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Anton Raphael Mengs e l’Arcadia del Mito

L’Immaginale                                                Prato, 16 giugno 2013

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pdf: Anton Raphael Mengs e l’Arcadia del Mito 

 di Irene Battaglini

«Ut pictura poësis»

Quinto Orazio Flacco

 

«La bellezza consiste nella perfezione della materia secondo le nostre idee. Siccome Iddio solo è perfetto, la bellezza è perciò una cosa divina. Quanto più la bellezza si trova in una cosa, tanto più è la medesima animata. La bellezza è l’anima della materia. Siccome l’anima dell’uomo è la causa del suo essere, così anche la bellezza è come l’anima delle figure; e tutto quello che non è bello è come morto per l’uomo.

Questa bellezza ha un potere, che rapisce ed incanta; ed essendo spirito, muove l’anima dell’uomo, accresce, per così dire, le sue forze, e fa sì che si scordi per qualche momento di essere racchiusa nel ristretto centro del corpo. Da ciò nasce la forza attrattiva della bellezza: subito che l’occhio vede un oggetto assai bello, l’anima ne risente, e desidera unirvisi; onde cerca l’uomo di avvicinarvisi, ed accostarvisi.

La bellezza trasporta i sensi dell’uomo fuori dall’umano: tutto si altera, e si commuove in lui talmente che, se questo entusiasmo è di qualche durata, egli degenera facilmente in una specie di tristezza, allorchè l’anima si avvede non esservi che la mera apparenza della perfezione».

Anton Raphael Mengs

 

Avvicinarsi a Anton Raphael Mengs (Aussig 1728 – Roma 1779) significa due cose: farsi sorprendere dal Neoclassicismo ed esplorare con occhi nuovi il crinale del mito. «Il termine Neoclassico contiene un duplice rimando, il primo al classico e il secondo al rinnovamento, due parole che sono oggi di uso facile e quindi in un certo senso degradate», sostiene Steffi Roettgen nell’Introduzione a Mengs, la scoperta del Neoclassico, (Marsilio Editori, Venezia 2001).  Non è un deja-vu, ma un appropriarsi di stilemi che appartengono ad un tempo passato, del quale non vi è stata ancora piena elaborazione.

La sfrangiatura dei critici contemporanei a discredito del Neoclassicismo ha gettato un’ombra lunga sull’apporto di autori di grande spessore, tra i quali un ruolo significativo è giocato dallo il pittore Anton, lo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann (che fu con Mengs il teorico del Neoclassicismo), gli scultori Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen, il pittore francese Jacques-Louis David, i pittori italiani Andrea Appiani e Vincenzo Camuccini, e il grande incisore Giovan Battista Piranesi che, con le sue incisioni a stampa, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. A Roma si stabilirono scuole ed accademie di tutta Europa, divenne la città dove avveniva l’educazione artistica di intere generazioni di pittori e scultori.

Fu un movimento di “risposta”, caratterizzato dall’adesione ai principi di armonia, equilibrio, compostezza, proporzione e serenità che l’Uomo Moderno intravvide nell’arte degli antichi greci e romani, e dal “rifiuto” dell’arte barocca, segnata da un destino di gestione dell’eccesso e della ridondanza.

Stefano Susinno (in Steffi Roettgen, cit.):

 «[…] Tale gruppo di intellettuali – da Giovanni Cristofano Amaduzzi ad Aurelio de’ Giorgi Bertola, da Ippolito Pindemonte ad Antonio Di Gennaro, duca di Belforte, per non dire dei due più noti esegeti e biografi mengsiani, Gian Ludovico Bianconi e José Nicolas de Azar – si colloca significativamente all’interno di quella istituzione accademico-letteraria, allora quasi centenaria che, nata per promuovere una riforma del gusto in opposizione agli “eccessi” del Barocco, dalla sua fondazione nel 1690, con il programmatico nome di Arcadia, incoraggiava uno stile poetico basato sulla conoscenza dei grandi classici dell’antichità e della tradizione italiana fino al Cinquecento. Questi erano riproposti a modello per trattare con verità e naturalezza non solo i vari generi della poesia ma anche argomenti di religione, di scienza, di filosofia».

