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Il gesto in piena di Cy Twombly

di Irene Battaglini

Prato, 30 settembre 2013

Cy Twombly

 

«Art is the triumph over chaos». John Cheever,  The Stories of John Cheever (1978)

articolo in pdf  IL GESTO IN PIENA DI CY TWOMBLY

 
 
 
 

The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 2The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 3The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 4

The Four Seasons: Spring, Summer, Autumn, and Winter. 1993-94, Synthetic polymer paint, oil, house paint, pencil and crayon on four canvases

L’arte di Cy Twombly è un grido sull’America. Un richiamo di sangue e di cieli densi di fiori che si rompono in un boato crespo di farfalle contaminate. La sua pittura è un fiotto che rompe gli argini dell’armonia, è un soffio che imprime voli per mete non raggiunte, non possibili. La pittura di Twombly (Virginia, 1928-Italia 2011), esprime il fallimento delle utopie moderniste. Illeggibile, incoerente, improbabile. Eppure è vera e bellissima. Bisogna capire come sia stato possibile creare questa unione violenta e irreversibile, come un aereo in velocissima precipitazione che prende fuoco sulla coda, e nell’atto di avvolgersi su di sé diventa una stella cometa. Quadri di una straordinaria epifania cromatica, di luce che esplode. In cui segni, colori e forme sono gli strumenti dell’agrimensore in un pianeta desertico di cui scongiura l’imminente deflagrazione. Sono il canto e la preghiera di un ultimo uomo verso Dio i cui occhi, che per dirla con McCarthy, un altro americano dignitario della più alta contemporaneità, «tradivano non disperazione, ma soltanto quell’insondabile, profonda solitudine che è l’impronta più tipica di questo mondo». (da Oltre il confine)

Tutta l’arte di Cy Twombly (pittore, incisore, disegnatore, scultore) è notte inoltrata che deflagra nell’aurora, è il “linguaggio dimenticato” di Erich Fromm su una lavagna stridente, è ardesia che si sbriciola a creare forme improbabili, è gemmazione di scarabocchi di luce bruciante dalle forme svelte, come le braccia di un nuotatore esperto che farfugliano nell’abisso e che nell’inconscio tumulto non smarriscono – nello smarrirsi – l’eleganza di quanto hanno appreso.

Il “quadro” deciso da Cy Twombly è una forma concreta di non-pittura, è una decisione spasmodica di andare verso la crisi linguistica e di immergersi in questo spasmo come all’imbocco della neoplasia che ha corroso velocemente l’universo percettivo del cui declino siamo attori, costretti alla visione monoculare della realtà dell’emarginazione o alla confusione conglobante e regressiva dei social-network. È una pittura di voci che si affollano ad un crocevia, dove è obbligato a stare l’artista contemporaneo che deve organizzare e riorganizzare continuamente immagini, metafore e rappresentazioni nella stanza della propria coscienza, che si affligge del proprio paradosso esistenziale, per dover essere nello stesso tempo figlio e dio, creatura e creatore.

Cy Twombly sembra aderire, per far fronte allo stress della devastante mitologia unilaterale del mondo contemporaneo, ad una tradizione “anticreativa”, come se il suo atelier fosse una prestigiosa accademia in cui lo scranno più alto è perennemente disabitato. La sua originalità è così potente che deve per forza nascondersi a se stesso, per capire qualche cosa della sua stessa talentuosa e indisciplinata arte del segno. La tecnica che lo vuole maestro nello sfocare la linea del contorno dal disegno è l’espressione di una strategia di attacco ai fianchi dell’ortodossia, è un modo per dire che l’infante è più indipendente del dio e più arrogante, più violento, più demoniaco. Del resto, il desiderio di unione deve essere spostato in una fuga in avanti verso la dimora della perfezione, verso la quale il puer muove con incessanti cadute e inappagato desiderio.

La proiezione sul futuro, su quello che sarebbe stato un disegno di Cy Twombly se egli ci avesse donato le forme belle del suo immane talento pittorico a detrimento della sua scelta di uomo autentico che decide di farsi scenario del mito della luce del mondo post-industriale, comincia già a costellarsi nel controverso ambiente del ventre materno dell’espressionismo, in cui nascono le sue prime opere, non in ordine ad una casualità, ma ad un divenire in prospettiva mitica del dramma della propria vita lacerata in cui segno e disegno, contorno e ombra, sono scissi eppure appaiati in un affiancamento in cui sembrano alloggiare danzatori solitari. Dice Adolf Guggenbühl-Craig nel libro Il bene del male. Paradossi del senso comune (Moretti&Vitali, 1998, pp. 27 e 28):

«Abbiamo [quindi] a che fare con due tradizioni: da un lato la creatività viene fatta oggetto di ammirazione, dall’altra essa viene ritenuta un attributo esclusivo di Dio e, per quanto riguarda gli uomini, la si considera soltanto una forma di hybris, di tracotanza. Sia quel che sia, con la creatività noi giungiamo faccia a faccia con Dio. E che cosa succede con l’indipedenza? Sicuramente possiamo ritenere che l’unico essere davvero indipendente in questo mondo sia Dio. Per definizione Dio è indipendente da tutto e da tutti, e tutto è dipendente da lui. Egli è l’inizio e la fine, alfa e omega del creato; […]. Noi stessi cerchiamo di raggiungere questo tipo di divinità, cadiamo vittima del complesso di Dio».

La prospettiva mitica fu, per Twombly, forza e sembianza, significato e bellezza. Il pittore amava nutrirsene, e fare dei suoi disegni “veicoli per contenuti letterari”,[i] dai quali cercava di liberare le figure.

L’opera di Twombly, se fosse tutta ordinata su piani paralleli, mostrerebbe una morfologia simile ad una stratificazione geologica intra-psichica in cui sembrano essersi fissati i marcatori del processo alchemico. Gli esordi, agli inizi degli anni ’50, sono connotati dall’influenza di Kline e Paul Klee, e sono prevalentemente pennellate gestuali-espressioniste, in un originale e morbido intreccio di tratti, parole, numeri e porzioni (“frazioni”) di oggetti. È molto attratto dall’Italia, dove si stabilisce definitivamente nel 1960, anno in cui allestisce la prima mostra alla Galleria di Leo Castelli.

Leda and the Swan, 1962, Cy TwomblyGli anni ’60 sono caratterizzati dai cosiddetti “Quadri della Lavagna”, opere di grande dimensioni in cui usava la tecnica calligrafica dei graffiti su sfondi solidi di colore grigio, marrone o bianco (una tecnica a metà tra la pittura e l’incisione), in cui la scrittura viene svestita del suo ruolo comunicativo e trasferita nel campo semantico del gesto, fino a costellare appieno l’action painting, ricco di citazioni come Leda e il cigno (1962, fig.1) o la famosa battaglia di Lepanto. In questo periodo, che è estremamente proficuo, comincia a creare le sue prime sculture astratte, le quali, sebbene varie nella forma e nel materiale, erano sempre ricoperte di pittura bianca. Twombly utilizzerà (e sarà scultore di quest’arte povera per tutta la vita) materiale preso a prestito dal fabbro, dal maniscalco, dal falegname, per dare altezza a forme semplici dalla struttura assemblata, a ricordare l’arte dei mastri antichi nel forgiare gli strumenti del lavoro: un omaggio alle cose, che si liberano della condizione di oggetti utili (come le lettere e la parola scritta) per diventare il simbolo del proprio servilismo: l’oggetto svilito dalla sua destinazione strumentale diventa un soggetto di bellezza silenziosa e perenne, come  in un processo di mummificazione, in cui gesso, vernice, legno, cartone, metallo, carta, stoffa, spago, matite, diventano elementi del lavoro manuale che, ricoperti di vernice bianca e opaca, subiscono l’ultimo trattamento immortale.

Nella metà degli anni ’70 Twombly realizza opere “multistrato”, vere e proprie creature che rappresentano la piena realizzazione del suo repertorio anticonvenzionale, costruite assemblando il collage di fogli ad altri media pittorici.

Gli spazi “vuoti” sono il collante necessario al dipanarsi di una creatività splendente, che attinge spietatamente alla linguistica, piratandone i sistemi di base. Il segno diventa “lemma” e spesso è contratto in un calco filologico: come se un bambino geniale avesse la capacità improvvisa di comunicare attraverso un linguaggio in cui verbo e immagine convergono in una bocca vulcanica fatta di meraviglie e di delicatezze, che vengono alla luce con estrema cura, a  volte con riferimenti geografici, come la serie dei quadri Bolsena (il lago vulcanico vicino a Viterbo).

Apollodoro from the portfolio Six Latin Writers and Poets, 1976-76, Cy TwomblyIn questi lavori, gli elementi grafici si fondono con forza tecnica sempre più rilevante in una sorta di dissoluzione vorticosa, di totale imprendibilità, ma sono talvolta caratterizzati da un nitore fantasmatico, come una sorta di alfabeto decifrabile dalla perizia di pochi eletti, come ad esempio in Apollodoro, (fig. 2), fino a raggiungere negli anni ’90 l’acme estetico di eleganti esemplari floreali che in qualche modo lo ricongiungono, in una sorta di re-unione con il principio, ai Fauve che ne connotarono gli inizi del percorso mezzo secolo prima, nel periodo americano, in cui fu della scuola dei grandi Robert Rauschenberg e Jasper Johns.

