare, nella presentazione, come frutto di una detrazione terapeutica, di una estorsione per fini individualistici. Viene tolta con forza la vita da quella pagina e pubblicata a tradimento e contro ogni volontà. Ma l’alibi, persino linguistico, messo in scena da Zeno, si inserisce in un processo di finzione scenica che invade ogni processo memorativo, attraverso l’analisi che permette di sciogliere la realtà, pur manifestandosi in modo disorganico e disarticolato: «La novità assoluta della Coscienza sta nella compresenza di un doppio linguaggio di narrazione. C’è un linguaggio portatore di fatti è c’è un secondo linguaggio che dice “no”: alla discorsività instaurata, alla costruzione di un (solo) senso»37, ed è il suggerimento dello psicoanalista ad essere preso alla lettera:

Zeno […] ha recitato con dimessa abilità la sua parte, arrivando a tremare e piangere di commozione man mano che procedeva nel suo racconto e che, a forza di produrlo, finiva col crederci. Gli aneddoti che ha raccontato – “veri” o “falsi” che siano – si sono trasformati in fatti incontestabili della sua vita, a cui sarebbe singolare che lui, per primo, si rifiutasse di prestare fede»38.

Un narratore che manipola la diagnosi nel suo territorio consueto e il medico, che “azzera” la deontologia e pubblica la sua opera per vendetta. Zeno fallisce e trionfa nel fallire. È un personaggio in contraddizione con la realtà e con se stesso, che appunto, è in grado di nascondere la finzione, mentendo e proclamando la sua coscienza intermittente:

Il dottore presta una fede troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda. […] Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi39.

Il limbo memoriale si accompagna alla minuziosa e dettagliata patologia di ordine conoscitivo, offerta come gioco velenoso, come malattia e spasimo ironico che chiama il lettore ad accostarsi al suo fianco per tentare di scoprire l’origine di ogni movimento, le sue anguste strade comportamentali, il grido di definitività e inafferrabilità non edificanti e ambigue:

Parla della «messa in scena della bugia nel romanzo». Nulla di più facile, se il narratore è onnisciente e se può contrapporre la sua parola vera a quella falsa di uno dei suoi personaggi. La menzogna in tal caso è precisamente localizzata e circoscritta da ciò che la contraddice e la denuncia. Il lettore dispone di una segnaletica certa: gli basta abbandonarsi alla voce narrante che detiene, per statuto, il monopolio della verità. Il bugiardo non ha modo di difendersi40.

La dualità di Zeno si esprime nelle circostanze del rapporto con la realtà, subito passivamente, con scarsa libertà di azione: il vizio del fumo e di tutti i tentativi per liberarsene, la mancata scelta universitaria, il matrimonio, contro ogni volontà, con la figlia del Malfenti, brutta e strabica, l’agonia del padre, Carla, che diventa il pretesto di avere un’amante e, infine, il rapporto ricolmo di antipatia con il cognato Guido Speier (alla sua morte, Zeno finirà persino per sbagliare funerale recandosi a quello di uno sconosciuto defunto).
Rapportandosi alla psicoanalisi, Zeno finisce non solo per sottrarvisi, interrompendo la terapia ma terminerà anche lo svelamento delle sue memorie e delle immagini, culminando in un transfert di odio verso il suo analista: «L’ho finita con la psico–analisi. Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima. Non ho ancora congedato il dottore, ma la mia risoluzione è irrevocabile. Ieri intanto gli mandai a dire ch’ero impedito, e per qualche giorno lascio che m’aspetti. Se fossi ben sicuro di saper ridere di lui senz’adirarmi, sarei anche capace di rivederlo. Ma ho paura che finirei col mettergli le mani addosso»41.
Non trova giovamento anzi sente di peggiorare. La realtà è diventata indocile, senza sbocco, inferma, come la vita malata, attributo inguaribile e inscindibile dell’uomo:

La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati. […] Qualunque sforzo di darci la salute è vano42.