 Un movimento artistico di “necessità” è sempre dinamico e porta con sé gli elementi di una psicologia difensiva,  dovuta alla modalità con cui i suoi protagonisti affrontarono quel particolare bisogno sociopolitico, estetico, linguistico. La necessità di liquidare gli effetti estetici di “troppo” dell’arte barocca generò un’equazione spuria: l’eliminazione di ciò che è “oltre” attraverso il ritorno a ciò che è “puro”. Questa operazione coincise con l’immagine del potere imperiale di Napoleone, che ai segni della romanità affidava la consacrazione dei suoi successi politico-militari. «Considerando il Neoclassico come corrente di moda si riesce almeno ad intuire in una certa misura per quale motivo esso potesse venir infine spodestato da un atteggiamento antagonista preannuciantesi già con il Romanticismo» (S. Roettgen, cit.).

 La caratterizzazione dinamica del Neoclassicismo trova conferma nella l’opera di divulgazione data dallo stesso Piranesi alle campagne di scavo archeologico, che permisero lo studio del rapporto tra arte greca e arte romana. Una “terapia” del bello, che va a risanare le ferite di una decadenza stilistica e sociale qual è quella dell’età barocca: il frutto di una degenerazione spettacolare e illusoria, ubriaca di sé, virtuosistica, qualche cosa che oggi definiremmo irregolare, kitch, trash, superstizioso, ingannevole. Un effetto d’Ombra che l’Illuminismo tenterà di chiarificare con il ricorso apollineo alla ragione, alla scienza.

La riabilitazione neoclassica vede uscire l’arte romana più debole dal confronto con quella greca: la plastica statuaria di Fidia, Policleto, Mirone, Prassitele, Lisippo, sono esempi senza tempo cui fare riferimento per ottenere la bellezza «ideale» contraddistinta da «nobile semplicità e calma grandezza», ovvero un’arte come espressione di «un’idea concepita senza il soccorso dei sensi» (Winckelmann, 1755 Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura; Storia dell’arte nell’antichità, 1763).  La qualità elegante della forma, la bellezza dei volti, la dolcezza lontana degli sguardi: un’arte ispirata alle virtù, quasi a coniugare temperanza, giustizia, pace, abbondanza,  l’effetto di un buon governo estetico governato da Armonia. Tuttavia i valori rinascimentali erano di matrice umanistica e non illuministica, e diedero all’uomo una centralità storicopolitica, religiosa ed economica che mal si coniuga con la razionalità neoclassica che tendeva a liberare l’uomo dalla retorica, dalla licenza e dalla sregolatezza barocca.

La pittura del tedesco Rafael Mengs (ammesso all’Arcadia romana con il nome di Dinia Sipilio), – l’artista di corte di Spagna pagato con cifre oggi miliardarie, critico d’arte e principe dell’Accademia di San Luca a Roma, solo per citare un paio degli alti riconoscimenti a suo favore – è uno dei più luminosi esempi di arte neoclassica. «Il monumento all’amicizia tra Mengs e Winckelmann è il Parnaso della villa Albani, al quale Winckelmann ha dedicato un elogio esorbitante e smisurato e non privo di zelo patriottico» (S. Roettgen, cit.), pubblicato nel 1764 in Storia delle arti del disegno.

Il Parnaso è di una bellezza indiscutibile. Tuttavia vi è un’altra opera di un incanto straordinario, che è il dipinto Perseo e Andromeda (olio su tela 227 x 153,5 cm, Ermitage di San Pietroburgo) con il cui acquisto segreto Caterina ii di Russia ebbe ad appagare il suo desiderio: «Verrà alla fine quel giorno, in cui io potrò dire di aver visto un’opera di Mengs?», avrebbe scritto l’imperatrice nel 1778 in una lettera a Melchior Grimm, figura centrale del xviii secolo come mediatore tra pubblico e privato nel processo di riforma illuminata delle corti, agente e mercante d’arte.

