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Diego Baldassarre, Sinopie smarrite, Falloppio (Como), LietoColle Editore, 2016

di Giuseppe Panella 22 febbraio  2017

leggi in pdf Sinopie

diego-baldassarre-sinopie-smarriteUna sinopia è, nel linguaggio tecnico dei percorsi storico-artistici, il disegno preparatorio di un affresco, la sua fase iniziale che però si perde e si annulla nell’opera finale al momento della realizzazione compiuta di essa. Senza di essa, tuttavia, e senza la traccia lasciata sull’intonaco preparato per la pittura, l’opera pittorica non avrebbe corso e forse non avrebbe neppure senso.

Le “sinopie segrete “ del titolo alludono evidentemente al segreto corso della poesia, alla traccia nascosta che collega parole e immagini nell’ordito dell’ispirazione lirica.

Allude, tuttavia, anche e soprattutto alla mano del poeta che traccia linee di passaggio che collegano i suoi sogni e le sue emozioni alle parole designate per definirle e poi comunicarle a chi è in grado di accettarle e assimilarle come tali. La “sinopia segreta” del titolo allude probabilmente a questa necessità di produrre parole e versi che passano attraverso situazioni, spesso minime o non necessariamente significative come accadimenti, ma capaci di segnare e produrre impercettibili graffi sulla superficie verbale della realtà.

«Il commerciante di sogni. Il mondo parla pagina dopo pagina. / Non chiedermi / il senso del discorso / non puoi capire le sfumature / della parola nella mente // A volte sogno oppure rido / se mi osservi sembro / un uomo assente solo / ma non scorgi il lampo / corroso dello sguardo // Una folla di persone passa / saluta e chiede / Poggio il libro sul bancone / sorrido gentile / e rispondo ai fantasmi di carta» (p. 56).

“Scorgere il lampo dello sguardo” e trasportarlo sulla pagina è il compito della poesia. “Parlare pagina dopo pagina” è l’attività del poeta che osserva e attende la visita della poesia, pratica che richiede tempo e gentilezza, pazienza e abbandono al sogno. “I fantasmi di carta” della scrittura attendono soltanto di essere evocati ma chi riesce a farlo ottiene il risultato di riuscire a vendere la sua capacità di sfogliare il mondo. Il poeta se ne sta seduto “sul far della sera” e attende un’illuminazione che gli permetta di dar senso a ciò che gli succede come spettatore dello squadernarsi infinito del mondo. Per Baldassarre, allora, scrivere poesia significa scandire il tempo dell’attesa delle parole che gli permettano di dire ciò che sta avvenendo nel mondo, ciò che vive all’esterno e che gli chiede di entrare nei suoi sogni e nelle sue emozioni, nelle sue illusioni e nella sua “mente”. Tutto quello che diventerà parole frasi o canto è già inscritto nella sua mente, come una traccia infinita di follia o una sfumatura incomprensibile del linguaggio comune.

Quindi il poeta non può fare altro che de-scrivere ciò che lo aspetta all’angolo della strada o all’apparire dei “fantasmi”. Il suo percorso è fatto di attese, di silenzi, di attenzioni, di rimossi, di lacrime ricacciate indietro a forza, di sospiri e di ritegni insensati. Sono tutte “sfumature” ma dicono molto di più di ciò apparentemente è chiaro e squadernato nella mente piuttosto che nella sottile membrana che avvolge l’anima e la rende sensibile al dolore del mondo e, nello stesso tempo, gli permette di apprezzarne la bellezza incontestabile e affannosa:

«La poesia. La poesia non è la frase spezzata / ma il vuoto prima / e dopo la parola // caduta» (p. 62).

