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Frontiera di Pagine Volume II di Andrea Galgano e Irene Battaglini

di Diego Baldassarre 23 settembre 2017

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17793423_10212351437891026_650412216_nIl libro Frontiera di pagine II (Aracne editrice-2017) è un contributo critico di due autori e docenti della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm del Polo Psicodinamiche di Prato, Irene Battaglini e Andrea Galgano. Il volume raccoglie gli articoli, le recensioni e i saggi scritti dai due autori tra il 2013 e il 2016.

Una raccolta di saggi critici di psicologia dell’arte, poesia e letteratura che fa seguito al primo volume pubblicato nel 2013.

Il Testo si suddivide in cinque sezioni.

Le prime due sezioni, strettamente collegate all’arte figurativa, sono curate dalla Professoressa Irene Battaglini.

La prima sezione “L’IMMAGINALE” raccoglie tributi critici ai maestri della pittura in un viaggio di colori attentamente analizzati per lo più da Irene Battaglini ( e in minima parte da Andrea Galgano) con la lente dell’analisi psicoanalitica. Si alternano i miti della pittura come Rembrandt, Picasso, Paul Klee, Boldini, Magritte, con saggi strettamente psicoanalitici che offrono uno sguardo non comune a problematiche contemporanee come lo stalking .

La seconda sezione IL NARCISISMO NELL’ARTE CONTEMPORANEA affronta invece il rapporto tra il mito di Narciso e la pittura. Vi troviamo Andy Warhol, Francis Bacon, Lucio Fontana e altri pittori contemporanei.

Come sostiene l’autrice nell’articolo introduttivo “ Il mito di narciso e il conflitto estetico”( Pag. 163)

la psicoanalisi e tutta la psicologia moderna, senza dimenticare il contributo della sociologia e dell’antropologia, mettono a disposizione teorie e opere interamente spese a favore di una indagine il più possibile ampia e accurata del mitologema celebrato da Ovidio nella “Metamorfosi”.

L’approccio scientifico – psicoanalitico diventa quindi fondamentale per approfondire e comprendere meglio autori che hanno profondamente influenzato l’arte pittorica moderna.

Infatti, in un passaggio efficace, Irene Battaglini sostiene che

Narciso possiede l’immagine di sé come unica via della conoscenza. Egli spicca la melagrana infetta di un doloroso desiderio non di amore, ma di una gnosi della morte e della vita: dell’estremo sacrificio di sé. Guardarsi da fuori, come fosse estraneo a se stesso, o vivere nella limitazione dell’amore che è conoscenza dell’altro come condizione di conoscenza di sé attraverso l’altro? Fa ammenda della possibilità di raffigurare con religiosa aderenza al Vero, al Dio, al Mondo e all’Uomo per restare nel gioco di rimandi della rappresentazione illusoria che è, in definitiva, la sua unica “visione”: il suo orizzonte multiplo, che si moltiplica ad ogni gesto, ad ogni battito di ciglia. E il suo dolore sta nel doversi rapportare a questo orizzonte nel tentativo di scalfirlo e guardarvi dentro come uno scenario di forze anatomiche nel tentativo estremo di restituire sulla tela il mistero che sta dentro la realtà (Bacon); placarne la silenziosa inutilità resa dagli oggetti sviliti del quotidiano e celebrati nella loro immortalità (Warhol), ferire il campo proiettivo come una tela tesa e chiusa (Fontana), combattere contro quella figura che è simulacro e immagine di sé agitandone e sfocandone i contorni come un allievo privo di maestro (Twombly), ma non mai sfiorando la veste degli dei e di una qualche verità esperienziale, oltrepassando la logica della percezione e della sensazione, in un gioco di forze che stanca, che invita al “senza titolo”.

Le sezioni successive sono curate dal Professor Andrea Galgano.

La sensazione che si prova nel leggerle è molto simile a quanto riportato dall’autore in un passaggio del libro

D. Thoreau scrisse che Walt Whitman (1819-1892) «con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta, per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni »(pag. 587).

Andrea Galgano oltre ad essere un eccellente critico letterario è anche un poeta (molto apprezzata  la sua silloge Downtown, pubblicata da Aracne editore nel 2015, impreziosita dalle tavole pittoriche di Irene Battaglini). Di conseguenza questo libro è anche una ricerca di se stesso da parte dell’autore, attraverso  punti di riferimento letterari che sicuramente hanno influenzato il suo modo di scrivere e di concepire la letteratura. Non è solo una attenta analisi degli scrittori proposti ma uno slancio pieno di passione. Che colpisce il lettore invitandolo a leggere gli autori meno conosciuti e ad approfondire quelli più noti. Sono mattoni, appunto, lanciati da ogni lato che colpiscono la nostra immaginazione e il nostro intelletto.

Per comprendere quanto sia compartecipata l’analisi critica di Andrea Galgano,  a titolo esemplificativo, si potrebbe leggere il passaggio tratto da “John Keats. L’ultimo canto dell’Usignolo“ ( Pag. 695):

L’assedio delle immagini di Keats compie l’entusiasmo del suo miracolo di incanti verbali, di giochi di fantasia espressiva e di placide invocazioni alle divinità, alle quali porge il suo desiderio e i suoi simboli, e le esperienze diventano intimità fisiche e gesti creati dal tempo sensibile: gli steli affusolati sollevano i diademi delle stelle, tra le ombre inclinate nelle lontananze di cristallo e i sentieri interminabili dei boschi, il «suono senza suono» che scivola tra le foglie, le campanule e le calendule, le rugiade e i ruscelli, la gloria delle fonti e la carne della frescura del destino che enumera ogni infinità cosmica (Ero in piedi, sulla vetta sottile d’un colle)”.

Come si vede il taglio degli articoli, tutt’altro che professorale, è una analisi attenta di ogni autore attraverso la lente dello studioso che non vuole solo spiegare ma anche capire e che guida il lettore in questo percorso di conoscenza.

Le sezioni curate da Galgano partono dalla ”PARTE III, IL FUOCO DELLA CONTEMPORANEITÀ”

E già qui troviamo un mosaico di autori che chiunque ami la poesia non può non conoscere e non amare.

Si inizia con Clemente Rebora e la sua poetica espressionista; si procede con Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano dell’epoca Latina legata alle corti imperiali del IV secolo; si va avanti con salti temporali (che potrebbero creare sconcerto ma che in realtà fanno sì che il lettore non si annoi come se fosse di fronte ad una antologia scolastica), per approdare a Vittorio Sereni con il suo ermetismo sui generis; poi Giovanni Giudici, Roberto Mussapi, Dario Bellezza, Franco Fortini, Giancarlo Pontiggia, Umberto Piersanti, Giorgio Orelli, Italo Svevo, per concludere con un omaggio a Mango, il cantautore recentemente scomparso.

Il tutto per dimostrare che la letteratura è un flusso continuo che attraversa la poesia, la prosa e la canzone senza spazio temporale o di genere

Ogni autore è attentamente analizzato con rimandi a note esplicative di altri critici letterari, a estratti poetici o letterari degli autori stessi, ai rapporti epistolari , a intuizioni dello stesso autore. Il risultato è un profilo completo di ogni scrittore. E proprio perché tale profilo risulta così ben espresso spinge il lettore alla curiosità di approfondire ulteriormente le opere degli scrittori e dei poeti citati.