Il grande quadro segue di alcuni anno la pittura monocroma che porta lo stesso titolo, di piccole dimensioni, e che è accolto presso la Pinacoteca Manfrediana del Seminario Patriarcale di Venezia. È un bozzetto creato per la preparazione, che durò almeno sette anni, del pezzo principale. L’opera è di una eleganza non ascrivibile ad un movimento artistico: è senza tempo, e documenta una fase della composizione in cui non è ancora avvenuto il totale e auspicato distacco percettivo che caratterizza l’opus magnum finale con il suo stampo inequivocabilmente neoclassico.  Gli sguardi di Perseo e Andromeda e del fiero Imeneo sono testimoni di un attimo, di una storia vissuta. La composizione è intima e narrativa, intrisa di una tenerezza che Mengs più volte riuscirà a codificare segretamente nel gioco di luci che gli occhi dei suoi ritratti tradiranno. Si pensi alla Sibilla, che è potentemente allusiva, all’allure contemporanea di una spavalda Maria Luisa di Parma principessa delle Asturie – che il Goya ritrasse in modo ripugnante con un pennello impietoso, ai molteplici autoritratti che sfuggivano alla tendenza a eliminare ogni forma di personalizzazione.

Il grandioso Perseo e Andromeda fu oggetto di numerosi studi critici. Steffi Roettgen (cit.):

 «Mengs ha scelto per la sua composizione diversi modelli antichi, che possono essere individuati senza fatica ad un osservatore con una certa esperienza. Appare evidente il legame con il rilievo, proveniente dalla collezione di Alessandro Albani, del Museo Capitolino di Roma, che raffigura la stessa scena. Gli atteggiamenti delle figure richiamano il modello rappresentato dal mosaico antico con la Liberazione di Esione, che il Cardinale Albani aveva acquistato nel 1761 per la sua collezione privata di villa Albani. Oltre a questo modello, riconosciuto da Mario Praz, si nota infine l’influenza che l’Apollo del Belvedere (Roma, Musei Vaticani) ha esercitato direttamente sull’atteggiamento di Perseo. Con questi riferimenti diretti all’antichità, Mengs andò ben oltre l’iconografia rinascimentale relativa al tema tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (iv, 670 ss.), che prediligeva per lo più la lotta di Perseo contro il drago, rispetto alla liberazione di Andromeda dalla rupe. I motivi del destriero Pegaso guidato da Perseo e dal fanciullo dell’imeneo che lo precede correndo con una fiaccola, possono stati essere presi da un dipinto di Peter Paul Rubens, raffigurante lo stesso soggetto, che raffigurava lo stesso tema, e che Mengs conosceva probabilmente per averlo osservato nella collezione del conte Brühl (oggi San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage)».

Nel saggio “Pensieri sulla bellezza e sul gusto nella pittura” (Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei) pubblicato nel 1762 a Zurigo, Raphael Mengs, il “Mozart della pittura”, teorizzò il concetto del bello ideale che trascende la natura, perfezionandola. Tre erano gli assiomi del pensiero neoclassico di Mengs:  il primato dell’antico e la sua imitazione non servile; la scelta e il concetto della «bellezza ideale»; il primato dell’intellettualismo del disegno contro il sensualismo del colorito.

Il concetto di bellezza ideale postulato da Mengs poggia le basi sull’impianto filosofico di Platone. Scrive lo stesso Anton Raphael[1]:

«La natura ha perciò prodotte molte bellezze graduate, affine di tener lo spirito umano colla varietà in una commozione eguale, e continuata. La bellezza attrae tutti, perchè la sua potenza è uniforme, e simpatica all’anima dell’uomo; chi la cerca, la trova su tutto, e da per tutto, poichè ella è la luce di tutte le materie, e la similitudine della stessa divinità.  […] Nella bellezza l’arte può superare la natura L’arte della pittura vien detta una imitazione della natura: laonde sembra che nella perfezione debba ella esserle inferiore; ma ciò non sussiste se non che condizionatamente. Vi son delle cose della natura, che l’arte non può affatto imitare, ed ove questa comparisce assai fiacca, e debole in confronto di quella, come, per esempio, nella luce e nell’oscurità. Al contrario ha l’arte una cosa molto importante, in cui supera di gran lunga la natura, e questa è la bellezza. La natura nelle sue produzioni è soggetta ad una quantità di accidenti: l’arte però opera liberamente, poichè si serve di materie del tutto flessibili, e che niente resistono. L’arte pittorica può scegliere da tutto lo spettacolo della natura il più bello, raccogliendo e mettendo insieme le materie di diversi luoghi, e la bellezza di più persone: all’incontro la natura è costretta a prendere, verbigrazia, per l’uomo la materia soltanto alla madre, ed a contentarsi di tutti gli accidenti; onde è facile che gli uomini dipinti possano essere più belli di quello che sieno i veri. […]».