Dove resta da interpretare quel termine finale, parola-chiave del discorso di Baldassarre: caduta sta per errore fine morte e dannazione oppure per il semplice avvitarsi spontaneo al suolo della “povera foglia frale” (di un’imitazione poetica di Leopardi da Antoine-Vincent Arnault, scelta dal poeta di Recanati come exemplum delle potenzialità della lingua italiana nell’ ambito del rinnovamento linguistico legato al Romanticismo)? Le parole della poesia, in buona sostanza, cadono nel vuoto e si fermano a terra come le foglie si staccano dagli alberi in autunno e si annullano nel magma indistinto della terra oppure cadono perché destinate all’errore all’oblio alla Caduta per superbia o velleità del poeta, una volontà non surrogata e sostenuta da un’autentica vocazione? La vocazione “bucolica” (in senso positivo) di Baldassarre potrebbe far pensare alla prima soluzione ma l’idea del silenzio come luogo in cui la poesia eviene è molto più convincente in quest’ottica. Non a caso in un suo testo molto suggestivo ed evocativo si legge con una certa nettezza:

«La soglia della memoria. E’ pericoloso sostare a lungo / sulla soglia della memoria. // Vattene vattene ora / Puoi ancora evitare di percorrere / corridoi impolverati inseguendo / immagini vere per i vivi // Devo decidere se murare la porta / o spingere l’uscio dei giorni // Entra apri le finestre / Se sui muri non ritrovi i quadri / di sicuro le impronte bianche / rispettano la loro disposizione // Il tempo spezza le ali all’anima / è ambra ciò che era resina» (p. 53).

La poesia di Baldassarre non è fatta di ricordi ma si concentra sul qui e ora (come testimoniano  molte altre poesie da Padri moderni a p. 55 a Impronte sulla neve a p. 91 e solo per fare due esempi a caso), è poesia dell’immediato e della sensazione, è fatta di “ragione e sentimento” e non soltanto di ricordi o nostalgia di un passato che non c’è mai stato o che è ormai irrimediabilmente trascorso.

I suoi versi sono densi e raggumati in un tentativo quasi disperato di dire tutto nel giro compresso di una frase, di un’immagine risolta, di un’aspirazione di vita, di un contatto diretto che sia capace di cogliere il senso di una vicenda esistenziale in atto o del trascorrere di una stagione avita e conosciuta. Il senso nascosto della vita viene colto così in un soffio epifanico di consonanza con gli eventi inverando quel desiderio che la poesia esprime di attraversare il mondo per poterne cogliere il nocciolo segreto (anche se alla fine anche il sogno di ritrovare la verità nascosta sotto le apparenze più colorate o devastate o ingenue del reale, i suoi “bagliori”, si rivela – come sempre – uno scacco: «Non somiglio più neanche a me stesso» (p. 115).

Al di sotto delle rappresentazioni della bellezza della Natura (le sue “sinopie” invisibili) e al sopra delle aspirazioni a una vita più autentica,  si leva l’oggetto oscuro e sempiterno della poesia –  la sua capacità di costruire un ponte con la realtà  e con la vita nel tentativo di farne un dono a coloro che ne colgono la necessità assoluta e imprescindibile.

Le sinopie smarrite di Diego Baldassarre

di Andrea Galgano 6 dicembre 2016

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diego-baldassarre-sinopie-smarriteLa nuova raccolta di Diego Baldassare (1969), poeta romano trapiantato sulle colline pistoiesi, Sinopie smarrite, edita da Lietocolle, restituisce non già un mondo sommerso bensì la linea rarefatta e smarrita di un preludio vivente, di un’anima non arresa (e perciò vincente) e, infine, di una intensa dirittura.

Egli stesso, infatti, ci orienta sul titolo: «La sinopia è il disegno preparatorio di un affresco, disegnato sull’intonaco: quando viene realizzato l’affresco questo disegno si perde, si smarrisce. Eppure senza quel disegno l’opera finale non potrebbe essere realizzata. Se l’opera finale è l’Uomo, le sue sinopie sono le emozioni e le esperienze che l’hanno condotto ad essere quello che è».

Il portato fisico dell’opera di Baldassarre, pertanto, si intreccia con il limite e con l’incompletezza umana ma, altresì, riesce a compiere una poesia visitata da una acuta percezione del mondo. La ricchezza di questa visione interiore, le sezioni illuminate, le stanze accertate da improvvise coloriture avvengono in una prospettiva di discesa salutare, in cui il rapporto mistico tra la natura e l’artista è pervasivo, invasivo e costitutivo.