La parte IV, “CONTINENTI”, è indubbiamente quella più ponderosa. Uno splendido viaggio tra Europa ( comprendendo in essa anche la Russia), America Latina e , soprattutto, Nord America.

Un viaggio che non è solo culturale, ma che dimostra come la letteratura sia interconnessa pur nelle differenze. Splendido il triangolo che si viene a formare tra  Anne Sexton,  Sylvia Plath e Ted Hughes incrociando i testi di Andrea Galgano relativi ad ogni autore.

Illuminanti le differenze che si colgono tra gli autori Europei strettamente legati alla loro plurimillenaria storia  e quelli Americani votati al futuro. E’ esemplare un verso di  Billy Collins (classe 1941) che sfacciatamente si pone in rottura con la poesia europea : “Qui non ci sono abbazie né affreschi che si sbriciolano o cupole / famose, e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione di re”.

Quasi tutti gli autori, forse non è un caso, vivono in periodi storici di confine. A partire da Alexander Blok (1880-1921) che vive sulla  propria pelle il trapasso dal regime zarista a quello della rivoluzione d’Ottobre, o quello di John Steinbeck (1902-1968) e William Faulkner (1897-1962) che subiscono e descrivono la spaventosa crisi del ’29; Miguel Hernández (1910-1942), combattente antifranchista e vittima del regime; o gli autori dell’esilio come il poeta  Hans Sahl (1902-1993) costretto a vagabondare tra Praga, Zurigo, Parigi e New York a causa delle persecuzioni della Germania Nazista; la poetessa Hilde Domin (1909-2006), pseudonimo di Hilde Löwenstein, poetessa ebrea rifugiatasi, sempre durante il periodo nazista, nella repubblica Domenicana ( da qui lo pseudonimo); o i poeti “viaggiatori”, come il premio nobel Octavio Paz.

Come se Andrea Galgano volesse sostenere implicitamente che l’arte, quella che fa la storia, deve nascere dalla rottura, dal tormento non solo interiore ma anche del corso degli eventi. E che la frontiera non ferma la parola, così come non la ferma la repressione.

L’ultima sezione (“PARTE V:SOSTE”) rappresenta un momento di riposo. Dopo il sudore della ricerca, finalmente Andrea Galgano può sedersi in poltrona e rilassarsi. Gli articoli che fanno parte di questa sezione conclusiva sono meno perfusi di rimandi bibliografici. Rinviano ad una lettura di puro piacere.

Così troviamo il poeta e critico letterario Davide Rondoni;  la recensione del romanzo The touch di Randall Wallace (già sceneggiatore di Braveheart (1995) e Pearl Harbor (2001) oltre che regista della La maschera di Ferro con Leonardo Di Caprio e We were Soldiers con Mel Gibson); l’articolo sul libro Poesie 1986-2014 del poeta “metropolitano” Umberto Fiori, edito da Mondadori; una attenta analisi della silloge Il posto (Mondadori 2014) della poetessa e Premio Pulitzer Jorie Graham; l’articolo su Leif Enger ( romanziere del Minesota , classe 1961), all’interno del quale troviamo riportata una splendida intervista rilasciata ad Andrea Monda su “L’Osservatore Romano” che tratta dello “scrivere” e di cui si consiglia caldamente la lettura; la recensione al libro Tersa morte del poeta Mario Benedetti, edita da Mondadori, tutta incentrata sulla memoria; la nota critica alla raccolta  poetica di Valerio Magrelli “Il sangue amaro”, al cui interno troviamo richiami della grande poetessa contemporanea Maria Grazia Calandrone e del giornalista del “sole  24 ore “ Gabriele Pedullà che, assieme al contributo dell’autore, aiutano a comprendere a pieno la silloge.

Pregevolissimo l’omaggio al critico letterario e poeta Giuseppe Panella, peraltro spesso utilizzato da Galgano a supporto di molti suoi scritti critici; e poi gli articoli sui poeti Thomas Merton e Michel Houellebecq che meritano una lettura attenta in quanto “poeti del silenzio”. E cosa si intenda per “poeti del silenzio” trova in questo testo una spiegazione mirabile.

Verso la fine di questo lungo viaggio letterario troviamo un articolo su Francesca Serragnoli e il suo ultimo libro Aprile di là edito da Lietocolle. Questo testo, come si comprende fin dall’inizio,  è una vera e propria dichiarazione di amore letterario:

 La nuova silloge di Francesca Serragnoli (1972), tra le più importanti poetesse italiane, Aprile di là, edita da Lietocolle, nella preziosa collana curata da Gian Mario Villalta  , apre la conoscenza del tempo in una accensione vitale e scoperta. È incontro,tessuto, vita che scorre, dolore che apre le vene, grazia che incombe, terrena partecipazione alla realtà ma anche librata trascendenza di forma.

Il ponderoso lavoro di Andrea Galgano si conclude con l’articolo sul libro di poesie “Sinopie smarrite” di Diego Baldassarre edito da Lietocolle ( pag. 867). Ringrazio infinitamente l’autore di avermi posto come sua ultima sosta. L’attenta analisi del libro è per me motivo di grande orgoglio.

A conclusione di questa breve nota, che mi auguro serva comunque da invito a leggere un così importante lavoro critico, vorrei riportare un passaggio citato nell’articolo relativo a Leif Enger  ( Pag. 805) affinché possa essere di augurio per un nuovo lavoro: «è strano, quando raggiungi la tua meta: pensavi di arrivare lì, fare quello che ti proponevi e andare via soddisfatto. Invece, quando ci sei, ti accorgi che c’è ancora altra strada da fare».

Psicologia della transizione: il luogo scenico della performance e la semantica del corpo

di Silverio Zanobetti 29 giugno 2016

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6.CORPO-SUDARIO1copertinaE non si dà capolavoro d’arte. Fuor dell’opera, si è capolavoro[1]

Dal testo al gesto, dalla parola all’atto, dall’oggetto d’arte alla “produzione di sensibilità” come nuovo oggetto dell’arte. L’eterogeneità interdisciplinare degli ambiti di riflessione di Irene Battaglini (antropologia, filosofia, filosofia dell’arte, neuroscienze, poesia, letteratura) le permette di cogliere nel modello performativo dell’arte alcune prospettive feconde per una psicologia dinamica che sfidi le regressioni narcisistiche dell’arte contemporanea: apprendere dall’esperienza è possibile laddove sia presente la consapevolezza che il nostro corpo s’apprende di esteriorità. L’io deve farsi soglia, l’uomo farsi ponte o transizione: «l’uomo in transizione è un ponte che collega verso uno scopo che non è l’uomo stesso ma il superuomo. L’uomo ha il compito di trasformare se stesso»[2].