Gli “sfondi” di Roma, Parigi, Dresda, Londra, San Pietroburgo fanno da scenario al confronto del mondo naturale con il modello ideale dell’antichità.

L’arte contemporanea a volte “prende” da quell’immane serbatoio, fregiandosi di stile e chiarezza, di pulizia compositiva. Bellissimo poter contare su questa certezza, su queste basi.  Marc Augé ha affrontato il problema dell’atteggiamento dell’uomo nei confronti di queste “memorie e macerie”, facendo riferimento al concetto di sûrmodernité, ampiamente caratterizzata dalla spettacolarizzazione delle immagini. Il rapporto tra spazio e tempo, tra realtà e rappresentazione, sono temi propri della filosofia e dell’antropologia contemporanea.

I Neoclassici nell’Europa dei Lumi diedero spazio ad un tentativo rigoroso e disciplinato di una rifondazione dell’arte e della cultura tutta partendo dalle strutture e dalle immagini classiche, consapevoli che la grandezza di un Mengs e di un Canova non era da meno di quella di un greco antico. Erano orgogliosi del proprio atteggiamento, e lo difesero con molti argomenti e studi. Non vollero saccheggiare né distruggere, ma solo fronteggiare la vertigine della libertà con la misura semplice e sicura del bello e del buono, come ci insegnano i grandi filosofi classici.

 «Questi è il Monti, poeta e cavaliero, gran traduttor de’ traduttor d’Omero».

Ugo Foscolo

«Come il creatore della natura ha posta una perfezione in ogni cosa, e ci fa apparir tutta la natura bella, ammirabile e degna di lui; così deve anche il pittore mettere e lasciare in ciascuna espressione, in ciascuna pennellata un contrassegno del suo spirito e del suo sapere, acciò l’opera sua sia sempre e da tutti stimata degna di un’anima ragionevole».

Anton Raphael Mengs

I pastelli di Giovanni Boldini. Di Anima e di Ombra

di Irene Battaglini                                                                       Prato, 1° giugno 2013

L’IMMAGINALE

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pdf I pastelli di Giovanni Boldini, di Anima e di Ombra

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Pittore complesso che lascia aperta la domanda sulla fine dell’eros nell’arte contemporanea, italiano di Ferrara che si impose a Parigi dalla metà dell’Ottocento fino a tutta la Belle Epoque. Una storia ottuagenaria, quella di Giovanni Boldini, alimentata dalla immane bibliografia epistolare in cui sono raccontate le vite e le opere, le passioni e i piccoli fatti quotidiani, di molti protagonisti di quel periodo: Edgar Degas, Telemaco Signorini, il mercante Goupil, il pittore Paul César Helleu, il caricaturista Georges Goursat Sem. Storie mediate dalle scritture di Cristiano Banti (amico intimo e mancato suocero di Giovanni), del fratello Gaetano Boldini, dell’ultima compagna e biografa Emilia Cardona, che divenne sua moglie ed erede universale di tutte le opere del ferrarese.