L’elemento naturale mescola varchi e scorci in un taglio di visione e volo, profonda riflessione e appunti che documentano lo smalto del vivente, la sua prolusione e la sua demarcazione di interludi e impronte, come ripasso di progetti:

«È nell’interludio tra l’ultimo battito / del volo della falena / e il raggio dell’alba sul sangue gelato / della farfalla / che l’uomo abita il suo silenzio / Si esiste solo per l’attimo che mozza / il respiro / per lo specchio scuro dell’otturatore / che riflette la retina / Per il dito cacciatore dei propri sogni / Ansima la pupilla eccitata dalle ore / insonni / La smania dell’attesa si combatte / ripassando progetti / L’esatta inquadratura è predisposta / per l’impronta di colore per l’inganno di se stessi» (Lo scatto).

La poesia di Baldassarre è visitata e abitata da una vertigine rivelativa che introduce l’agone di un’attitudine che lotta per vivere e respirare, e che testimonia, nel grido e nella domanda dell’io che preda, le parole e le raduna sulle orme ungulate, sugli scavi, sulle tracce d’acqua e sugli smottamenti d’animo: «Sono io / predatore di parole / l’unico abitante dei fogli» o ancora «Imperterrito sterro seguendo il silenzio di orme ungulate / per non sembrare dissimile / dal lupo che segue la preda».

La parola, dunque, è la sua preda vigile che insegue la verità dell’esistere e del vivere, cribrata dalle radici («Seguimi fino all’antico mulino / devo mostrarti olivi secolari / hanno radici profonde / e una pazienza senza sconfitta») e fessurata attraverso la tensione dello sguardo, oltre le linee di ogni orizzonte possibile e ogni vibrazione nel silenzio sulla terra nuda «ferita abrasa / purulenta di fango / A picco sul silenzio»: «La forma di pietra / levigata / attira la carezza / della mano destra / Rimangono impresse / nella salsedine ciottolosa / incerte linee / della vita / tre salti sull’acqua / azzurro deserto / l’esistenza si sottende / tra spuma di mare / e pioggia imminente».

In questa linea adoperata dall’autore esiste una gradazione di silenzio e palpebre che disegna il suo arriccio sgualcito e vivido, che delinea il suo abbozzo, che concreta le immagini, le compone e le riempie in una vigilanza e veglie dipinte, e tracciandole e comprimendole nelle proprie maree interiori, le fa risplendere nell’ «anima arenata sulle parole», fino ai sospinti ricordi controvento:

«All’improvviso incespico nella / radice affiorante dei sensi / Ricordi controvento sospingono / pensieri dentro una radura / laddove calpestio di formiche / traccia sentieri ortogonali / La memoria atavica della stirpe / pulsa alle tempie: vibrano / i capelli al suono delle parole / Il sussulto del tempo incute / rispetto per segnali irrilevanti / non cado ma duole la caviglia / che sosteneva il passo dei versi» (Ricordi controvento).

L’immagine tremante diviene dispendio di vita e vocazione di palpebre, che sogna l’indicibile e l’inscrivibile tensione di una trafittura e di una rivelazione di bellezza, trascritta e riemersa, come foglia sugli occhi.

La trama della vita corrente insegue trasparenze assolute e umbratili, pedina l’eterno gioco delle stagioni, lasciando emersioni vive di impronte e tracce che colorano il magma vivente attraverso una sognata e ubicata antichità, come il vento di pioggia che sciaborda tra i rami e la forra che sussurra parole d’acqua:

«Sulle mie colline adottive / sciaborda vento di pioggia tra i rami / Non scorgo il pettirosso del mattino / La forra sussurra parole d’acqua / Non è possibile muoversi oltre / il profilo del bosco / Pigramente attendo che l’arcobaleno sorga / sulle mie colline adottive / L’occhio spazia su fusti di castagno / sulle spine di giovani robinie / Ma non vola l’aquilone dei sogni / Sciaborda vento di pioggia tra i rami / Sbandano i minuti affacciati / alla finestra nascosta dal tetto / solo la poiana si libra altera / Non scorgo il pettirosso del mattino / L’anziana vicina – mani antiche / d’olivo – spezza rami avvizziti / Sul confine dell’esistenza immobile / la forra sussurra parole d’acqua» (Mani antiche d’olivo).

La trasparenza della sua poesia frequenta sponde e barriere, l’ombra incastonata sul muro, la luna che sussurra versi taglienti, dove memorie antiche curano l’apice oscuro e luminoso dell’arte e la sua veglia essenziale.