È la malattia del pensiero che appare isolato a se stesso e depersonalizzante, estraniante all’esperienza con il reale, che evade la domanda di compiutezza e di destino, che gioca con la psicoanalisi, la usa come espediente, accerchiandola e lasciando predominare sempre il passo falso, l’equivoco, lo scarto, che invece di portare al dramma estremo, si apre all’umorismo, così come i continui propositi e l’esigenza di significato rimandata e inutilmente ricominciata. Egli diventa il personaggio che «concresce su se stesso, che si fa nel corso del romanzo […]. Si potrebbe anzi arrivare a dire che Zeno non è propriamente un personaggio, ma uno spazio narrativo che si apre tra l’io raccontato e l’io che racconta e giudica, e che viene colmato dall’autoanalisi degli stati di coscienza»43:

Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato: «Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!». Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. […] Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo. […] Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ più lontano44.

Commenta Gino Tellini:

Peccatore non redento né pentito ma consapevole; uomo di negozio capzioso e sofistico, abulico e irresoluto, ma diplomaticamente fornito di buon senso; vizioso impavido ma lucido e perciò non presuntuoso né velleitario, Zeno rinuncia a ciò che non può ottenere, scansa gli ostacoli e «gli angoli contundenti» che non mancano sul suo cammino, si guarda e si amministra con ironia, con stupefacente sentimento dell’imprevedibile provvisorietà dell’esistere, con quel sorriso metodico che è luce dell’intelletto, ora arioso ora umoristico, ora doloroso e corrosivo45.

Dentro questo motore, come i «cinquantaquattro muscoli» che sorprendono Zeno dinanzi al suo claudicante compagno di scuola Tullio, si gioca la partita tra il dato della realtà e l’esperienza, nella schizofrenica patologia conoscitiva dei particolari, nello smarrimento della somma dei fattori che costituiscono le cose e, infine, nello scontro tra volontà che è figlia di continui lapsus, di atti mancati e di ironia instabile:

Sono decine i lapsus e gli atti mancati che attraversano l’universo di Zeno e che rendono inaffidabili le sue parole: la psicoanalisi è servita per sfrattarlo dal suo discorso ed egli non è più – in modo conforme ai disegni di Freud – “padrone in casa propria”. Ma nessuno di fronte alle sue “memorie” – nemmeno la psicoanalisi – possiede le chiavi per entrare in quella casa. Pagina dopo pagina, ci si trova costretti a non sapere niente altro che quanto Zeno ha raccontato; magari a sospettare e a sapere con quasi certezza che Zeno ha mentito, senza tuttavia avere nulla da sostituire a quella menzogna […] La sua storia può essere del tutto inventata46.

L’Io diventa straniero a stesso in un meccanismo di impulsi, di «vogliuzze». Zeno-Xenos è determinato da un inciampo inerte, che solo nella malattia, riesce a sperimentare la natura di se stesso, per «difendersi dal dato, difendersi dal proprio desiderio»47:

[…] veramente Zeno inciampa nelle cose. Ma fu già riconosciuto che abbandonando Zeno dopo di averlo visto muoversi si ha l’impressione evidente del carattere effimero e inconsistente della nostra volontà e dei nostri desideri. Ed è il destino di tutti gli uomini d’ingannare se stessi sulla natura della propria preferenza per ottenere il dolore dei disinganni che la vita apporta a tutti.

Robbe-Grillet, ne La Conscience malade de Zeno (1954), scrive:

Il tempo di Zeno è un tempo malato. […] Quando pronuncia una frase in una conversazione, per quanto semplice sia, nello stesso istante si sforza di ricordarsi un’altra frase, che ha detto un po’ di tempo prima. Se ha a disposizione solo cinque minuti per compiere un’azione importante, li perde a calcolare che ne avrebbe avuto bisogno di più per condurla a buon fine. Decide di smettere di fumare, perché il tabacco è la causa di tutti i suoi mali; e subito il suo tempo viene diviso e divorato dalle date successive e sempre rinviate dell’ “ultima sigaretta”48.

Vita, salute, malattia, analisi, cura, scrittura, divengono le tappe di una formidabile tensione che tenta l’ultimo congedo dai suoi frammenti, con una grandiosa e cupa visione finale che rovescia l’autoanalisi dell’individuo borghese verso l’apocalisse distruttiva dell’intero genere umano, descritta attraverso un umorismo escatologico:

Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie49.