Fine psicologo della mente femminile, che conosce in ogni inclinazione di seta e in ogni misura dell’iride, ritrattista senza pari della voluttà, della sfida e dell’ironia, magnifico pittore dei fasti della Vecchia Europa che sembrano difendere, come sentinelle di broccato e di luce, le “divine” e i ricchi signori, dei fiori policromi che invadono i giardini come stelle che si aprono al sole, dei cieli splendenti di azzurri di cui la natura stessa ancora gli chiede ragione, egli fu maestro silenzioso, non ebbe allievi significativi, ma estimatori e molti acquirenti, e molti amici nella Parigi sfolgorante di quel tempo. Un tempo che Giovanni Boldini seppe dipingere facendo di ogni quadro un incantesimo, uno stratagemma percettivo in grado di sospendere ogni giudizio nello spettatore. Irascibile, sardonico, geniale, fecondo oltre misura con la sua monumentale produzione, trasformò il privilegio di ritrarre nel suo studio a Plaine-Monceau ereditato da Sargent le più facoltose donne europee e americane, nella sfida a spogliare l’arte da ogni tradizione “ottocentesca”. Il suo rapporto con le avanguardie ricalca il conflitto interiore e il carico di giudizio e di sentimento che agitò gli attori di quel clima di grande trasformazione che andava degradando nella grande guerra. Di lui disse con sagacia Ardengo Soffici, – «testimone spietato del suo tempo, un superbo cronista al quale sono preclusi però i sacri e profondi recinti dell’arte», secondo Fernando Mazzocca, (Il genio inafferrabile di Boldini e la sua discussa fortuna, in Boldini, cit.) – su «La Voce»:

«Il Boldini, non è infatti né un creatore né un poeta, e si può persino dubitare che sia un pittore; […] non si cura di cullare con l’armonia l’anima del riguardante né di elevarla verso una nuova concezione del mondo: egli si contenta di denunziarne il carattere dei suoi modelli. Più che un pittore-poeta egli è un dunque un verificatore, tutt’al più un commentatore. Anzi un commentatore malevolo, […] che deve considerare la gente del bel mondo – questi nemici tradizionali della sua razza – con occhi ostili, freddissimi; cercarne e scoprirne, soprattutto, le tare fisiche e morali. […] Grande? Chi dice che sia grande? Io no di certo. Io dico che è vivo, che esprime spiritosamente ciò che cade sott’occhio in quella spregevole società in cui vive – e che tutti i Sargent, tutti i la Gandara e tutti gli Helleu di questo mondo, non sono che dei miserabili pappagalli a petto a questo italiano, che fu un ragazzaccio a Montemurlo cinquant’anni fa, e che è ora un arbitro delle eleganze parigine» (marzo 1909).

Famoso, acclamato, coinvolto in tutte le manifestazioni mondane e artistiche parigine, ma non solo, non amava esporre in mostre personali la sua ricca produzione.

Francesca Dini: «Quanto a Carlo Placci, rinomato “maestro di cosmopoli”, egli non ebbe nessuna difficoltà a definire Boldini, nei primi anni del Novecento, “il nostro miglior artista italiano” per i suoi “quadri a fuochi d’artificio”, per le sue “tele spruzzate, piene di talento”, per il “diabolismo delle sue strambe linee”; sebbene umanamente gli apparisse poco interessante in quanto “poco intelligente nel parlare, così invidioso, acre, dispettoso, gnomico” (M.-J. Cambieri Tosi, Carlo Placci, maestro di Cosmopoli nella Firenze tra Otto e Novecento, Firenze 1984). La deformità fisica di Boldini, la sua condizione di straniero in terra di Francia avrebbero potuto farne un sopravvissuto della cinica società francese di fine secolo, ed invece proprio tali limiti resero più efficace quella maschera di terribilità attraverso la quale il ferrarese riuscì vincente sulla società a lui contemporanea, sedotta dalla forte personalità, prima ancora che vinta dagli innegabili meriti della sua pittura.

Si è forse mancato di riflettere su come, a fronte della dettagliata biografia del Nostro, non si abbia notizia di una mostra personale, se si esclude naturalmente quella allestita in occasione del suo viaggio a New York, nel 1987, presso la filiale americana di Boussod, Valadon and Co. È come se l’artista, in virtù del suo essere peintre mondain, deliberatamente si sottraesse al giudizio di quella società francese che lo venerava e lo temeva, “cattivo e indiscreto fino alla villania” (J.-P. Crespelle, Les Maîtres de la Bella Epoque, Parigi 1966); difetti questi che secondo taluni furono all’origine dello strepitoso successo dell’italiano, in un’epoca in cui la perfidia era conveniente. Vero e proprio domatore, il ferrarese cavalca le cronache mondane del tempo». (Francesca Dini, Dalla “macchia” alla Belle Epoque: il geniale virtuosismo di Boldini, in Boldini, a cura di Francesca Dini, Fernando Mazzocca, Carlo Sisi, Ed. Marsilio, Venezia 2005)