L’essenzialità è qui vertiginosa. Non solo per la concrezione elementare di immagini ed elementi come volti e condizioni ma soprattutto per l’epifania del dicibile e la sua solvente trasformazione, la comprensione del mondo e la minuta sacrale di tutti i passaggi.

Come avviene nella sezione degli Haiku, dove il bilanciamento linguistico rinserra la politura della sua espressione. Gli haiku posseggono la vorticosa fragilità di ciò che è primario ma, allo stesso tempo, anche fusione con il reale, con tutte le sue ferite e il concepimento di una domanda di amore: «Onda fragile / su scogli interiori: / spuma di vita» o «Le mie donne / corrono con il vento: / madre e figlia», «Ho abbattuto / l’ippocastano stanco: / piango sul vuoto», «Passa il vento / nevicano petali / mentre cammino».

Nelle Diafonie poi, scrive l’Autore, «si raccoglie tutto ciò che crea un disturbo (positivo o negativo) nell’esistenza: la poesia ed il suo ineffabile spirito; il lavoro o la sua mancanza; le guerre e le sue vittime; i ricordi con la loro malinconia; i viaggi; le amicizie. La vita di ogni giorno sospesa al filo sottile delle esperienze e dell’esasperazione».

Il disegno così tracciato, coperto dall’intonaco poetico e restituito da una restaurata apertura percettiva, proclama brevi dilegui di respiro e nuovi dedali mentali, guerre e pleniluni di sogni che brillano «sulle tegole di carta velina», stazioni ripiegate e solitarie (Stazione ostiense), cesure dimenticate e erranti nella liturgia del vivere: «Circonfuso da pulviscolo di idee / errante a tastoni sul foglio / attendo paziente la fortunata / congiunzione neuronale di un verso / L’irreparabile cesura tra me / e il riflesso errante offerto agli altri / m’inghiotte e mi protegge».

La poesia diviene autentica quando comunica lo stupore e il taglio, collocando gli occhi nel dramma vivente senza censure e, infine, quando recupera ciò che la vita e la realtà rilasciano («Ogni giorno si cede / ai pavimenti al vento / alle lenzuola agli altri / brandelli di noi / Gocce di sudore capelli / frammenti di pelle / saliva sperma / Incuranti degli spiccioli / di vita caduti / nel tombino del tempo» (Vita in spiccioli), o nella pieve lucente, dove il silenzio dei secoli si dilata nelle parole, e le pagine sono incise come scalfitture: «Scarpe si trascinano calcando / pagine incise con lo scalpello / ognuno incede / evitando di leggere tra le scalfitture / l’esistenza calendarizzata / Il silenzio dei secoli dilata nelle parole / La voce dell’anziano poeta torna bambina / e ascolta la solitudine dei versi».

Gli incroci delle vite pendolari raccolti nei dettagli passano nella loro minima presenza, il volo-pensiero «smuove lo sfondo del paesaggio», come se il bozzolo di carta fosse anticipo esploso di volo, il telaio memoriale della polvere di fard come riflesso, lo zoo di cartone e la soglia della memoria che propone il suo bivio dove il tempo «spezza le ali all’anima» ed «è ambra ciò che era resina».

La poesia di Baldassarre non deposita i suoi detriti di viaggio sulla pagina, bensì anima l’accertamento di una presenza di cose e presenze, volti e affermazioni di carezze e di attese, poiché l’attesa «è donna silenzio vita» e ritrova «il vuoto prima / e dopo la parola / caduta».

Frequentare l’attesa significa tendere a un compimento impaziente, proteggere la sosta cara e il traffico dei ricordi affollati, i sogni che sporgono volando, il bagliore della fuga prima del sibilo che squarcia la notte, l’interno del condominio come filigrana onirica.

Ha scritto Giuseppe Panella:

«Come con la poesia, quindi, si è in presenza di una dimensione vitale che fa esistere chi la realizza concretamente in modo tale da assumersi la responsabilità di ciò che vede e di ciò che sente, di ciò che ama e di ciò che assorbe […] Il “telaio” che lavora all’interno dell’animo del poeta produce continuamente voci e suoni e significanti che bisognerà poi trasformare in senso e significato perché la poesia possa emergere e fiorire, luccicando nel primo sole dell’alba e riflettendo sul proprio volto il piacere di vivere».