Un esempio folgorante è quello delle Quattro Stagioni, giganteschi pannelli che sembrano dimorare tra lo spazio scenico e quello architettonico, in una sorta di danza dei colori che si raccordano in chiazze in perenne tentativo di scendere verso il basso, trattenute contro la tela da invisibili fili, come mani che tentano di mitigare l’urlo di una dea di bellezza arcaica, maestra delle pitture rupestri.

L’ interno delle tavole è carico di una fortissima tensione, di una conflittualità invadente e di una cripticità linguistica che rimanda alla costante alternanza tra violenza e silenzio, tra sessualità e gioco, tra luce e fondale, in un rapporto emotivamente coinvolgente con lo spettatore: al quale non è difficile desiderare di balzare dentro il quadro e affondare gli occhi in quel coacervo di colore.

I fiori sono, in alcuni lavori, vere e proprie esplosioni e non è un caso se appartengono all’ultima parte del viaggio pittorico di Twombly. Artista ricchissimo e avido, così viene descritto, non fu mai collocato dalla critica americana nella Pop Art; questa sua ostinata originalità stilistica fu la sua fortuna: i suoi quadri sono valutati milioni di dollari e ambiti dai maggiori galleristi.

Non essendo “schematico”, si può solo ripercorrere a ritroso il suo progetto e intercettarne alcune coordinate, con una visione dall’interno, che sembra l’unica via percorribile, proprio come farebbe quello spettatore curioso e invadente. E tornando a quel processo alchemico stigmatizzato nella geologia delle opere, non è difficile individuare un alternarsi di strati di bianco, di rosso, di nero. La qualità dinamica dell’opera di Twombly si interseca con quella statica di depositaria del messaggio, è quindi un’opera magistrale che separa l’oro dal fango, e aggiunge un’aura di mistero e di sapienza, per quella inusuale competenza del maestro a rendere coscienti e ricchi sia il nero che il rosso l’uno dell’altro, stretti al confine tra il simbolico e l’astratto, uniti dall’invisibile catena dell’espressione del colore in piena luce, che sembra poter dire tutto, ma che di fatto rimanda sempre ad altro in un infinito specchio di rappresentazioni.

La catalogazione in “espressionismo”, infatti, è sempre relativizzante, perché non fa altro che dire continuamente che sotto l’espressione c’è una volontà di manifestare, di dire, di esprimere. Il messaggio “espresso” da Twombly è ancora totalmente indecifrato. Un’idea, un desiderio, di destituire il mito restituendo al sogno gli eroi e le anfore di un tempo passato.


 

 

 

I pastelli di Giovanni Boldini. Di Anima e di Ombra

di Irene Battaglini                                                                       Prato, 1° giugno 2013

L’IMMAGINALE

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pdf I pastelli di Giovanni Boldini, di Anima e di Ombra

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Pittore complesso che lascia aperta la domanda sulla fine dell’eros nell’arte contemporanea, italiano di Ferrara che si impose a Parigi dalla metà dell’Ottocento fino a tutta la Belle Epoque. Una storia ottuagenaria, quella di Giovanni Boldini, alimentata dalla immane bibliografia epistolare in cui sono raccontate le vite e le opere, le passioni e i piccoli fatti quotidiani, di molti protagonisti di quel periodo: Edgar Degas, Telemaco Signorini, il mercante Goupil, il pittore Paul César Helleu, il caricaturista Georges Goursat Sem. Storie mediate dalle scritture di Cristiano Banti (amico intimo e mancato suocero di Giovanni), del fratello Gaetano Boldini, dell’ultima compagna e biografa Emilia Cardona, che divenne sua moglie ed erede universale di tutte le opere del ferrarese.

Fine psicologo della mente femminile, che conosce in ogni inclinazione di seta e in ogni misura dell’iride, ritrattista senza pari della voluttà, della sfida e dell’ironia, magnifico pittore dei fasti della Vecchia Europa che sembrano difendere, come sentinelle di broccato e di luce, le “divine” e i ricchi signori, dei fiori policromi che invadono i giardini come stelle che si aprono al sole, dei cieli splendenti di azzurri di cui la natura stessa ancora gli chiede ragione, egli fu maestro silenzioso, non ebbe allievi significativi, ma estimatori e molti acquirenti, e molti amici nella Parigi sfolgorante di quel tempo. Un tempo che Giovanni Boldini seppe dipingere facendo di ogni quadro un incantesimo, uno stratagemma percettivo in grado di sospendere ogni giudizio nello spettatore. Irascibile, sardonico, geniale, fecondo oltre misura con la sua monumentale produzione, trasformò il privilegio di ritrarre nel suo studio a Plaine-Monceau ereditato da Sargent le più facoltose donne europee e americane, nella sfida a spogliare l’arte da ogni tradizione “ottocentesca”. Il suo rapporto con le avanguardie ricalca il conflitto interiore e il carico di giudizio e di sentimento che agitò gli attori di quel clima di grande trasformazione che andava degradando nella grande guerra. Di lui disse con sagacia Ardengo Soffici, – «testimone spietato del suo tempo, un superbo cronista al quale sono preclusi però i sacri e profondi recinti dell’arte», secondo Fernando Mazzocca, (Il genio inafferrabile di Boldini e la sua discussa fortuna, in Boldini, cit.) – su «La Voce»:

«Il Boldini, non è infatti né un creatore né un poeta, e si può persino dubitare che sia un pittore; […] non si cura di cullare con l’armonia l’anima del riguardante né di elevarla verso una nuova concezione del mondo: egli si contenta di denunziarne il carattere dei suoi modelli. Più che un pittore-poeta egli è un dunque un verificatore, tutt’al più un commentatore. Anzi un commentatore malevolo, […] che deve considerare la gente del bel mondo – questi nemici tradizionali della sua razza – con occhi ostili, freddissimi; cercarne e scoprirne, soprattutto, le tare fisiche e morali. […] Grande? Chi dice che sia grande? Io no di certo. Io dico che è vivo, che esprime spiritosamente ciò che cade sott’occhio in quella spregevole società in cui vive – e che tutti i Sargent, tutti i la Gandara e tutti gli Helleu di questo mondo, non sono che dei miserabili pappagalli a petto a questo italiano, che fu un ragazzaccio a Montemurlo cinquant’anni fa, e che è ora un arbitro delle eleganze parigine» (marzo 1909).

Famoso, acclamato, coinvolto in tutte le manifestazioni mondane e artistiche parigine, ma non solo, non amava esporre in mostre personali la sua ricca produzione.

Francesca Dini: «Quanto a Carlo Placci, rinomato “maestro di cosmopoli”, egli non ebbe nessuna difficoltà a definire Boldini, nei primi anni del Novecento, “il nostro miglior artista italiano” per i suoi “quadri a fuochi d’artificio”, per le sue “tele spruzzate, piene di talento”, per il “diabolismo delle sue strambe linee”; sebbene umanamente gli apparisse poco interessante in quanto “poco intelligente nel parlare, così invidioso, acre, dispettoso, gnomico” (M.-J. Cambieri Tosi, Carlo Placci, maestro di Cosmopoli nella Firenze tra Otto e Novecento, Firenze 1984). La deformità fisica di Boldini, la sua condizione di straniero in terra di Francia avrebbero potuto farne un sopravvissuto della cinica società francese di fine secolo, ed invece proprio tali limiti resero più efficace quella maschera di terribilità attraverso la quale il ferrarese riuscì vincente sulla società a lui contemporanea, sedotta dalla forte personalità, prima ancora che vinta dagli innegabili meriti della sua pittura.

Si è forse mancato di riflettere su come, a fronte della dettagliata biografia del Nostro, non si abbia notizia di una mostra personale, se si esclude naturalmente quella allestita in occasione del suo viaggio a New York, nel 1987, presso la filiale americana di Boussod, Valadon and Co. È come se l’artista, in virtù del suo essere peintre mondain, deliberatamente si sottraesse al giudizio di quella società francese che lo venerava e lo temeva, “cattivo e indiscreto fino alla villania” (J.-P. Crespelle, Les Maîtres de la Bella Epoque, Parigi 1966); difetti questi che secondo taluni furono all’origine dello strepitoso successo dell’italiano, in un’epoca in cui la perfidia era conveniente. Vero e proprio domatore, il ferrarese cavalca le cronache mondane del tempo». (Francesca Dini, Dalla “macchia” alla Belle Epoque: il geniale virtuosismo di Boldini, in Boldini, a cura di Francesca Dini, Fernando Mazzocca, Carlo Sisi, Ed. Marsilio, Venezia 2005)

Rubò a Degas – come fecero De Nittis e Zandomeneghi – l’uso del pastello di cui divenne padrone, anticipò gli informali con le “sciabolate” di colore e per il critico Ragghianti seppe sintetizzare le influenze del Seicento e del Settecento (studiò Tiepolo, – e con lui Guardi, Piazzetta e Magnasco – Rembrandt, Bernini, ma soprattutto Frans Hals, Menzel e Anders Zorn) in una

«stenografia convulsiva, in cui ogni referenza cade per mettere a nudo l’esplosione di un movimento che ha una violenza turbinosa e un’irresistibile forza d’impulso [che porta a farne] il precursore di Boccioni, e qual precursore;  [innestando la questione, ripresa non sempre con misura dalla critica successiva, se era legittimo potergli assegnare] la tessera retrodatata di futurista: sta poi a vedere se l’avrebbe accettata, come non vorrebbe oggi esser considerato un “gestuale” avanti lettera, separando la coscienza lucida del suo io da ogni automatismo nervoso-muscolare» (C.L. Ragghianti, Le acrobazie di Boldini, «L’espresso», 1963).