Non si cerca più la sporca verità inconfessabile dentro il buco nero del profondo nascosto, in cui tutto cade preso nella morsa degli stretti codici psicoanalitici, non è più l’interiore che giustifica il rito, ma quest’ultimo che produce un certo tipo di sensibilità. Il rito è legato alle forze inconsce sociali: la performance trasformativa dell’arte contemporanea, grazie alla sua componente rituale, è inscindibile dalle transizioni sociali che consente.

Ma una re-censione come questa non può diventare gesto, si limita a vivacchiare sui gesti compiuti dalla performer che nella combinazione necessaria di gesto e pensiero ripercorre strade antiche. Quel che rimane delle misteriori performance sperimentali dell’autrice sono queste pagine, quelle gesta hanno lasciato queste statiche tracce: la performance è ormai avvenuta insieme al rituale di passaggio che la accompagna e alla trasformazione che ne consegue. Non rimane che leggere quel che resta della vita irrappresentabile della pittrice, le ceneri di quelle vertiginose e infuocate esperienze collettive in cui la performance trasforma se stessa.

Nelle orge rituali dei ludi scaenici dell’antica Roma, i corpi delle dame romane si facevano impossessare da un Dio ogni volta diverso: le dame si facevano simulacri viventi, soggetti e oggetti di un’esperienza estetica emozionale collettiva. Il loro corpo diventava luogo scenico e non più simbolico. Lo scopo di questi rituali era la produzione di una certa risanante sensibilità, accompagnata dalla consapevolezza che persuasione e seduzione facessero parte integrante della politica e che ci può essere creatività solo laddove si è ancora capaci di servirsi delle nostre funzioni pre-consce nel modo più libero possibile. Nei ludi scaenici il corpo delle matrone è un simulacro involucro di carne e viene considerato come una spoglia: la matrona abita il corpo altrui come se fosse il suo e allo stesso modo attribuisce il proprio ad altri.

Irene ritrova queste dinamiche nell’arte contemporanea che, nelle sue versioni più sadomasochistiche, assorbe la lezione dello “spirito della musica” nietzschiano, opera fondamentale per capire come l’arte sia sopravvissuta alla sua morte, nonostante i numerosi requiem a lei dedicati durante il Novecento:

La performance muove potenti istanze sadomasochistiche, e si svolge come ai margini di un mondo sospeso: Marina Abramović, l’artista-sacerdotessa, restò in piedi, vestita, di fianco a un tavolo piuttosto guarnito di oggetti d’offesa davanti agli spettatori, che sono stati invitati dalla performer a fare qualsiasi cosa del suo corpo utilizzando tali oggetti. Una scritta a parte recitava: “Sul tavolo vi sono settantadue oggetti che potete usare su di me come preferite. Io sono un oggetto”[3].

Attraverso Hillman Irene Battaglini mostra come il demone che si impossessa delle matrone dell’antica Roma e dell’artista contemporaneo, eroe della transizione, non sia quello tramandato dal cristianesimo che lo considerava entità spirituale malvagia, ma intermediario tra gli déi e gli uomini. Il diabolico non è altro che una certa distribuzione delle cose nell’univocità dell’essere: “la particolarità dei demoni è di operare negli intervalli tra i campi d’azione degli déi, come di saltare oltre le barriere e i recinti, recando confusione nelle proprietà”.[4] Il pensiero unico autoreferenziale di molta arte narcisista contemporanea, pur nell’apparente volontà di rottura (assetata soltanto di scandalo), è ancora pensiero-gesto dell’indirizzo. Non più un pensiero dell’indirizzo, è necessario piuttosto far emergere un pensiero dell’orizzonte in cui il mio corpo sia annoverabile tra le cose,  preso nel tessuto del mondo, come scriveva Merleau-Ponty, opportunamente citato da Irene.

Se mi si chiede come definire la sinistra, essere di sinistra, direi due cose.  Ci sono due modi, E anche qui…è innanzitutto una questione di percezione.  C’è una questione di percezione: cosa vuol dire non essere di sinistra? È un po’ come un indirizzo postale. Partire da sé, la via dove ci si trova, la città, lo Stato, gli altri Stati e sempre più lontano.  Si comincia da sé nella misura in cui si è privilegiati, vivendo in paesi ricchi, ci si chiede: come fare perché la situazione tenga? Essere di sinistra è il contrario. È percepire…si dice che i giapponesi percepiscano così. Non percepiscono come noi, ma percepiscono prima di tutto la circonferenza. Dunque direbbero: il mondo, il continente, mettiamo l’Europa, la Francia,  la rue Bizerte…io. È un fenomeno di percezione. Si percepisce innanzi tutto l’orizzonte, si percepisce all’orizzonte[5].

L’arte contemporanea ci apre ad una nuova semiotica del corpo in cui il pensiero cosciente è il risultato di un gioco e di una lotta tra impulsi e prospettive cosmiche (come le chiamerebbe Hillman), appartenenti al mondo del “corpo-spazio”, più che al mondo intrapsichico e interpersonale. L’evento psicologico diventa un fatto spaziale in quanto non è più l’artista che esprime qualcosa che ha “dentro”, bensì il suo stesso corpo è un paesaggio la cui morfologia varia continuamente. Il corpo dell’artista si fa scena, non si limita a ideare, realizzare, controllare ogni sua creazione. Irene coglie nel corpo-sudario una buona immagine per spiegare questo concetto. Il testo è stato per me ricco di stimoli e rimandi alle mie ricerche e un’altra immagine altrettanto efficace mi è venuta alla mente: il klossowskiano “principe delle modificazioni” riproposto nel teatro di Carmelo Bene in cui l’attore è parco lampade, strumentazione fonica dal vivo e registrata, scena e costumi insieme[6].

Irene si prende il tempo che serve, non disdegna lunghe citazioni che non opprimono la lettura ma imprimono un ritmo lento e espansivo che rende giustizia, tra l’altro, di particolari essenziali di alcune performance contemporanee. Come quelle dell’artista francese Gina Pane che continua il percorso iniziato da Manzoni nel trasformare il pubblico in opera d’arte, lavorando inconsapevolmente sulla traccia antica che faceva coincidere bellezza e valore morale. Gina si fletteva davanti agli spettatori a dimostrazione della sua sottomissione, stimolando la manifestazione dell’aggressività dello spettatore rivelando di quest’ultima la gratuità e insensatezza: «Mi voltai verso il pubblico e avvicinai la lametta alla faccia. La tensione era palpabile ed esplose quando mi tagliai entrambe le guance. Tutti gridavano: “No. No, la faccia no!”. Avevo toccato un nervo scoperto: l’estetica delle persone. La faccia è tabù, è il cuore dell’estetica umana, l’unico luogo che mantiene un potere narcisistico»[7]. Non è un caso che Gilles Deleuze invitasse a perdere il volto, a superare o perforare la parete. Se Cristo aveva inventato il volto come passare la parete, evitando di rimbalzare contro di essa, all’indietro, o di essere schiacciati? Deleuze invitava a disfare il viso in modo che i tratti stessi di viseità si sottraessero all’organizzazione del viso, al potere materno che passa per il viso, al potere passionale che passa per il viso dell’amato. Non è il viso che genera il potere, bensì una certa semiotica che organizza il viso e che costringe il viso come organo a non far più parte del corpo[8]. Il linguaggio da solo non potrebbe veicolare alcun messaggio, la lingua rinvia sempre ai volti che ne annunciano gli enunciati. Citando Henri Miller: «Non guardo più negli occhi della donna che tengo fra le braccia, ma ci nuoto dentro, testa, braccia e gambe, e vedo che dietro le occhiaie c’è una regione inesplorata, il mondo del futuro, e qui non c’è logica affatto […] quest’occhio senz’io non rivela né illumina. Viaggia lungo la linea dell’orizzonte, viaggiatore incessante e disinformato. Ho infranto il muro creato dalla nascita, e la linea del viaggio è rotonda e ininterrotta. Il mio corpo intero deve diventare un costante raggio di luce. Perciò chiudo le orecchie, gli occhi, la bocca. Prima di ridiventare uomo forse esisterò come parco»[9]. Chiudere gli occhi, le orecchie e la bocca per “dire” qualche cosa che diversamente sarebbe indicibile, come accade nel capitolo dedicato alla ferita sul vuoto di Lucio Fontana.