Rubò a Degas – come fecero De Nittis e Zandomeneghi – l’uso del pastello di cui divenne padrone, anticipò gli informali con le “sciabolate” di colore e per il critico Ragghianti seppe sintetizzare le influenze del Seicento e del Settecento (studiò Tiepolo, – e con lui Guardi, Piazzetta e Magnasco – Rembrandt, Bernini, ma soprattutto Frans Hals, Menzel e Anders Zorn) in una

«stenografia convulsiva, in cui ogni referenza cade per mettere a nudo l’esplosione di un movimento che ha una violenza turbinosa e un’irresistibile forza d’impulso [che porta a farne] il precursore di Boccioni, e qual precursore;  [innestando la questione, ripresa non sempre con misura dalla critica successiva, se era legittimo potergli assegnare] la tessera retrodatata di futurista: sta poi a vedere se l’avrebbe accettata, come non vorrebbe oggi esser considerato un “gestuale” avanti lettera, separando la coscienza lucida del suo io da ogni automatismo nervoso-muscolare» (C.L. Ragghianti, Le acrobazie di Boldini, «L’espresso», 1963).

Jean Boldini, come lo chiamavano fuori dall’Italia, seppe calcare le scene del ritratto internazionale con brillante savoir faire, con la sicurezza tecnica di un grande tra i più grandi. La figura, il volto, gli spazi, non ebbero segreti per la mano e l’occhio di Giovanni Boldini. Si può sottolineare a Boldini una certa disinvoltura da pagina lucida, una scivolata troppo svelta nella seduzione che il corpo femminile esercita con il suo incedere sempre doppio, ma non la «pittura futile e piacevolastra» che critici come Tinti gli assegnarono con disprezzato sussiego, come avrebbero fatto anche con De Nittis. Soltanto Jean-Louis Vaudoyer e la moglie Cardona ne elaborarono fino alla fine la visione a tutto tondo che gli sarà tributata nel Novecento, anche dalla picassiana Gertrude Stein: «Tutta la nuova scuola è nata da lui perché egli per primo ha semplificato la linea e i piani. Quando i tempi avranno situato i valori al giusto posto, Boldini sarà considerato il più grande pittore del secolo scorso», consacrandolo così all’alba della più transeunte contemporaneità.

Il grande ritratto “borghese”, dunque, fu tutt’altro che un trampolino per essere à la mode. Egli sperimentò con abilità straordinaria il ritratto macchiaiolo, sovrapponendo la pittura di impressione alla componente classica, ma la cifra che viene delineandosi si fa interprete di una sensibilità estroversa e visionaria, innamorata del colore, corrispondente al concetto di Montesquiou[1] – definito da Proust «Principe della Decadenza»:

«Pariginismo, Modernità, sono le due parole scritte dal maestro ferrarese su ogni foglia del suo albero di scienza e di grazia. […] Modernità, secolare antico richiamo, che fu il filo di perle di un Coello, la gorgiera di un Pourbus, la piega di un Watteau; che poi sarà quel tal bolero di un Boldini, quel tal drappo di Bernard, un abito da sera di Whistler».

Dipinse la sensualità e l’eros rilevando dagli occhi, dalle labbra, dalle spalle della modella tutte le istanze che la fortunata neppure sapeva di portare nel proprio destino, protagonista assoluta del suo amore fatto di pastelli, canti italiani, luci sferzate dall’uso di un nero le cui “lamate” ricordano la più violenta pittura del Novecento. Nella scena dell’atelier, Boldini si dedica completamente alla sua missione interpretativa, chiedendo alla creatura, timida ma in qualche modo ansiosa di essere ri-velata attraverso lo sguardo vorace e sensibile dello “gnomo”.

È uno psicoanalista della pittura, sapiente conoscitore del transfert erotico: Boldini saggia la seduzione della dama-modella, l’arma principale di una creatività che si esprime per sublimazione. Egli ama le sue modelle, le mette al centro di una relazione esclusiva, di delicata confidenza affettiva, in cui intervengono variabili latenti a dimostrazione del fatto che la componente panica è sempre presente nei lavori, anche quelli mirabilmente velati di  un bianco trasparente degno di una sposa.