L’immagine partita dal paradosso, ritorna a Darwin, a Freud (la lotta tra autocoscienza e desiderio), ai rapporti tra l’incorreggibilità sostanziale del genere umano e la crescita potenziale e progressiva della tecnologia e dei suoi strumenti.
Ecco Svevo cosa scrive ad Eugenio Montale, il 17 febbraio 1926, compiendo il suo arcuato e sospeso filtro di biografia e coscienza:

Sento il bisogno di dirle che non credo che la differenza fra la Coscienza e i due romanzi precedenti debba ricercarsi nell’influenza di letteratura modernissima. Io ero molto ignorante di tale letteratura quando scrissi perché dopo l’insuccesso di Senilità io proprio m’interdissi la letteratura. Usai persino dell’accortezza per impedirmi di ricascarci: studiai il violino e gli dedicai per vent’anni tutto il tempo che avevo libero. Lessi molti romanzi italiani e dei francesi gli scrittori maggiori della mia epoca. So l’inglese ma non abbastanza per leggere facilmente l’Ulisse che sto leggendo lentamente ora con l’aiuto di un amico. In quanto al Proust, m’affrettai a conoscerlo quando l’anno scorso il Larbaud mi disse che leggendo Senilità (ch’egli come Lei predilige) si pensa a quello scrittore». E ancora: «È vero che la Coscienza è tutt’altra cosa dai romanzi precedenti. Ma pensi ch’è un’autobiografia e non la mia. Molto meno di Senilità. Ci misi tre anni a scriverlo nei miei ritagli di tempo. E procedetti così: Quand’ero lasciato solo cercavo di convincermi d’essere io stesso Zeno. Camminavo come lui, come lui fumavo, e cacciavo nel mio passato tutte le sue avventure che possono somigliare alle mie solo perché la rievocazione di una propria avventura è una ricostruzione che facilmente diventa una costruzione nuova del tutto quando si riesce a porla in un’atmosfera nuova. E non perde perciò il sapore e il valore del ricordo, e neppure la sua mestizia. […] Sapevo la difficoltà di far parlare il mio eroe direttamente al lettore in prima persona ma non la credevo insormontabile. Necessariamente tale sforzo doveva rendere questo romanzo differente dagli altri. […] Certo se avessi la fortuna di vivere sì a lungo da poter scrivere qualche cosa d’altro, io non m’imbarcherei più in una simile avventura. Ci vuole altra abilità della mia ed io so di uno o due punti dove la bocca di Zeno fu sostituita dalla mia e grida e stuona (Lettera a Montale, 17 febbraio 1926).

Il dialogo degli “eroi” sveviani si dipana oltre la zona sotterranea dell’inconscio, non è possibile recuperare la disaggregata sperdutezza e vastità del passato “vuoto”, tutto è conclamato in «un inesorabile, perpendicolare presente che crolla come una tromba d’aria in un passato senza recupero. Un presente pratico, che […] bisognerebbe colmar di vita efficiente, di attività produttiva», ma che essi «colmano di uno sterile almanaccare e frattanto esso è già perduto, è divenuto un inutile passato vuoto di veri contenuti […]: un passato dunque irrecuperabile perché non contiene nulla di concreto»50, perché sostiene Mario Lavagetto:

È proprio questa “epica primitiva” […] che sembra essere sfuggita a Zeno come a Ulrich; sono proprio quest’ordine e questo modello, questo tempo posseduto, suddiviso, recintato da mura, ad andare in pezzi all’inizio del secolo, in singolare sintonia con la scoperta, da parte di Freud, di un universo (l’inconscio) dove il tempo non esiste e dove la cronologia non rappresenta il principio più elementare, più arcaico e più affidabile di organizzazione. Se riportato al romanzo del Novecento, il grande saggio che Walter Benjamin […] dedica nel 1936 alla figura del narratore, è quasi una commemorazione: quel narratore – il cui «talento naturale consiste nel potere raccontare la propria storia» e la cui «dignità è nel poterla raccontare tutta intera» – è definitivamente scomparso. Tra le righe del suo terzo romanzo, Svevo ne ha raccontato la morte.52

Quella stessa malattia mortale, che stringe il segno dell’umanità senza significato, ha un sobbalzo che mina l’infermità sospesa, il cielo basso della vita inconsistente che cerca un appiglio solo quando si ripiega o si anima in una tensione infranta: è lo schiaffo del padre a Zeno che vuole ridestarlo dal torpore del sogno, per fissare un punto esatto del cielo che risplende:

Durante la notte che seguì, ebbi per l’ultima volta il terrore di veder risorgere quella coscienza ch’io tanto temevo. Egli s’era seduto sulla poltrona accanto alla finestra e guardava traverso i vetri, nella notte chiara, il cielo tutto stellato. La sua respirazione era sempre affannosa, ma non sembrava ch’egli ne soffrisse assorto com’era a guardare in alto. Forse a causa della respirazione, pareva che la sua testa facesse dei cenni di consenso. Pensai con spavento: «Ecco ch’egli si dedica ai problemi che sempre evitò». Cercai di scoprire il punto esatto del cielo ch’egli fissava. Egli guardava, sempre eretto sul busto, con lo sforzo di chi spia traverso un pertugio situato troppo in alto. Mi parve guardasse le Pleiadi. Forse in tutta la sua vita egli non aveva guardato sì a lungo tanto lontano. Improvvisamente si volse a me, sempre restando eretto sul busto: – Guarda! Guarda! – mi disse con un aspetto severo di ammonizione. Tornò subito a fissare il cielo e indi si volse di nuovo a me: – Hai visto? Hai visto? Tentò di ritornare alle stelle, ma non potè: si abbandonò esausto sullo schienale della poltrona e quando io gli domandai che cosa avesse voluto mostrarmi, egli non m’intese né ricordò di aver visto e di aver voluto ch’io vedessi. La parola che aveva tanto cercata per consegnarmela, gli era sfuggita per sempre 52.

Commenta Costantino Esposito:

Zeno avverte che il padre stava come per dirgli una parola a lungo cercata, la parola decisiva, ma subito conclude – forse con la fretta di chi ritiene impossibile attendersi ancora qualcosa di inedito – che si è trattata di un’altra occasione persa, e che quella parola non potrà più essere pronunciata. Tuttavia – ecco il punto tragico – ancora una volta egli non vede: la parola il padre gliel’ha detta, eccome. La parola era lo stesso invito: «Guarda!». […] Il richiamo del padre è […] il richiamo alla stessa realtà. L’ultima parola è «guarda!»: non guardare me, ma guarda le Pleiadi, renditi conto che c’è qualcosa, che ti è dato e chiede di te53.

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1 SVEVO I., Tutte le opere, edizione diretta da Mario Lavagetto, vol. II, Racconti scritti e autobiografici, Edizione critica con apparato genetico e commento di Clotilde Bertoni, saggio introduttivo e cronologia di Mario Lavagetto, Collana “I Meridiani”, Arnoldo Mondadori editore, Milano 2004.