Questo lavoro mi incoraggia verso così tante approfondimenti che sarebbe vano tentare di seguire tutti i percorsi tematici aperti dall’autrice; mi limito a citarne uno, quello del femminile ingabbiato dal Logos, a me molto caro, che spero di riaffrontare in altra occasione.

«Superficie è l’anima della donna, una spuma mobile e tempestosa in un’acqua poco profonda»[10].

[1] C. Bene, Opere. Con l’autografia di un ritratto, Bompiani, 2004, p.XXXVII.

[2] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in F. Nietzsche, Opere. Vol. VI, Tomo I, cit., pp. 8-9.

[3] I. Battaglini, Il corpo-sudario. Psicologia della transizione. Dalla tela alla performance nell’arte contemporanea, Preludio di A. Galgano, Prefazione di G. Panella, Aracne, 2016, p. 335.

[4] G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, 1997, p. 54.

[5] G. Deleuze, Abecedario, DeriveApprodi.

[6] C. Bene, La voce di Narciso in C. Bene, Opere. Con l’autografia d’un ritratto, cit. p. 991.

[7] I. Battaglini, Il corpo-sudario. Psicologia della transizione. Dalla tela alla performance nell’arte contemporanea, cit, p. 171.

[8] G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, 2010, pp. 264-265.

[9] Ivi, pp. 226-235.

[10] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit.

La memento mori di Andy Warhol

di Irene Battaglini

L’Immaginale

articolo in pdf La memento mori di Andy Warhol

 

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andywarhol-self-portrait-1986

Andy Warhol – autoritratto (1963-64)
 

The integrated internal combined object learns from experience in advance of the self and is almost certainly the fountainhead of creative thought and imagination.  (Donald Meltzer, The Claustrum, 1992)

Odio e amore sono  differenti aspetti della stessa costellazione emozionale e necessitano di esser esperiti simultaneamente perché siano costruttivi. La chiave dello sviluppo è passione e turbolenza, su di una scala qualitativa, piuttosto che quantitativa – gli incrementi possono essere anche minuscoli. Mentre il concepire le relazioni intime sia nella vita che nell’arte come prive di conflitti, risulta ad un’indebolita, eccessivamente liberale, mentalità “soft umanista”(Meg Harris Williams, 1986)

Si è soliti pensare che la percezione del volto umano si modifichi per due ragioni, per lo più: per il trascorrere del tempo, invecchiando, e per il “passaggio” mimico delle espressioni, delle emozioni, dei pensieri, degli elementi paralinguistici della comunicazione. Naturalmente il volto può cambiare anche a causa di un trauma, o transitando dall’infanzia all’adolescenza, subendo variazioni antropometriche significative che possono influire sull’immagine di sé di chi ne è portatore, anche a livello dell’identità. Andy Warhol (Pittsburgh, 6 agosto 1928 – New York, 22 febbraio 1987) entra nel mito dell’iconografia con l’innesto di un nuovo livello di rappresentazione del volto: il cambiamento avviene a livello di organizzazione topologico-cromatica, attivando connessioni tra “aree” facciali che solitamente non vengono “prese insieme” per la qualità (i colori) dai centri del sistema nervoso dedicati al riconoscimento dei volti ma per i rapporti dimensionali. Egli stesso, in realtà, non fa che diventare il volto dell’arte contemporanea, sebbene egli stesso in continuo mutamento di immagine e di concettualizzazione del proprio lavoro.

Andy Warhol afferma l’esordio della grande arte contemporanea americana anche attraverso i suoi famosissimi ritratti, e con questi attua il grande cambiamento (a partire dagli anni ’60) anche al livello del genoma linguistico della stessa Pop Art. Se Andy Warhol nei ritratti sancisce una modalità completamente nuova di interpretare il volto umano, con un cambiamento radicale delle tracce neurali che vanno a “comporre” una identità attraverso la faccia, è vero anche che attraverso questo complesso meccanismo di ristrutturazione cognitiva, percettiva ed emozionale consacra l’immortalità di quei volti, di quegli esseri umani ritratti, transitando con un salto psicologico di proporzioni titaniche da una dimensione mondana ad una dimensione iperuranica con cui ci dice qualche cosa a proposito del rapporto con la morte e la caducità della vita umana. Dice Antonio Spadaro:

<<La morte del padre, quando Warhol era ancora molto giovane, lo aveva profondamente segnato. Ma consideriamo pure che egli si salvò da un tentativo di omicidio per mano della fanatica femminista radicale Valérie Solanas. Molti sono i segni di morte o decadenza che lo accompagnarono nella sua breve vita. […] Warhol esorcizza il timore della perdita e della dissoluzione ostentando la morte nella sua riproducibilità mediatica. C’è qualcosa di elusivo e di «scivoloso» nell’opera warholiana. È vero: Warhol ci ha ingannati, il suo è un camuffamento. Chi considera la sua opera come il trionfo delle merci, dei colori del consumo e del successo mondano, perde di vista il gusto amaro dell’effimero che appare evidente, in realtà, considerando le sue «icone» di Marylin Monroe (che era appena morta) o di Jacqueline Kennedy (ritratta dopo la morte del marito), Liz Taylor (malata di alcolismo), Elvis Presley, ma anche Lenin, che viene ritratto a morte e imbalsamatura avvenute. La felicità sembra essere il retro della tragedia>>.[1]

Andy Warhol si avvicina al ritratto con astuzia mercuriale, attraverso una potentissima opera di elusione delle regole pittoriche, tanto è vero che egli non è da tutti considerato un artista nell’accezione classica del termine ma più verosimilmente un fenomeno di tipo socioculturale e mediatico. C’è da dire che “artista” è una parola ambigua e spesso diventa il contenitore per le persone il cui contributo esce dalle cornici delle forme fino a quel momento conosciute. In ogni caso le sue opere sono un elemento centrale nelle dinamiche dell’arte contemporanea e direi della Storia dell’arte più in generale.