Jean Boldini, come lo chiamavano fuori dall’Italia, seppe calcare le scene del ritratto internazionale con brillante savoir faire, con la sicurezza tecnica di un grande tra i più grandi. La figura, il volto, gli spazi, non ebbero segreti per la mano e l’occhio di Giovanni Boldini. Si può sottolineare a Boldini una certa disinvoltura da pagina lucida, una scivolata troppo svelta nella seduzione che il corpo femminile esercita con il suo incedere sempre doppio, ma non la «pittura futile e piacevolastra» che critici come Tinti gli assegnarono con disprezzato sussiego, come avrebbero fatto anche con De Nittis. Soltanto Jean-Louis Vaudoyer e la moglie Cardona ne elaborarono fino alla fine la visione a tutto tondo che gli sarà tributata nel Novecento, anche dalla picassiana Gertrude Stein: «Tutta la nuova scuola è nata da lui perché egli per primo ha semplificato la linea e i piani. Quando i tempi avranno situato i valori al giusto posto, Boldini sarà considerato il più grande pittore del secolo scorso», consacrandolo così all’alba della più transeunte contemporaneità.

Il grande ritratto “borghese”, dunque, fu tutt’altro che un trampolino per essere à la mode. Egli sperimentò con abilità straordinaria il ritratto macchiaiolo, sovrapponendo la pittura di impressione alla componente classica, ma la cifra che viene delineandosi si fa interprete di una sensibilità estroversa e visionaria, innamorata del colore, corrispondente al concetto di Montesquiou[1] – definito da Proust «Principe della Decadenza»:

«Pariginismo, Modernità, sono le due parole scritte dal maestro ferrarese su ogni foglia del suo albero di scienza e di grazia. […] Modernità, secolare antico richiamo, che fu il filo di perle di un Coello, la gorgiera di un Pourbus, la piega di un Watteau; che poi sarà quel tal bolero di un Boldini, quel tal drappo di Bernard, un abito da sera di Whistler».

Dipinse la sensualità e l’eros rilevando dagli occhi, dalle labbra, dalle spalle della modella tutte le istanze che la fortunata neppure sapeva di portare nel proprio destino, protagonista assoluta del suo amore fatto di pastelli, canti italiani, luci sferzate dall’uso di un nero le cui “lamate” ricordano la più violenta pittura del Novecento. Nella scena dell’atelier, Boldini si dedica completamente alla sua missione interpretativa, chiedendo alla creatura, timida ma in qualche modo ansiosa di essere ri-velata attraverso lo sguardo vorace e sensibile dello “gnomo”.

È uno psicoanalista della pittura, sapiente conoscitore del transfert erotico: Boldini saggia la seduzione della dama-modella, l’arma principale di una creatività che si esprime per sublimazione. Egli ama le sue modelle, le mette al centro di una relazione esclusiva, di delicata confidenza affettiva, in cui intervengono variabili latenti a dimostrazione del fatto che la componente panica è sempre presente nei lavori, anche quelli mirabilmente velati di  un bianco trasparente degno di una sposa.

Pensiamo alla Donna in nero che guarda «Il pastello bianco» (1889), e al Pastello bianco, dell’anno precedente, che ritrae Emiliana Concha de Ossa, una «giovinetta di 18 anni bella come un amore» (G. Boldini, lettera a Cristiano Banti, 1888), la minore delle tre sorelle nipoti del diplomatico – e amante dell’arte – il cileno Ramon Subercaseaux. Entrambi i lavori costituiscono in realtà un unico capolavoro di “architettura d’interni”, in cui Boldini introduce elementi rivoluzionari, come a inserire nella scena un osservatore silenzioso seduto in poltrona – un voyeur rispettabile; un rispecchiamento in ombra con una sconosciuta madame noir, una creatura sublime ed eterea appoggiata ad un punto sospeso nello spazio di un angolo di un salotto autorevole, significato dalla presenza di una poltroncina dal velluto turchese, dotando il personaggio principale – la diciottenne Emiliana – di una straordinaria compresenza teatrale nel vuoto scenario di una vita ancora da scrivere. Egli la sa descrivere con una perizia psicologica straordinaria, chiamando in causa gli archetipi junghiani a testimoni di una grazia che può essere solo trascendente. La luce pervade ogni spigolo, sebbene sia totalmente artificiale, con una freschezza sognante, nuziale.

I lavori hanno grandezza naturale, e sono di una bellezza che stordisce. Il primo, Il pastello bianco, è Anima allo stadio più perfetto. Le cronache e le lettere provano che sarà lo stesso Boldini il primo a restarne ammutolito e turbato (tanto da conservare per sé il lavoro, non volendosene privare, ma preparando un secondo originale per il committente), non solo per la innegabile meraviglia che in lui destava quella ragazza che inaugurò il ciclo delle «divine», quanto per la forza inaudita che dal pannello – completamente ricoperto di pastello usato con la superbia stilistica di Liotard, Mengs, Rosalba Carriera – sembrava emanare. Quella dolcezza era sprigionata dalla declinazione dei bianchi che descrive benissimo la scrittrice Colette nel 1932, ricordano una visita all’atelier del ferrarese: «Era da quel bianco generico che stavan nascendo, sulla tela, una pennellata dietro l’altra, i bianchi di crema, di neve, di carta lucida, di metallo nuovo, i bianchi degli abissi e dei confetti, i bianchi esasperati».

Questa “variabilità”, questa sensualità sacralizzata, sono il frutto di un’operazione che non può essere fatta senza l’aiuto del divino, una sorta di sublimazione all’interno di un processo in cui Boldini sembra padroneggiare perfettamente gli stadi del femminile. Tuttavia il costellarsi così “rapido” e incontrollato di Anima dovette invaderne la consueta sicurezza, al punto da destare il bisogno di tornare ad Ombra, a uno stadio precedente, una condizione meno pericolosa, in cui fosse ancora il “domatore”, com’era appellato, di quelle dame intelligenti e capricciose che frequentano il suo studio per anticipare, sulle tele magnifiche (che Whistler definì «sinfonie»), l’ardita bellezza dallo sguardo fiero e diretto della donna del Novecento. Alcuni critici hanno fatto riferimento al tema del Doppio, nella visitazione di questo lavoro di una complessità frattalica, influenzati anche dalla necessità di collocare in un rimando letterario (si pensi al ritratto di Dorian Gray) l’escamotage del pittore. Più lo si osserva, più aumentano i particolari che fanno pensare ad un Giovanni Boldini non solo geniale ritrattista ma anche intrigante, intelligente, riflessivo, avveduto pensatore dei processi di transfert che governano la dinamica, mai sufficientemente indagata, tra pittore e modella, tra artista e modello, tra soggetto e oggetto relazionale. Il campo è di una vastità tale che merita di essere studiato a fronte di una domanda via sull’eros e il narcisismo nell’arte contemporanea.


[1] conte Robert de Montesquiou-Fézensac, più comunemente noto come Robert de Montesquiou (Parigi, 7 marzo 1855 – Mentone, 11 dicembre 1921) è stato un poeta, scrittore e celebre dandy francese.

 

220px-Giovanni_Boldini01Giovanni Boldini

Le porte di sabbia lilac-poin​t di Kairouan

di Irene Battaglini                                          Prato, 28 aprile 2013

L’immaginale

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pdf  5. PAUL KLEE 28 04 2013

 «Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte.
Poi pesante e prezioso e reso forte dal fuoco.
Di sera pervaso da Dio e curvato.
Infine etereo avvolto di blu,
si libra su campi innevati, verso cieli stellati».
Paul Klee, 1918
 
«L’arte non deve riprodurre il visibile ma deve rendere visibile»
Paul Klee, La confessione creatrice, 1920 – Lezioni al Bauhaus

 

L’universo pittorico di Klee è governato dalle leggi della fisica e del linguaggio dei segni, esposte nelle virtù più eleganti, sofisticate, delicate.

Due sono le anime che si avvicendano nella pittura di Klee, nella recondita armonia della danza degli opposti: la dolcezza estrema di una mano autorevole e formativa, paterna, piena, senza ripensamenti, e la necessaria spinta sconfinante di un bambino che esplora l’universo delle cose e di Dio. Avanguardista per i critici, fu l’esempio silenzioso e rivoluzionario dell’antimodernismo nell’arte contemporanea. Coniugò i tratti appresi dalle tradizioni pittoriche e dallo studio dei grandi ai colori bruni e rossi delle terre e ai freddi viola del cielo, ai verdi dei prati e degli occhi di un gatto, amò l’Italia e la sua anomalia genetica, il suo viversi senza ipotesi, dentro se stessa, la sua storia.