I suoi retropassaggi, allora, diventano il soggetto di una sceneggiatura temporale proiettata in tutte le dimensioni del vivente e della bellezza che persiste in ogni ruga e in ogni faglia: dai brandelli penitenti di fioca luce diurna, alle soglie di casa «lì dove un segreto sogno / ti attende imprendibile / Non sei / glaciale riflesso del cielo / ma bianco grido di ricordi / che intacca nuvole spesse / che apre varchi e chiude porte», dalla nebbia arresa alle cattedrali di sabbia, dove ricostruire, a ritroso e nell’impossibilità, guglie sommerse, dalla parola scolpita nello sguardo, erosa di lacrime e striature, fino alle sfilacciature sulla sabbia d’acqua marina.

Tutto conclama alla pienezza non tanto (o meglio, non solo ed esclusivamente) concettuale quanto piuttosto vitale. La poesia si dice in un teatro di presenza e di pioggia, dove «l’acqua scava e ti scava / la mia calma è farina / il tuo silenzio lievito / col temporale saremo pane». La pienezza è frutto di una decisione per l’esistenza, tallonare il suo senso è un disegno di figlia:

«Mia figlia disegna pipistrelli colorati / per udire il mondo in altra dimensione / Si scatena in un tripudio di pennarelli / e sul foglio volteggia inseguendo fantasie / Anni di vita le insegneranno che volare / è cosa da poeti è vizio da sognatori / Ma qui stanotte / aleggiano sul foglio pipistrelli arcobaleno» (Pipistrelli arcobaleno).

Il tempo dell’amore diviene l’oblio dicibile, dove rimbalzano le ore e l’agguato della tenera docilità di ogni passaggio, che unisce amore e co-nascenza, rifugio e dono, come egli stesso scrive, «Tornare neonati / con il medesimo / limbico bisogno / di non sentirsi soli» (Nel seno):

«Le pupille di bambina non colgono le scorie crepuscolari / di un’epoca aggettata sul vuoto / Età troppo adulta / Ti nascondi dietro la porta impugnando / tutto il coraggio necessario alla finzione / e – simulando un agguato d’amore – / urli la vita a sorpresa dietro i passi / di genitori indaffarati dai pensieri / L’ingenua bellezza sorride stupita del suo successo / Un soprassalto di dolcezza ti osserva / con gratitudine».

Oppure il retrogusto di assenza ubriaca che rappresenta la quieta presenza e il segno nel destino e la precisa meta di un’attesa ricongiunta sui passi:

«L’ametista prigioniera dell’ombra lunare / meraviglia lo sguardo / riflesso nel mare del tuo sorriso / d’artista / È amaro il sapore color del rame / con cui disegni le parole sul foglio / Solo l’aroma dei baci / distrae il pensiero smarrito nell’arco / ocra disegnato da stelle cadenti / Non ha mai abbandonato i ricordi / che dal passato ti conducono a me / A noi / Probabilmente il vento dell’Appennino / ha mescolato le emozioni / con la sabbia sedimentata nella mente / Ha sapore di vino l’ubriaca tua assenza / e fragore d’acqua sugli scogli / la tua quieta presenza nel mio destino».

La sezione Esogenesi esprime una appartenenza più che una riappropriazione. Il solco degli autori incontrati permette riscritture insolite e percorsi sorgivi di tempo: Hofmo, Saba, Rosselli, Blok, Bukowski o Campana, per citarne alcuni, librano fonemi sospesi e incompresi che permettono di far luce sulla propria esperienza di poeta e di uomo, con gli occhi muti sul mondo, dove lo splendore «della parola impressa / cicatrizza / l’animo ferito dai giorni chiusi» e dove annaspare alla ricerca di unico battito di fulgore.

Baldassarre D., Sinopie smarrite, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016, pp. 124, Euro 13.

 Baldassarre D., Sinopie smarrite, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016.

Panella G., Malinconia autunnale. Diego Baldassarre, “L’acqua sogna trasparenze”, (https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2014/06/05/i-libri-degli-altri-n-83-malinconia-autunnale-diego-baldassarre-lacqua-sogna-trasparenze/), 5 giugno 2014.