<<C’è un quadro di Klee, – dice Walter Benjamin nelle “Tesi sul concetto di storia” (1939-40, Sul concetto di storia, Einaudi, 1997), – che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inevitabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa la bufera>>.[2]

Nella Storia dell’arte i ritratti di Andy Warhol sono una sequela di declinazioni fisiognomiche dell’Angelus Novus incarnatosi nei personaggi profetici ivi rappresentati. Quando muore Marilyn Monroe, nell’agosto del 1962, Warhol rende omaggio all’attrice con una serie di opere che partono da una fotografia diffusa dalla stampa di tutto il mondo del viso ormai mitico della star. Dal 1972 si dedica soprattutto al ritratto: personaggi famosi della moda e del jet set (Giorgio Armani, Carolina di Monaco…), politici (Mao Tze Tung…), attori (Liz Taylor…), cantanti (Mick Jagger…), artisti (Keith Haring, Basquiat…) e se stesso. Quei volti sono sembianze, “sembianti”, sembrano e non sono, potremmo dire, ma vogliono dire. Vogliono esporre un tentativo di rappresentare il passato di quelle vite in una prospettiva storiografica mercificatoria dell’identità. L’ottica di Warhol non ha alcun intento moralizzatore. Egli è scaltro, ineffabile, attento ai bisogni dei clienti, al pari di un ineguagliabile couturier. L’identità espressa nei ritratti è “passata”, la vita è “trascorsa”, sfiorando quel corpo eletto a simulacro e divenuto oggetto della compravendita dei diritti di servitù per il passaggio di accesi colori stesi “a zona”. Nulla vieta che il patchwork possa produrre coperte che scaldano, ma è complicato fare del patchwork qualche cosa di veramente nuovo, perché si tratta di pezzetti presi qua e là da cose conosciute e consumate. Diventa nuovo se genera un insieme diverso dalle parti di cui è composto, ma non soltanto perché è qualche cosa di più della somma delle parti. Voglio parlare dell’immagine che si costella a partire dal mosaico di elementi accostati che presi singolarmente non alludono al tutto, poiché quel tutto è qualche cosa di nuovo che non sarebbe esistito senza quel preciso modo di mettere insieme le parti e che non dipende tanto dalle parti quanto dall’equazione compositiva che sta nella mente del mosaicista. I colori usati da Warhol sono già conosciuti nel mondo della moda, i volti sono di vite consumate dalla fama, dalla vita, dal successo. Come ha potuto egli arrivare ad un volto completamente nuovo, ad esempio, di Marylin, senza svilirne l’eleganza e senza utilizzare elementi ulteriori? Probabilmente con la potenziale spinta necrofila di chi deve mantenere in vita ciò che vivo non è. Attraverso l’illusione del venditore. L’illusione tra l’immagine emergente e la sua verità sottostante (che afferisce alla memoria di quel volto nell’immaginario comune) genera uno iato di senso difficilmente catalogabile. Se la forma resta identica (il volto), se il nome resta invariato (ad esempio Marylin), perché immediatamente ricaviamo l’idea di qualche cosa di completamente diverso, che si proietta nel futuro alla stregua di una icona museale? In altre parole, perché una fotografia semplicissima del volto di Marylin all’improvviso dovrebbe assomigliare ad un vaso cretese elegantemente decorato, in cui il vaso perde la sua funzione di utensile per addivenire il palco della narrazione di una storia? E che storia racconta il ritratto di Marylin? Parla di lei o più verosimilmente parla di quello che lei NON è stata?, ovvero racconta quelle cose del suo volto di cui non ci eravamo accorti? La sua bellezza ubertosa viene stravolta a favore della possibilità di consumarla attraverso l’utilizzo del quadro sulla scorta dei bisogni dello spettatore. Esattamente come avrebbe fatto lo spettatore nelle sue fantasie private, ma tuttavia in questo caso alla piena luce, gettate in faccia, eliminando la componente di Ombra, l’elemento “segreto”. La privatezza della proiezione – una sorta di autonomia iconologica che ciascuno di noi coltiva nel proprio dominio psicologico – viene sostituita dalla valenza “sociografica” dell’idea di Marylin, che si fa oggetto seriale un po’ come un articolo di consumo, un barattolo della Campbell. Non a caso dagli anni ’60, Warhol trova altre fonti d’ispirazione, lontane dai prodotti dei negozi lussuosi e si rivolge agli articoli di consumo di massa americani venduti nei supermercati del Bronx e di Brooklyn. Il fenomeno di appiattimento che deriva dall’eliminazione della profondità volumetrica – o dalla rimozione dell’ombra in senso stretto, o dell’Ombra in termini archetipici – fa fuori in un solo colpo diversi secoli di dominazione della prospettiva di Brunelleschi e di conseguenza attiva l’associazione per cui ciò che è seriale è anche privo di futuro e di spessore, è privo di personalità ed è controdipendente, è un soldatino implotonato, un dispositivo sociale utile alla collettività. Tutto questo utilizzando i colori in semplici campiture piatte. Certo! Tuttavia non sono le campiture piatte di un allievo inesperto, ma le implosioni cromatiche di un genio creativo della moda e della comunicazione, che si fa in questo caso “artista del suo tempo”, inquieto anfitrione della sua Factory, un polo d’attrazione per la scena culturale newyorkese. Molti artisti si ritrovano in questo atelier ed è lì che nasce il gruppo rock Velvet Underground.  Con Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Robert Rauschenberg e Jasper Johns, egli fonda incolpevolmente la discussa Pop Art americana. Il suo contributo è qualche cosa di assimilabile all’idea di “rumore” del filosofo austriaco Heinz von Foerster (1911-2002), da cui il paradossale “principio dell’ordine dal rumore”: in un sistema complesso, il rumore non è sempre fonte di disordine, ma può invece portare a una crescita di organizzazione. Perché non è tanto l’arte contemporanea ad essere “sconvolta” da questo “perturbante”, quanto il mondo dell’arte. Sostiene Philippe Daverio: «All’inizio degli anni Sessanta la Pop Art conquistò l’Europa e oggi non si può prescindere da questa corrente artistica per indagare l’arte dei nostri giorni, comprese le sperimentazioni delle giovani generazioni d’Italia». Il mondo dell’arte infatti, attraversa a partire dalla Pop Art – e non solo per mano della Pop Art, ma in risposta ad una tensione interna irrisolta –una dinamica regressiva che porta alla dissoluzione della materia nell’opera d’arte. Se Picasso in Europa compie la stessa operazione “ferendo” la figura, e chiudendo pressoché definitivamente il capitolo millenario del dominio della forma, Warhol non ferisce ma, si potrebbe dire ab-usa, usa illecitamente e smodatamente non tanto la forma quanto l’immagine che stabilisce una nominazione: il nostro volto è l’istanza primaria che si collega al nostro nome, ma anche la Brillo Box identifica un mondo, una categoria, e Warhol stravolge non il significato ma la rappresentabilità di quell’istanza. Sempre Spadaro:

<<Se guardiamo i quadri di Warhol avendo presenti le icone orientali verifichiamo che sono molti gli aspetti comuni. Il fondo oro delle icone si traduce nel fondo dal colore astratto, vivido e acceso, dei suoi ritratti. La staticità della rappresentazione orientale[3] è data dal senso di «fermo immagine» che si sperimenta guardando le sue opere, sia che rappresentino persone, sia che rappresentino oggetti. La decontestualizzazione è massima rispetto al contesto visivo e a quello storico. Così è anche evidente la mancanza di coinvolgimento emotivo. I contrasti sono accesi. Il confronto tra le icone e i quadri di Warhol può sembrare ardito, ma diventa piuttosto naturale se condotto avendo davanti agli occhi le immagini. I quadri di Warhol sono vere e proprie «icone pop», com’è stato detto. I suoi ritratti sono quelli dei «santi» pop. Accanto a queste figure però, è da notare che nella sua produzione è sempre ben presente il tema della morte e della caducità della vita. […] Non fu possibile per Warhol sottrarsi a una sorta di costante memento mori>>.[4]

Decontestualizzare equivale ad estirpare, sradicare, se in gioco è l’identità. Una componente aggressiva che mal si coniuga al tema della spiritualità (ripreso anche da Arthur C. Danto in Quotidianità e sacralità nell’arte di Andy Warhol)[5]  in cui dovrebbe essere sublimata, canalizzata. L’affettività ne risulta coartata, perversa, autodistruttiva. La grandezza di Warhol sta principalmente nell’aver trasformato il conflitto estetico di base in una appassionata contrapposizione tra notorietà e originalità, da una parte, e riproducibilità e serialità, dall’altra. Lo stesso Gianni Mercurio in una intervista a www.ilsussidiario.net:

<<Il rifiuto dell’unicità sembra in effetti una delle sue più «diaboliche» invenzioni, non so se consapevole o no, ma con Warhol l’inconsapevolezza è assai remota perché in lui di casuale c’è ben poco. Egli si appropria ed estremizza il famoso concetto di Walter Benjamin della riproducibilità. Benjamin era di matrice marxista e l’annullamento in lui dell’aura di unicità propria dell’opera d’arte in qualche modo era bilanciata in favore della popolarità dell’arte, che doveva raggiungere le classi meno abbienti. Warhol fa la stessa cosa ma al servizio, in qualche modo, del capitalismo. Spoglia della matrice marxista la molteplicità di Benjamin, e la riveste con un matrice di tipo capitalista>>.

Tuttavia la critica d’arte e le teorie formaliste sembrano non possedere gli strumenti diagnostici per comprendere il cambiamento avvenuto nell’arte contemporanea, per capire e spiegare quello che di nuovo si trova davanti, e per “leggere” opere come la Brillo Box o l’orinatoio “Readymade” di Marcel Duchamp. Liquidare il tutto con un editto, dichiarare che “non sono opere d’arte”, non spiega perché tra le due scatole di detersivo Brillo, quella di Warhol trovi posto nei musei, e quella “originale” (che è però “seriale”) trovi spazio sugli scaffali dei supermercati. Tiziana Andina, nella recensione di The Abuse of Beauty di Arthur Danto, sostiene che «in questa prospettiva, l’inafferrabilità della Pop Art è, in fondo, un problema eminentemente filosofico, anzi a ben guardare, metafisico».[6] In estrema sintesi Danto vorrebbe offrire

<<una teoria essenzialista. In che significa che se prescindiamo dal punto di partenza, che può sembrare quanto di più storicamente determinato si possa immaginare, Danto intende fornire una definizione universale dell’arte, vale a dire una definizione che non si veda costretta a mutare storicamente seguendo i mutamenti dei suoi oggetti. Per questo, la definizione che Danto ha in mente deve essere sufficientemente ampia e flessibile da poter includere anche le scatole Brillo e da poter giustificare l’inclusione o l’esclusione della bellezza dall’arte contemporanea>>.[7]

Infatti il problema è fondazionale, e il critico, a partire dal pretesto della Brillo Box, si trova incagliato in una palude di contraddizioni, che hanno per oggetto principale il tema della Bellezza e i suoi assunti. La riflessione di Danto non si esaurisce  all’interno di categorie filosofiche ma tiene conto degli aspetti storici e sociologici: «La tesi di Danto, estremamente coerente negli anni, è che il formalismo non colga nel segno nella misura in cui non tiene conto della dimensione storica delle opere. La Brillo Box non avrebbe potuto avere il valore e il significato che ha se, poniamo, Warhol avesse avuto la stessa identica idea nel 1864».[8] Ed è il sociologo Howard S. Becker – noto per la “teoria dell’etichettamento sociale” – a dare sostegno a questa lettura: nell’opera I mondi dell’arte (1982; Il Mulino, 2004), egli propugna una «sociologia del lavoro applicata all’attività artistica» al posto di una «sociologia dell’arte». L’approccio etnografico inaugura quindi il grande fiume delle teorie contestuali. Utilissime, e rischiose: ci allontaniamo dall’urgenza di Danto di trovare una definizione si flessibile, ma universale, senza tempo, di opera d’arte. Il problema quindi si pone come una costante che si sposta continuamente, aprendo ad uno scivolamento relativistico. Una zattera, il cui intreccio porta con sé il background socioculturale del naufrago-inventore, in cui la validazione del processo artistico è definita dalla tenuta di mare della zattera, la cui “bellezza” sarà il frutto dell’apprezzabilità pratica. In altre parole Warhol ridefinisce il “contenuto” dell’opera d’arte a partire da due elementi costitutivi: la “cassetta degli attrezzi” e l’accessibilità agli occhi del mondo.

Tuttavia, questo non è sufficiente a comprendere come, ad un certo punto, si sia dovuto cambiare il modello interpretativo per far fronte alla nuova realtà, connotata dalla destrutturazione della forma e dell’immagine, dalla smaterializzazione, e dall’inclusione delle tecniche più svariate e innovative, negli atelier e nelle scuole, in cui il gesto e l’azione sostituiscono la contemplazione, lo studio, il duro lavoro di bottega. A quale esigenza non tanto dell’artista ma dell’uomo, risponde questo fenomeno? Qual è quell’uomo che non ha più bisogno della forma classica, ma che sente come affine al suo gusto la forma destruente, l’immagine dissonante, l’installazione rarefatta, che si priva dei maestri (e quindi degli allievi) per far posto agli artigiani estetici? Perché la Pop Art non avrebbe una così grande rilevanza se non avesse sradicato la pittura dalla storia. E se non avesse inaugurato la trasformazione del Dna dell’arte il cui sviluppo è oggi ad un intricato crossing-over: un punto di non ritorno, una perdita della tradizione e della conoscenza che, con le nuove generazioni, non sarà possibile recuperare. Ma il nostro occhio deve essere addestrato al disincanto, poiché tutto è in perenne divenire, e nulla di ciò che osserviamo è privo di un suo precipuo inconscio.