Pittore-uomo tra le macerie classiche, raccoglie uno ad uno quei cocci spenti sotto i quali arde la cenere dell’arte mediterranea. I suoi patchwork cromatici, splendenti più del bronzo fuso dei grandi decori dell’Art Nouveau, di cui pure fu contemporaneo, accendono fuochi di immensa potenzialità espressiva. Le sue linee – le più sottili, quelle del periodo del Bauhaus, dagli anni 20 agli anni 30 –, sono il grimaldello che fa apparire il possibile, il dono del colore, la realizzazione delle possibilità. Eccellenti fulcri generativi per la formazione dei giovani modernisti, allievi di Walter Gropius, di fatto sono veri e propri interventi di psicologia dell’arte, di indagine nelle stratificazioni dell’inconscio dinamico e cognitivo, alla ricerca di impliciti sostegni al necessario, al minimale come essenziale, di leggi che governano mondi sconosciuti alle geometrie euclidee perché a queste precedenti.

Sostiene lo stesso Klee: «Io, a differenza di Kandinskij e di Marc, vivo un mondo intermedio; mentre Kandinskij vive il mondo iperuranico, dove c’è lo spirituale, l’assoluto, l’abbandono del sensibile, Marc vive il mondo terreno, io vivo un mondo intermedio, abitato dai morti e dai non nati, cioè delle possibilità che non si sono date» e ancora «Nell’al di qua non mi si può afferrare. Ho la mia dimora tanto tra i morti quanto tra i non nati. Più vicino del consueto al cuore della creazione, gli altri al cuore della creazione, ma non abbastanza vicino». (Paul Klee, Diari, 1898-1918)

Klee non dichiara un rifiuto nei confronti dell’arte contemporanea, – che all’epoca tracciava i primi segni fondamentali, – tutt’altro. Kandinskij e Marc sono suoi grandi amici. Era forse l’unico artista d’avanguardia in grado di leggere il greco antico. Nei Diari dirà che l’Italia classica rimane la base, il punto di partenza per il suo lavoro autonomo. Alcuni mesi prima di morire ebbe un dichiarato riavvicinamento al suo background classico. Già nel 1932, Klee compone il mosaico Testa di atleta (Metropolitan Museum of Art, New York), che recentemente Phyllis Lehmann ha collegato con i mosaici antichi, con le teste di atleti, rinvenuti nelle Terme di Caracalla. Lo studioso ceco Jan Bažant, nell’articolo Klee’s “Senecio” and “senecio” in Rome, (pp. 332-335, 2004, “Umění Art”, Journal of the Institute of Art History, Academy of Science of Czech Republic), argomenta copiosamente le connessioni tra Klee e l’arte classica, scandagliando quelle direzioni spesso trascurate dai critici, che tendono a collocare Klee a ridosso delle linee che collegano le avanguardie al minimalismo e all’architettura di interni, l’astrattismo all’espressionismo elegante, come una sorta di filosofo della forma senza alberi genealogici. Un Klee naturalmente intatto, portatore di una storia senza tempo passato. Ma sono le immagini a tradire questa idea di superficie.

Alla fine della sua vita la bellezza chimerica delle sue figure “astratte” (di fatto vicine alla percezione basica, alla “scena primaria” della storia dell’arte) divengono vere e proprie imago, si pensi alle serie di Eidola, Angeli, Passioni, che somigliano ad un percorso alchemico di approssimazione all’immagine primordiale della morte. Morte che si fa figura, fatto, e costringe Klee ad abbandonare anche il regno della metafora e della rappresentazione. Il visibile emerge nella piena luce, è risurrezione e destino, bianco ritorno al colore in purezza, unito e compatto, il colore spirituale di Kandinskij.

Sono figurette che si addobbano di un pudore intimo, di una lingerie inviolabile, come se racchiudessero nella loro purezza originaria un’etica mai provvisoria dell’identità. Che diventa questione non negoziabile: Klee dipinge, scrive, ed è musicista affermato.

È la discussione intorno al segno che è centrale, mentre i linguaggi possono essere scelti, possono essere sovrapposti. La pittura non è il suo destino, ma il crogiuolo più adatto ad accogliere la sua attitudine a comporre e scomporre, avendone una restituzione immediata e tangibile. Se il lavoro di Klee è la negazione della materia nello studio sulla materia, egli decide di farlo con la metodologia più adeguata: ovvero sul campo, non già adottando escamotage intellettuali, ma confrontasi direttamente con la materia pittorica, elaborando un suo proprio sistema di enunciati a sostenere un’architettura estetica alla sua tensione verso la liberazione dai vincoli della sintassi abitativa che l’uomo organizza scartando continuamente tutti gli input che non riesce ad elaborare.

I tratti di bambino creativo rispecchiano l’adesione alla percezione scomposta, frammentaria e sfalsata che il bambino ha della realtà del mondo sensibile, ma anche il grumo percettivo vitale che costituisce il primo passo dell’uomo nell’universo naturale attraverso i suoi sensi ancora non del tutto perfezionati, nel quale il soffio è nell’atto di essere inspirato, nel quale il verbo è nel punto di essere detto. Quest’uomo balbettante percepisce l’orizzonte e le forme degli animali e il suo muoversi a tentoni, e ancora non comprende del tutto il rapporto che si genera tra loro per triangolarne la posizione. Di fatti, i disegni di Klee non costruiscono un percorso regressivo verso le forme arcaiche, diciamo le forme impresse nel sistema nervoso rettiliano, ma sono un approdo antropologico nella sua ricerca delle percezione immaginale del primo istante, della scintilla dell’origine. Klee sostiene che l’arte debba rendere visibile l’invisibile. Quindi non deve scontornare, dal tutto, l’antico e il primitivo sottraendone il nuovo, ma far vedere quel che l’occhio non ha potuto imprimere in forma segnica, in altre parole fa un lavoro di integrazione e non di sottrazione. In questo sta il suo antimodernismo rivoluzionario. Egli si libera dell’asservimento progressista alla materia e alla tecnica per declinare la sua totale autonomia narrativa e linguistica, ed è questo coraggio a farne uno dei più celebrati ed amati pittori di ogni tempo. Egli piace, perché raggiunge il cuore, perché evidenzia il trascurato, perché alimenta l’occhio desiderante dell’uomo di una tensione mai colma ma sempre sul punto di rivelarsi, alla De Chirico, alla Morandi. Non è mai saturo, non è mai in risposta. Interpretato ed errante, Klee è e si vive, si fa vivere dal mondo, si mette al servizio della dimensione umana, traghettandoci in quel futuro plastico dell’arte contemporanea in cui il dibattito tra l’archetipo legislatore della forma e il versante destruente della materia è sempre acceso. Il lascito di Klee è però molto molto impegnativo. Le riflessioni sulla sua produzione monumentale (si contano oltre novemila opere …) costituiscono un nucleo fondamentale di nodi critici, sui quali ancora si articolano mostre internazionali, cataloghi, saggi, laboratori e piste di ricerca. Ma fu soprattutto un teorico, un filosofo dell’estetica. «L’importanza di Klee per concenzione artistica del Novecento è pari a quella che ha avuto Leonardo da Vinci con il suo De Pictura del Quattrocento, in mezzo non c’è nessun altro che eguagli una pari grandezza», sostiene Giuseppe Di Giacomo (Paul Klee, treccani.it, 2012).

Deborda, colorando, dai confini che egli stesso ha disegnato sulla carta; esprime, dipingendo, una ingenuità cromatica che ha del sublime, che arresta ogni tentativo di collocazione, che declina l’invito alla mattanza del raziocinio.

La pittura di Klee è poetica e sperduta, perché è innamorata del mondo. Egli è da subito abile nella sintesi, ma in realtà in ogni suo lavoro si cela sempre il tema dell’infinito, o meglio del rapporto primigenio tra l’Uomo e l’Infinito. ”Davanti le porte di Kairouan” ne rappresenta l’anelito e l’epifania.

Ha il chiarore dell’alba, Kairoaun, e la tenebra della notte imminente nel deserto. I colori sono dell’ebbrezza delicata, gli sfondi e i protagonisti in primo piano, un tutt’uno con i molteplici orizzonti. L’acquerello del 1914 è di una bellezza impressionante, e – insieme a Cupole rosse e bianche, Case rosse e gialle a Tunisi, Motivo da Hammamet, Il tappeto del ricordo, – Davanti alle porte di Kairouan è una preghiera, un desiderio puro di unione con il mondo, di ritorno al naturale.

La tavolozza cromatica è delicata, eppure i rosa dell’alba sono i viola del tramonto, i grigi colori della polvere sollevata dai dromedari sono pari agli ori della sabbia intrisa di sole sfolgorante. A farla da padrone il rosso. Un rosso che non c’è eppure si percepisce, pervade come un inchiostro liquido e magico tutta la tela di carta, di quegli inchiostri invisibili che appaiono come per magia, appena ti avvicini alla mappa del tesoro. È il rosso della terra, che è contiguo al viola del cielo in assenza del verde. Questi colori giocano a nascondino, si separano, si accoppiano, si rincorrono. L’inafferrabile visione di Klee, è la sintesi del suo amore per il colore, per la pittura, per il creato: «Un senso di conforto penetra profondo in me, mi sento sicuro, non provo stanchezza. Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore». Kairouan, 16 aprile 1914.