2 Cfr. FUSCO M., Italo Svevo. Conscience et réalitè, Gallimard, Paris 1973.
3 TELLINI G., Svevo, Salerno editrice, Roma 2013, p.67.
4 SARTRE J.P., L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, trad.it. di WEISS I., Edizioni di Comunità, Milano 1960, p.68.
5 Nel Diario per la fidanzata, 12.01.1896, I. SVEVO scrive: «L’indifferenza per la vita è l’essenza della mia vita intellettuale», in ID., Opere, cit., III, pp.772-773.
6 ID., Lettera alla moglie, 6 giugno 1900, in ID., Epistolario, I.
7 ID., Lettera alla moglie, 17 maggio 1898, in ID, Epistolario, I, pp.90-91.
8 MAXIA S., Lettura di Svevo, Liviana, Padova 1965, pp. 113 sgg., in BARONI G., introduzione a Italo Svevo. «Quella mia certa assenza continua ch’è il mio destino», Colloqui Fiorentini, Firenze 2006, p.8.
9 BATTAGLINI I., Il sentimento di inettitudine «il mondo delle passioni tristi». Lezioni di Epochè. Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, 21 febbraio 2016.
10 CASPANI A., L’inetto: storia di un testo imprevedibile, in Italo Svevo. «Quella mia certa assenza continua ch’è il mio destino», Colloqui Fiorentini, Firenze 2006, p.42.
11 SVEVO I., Una vita, in Tutte le Opere, Edizione diretta da Mario Lavagetto, vol. I, Romanzi e “continuazioni”, edizione critica con apparato genetico e commento di Nunzia Palmieri; saggio introduttivo e Cronologia di Mario Lavagetto, Cap. IV.
12 SVEVO I., Una vita, in ID., Tutte le opere, edizione diretta da Mario Lavagetto, Edizione critica con apparato genetico e commento di Clotilde Bertoni, saggio introduttivo e cronologia di Mario Lavagetto, Collana “I Meridiani”, Arnoldo Mondadori editore, Milano 2004, p.17.
13 Cfr. TELLINI G., Il personaggio suicida, in ID., Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp.277-280.
14 ID., Svevo, p.101.
15 SVEVO I., Una vita, p.395.
16 TELLINI G., Svevo, cit., pp.102-103.
17 SVEVO I., Senilità, in ID., Tutte le opere, edizione diretta da Mario Lavagetto, Edizione critica con apparato genetico e commento di Clotilde Bertoni, saggio introduttivo e cronologia di Mario Lavagetto, Collana “I Meridiani”, Arnoldo Mondadori editore, Milano 2004, p.403.
18 ID., cit., p.410.
19 ID., cit., p.404.
20 ID., cit., p.403.
21 ID., cit., p.403.
22 FIGHERA G., Il senso di inettitudine e deliri di onnipotenza tra Ottocento e Novecento (http://www.giovannifighera.it/novecento/il-senso-di-inettitudine-e-deliri-di-onnipotenza-tra-ottocento-e-novecento/pagina-2).
23 SVEVO I., cit., p.429.
24 ID., cit., p.429.
25 DI NUNZIO N., La differenza tra il concetto di inettitudine e il concetto di senilità nell’opera di Italo Svevo
(https://weblearn.ox.ac.uk/access/content/user/5076/ATTI/DI%20NUNZIO.pdf).
26 ID., cit., p.615-616.
27 TELLINI G., Svevo, cit., p.124.
28 Cfr. SVEVO I., Soggiorno londinese, in PAZZAGLIA M., Letteratura italiana, Bologna, Zanichelli, 1992, vol. 4.
29 TELLINI G., I romanzi: i tre volti dell’inetto, in Italo Svevo. «Quella mia certa assenza continua ch’è il mio destino», Colloqui Fiorentini, Firenze 2006, p.69.
30 Cfr. KEZICH T., Sorpresa a Trieste: Svevo ha cambiato psicoanalista, in “Corriere della Sera”, 2 marzo 1993.
31 GIOANOLA E., Un killer dolcissimo. Indagine psicanalitica sull’opera di Italo Svevo, Mursia, Milano 1995, p. 285.
32 Cfr. DEBENEDETTI G.., L’ultimo Svevo, in Saggi critici II, Il Saggiatore, Milano 1971, pp. 81-90.
33 PANELLA G., Le immagini delle parole. La scrittura alla prova della sua rappresentazione, Clinamen, Firenze 2013, p.336.
34 GIOANOLA E., cit., p.285-286.
35 SVEVO I., La coscienza di Zeno, a cura di B.Stasi, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008, p.3..
36 Cfr. LAVAGETTO M., La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, Einaudi, Torino 1992.
37 CONTINI G., Il romanzo inevitabile. Temi e tecniche narrative della Coscienza di Zeno, Mondadori, Milano 1983, pp. 124-125.
38 LAVAGETTO M., cit. p.181.
39 SVEVO I., La coscienza di Zeno, cit., p.5-6.
40 LAVAGETTO M., La cicatrice di Montaigne, cit., p.187-188.
41 SVEVO I., La coscienza di Zeno, cit., p.385.
42 ID., cit., p.416-417.
43 MAXIA S., cit., p.142.
44 SVEVO I., Il fumo, da La coscienza di Zeno.
45 TELLINI G., I romanzi: i tre volti dell’inetto, cit., p.74.
46 LAVAGETTO M., p.190.
47 ESPOSITO C., «Quella mia certa assenza continua ch’è il mio destino», in Colloqui Fiorentini, Firenze 2006, p. 92.
48 ROBBE-GRILLET A., Il nouveau roman, Sugar, Milano 1965, p. 105.
49 SVEVO I., La coscienza di Zeno (1923), a cura di Mario Lavagetto, Torino, Einaudi, 1987, pp. 441-442.
50 DEBENEDETTI G., Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano 1971, pp. 540-541.
51 Cfr. LAVAGETTO M., Il romanzo oltre la fine del mondo, in Svevo I., Romanzi e «Continuazioni», Milano, I Meridiani, Mondadori, pp. XIV-XC.
52 SVEVO I, La morte di mio padre, da La coscienza di Zeno.
53 ESPOSITO C., cit., pp.93-94.

Bibliografia essenziale

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