La deriva narcisistica che sta alla base della dinamica dissociativa, che tende a separare l’oggetto dal soggetto, offre possibili sponde interpretative non solo di Andy Warhol ma di molta arte contemporanea. Partiamo dal «conflitto estetico» di Donald Meltzer: «Il conflitto estetico è quel conflitto suscitato dalla bellezza del mondo e dalla sua rappresentazione primaria»;[9] «… la madre bella che si offre agli organi sensitivi… (del bambino)… e il suo interno enigmatico che deve essere costruito attraverso l’immaginazione creativa»[10]. Si tratta di andare a comprendere l’impatto estetico che la “vista” della madre-arte ha sulla psicologia dei figli-artisti. Questa madre sembra come assente, sorda, cieca, taciturna, assorbita dalla sua necessità di generare e diffondersi, mentre all’uomo il grave peso di insegnare, imparare, insegnare, imparare. Migliorare, accendere, pregare, servire, trasferire conoscenza, incendiare città, costruire città, attraversare oceani, essere pronto a salpare ancora. È priva, questa madre-arte, di una “visione” longitudinale del destino dell’uomo-apprendista, tutta protesa com’è a estendersi, a ramificarsi, a decorare tutte le chiese, a ornare le case, a farsi storia, guerra, società, organizzazione, impresa. Il ripiegamento dell’uomo su se stesso, la sua solitudine, si riflettono sulla sua capacità simbolica. Meg Harris Williams:[11]

<<Usando una vecchia metafora (di Platone) spesso ripetuta dai poeti, Bion dice che la conoscenza è derivata per mezzo di LHK,[12] che costituisce “cibo per la mente”. Questo cibo prende la forma dei simboli, che incorporano la conoscenza nella personalità. In questo la teoria psicoanalitica è in linea con la poetica Romantica, rappresentata da Coleridge quando dice che «un’idea non può essere trasmessa se non da un simbolo» (Coleridge, 1816). Anche la Klein aveva riconosciuto che la formazione dei simboli era la base per tutte le attitudini (e come è risultato dal suo lavoro con i bambini, era ben consapevole che un simbolo non necessariamente è verbale, ma è un mezzo per l’espressione di una fantasia inconscia in ogni mezzo) – l’immaginazione, come i sogni, e così il teatro emozionale degli oggetti interni e di oggetti parziali. […] Don [Donald Meltzer] ha preferito non allontanarsi dai termini tradizionali kleiniani della madre interna e dell’oggetto combinato. I poeti inglesi, similmente, vedevano la loro musa come “mediatrice” tra la massima divinità e l’anima infantile che sta per ottenere una personale “identità” (Keats, 1819). […] Nella critica letteraria «l’ansia da influenza» (Bloom) si riferisce a quel tipo di competitività maschile provata nei confronti di un poeta precedente. In ogni caso, nello scrivere genuinamente e con ispirazione, questo è abbandonato a favore di una rispondenza tra oggetti interni (Williams). Invece di suscitare zoppicanti dubbi e sospetti, il predecessore raggiunge un livello più alto di astrazione – ciò che Bion chiama la «compagnia divina interna» e Meltzer «i santi e gli angeli della realtà psichica» (Meltzer 2005, 428). Tutto ciò non è compiacenza dell’idealizzazione; al contrario, provoca dedizione alla causa della promulgazione della bellezza di tali idee e del contributo al «frutto del mondo» (come dice Keats). Don ha descritto la propria ispirazione a Bion in Studi di metapsicologia allargata (Armando ed.). Qui egli riporta come abbia capito che la costellazione emozionale di L, H, K corrisponda all’impatto della bellezza della madre sul neonato, inizialmente ad un livello di oggetto parziale: «In principio era l’oggetto estetico e l’oggetto estetico era il seno e il seno era il mondo» (Meltzer 1986, 204)>>.

Andy Warhol è l’uomo che esprime appieno la contemporaneità dell’artista privato del conflitto estetico, si muove in una direzione apparentemente caotica. La bellezza della Grande Madre-Arte è estraniante, metamorfica, il suo seno è inafferrabile e forse troppo lontano: la vecchia Europa con le sue cattedrali è inaccessibile, soverchiante di bellezza nelle segrete e nelle catacombe, chiusa a difendersi dalle minacce della guerra. La società “occidentale” diventa la madre presente, che consente l’unica possibile simbolizzazione attraverso la distruzione della bellezza negata. La reciprocità di proiezione tra arte e oggetto dell’arte si costella come unica forma di identità, segnando il destino autoreferenziale e narcisistico dell’arte che seguirà negli anni successivi, in America come in Europa. Warhol sembra utilizzare quindi il potenziale emozionale negativo di dotazione, per neutralizzare l’impatto della bellezza sulla sua fragile e bizzarra struttura polimorfica. Il suo merito è quello di aver reso “accessibile”, come un oggetto sostitutivo, l’inafferrabile. Marylin, inafferrabile. Detersivi e scatole di minestra, scarpe e poltrone, residui di memoria di una madre-altrove.


[1] Antonio Spadaro S.I., Quale religiosità nell’arte di Andy Warhol?, La Civiltà Cattolica 2007 III 54-60 quaderno 3769 (7 luglio 2007)

[2] http://www.filosofico.net/benjamin.htm

[3] Spadaro qui si riferisce alla considerazione di Gianni Mercurio per cui «Si resta sconcertati dal fatto che pochi critici negli anni passati, ma soprattutto nel periodo in cui Warhol era vivo, abbiano notato l’evidente richiamo, anche stilistico della sua opera con le icone delle tradizioni tardo bizantina e russo ortodossa», in G. Mercurio, Andy Warhol ci ha ingannati, in Andy Warhol. Pentiti e non peccare più!, 2006, Skyra

[4] Antonio Spadaro S.I., Quale religiosità nell’arte di Andy Warhol?, La Civiltà Cattolica 2007 III 54-60 quaderno 3769 (7 luglio 2007)

[5] Quotidianità e sacralità nell’arte di Andy Warhol in Andy Warhol. Pentiti e non peccare più!, 2006, Skyra

[6] Tiziana Andina, Arthur Danto, The Abuse of Beauty, 2003, in “2R – Rivista di Recensioni Filosofiche”, vol. 6, 2007 www.swif.uniba.it/lei/2r

[7] ibidem

[8] ibidem

[9] p. 493, Sinceridad y otros trabajos, Spartia, Buones Aires, 1997

[10] Amore e timore della Bellezza, 1989, Borla (The apprehension of Beauty, 1988)

[11] Meg Harris Williams, (2005, 2011), Genesis of the ‘aesthetic conflict’, www.harris-meltzer-trust.org.uk/ papers;  traduzione a cura di Teresa Tona

[12] Meg Harris Williams si riferisce qui alla griglia dei “vertici” del potenziale emozionale positivo di Wilfred Bion, in contrapposizione alla “griglia negativa” di -L, -H, -K che corrispondono alla negazione dei fatti emozionali.

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Ringrazio il prof. Franco Bruschi per i contributi bibliografici offerti alla mia ricerca dalla sua libreria.