Il linguaggio poetico di Paul Klee

di Andrea Galgano                                                                                             Prato, 18 aprile 2013

Poesia Contemporenea

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pdf: IL LINGUAGGIO POETICO DI PAUL KLEE

220px-Paul_Klee_1911Il gesto poetico di Paul Klee (1879-1940) persegue il segreto e l’attrazione della genesi, la coltivazione di una ricerca, mai marginale, che non tocca il movimento di una glossa all’opera figurativa, ma sostanzia la percezione linguistica in una accezione significativa e densa, in un tratto omologo all’espressione artistica.

Se nei suoi Diari lo scenario, il divenire e il formarsi della creazione raggiungono l’acme di una continua tensione, i suoi testi poetici non affermano una subordinazione all’atto artistico, ma raccolgono il fecondo rapporto tra l’artista e la creazione, tra la tensione cosmica e la sigla strutturale dell’umano:

«Sguardo retrospettivo. Mi sono posto dinanzi a me stesso, a scrutarmi. Ho detto addio alla musica, alla letteratura. Ho desistito dall’aspirare ad una raffinata esperienza sessuale, rinunciando a quella tale avventura. Anche alle arti figurative penso appena, devo dedicarmi prima a sviluppare la mia personalità. In questo devo essere conseguente e non cedere alle sollecitazioni. Sono certo che solo così riuscirò a trovare poi la giusta espressione nell’arte»

o ancora

«L’arte è una similitudine della creazione. Essa è sempre un esempio, come il terrestre è un esempio cosmico. La liberazione degli elementi, il loro raggruppamento in sottoclassi composte, lo smembramento e la ricomposizione in un tutto da più parti contemporaneamente, la polifonia figurativa, il raggiungimento della quiete mediante la compensazione dei movimenti: sono tutti alti problemi formali, fondamentali per la conoscenza della forma, ma non ancora arte della cerchia superna. Nella cerchia superna, dietro la pluralità delle interpretazioni possibili, resta pur sempre un ultimo segreto – e la luce dell’intelletto miseramente impallidisce».

Dunque, se in questo libro la sua attenzione si rivolge ai meccanismi precipui di indagine, nella sua poesia sembrano assentarsi le cromature, discostandosi da altri poeti espressionisti, come Georg Trakl, ad esempio, in cui la forte pregnanza cromatica ha densità metaforica ed esaurisce il momento della scrittura.

Scrive Giorgio Manacorda, a cui si deve l’edizione dell’opera poetica di Klee: «Nei versi di Klee non si incontrano colori, non affiora una visione cromatica della realtà. I versi di Klee non descrivono il fantasma colorato del mondo, così come non lo descrivono i suoi quadri. […] Il colore è intuito dal lettore come qualità non nominata di una funzione. In questi lessemi («essere incandescente», «incandescenza», «bruciare», «sangue», ecc.)  la valenza semantica prevale sul momento dell’implicito e presente valore cromatico».

Tale valenza si contrappone all’impressione, abbracciando la vertigine di un lessico mitico e simbolico. Il rapporto tra i segni linguistici e la densità espressiva carpisce la forte corposità di metafora e connette la sofferenza dell’esistere alla sensazione panica, al turbamento, all’abrasione, specie quando egli scrive: «Io somiglio al dirupo / dove la resina cuoce nel sole, / dove i fiori scottano», oppure, «Mi rifugiai nei campi assolati abbandonato / al rovente declivio».

Il vocabolario delle immagini, che egli sviluppa, si avvale del pittogramma che si trasforma in icona, ridestando una stretta vicinanza tra la decorazione del passaggio interiore con la simbolizzazione dell’atto figurativo.

Il testo visivo di Klee sottende a una orizzontalità pronunciata e invoca una lettura intrinsecamente temporale, in cui l’enfasi, il volume e il ritmo conferiscono un netto e inequivocabile parallelo visivo.

La metafora incendiaria raccoglie la solitudine nei confronti degli elementi della natura, cambia prospettiva di paesaggio, come un’esclusione sproporzionata e tripudio d’assedio, finestra verbale e visuale: «Come davanti alla tempesta / fuggono gli uomini … / Io sono il timoniere e la mia nave / forte mi porta alla meta» oppure «Io sono cresciuto solo su una landa / (…)  / tempeste andavano e venivano, / avevano spazzato via ogni debole cosa. / (…) Il mio riparo sia intanto solamente il pensiero».

Il momento prometeico di Klee però afferma, rispetto allo Sturm und Drang, a cui potrebbe rimandare, un’apertura alla realtà, come centro di amore e orrore, scultura di frammenti, grido di sole: «Tu sei grande, è grande / la tua opera. Ma / solo grande all’inizio / incompiuta. / Un frammento. // Compila! / Allora griderò l’evviva!».

La sua vertigine tra uomo-artista e divinità raccoglie un confronto solitario, insegue un discorso sul reale che non ha l’enfasi estatica ma «il problema del rapporto con dio è il problema del rapporto (gnoseologico) con il meccanismo che muove l’universo. Dalla dialettica o forse, meglio, dalla contrapposizione tra particolare e universale non nasce nessun misticismo». (Giorgio Manacorda)

La relazione dinamica tra la natura e la metafora è biunivoca e diverge nella sottigliezza di una struttura semantica che nega quest’ultima, per raggiungere la conoscenza dei meccanismi cosmici.

La misura con il dio-cosmo non annulla distanze, ma provoca la sbavatura della sofferenza oltre il margine umano. L’uomo-artista riesce, attraverso la profusione creativa, ad abbracciare e raggiungere l’ordine cosmico. Il risultato è un vortice e una vertigine metafisici: «Pensa di essere morto / lontano e dopo molti anni / ti viene concesso un solo sguardo / verso la Terra. // Vedrai un lampione e un cane / vecchio con la zampa alzata. / Singhiozzerai dalla commozione».

La distanza è una visione che non solo partecipa, ma “vede” il suo processo creativo, attraverso lo svolgimento di una istanza umana sofferta, dura e lenta: «La mia testa brucia da saltare / / Uno dei mondi / che nasconde / deve nascere // Ma prima di creare / devo soffrire».

Il parto creativo avvicina l’anima alla genesi femminile. La donna di Klee ha il nome annunciante di un infinito silente e artefice, plasmatrice e innovatrice della fecondità ideale, come il verde della vita e dell’amore verso Evelina, gioia e aggettivo di una fertile serenità:

«Eveline è un sogno verde tra gli alberi, il / sogno di un bambino nudo nella campagna. / Me ne andai fra gli uomini per non lasciarli più / e fu impossibile essere così felice. / Liberato dal potere di troppo noti dolori / mi rifugiai nei campi assolati abbandonato / al rovente declivio. E ritrovai Eveline, donna / ma non invecchiata. Solo spossata dall’estate. / adesso lo so cosa volevo quando cantavo. / siate teneri con i miei doni» o ancora «Appoggiati a me / e seguimi se / si apre la terra / chiudi gli occhi. // Fidati del mio passo e del mio / freddo alto spirito. / Così come Dio / saremo in due».

Il chiaroscuro della penombra, del contrasto, di un rinvio di buio alla luce condensano il paesaggio interiore. Laddove egli dichiara di lavorare «sempre in rapporto alle più inconsce dimensioni del quadro», la sua tendenza pittorica e poetica abbraccia l’immaterialità, la astratta precisione e l’astrazione mitica, archetipica e autonoma, come scrive Clement Greenberg: «In Klee il disegno è, per così dire, temporale, o musicale».

Il poeta che disegna le sue partiture di profili o segni astratti, figure e confessioni precarie afferma la sua linea temporale-musicale, come conferma ancora Greenberg: «La linea di Klee indica, conduce, allaccia, congiunge. L’unità si attua per mezzo di relazioni e di armonie che giocano attraverso aree neutre la cui presenza è più una presunzione che un fatto».

Il verso si ricollega proprio ai segni che determinano l’arte, al mistero dei suoni, vicini più a sostantivi che ad aggettivi, indicati dal tocco verbale per «dare ordine al movimento», per offrire consistenza al valore ritmico della lingua.

Ed ecco che il colore, nelle poesie in controluce o in chiaroscuro, diventa gesto che si azzera, vive di assenza, annullato e ridotto a luce, ombra, bivio di buio: «E tuttavia questo genere di colore, nelle mani di Klee, raggiunge una particolare specie di profondità. Non una profondità nella quale gli oggetti rappresentati sono probabili, ma qualcosa di soffuso, respiri di colore che danno un baluginare distante, ambiguo». (C.Greenberg)

Il segno grafico o verbale, differenziato dal processo metaforico, ha una istanza primitiva, originaria come l’arte del Paleolitico, l’equilibrio e il disequilibrio e la coltre di una percezione.

La parola acquista un potere descrittivo che «ha il compito di completare e precisare le impressioni» e la continua oscillazione tra poesia e arte figurativa e musicala determina il motivo potente e fragile di una vicinanza che possa formalizzare il vissuto e il mistero indicibile: «In fondo essere poeta non dovrebbe ostacolare l’arte figurativa. E se dovessi decidermi per la poesia, Dio sa cosa altro vorrei fare».