Pensiamo alla Donna in nero che guarda «Il pastello bianco» (1889), e al Pastello bianco, dell’anno precedente, che ritrae Emiliana Concha de Ossa, una «giovinetta di 18 anni bella come un amore» (G. Boldini, lettera a Cristiano Banti, 1888), la minore delle tre sorelle nipoti del diplomatico – e amante dell’arte – il cileno Ramon Subercaseaux. Entrambi i lavori costituiscono in realtà un unico capolavoro di “architettura d’interni”, in cui Boldini introduce elementi rivoluzionari, come a inserire nella scena un osservatore silenzioso seduto in poltrona – un voyeur rispettabile; un rispecchiamento in ombra con una sconosciuta madame noir, una creatura sublime ed eterea appoggiata ad un punto sospeso nello spazio di un angolo di un salotto autorevole, significato dalla presenza di una poltroncina dal velluto turchese, dotando il personaggio principale – la diciottenne Emiliana – di una straordinaria compresenza teatrale nel vuoto scenario di una vita ancora da scrivere. Egli la sa descrivere con una perizia psicologica straordinaria, chiamando in causa gli archetipi junghiani a testimoni di una grazia che può essere solo trascendente. La luce pervade ogni spigolo, sebbene sia totalmente artificiale, con una freschezza sognante, nuziale.

I lavori hanno grandezza naturale, e sono di una bellezza che stordisce. Il primo, Il pastello bianco, è Anima allo stadio più perfetto. Le cronache e le lettere provano che sarà lo stesso Boldini il primo a restarne ammutolito e turbato (tanto da conservare per sé il lavoro, non volendosene privare, ma preparando un secondo originale per il committente), non solo per la innegabile meraviglia che in lui destava quella ragazza che inaugurò il ciclo delle «divine», quanto per la forza inaudita che dal pannello – completamente ricoperto di pastello usato con la superbia stilistica di Liotard, Mengs, Rosalba Carriera – sembrava emanare. Quella dolcezza era sprigionata dalla declinazione dei bianchi che descrive benissimo la scrittrice Colette nel 1932, ricordano una visita all’atelier del ferrarese: «Era da quel bianco generico che stavan nascendo, sulla tela, una pennellata dietro l’altra, i bianchi di crema, di neve, di carta lucida, di metallo nuovo, i bianchi degli abissi e dei confetti, i bianchi esasperati».

Questa “variabilità”, questa sensualità sacralizzata, sono il frutto di un’operazione che non può essere fatta senza l’aiuto del divino, una sorta di sublimazione all’interno di un processo in cui Boldini sembra padroneggiare perfettamente gli stadi del femminile. Tuttavia il costellarsi così “rapido” e incontrollato di Anima dovette invaderne la consueta sicurezza, al punto da destare il bisogno di tornare ad Ombra, a uno stadio precedente, una condizione meno pericolosa, in cui fosse ancora il “domatore”, com’era appellato, di quelle dame intelligenti e capricciose che frequentano il suo studio per anticipare, sulle tele magnifiche (che Whistler definì «sinfonie»), l’ardita bellezza dallo sguardo fiero e diretto della donna del Novecento. Alcuni critici hanno fatto riferimento al tema del Doppio, nella visitazione di questo lavoro di una complessità frattalica, influenzati anche dalla necessità di collocare in un rimando letterario (si pensi al ritratto di Dorian Gray) l’escamotage del pittore. Più lo si osserva, più aumentano i particolari che fanno pensare ad un Giovanni Boldini non solo geniale ritrattista ma anche intrigante, intelligente, riflessivo, avveduto pensatore dei processi di transfert che governano la dinamica, mai sufficientemente indagata, tra pittore e modella, tra artista e modello, tra soggetto e oggetto relazionale. Il campo è di una vastità tale che merita di essere studiato a fronte di una domanda via sull’eros e il narcisismo nell’arte contemporanea.


[1] conte Robert de Montesquiou-Fézensac, più comunemente noto come Robert de Montesquiou (Parigi, 7 marzo 1855 – Mentone, 11 dicembre 1921) è stato un poeta, scrittore e celebre dandy francese.

 

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