La profonda parentela tra la pagina dipinta e quella scritta non contiene solo la fissazione di uno spazio, ma la stessa sospensione dell’oggetto determina la perdita dello spessore esistenziale.

Quando Klee si muove dal modello all’archetipo rintraccia una linea articolata ed elementare, rende appieno l’univocità del segno come affermazione piena, come sonda di un rapporto complementare di ordine e caos: «L’arte è una similitudine della creazione. Essa è sempre un esempio, come il terrestre è un esempio cosmico». L’estrema iconizzazione del testo poetico realizza mimesi e replicabilità, promuove un codice speculare di rovesciamento e  ripetizione per leggere il caos e ristabilire l’ordine che non muta.

Il cardine sistematico del testo rispecchia la scacchiera cromatica della figurazione e della costellazione e visualizzazione di altri significanti. Esiste, pertanto una variante codica tale per cui sia i testi e sia gli ordini vengono presi come varianti di un ordine invariante, come annota Giorgio Manacorda: «L’operazione di Klee tocca un tale grado di astrazione e di formalizzazione da presupporre un allontanamento definitivo dall’ordine dei referenti extra-testuali, in direzione (viceversa) della fondazione di strutture archetipiche che poi vengano costantemente «replicate» dai testi e «iconizzate» in essi».

Roman Jakobson in un interessante testo che indaga la produzione poetica di Holderlin, Brecht e Klee: «Una sorprendente unione di trasparenza radiosa e di magistrale semplicità con multiformi indicazioni permette, al Klee pittore e poeta, di dispiegare un’armonica combinazione di molteplici procedimenti sia sulla superficie di una tela sia nelle brevi note di un diario».

L’acuta sensibilità, che unisce la profondità chiaroscurale ella miniatura verbale e il concetto grammaticale alla geometria della visione, permette l’organizzazione del movimento creativo in relazioni logiche che costituiscono il senso profondo e complesso di visibile e in-visibile, di domanda ed enigma: «Nel mondo terreno non mi si può afferrare perché io abito altrettanto bene tra i morti come i non nati. Più vicino del consueto al cuore della creazione ancora troppo poco vicino».

La fine ha trovato l’inizio.

KLEE P., Poesie, a cura di Giorgio Manacorda, Guanda, Parma 1995.

ID., Confessione creatrice e altri scritti, Abscondita, Milano 2004.

ID., Diari 1898-1918. La vita, la pittura, l’amore: un maestro del Novecento si racconta, Net, Milano 2004.

AICHELE PORTER H., Paul Klee Poet/Painter, Boydell & Brewer Ltd., Woodbridge 2006

GREENBERG C., Saggio su Klee, Il Saggiatore, Milano 1960.

JAKOBSON R., Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 2002.

WyMAN S., The Poem in the Painting: Roman Jakobson and the Pictorial Language of Paul Klee, Word & Image: A journal of Verbal / Visual Enquiry, Routledge 2004.

 

La poetica del terrore di Alfred Kubin

di Irene Battaglini

L’immaginale                                                                                        Prato, 16 aprile 2013

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ALFRED KUBIN - THE LAST KING, 1902La vera funzione dell’Arte è rivelare la bellezza nascosta, l’impronta divina che è in tutte le cose.

Roberto Assagioli

 

 

 

 

 

Alfred Kubin,The last king, 1902

 

Alfred Kubin è assai vicino al segreto della materia oscura.

Conosce il linguaggio arcaico dei sogni in bianco e nero, sfolgorante tripudio di colori indicibili all’occhio umano, colori animali, viaggi – fuoco alla scoperta di forme di vita aliene perché non ancora note, con cui stringersi negli appartati silenzi di una giungla aperta solo all’inconscio e al sogno.

Popolazioni di piccoli esseri con zampe e piccoli occhi sanguinari, di creature o-scene, prive di pudore e di ritegno, inghiottite dallo stomaco eterno del tempo arcaico.

Un tempo senza meridiane, demarcato dalle sfumature rese con la violenza strabiliante dello stilo che incide la pietra-carta. Non privo di effetti destruenti su colui che guarda, salvato di quando in quando da figure più amabili e mai dolci, mai tenere. Ma dotate di una qualche ispirazione simpatetica. Figure quasi vergini che deflorano la pupilla, ignare della propria immane forza ctonia. Una bella dormiente è di fatto cadaverica, un caro animale domestico è in realtà l’investigatore pubblico di un devastante tradimento affettivo.

In Alfred Kubin (1877-1959, austriaco di origine ceca) la privatezza del sogno e la vergogna dell’istinto manifesto costituiscono la coppia protagonista di un duplice matrimonio di opposti. Si tratta di vecchi amanti clandestini, di violacciocche, rose e fragole passate, che un tempo furono turgide e splendenti. Il tempo ha distrutto quelle irrorate terre di passione e ha prosciugato tutto, desertificato. Nuove forme di vita hanno popolato quel campo desolato, cittadini nuovi di un cimitero di veli di spose e di giovani martiri in abito da cerimonia. Il funerale è stato officiato e nelle camere scurite dal freddo le pareti divengono luogo di immaginazione perversa.

L’impianto accusatorio della linguistica di Kubin è una sorta di emisfero monco di un mondo che necessita di comprensione e di attesa di una risurrezione. È un universo onirico psicoide, a base di strampalate occasioni di tessitura di storie e di incrocio di segni.

I tratti del disegno e delle incisioni sono sempre trasversali, sottili, chiusi. La definizione, tuttavia, non è mai fumettistica e il tratto grafico tradisce un amore pittorico, sfocia in una grafologia iridata su un fondale opacizzato, è equidistanza dal caos eppure è sempre commistione nel magma da cui sembra emergere l’immagine principale.

Una criminologia immaginale, quella di Alfred Kubin. Che rievoca Lovecraft, e Edgar Allan Poe, di cui fu illustratore in oltre settanta opere.

Gli uomini di molti disegni sono spesso ipocondriaci, malaticci, preda di donne-licantropo, attentati da strategie di autoannientamento, vittime consapevoli e un po’ masochiste di uno schema sovrabbondante e conosciuto.

La copiosa produzione di Alfred Kubin è stata da sempre teatro di riflessioni di ordine psicoanalitico, e ci coinvolge anche come studiosi di psicologia dell’arte per via dell’effetto scenico dell’orrore, che ha una sua ragione di essere anche nell’estetica stessa, se si tiene conto della suggestione che riceviamo in relazione alla forma e alla tessitura di ogni singolo disegno. Simona Argentieri, in «Alfred Kubin: un sognatore a vita» (nel saggio La lente di Freud. Una galleria dell’inconscio, a cura di Giorgio Bedoni), articola la riflessione a proposito del rapporto tra psicologia e arte in Kubin:

«[…] sarebbe assurdo precludersi l’esplorazione dei possibili nessi tra parole e immagini, tra opera e vita quando Kubin stesso ne fa un elemento costante della sua poetica, intrecciando continuamente il percorso creativo con l’autobiografia. Direi anzi che un elemento particolarmente interessante è proprio la meticolosità con la quale egli costruisce la sua teoria su se stesso: l’autodiagnosi di patogenesi traumatica dei suoi tormenti, corredata dalla certificazione degli scritti e dalla preziosa esibizione sintomatica dei disegni. Anche la cura, d’altronde, ha tale qualità autarchica e autoreferente: l’isolamento di dieci giorni in corrispondenza di una crisi, la parentesi buddhista, la scrittura del romanzo L’altra parte che – a suo dire – avrebbe composto di getto in sole dodici settimane come rimedio al dolore della morte del padre.

Come è suo diritto, egli talvolta mente sulla stesura dei resoconti […], tuttavia è vero – come dice Erwin Mitsch (1988) – che su questa base emotiva si fondano il fascino e la forza soffocante che emanano dalla sua opera, che si eleva molto al di sopra della pittura concettuale e allegorizzante dei suoi contemporanei.

Insomma, c’è del metodo, sia pure ingenuo, nella sua follia; e c’è della teoria, sia pure convenzionale, nella sua sommessa infelicità e nella sua fedeltà ad un processo creativo fatto di andirivieni tra disegno e scrittura,che intreccia l’invenzione, il “gioco crepuscolare della fantasia”, le reminiscenze infantili con angosce esistenziali nutrite dalle letture di filosofi quali Nietzsche e Schopenhauer, di scrittori come Poe e Hoffmann, di lezioni di artisti come Klinger, Munch, Redon, Ensor, Goya, Rops… Sappiamo anche che teneva sulla scrivania il famoso libro di Hans Prinzhorn, che era andato a visitare la sua famosa collezione di artisti folli della Clinica Psichiatrica di Heidelberg, con i quali dichiarava una dolente fratellanza umana ed estetica. (*) Così procedeva con immagini e parole alla costruzione dell’immagine di sé, adattando eventualmente la biografia all’arte, che – a suo avviso – è la “conseguenza della vita”. (*) In un articolo pubblicato nel 1922 su “Kunstblatt” ne esalta “i miracoli dello spirito dell’artista che emergono dagli abissi reconditi e imponderabili”».

Nei suoi lavori, quindi, l’urgenza abreattiva del trauma e lo spasmo creativo dello «spirito dell’artista» si accordano in una ricerca violenta di armonia, con l’esito di rovesciare i codici della psicopatologia, che è fondamentalista circa l’identità tra psicosi e assenza di consapevolezza.

I temi della fine del mondo, dell’incubo, della coazione a ripetere, dell’accesso al simbolico della morte in ogni sua declinazione, sono stati ampiamente trattati dai critici e dagli storici dell’arte, che non hanno mancato di esaurire in giudizi talora molto duri la sua talentuosità, innegabilmente mescolata con la mostruosità. Ebbe in vita numerosi riconoscimenti, un’esistenza piena in un clima di grandi eventi culturali, ma anche storici e politici. Fu tutt’altro che estraneo a questa realtà, conobbe e strinse amicizia con le maggiori personalità artistiche e letterarie del suo tempo. In un certo senso, l’impressione è che sia stato confinato a sofisticato e misterioso illustratore del terrifico e del luttuoso. Una sorta di sovversivo dell’estetica, il «polo contrario di Klimt […], il lato notturno della Secessione» (K. Schuster, 1981), nell’andirivieni mortifero di Ade e Persefone, sotto l’invariabile dominio di Crono.  Espressionista della notte, che si abitua quasi a “rubare” lo spazio creativo, iniziando a disegnare dietro le mappe catastali ereditate dal padre.

In un certo senso, la psicoanalisi è stata ed è una chiave di lettura che, in mano ai profani, gioca a favore della patogenesi dell’arte. E Kubin, anche solo per l’autoritratto in cui si disegna decapitato con la testa in un vassoio (illustrazione a Hugo Schmidt, Demoni e storia notturna, Monaco 1922), è preda ambita per la psicodiagnostica la più liberamente proiettiva. Com’è giusto che sia, se si considera che chi espone le proprie opere non può esimersi dall’essere sottoposto ad ogni forma di valutazione. In qualità di ipotesi inconfutabile, possiamo considerarla un punto di intersezione con altre ipotesi anziché una mappa di orientamento. Uno dei problemi filologici che emerge nello studio di Kubin, è la sua versatilità rispetto al mezzo creativo. Scrittore, pittore, incisore, disegnatore, illustratore, grafico (pensiamo agli inquietanti capilettera), usò la penna, l’acquerello e le chine con generosità di segno.  Studiarne le incisioni, significa approcciarsi al suo linguaggio, che è però ampiamente rappresentato nel romanzo L’altra parte e nelle altre produzioni letterarie. Egli illustra il suo stesso libro con l’impeto ribelle dello scrittore ferito dal suo stesso desiderio, ornandolo con lavori scurissimi, intessuti di graffi allucinati, a rappresentare case immerse nella notte deserta, scorci di paesi maledetti, finestre chiuse su muri di silenzio: spazi privi di una dimensione umana, in apparenza. Oppure, in realtà, completamente immersi nella melma che si fa fatica a drenare, che si relega alla notte, all’onirico, al mysterium tremendum.

Difatti fu proprio C. G. Jung (1928) a portare l’attenzione sulla qualificazione archetipica di Kubin, in cui l’abbandono passivo al fantastico e al simbolico assolve una funzione «trascendente, artisticamente valida».

Per la stessa ragione, possiamo articolare la sua collocazione tra i più grandi artisti del suo tempo. Fu cassa di risonanza del decadimento delle cose e del mondo, tanto da meritarsi di essere annoverato tra i “profeti del tramonto” da Vassily Kandinsky: oscuri narratori delle rovine dell’Europa avvolta dalla caligine che segue al crollo degli dei.

In lavori come Bancarotta (1938) o La morte del povero dello stesso anno, sembra assumere su di sé la fortissima responsabilità di un’Austria crocevia di conflitti bellici in un’Europa vessata dalle forze disgreganti. Non si tagliò fuori dal dibattito della sua epoca, anzi ne fu protagonista insieme a tanti nomi illustri, come Mann, Kafka, Jünger, Redon, con cui strinse ampi rapporti epistolari.

Subì l’influenza di maestri come Goya e Bosch, oltre a Max Klinger, che anticiparono quel che i Surrealisti usavano addurre alle fonti inesauribili dell’inconscio.

Alfred Kubin non può essere quindi collocato tra le sponde rovinose di una psicopatologia della scrittura, del segno e del simbolo. I lavori vanno presi tutti insieme e visti come un “arazzo rovesciato”, parafrasando il titolo dell’ultimo lavoro di Andrea Monda e Giovanni Cucci. Il male non può essere spiegato ma al massimo raccontato. E in questo caso disponiamo di un immenso racconto, il romanzo della vita e dell’arte di un uomo che si mette a nudo e ci offre una delle più vaste geografie dell’inconscio, individuale, sociale, collettivo.

La Colomba e l’Aleph

Prato, 31 marzo 2013, Santa Pasqua                                               di  Irene Battaglini

L’IMMAGINALE

Short link  3. 31 03 2013 LA COLOMBA E L’ALEPH

 

La Colomba della Pace, Picasso, 1949«Gli istinti hanno un aspetto dinamico e un aspetto formale. Quest’ultimo si esprime attraverso fantasie che, com’era ben lecito attendersi, è possibile rintracciare, con una sorprendente somiglianza, per così dire in ogni luogo e in ogni tempo. Come gli istinti, anche queste rappresentazioni possiedono un carattere relativamente autonomo; esse sono numinose e perciò si possono ritrovare soprattutto nella sfera delle rappresentazioni numinose, cioè religiose».

«L’ “interpretazione” non si attiene a nessuna teoria, ma segue gli indizi offerti dal sogno, intesi in chiave simbolica. Anche se vengono utilizzati concetti psicologici, come per esempio quello di “Anima”, non si tratta di un presupposto teorico, perché qui “Anima” non è un’idea, bensì un concetto empirico o un nome che designa un determinato gruppo di eventi tipici e osservabili. In una discussione così ampia le interpretazioni sono solo fasi provvisorie e formulazioni sperimentali, che devono però dimostrarsi valide nel loro insieme. Che lo siano, lo rivelerà soltanto il risultato finale, che mostrerà se si è sulla strada giusta oppure no. Un confronto di questo genere è sempre un’avventura creativa, in cui in ogni momento si deve impegnare il meglio di sé. Allora – concedente Deo – può riuscire il magnum opus della trasformazione».

 C.G. Jung, La vita simbolica, p. 238. e 252, in Opere, vol. XVIII, Bollati Boringhieri, Torino 1999

La colomba della pace, la colomba blu, la colomba con fiori: esempi di un disegno disarmante e semplice che descrive in pochi gesti l’idea dell’infinito gioco tra messaggio e rappresentazione – tra significato e significante – nella cifra e nella poetica figurativa di Pablo Picasso.

Il rimando al simbolo pasquale di pacificazione e resa, di abbandono all’amore di Dio, di elevazione vittoriosa e di fine del diluvio – di vittoria sulla morte, di ascesa celeste, di fiducia nel piccolo messaggero che è purissimo, angelico e bianco, ma anche trasparente e intelligente, è un rimando immediato alle più apprezzate strutture metaforiche delegate a contenere i simboli della festa di Risurrezione.

Picasso, scaltro mediatore dell’inconscio collettivo del mondo, non esita a farne il vessillo del manifesto per il congresso mondiale di Parigi dei “Fautori della Pace” nel 1949. Ne farà un sigillo edipico, chiamando la figlia Paloma, che nasce nello stesso anno; e ancora la colomba e il piccione costituiranno l’anagramma intimo del rapporto con il padre, con il quale il giovanissimo Pablo Ruiz imparò a disegnare, cominciando proprio da questi piccoli e comunissimi animali.

Il grande storico e psicologo dell’arte Ernest Gombrich (Vienna 1909-Londra 2001), tuttavia, oltrepassa la lettura personalistica e sociologica del disegno della colomba in Picasso. Ne esplora la dimensione rappresentativa in una raccolta di conferenze e conversazioni (A cavallo di un manico di scopa, 1963), in cui volle sottolinearne la bellezza intrisa di libertà di espressione, di leggerezza, di genialità e rapidità. Ne indagò gli elementi psicoanalitici, le rispondenze edipiche.

Una interpretazione  che debba rispondere agli insegnamenti metodologici di Gombrich si deve alimentare di una domanda inesauribile, l’unica che resista alla scure giudicante della critica dell’arte, eleggendo a strumento principe del raccolto anamnestico la fenomenologia descrittiva del campo pittorico, per verificare se ci sono i termini per riflettere, per dibattere, in quel processo che passa per la riduzione a uno, che è la costruzione di senso.

La vita simbolica della colomba lascia tracce in Jung, che nello scritto del 1954 “La risurrezione” (op. cit., p. 380), allude all’ascensione in quanto fatto psicologico e metastorico, in forza del quale l’Uomo sperimenta il Sé la cui «esistenza non viene annientata dalla morte: egli continua a vivere in una forma leggermente modificata. A un livello culturale più elevato, egli si avvicina a Dio che muore e che risorge, come Osiride, che diventa la personalità superiore di ogni individuo (come il Cristo giovanneo), cioè il suo τέλειος άνϑρωπος [trad. fonetica: téleios ánthro̱pos, n.d.A.], l’uomo completo (o perfetto), il Sé». (op. cit., p. 382)

La colomba in quanto immagine collettiva, «trascende l’individuo nello spazio e nel tempo, e quindi non è soggetto alla caducità di un corpo […]».  (ib.)

L’urgenza quindi di una autorità spirituale restituisce dignità umana solo a patto di legittimare a ciascun uomo una natura divina, poiché «Cristo aveva detto loro: “Dii estis, siete déi” [salmo 82.6, citato in Giovanni 10.34, nota dei curatori delle Opere di C. G. Jung]; e come tali essi erano suoi fratelli, partecipavano della sua stessa natura, e né il potere del Cesare, né la morte fisica poteva più annientarli. Erano “risorti con Cristo”». (op. cit., p. 383)

Ma il punto interrogativo posto da Gombrich, e già sollevato da Jung nell’intervista “Jung e la fede religiosa” (op.cit., p. 391 e segg.) è a priori: perché la colomba? E’ un simbolo efficace?, risponde alle prerogative di un buon simbolo? Non è un animale particolarmente mite come si può credere, né è sufficientemente adeguato ai voli in altissima quota. Eppure il pittore non esita, e con pochissimi gesti, esultanti e quasi infantili, verga la carta senza indugiare sui particolari. Sta in questo, forse, un principio di risposta. La colomba di Picasso è senza ombre, e in questo risponde al dogma della privatio boni: il male è assenza di bene, o meglio è privazione del bene, è “negazione” del bene. Dipingere una colomba realistica, con i suoi volumi e i suoi chiaroscuri, avrebbe voluto dire  apprezzarne i parametri estetici e in questo senso obbligare un grande maestro del colore come Picasso ad assimilarne gli aspetti dualistici, i tratti negativi, trascurandone la valenza simbolica diretta. La trasparenza, l’assenza di dettagli, ne fa un elemento che allontana dal pericolo della dualità, per definirne unicamente il valore inconscio universale, gettando un ponte tra l’originale (l’introvabile originale immagine di Dio) e la rappresentazione, direttamente “fruibile”, inequivocabile. Picasso nel disegnare la colomba, mette da parte se stesso, il potere narcisistico della sua geniale cifra figurativa, per mettersi al servizio del simbolo, al servizio del mondo e di quella pacificazione tra i popoli di cui fu sempre sostenitore.

Si tratta quindi di un chiarissimo esperimento di arte concettuale. Al quale ancora qualche pensiero è dovuto. Qualche altra domanda. Perché la colomba? La domanda è incompleta. Perché la colomba che porta un ramo di ulivo nel becco è simbolo di pace? Perché dice qualcosa. Porge una risposta in forma di segno. Recita la liturgia di Santa Romana Chiesa: «scambiatevi un segno di pace». Non dice: siate in pace, vivete in pace, pregate in pace. Dice proprio “un segno”. Un segno non è la sostanza della pace, ma il rimando alla pace. Un segno è qualche cosa di specifico che ci porta dritti nella tana della semantica, nel gioco delle infinite rappresentazioni. UN segno, non IL segno. Un segno come gesto, un segno come un ramoscello: un messaggio. La colomba, dunque, diventa la mano, la nostra, priva di armi e di sorprese, che si porta all’Altro con tutta la sua bella capacità di far volare l’amore, di far circolare la carezza, il perdono. Le ali, la coda della colomba, non sono forse disegnate da Picasso come mani, mani tonde e semplici, mani universali, che possono parlare, che possono lasciare un segno? Scrivere, rendere leggibile, applicare il messaggio in una forma specifica che tenda ad essere parola.  Una parola libera, come libero è il segno con cui si esprime. Alla domanda se siamo liberi, la colomba sembra rispondere: si, ma a patto di aver prima ascoltato il mio messaggio, vi sto dicendo che siamo in pace, che sono cessate le ostilità, che possiamo andare oltre gli antichi conflitti. Possiamo esercitare nella pace, il nostro arbitrio espressivo, sviluppare l’arte di rappresentare, di decorare, di dipingere, e dunque di raccontare: libertà di attingere all’antenato primigenio da cui deriva la prima di tutte le lettere, la pittura rupestre dell’animale dotato di corna, elementi cardine del processo di tracciabilità della coniazione.

85px-Phoenician_aleph.svgD’altra parte, se l’aleph è una testa di bue ribaltata, la colomba in volo altro non è che un aleph rovesciato, portatore di voce e di identità, “che parla”.

Si moltiplicano gli interrogativi, che si alimentano della ricognizione intorno alla struttura formale della colomba picassiana. Il corpicino lieve della colomba ruota intorno a due assi, verticale e orizzontale, che occupano tutto lo spazio rendendolo incredibilmente indefinito. Lo espandono, ben oltre le dimensioni del foglio o del quadro. La linea d’orizzonte, costituita dalla firma, “l’identità”, è l’unico punto di appoggio. Non vi è centro visibile nel disegno, non vi è alcuna intersezione. La differenza con l’aleph è fondamentalmente questa. Il ramoscello-parola-messaggio, non è trasversale e non è perpendicolare. E’ parallelo alla terra, come deve essere ogni cosa affinché possa essere decodificata dallo sguardo, letta. Ogni fogliolina, è un foglio di storie, un ramo di inchiostro, un calligramma. L’occhio si concentra in questo modo sul messaggio, e lascia libero il messaggero. Tuttavia, il messaggero necessita di un centro, di un punto, di un oriente. L’escamotage della croce invisibile, più o meno premeditato, risponde ad una duplice esigenza: da una parte imprimere una forza che sostenga la forma, dall’altra eliminare in funzione della negazione, e non solo, ogni forma di contrapposizione tra opposti. Vale a dire, la figura per essere perfetta, numinosa, deve essere rotonda, sferica, ma non caotica. Deve stare nella quaternità, nelle pienezza, nella luce naturale che diventa divina e che appartiene all’Uomo Universale di cui parla anche René Guenon nel Simbolismo della Croce. Non bisogna confondere le dimensioni del simbolo con le direzioni nello spazio. La dimensione è sferica, la direzione è multipla. La croce invisibile ha quattro direzioni, quattro “bracci”, e due dimensioni, definite dalle rette che si intersecano a formare la croce. Questo è un dato essenziale per determinare l’universalità del simbolo, attraverso il quale l’Uomo ha potuto rappresentare, riassumere e assimilare questioni fondamentali legate alla sua interpretazione del mondo. Le quattro direzioni sono fondamentali, per René Guenon, a indicare

«l’immanenza di Dio in seno al mondo, la manifestazione del Logos al centro di tutte le cose, nel punto primordiale in cui le estensioni indefinite non sono che le espansioni o lo sviluppo: “Egli formò dal Thohu (il vuoto) qualche cosa e fece di ciò che non era ciò che è. Egli intagliò delle grandi colonne dall’etere inafferrabile. Egli rifletté e la parola (Memra) produsse ogni oggetto e ogni cosa con il suo Nome Uno”. Il punto primordiale da cui viene proferita la Parola divina si sviluppa, come abbiamo detto, non solo nello spazio, ma anche è nel tempo; è il “Centro del Mondo”, sotto tutti gli aspetti, cioè è ugualmente al centro degli spazi e al centro dei tempi». (R. Guenon, Il simbolismo della croce, Adelphi, Milano 2012, p. 35

Come le colonne dell’albero sefirotico sono intagliate nell’etere, così la nostra colomba aleggia nel vuoto, sembra riposare in una dimensione statica di non-azione in cui tutto avviene, in cui gli opposti si risolvono, in un etere puro e inafferrabile, che è «la causa di tutte le cause e l’origine di tutte le origini. È in questo mistero, origine invisibile di tutte le cose, che nasce il “punto” nascosto da cui tutto deriva. Per questo è detto nel Sepher Ietsirah: “Prima dell’Uno, che cosa puoi contare?”».

Perché l’unità è il primo di tutti i numeri, e la numerazione è la prima coniazione, la prima incisione, il principio della conoscenza. Lo zero metafisico, il Non-essere simboleggiato dal “vuoto” caro alla filosofia orientale, è lo stato anteriore all’inizio del mondo, del volo della colomba, della pronuncia del primo suono. Non a caso, nella scrittura ebraica le lettere venivano anche impiegate come cifre, e ad aleph spettava il valore numerico di 1. L’Aleph, in quanto simbolo dell’unità, veniva connesso con Dio, l’Uno, Unico ed Eterno. Annota Borges nella raccolta di racconti del 1949 L’Aleph:

 «Devastato il giardino, profanati i calici e gli altari, gli unni entrarono a cavallo nella biblioteca del monastero e lacerarono i libri incomprensibili, li oltraggiarono e li diedero alle fiamme, temendo forse che le pagine accogliessero bestemmie contro il loro dio, che era una scimitarra di ferro. Bruciarono palinsesti e codici, ma nel cuore del rogo, tra la cenere, rimase quasi intatto il libro della Civitas Dei, dove si narra che Platone insegnò in Atene che alla fine dei secoli tutte le cose riacquisteranno il loro stato anteriore, e che egli in Atene, davanti allo stesso uditorio, insegnerà tale dottrina». (“I teologi”, L’Aleph, Jorge Luis Borges, 1949)