© articolo stampato da Polo Psicodinamiche S.r.l. P. IVA 05226740487 Tutti i diritti sono riservati. Editing MusaMuta®  www.polopsicodinamiche.com     www.polimniaprofessioni.com

Irene Battaglini “La memento mori di Andy Warhol”, 10 marzo 2014

Il gesto in piena di Cy Twombly

di Irene Battaglini

Prato, 30 settembre 2013

Cy Twombly

 

«Art is the triumph over chaos». John Cheever,  The Stories of John Cheever (1978)

articolo in pdf  IL GESTO IN PIENA DI CY TWOMBLY

 
 
 
 

The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 2The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 3The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 4

The Four Seasons: Spring, Summer, Autumn, and Winter. 1993-94, Synthetic polymer paint, oil, house paint, pencil and crayon on four canvases

L’arte di Cy Twombly è un grido sull’America. Un richiamo di sangue e di cieli densi di fiori che si rompono in un boato crespo di farfalle contaminate. La sua pittura è un fiotto che rompe gli argini dell’armonia, è un soffio che imprime voli per mete non raggiunte, non possibili. La pittura di Twombly (Virginia, 1928-Italia 2011), esprime il fallimento delle utopie moderniste. Illeggibile, incoerente, improbabile. Eppure è vera e bellissima. Bisogna capire come sia stato possibile creare questa unione violenta e irreversibile, come un aereo in velocissima precipitazione che prende fuoco sulla coda, e nell’atto di avvolgersi su di sé diventa una stella cometa. Quadri di una straordinaria epifania cromatica, di luce che esplode. In cui segni, colori e forme sono gli strumenti dell’agrimensore in un pianeta desertico di cui scongiura l’imminente deflagrazione. Sono il canto e la preghiera di un ultimo uomo verso Dio i cui occhi, che per dirla con McCarthy, un altro americano dignitario della più alta contemporaneità, «tradivano non disperazione, ma soltanto quell’insondabile, profonda solitudine che è l’impronta più tipica di questo mondo». (da Oltre il confine)

Tutta l’arte di Cy Twombly (pittore, incisore, disegnatore, scultore) è notte inoltrata che deflagra nell’aurora, è il “linguaggio dimenticato” di Erich Fromm su una lavagna stridente, è ardesia che si sbriciola a creare forme improbabili, è gemmazione di scarabocchi di luce bruciante dalle forme svelte, come le braccia di un nuotatore esperto che farfugliano nell’abisso e che nell’inconscio tumulto non smarriscono – nello smarrirsi – l’eleganza di quanto hanno appreso.

Il “quadro” deciso da Cy Twombly è una forma concreta di non-pittura, è una decisione spasmodica di andare verso la crisi linguistica e di immergersi in questo spasmo come all’imbocco della neoplasia che ha corroso velocemente l’universo percettivo del cui declino siamo attori, costretti alla visione monoculare della realtà dell’emarginazione o alla confusione conglobante e regressiva dei social-network. È una pittura di voci che si affollano ad un crocevia, dove è obbligato a stare l’artista contemporaneo che deve organizzare e riorganizzare continuamente immagini, metafore e rappresentazioni nella stanza della propria coscienza, che si affligge del proprio paradosso esistenziale, per dover essere nello stesso tempo figlio e dio, creatura e creatore.

Cy Twombly sembra aderire, per far fronte allo stress della devastante mitologia unilaterale del mondo contemporaneo, ad una tradizione “anticreativa”, come se il suo atelier fosse una prestigiosa accademia in cui lo scranno più alto è perennemente disabitato. La sua originalità è così potente che deve per forza nascondersi a se stesso, per capire qualche cosa della sua stessa talentuosa e indisciplinata arte del segno. La tecnica che lo vuole maestro nello sfocare la linea del contorno dal disegno è l’espressione di una strategia di attacco ai fianchi dell’ortodossia, è un modo per dire che l’infante è più indipendente del dio e più arrogante, più violento, più demoniaco. Del resto, il desiderio di unione deve essere spostato in una fuga in avanti verso la dimora della perfezione, verso la quale il puer muove con incessanti cadute e inappagato desiderio.

La proiezione sul futuro, su quello che sarebbe stato un disegno di Cy Twombly se egli ci avesse donato le forme belle del suo immane talento pittorico a detrimento della sua scelta di uomo autentico che decide di farsi scenario del mito della luce del mondo post-industriale, comincia già a costellarsi nel controverso ambiente del ventre materno dell’espressionismo, in cui nascono le sue prime opere, non in ordine ad una casualità, ma ad un divenire in prospettiva mitica del dramma della propria vita lacerata in cui segno e disegno, contorno e ombra, sono scissi eppure appaiati in un affiancamento in cui sembrano alloggiare danzatori solitari. Dice Adolf Guggenbühl-Craig nel libro Il bene del male. Paradossi del senso comune (Moretti&Vitali, 1998, pp. 27 e 28):

«Abbiamo [quindi] a che fare con due tradizioni: da un lato la creatività viene fatta oggetto di ammirazione, dall’altra essa viene ritenuta un attributo esclusivo di Dio e, per quanto riguarda gli uomini, la si considera soltanto una forma di hybris, di tracotanza. Sia quel che sia, con la creatività noi giungiamo faccia a faccia con Dio. E che cosa succede con l’indipedenza? Sicuramente possiamo ritenere che l’unico essere davvero indipendente in questo mondo sia Dio. Per definizione Dio è indipendente da tutto e da tutti, e tutto è dipendente da lui. Egli è l’inizio e la fine, alfa e omega del creato; […]. Noi stessi cerchiamo di raggiungere questo tipo di divinità, cadiamo vittima del complesso di Dio».

La prospettiva mitica fu, per Twombly, forza e sembianza, significato e bellezza. Il pittore amava nutrirsene, e fare dei suoi disegni “veicoli per contenuti letterari”,[i] dai quali cercava di liberare le figure.

L’opera di Twombly, se fosse tutta ordinata su piani paralleli, mostrerebbe una morfologia simile ad una stratificazione geologica intra-psichica in cui sembrano essersi fissati i marcatori del processo alchemico. Gli esordi, agli inizi degli anni ’50, sono connotati dall’influenza di Kline e Paul Klee, e sono prevalentemente pennellate gestuali-espressioniste, in un originale e morbido intreccio di tratti, parole, numeri e porzioni (“frazioni”) di oggetti. È molto attratto dall’Italia, dove si stabilisce definitivamente nel 1960, anno in cui allestisce la prima mostra alla Galleria di Leo Castelli.

Leda and the Swan, 1962, Cy TwomblyGli anni ’60 sono caratterizzati dai cosiddetti “Quadri della Lavagna”, opere di grande dimensioni in cui usava la tecnica calligrafica dei graffiti su sfondi solidi di colore grigio, marrone o bianco (una tecnica a metà tra la pittura e l’incisione), in cui la scrittura viene svestita del suo ruolo comunicativo e trasferita nel campo semantico del gesto, fino a costellare appieno l’action painting, ricco di citazioni come Leda e il cigno (1962, fig.1) o la famosa battaglia di Lepanto. In questo periodo, che è estremamente proficuo, comincia a creare le sue prime sculture astratte, le quali, sebbene varie nella forma e nel materiale, erano sempre ricoperte di pittura bianca. Twombly utilizzerà (e sarà scultore di quest’arte povera per tutta la vita) materiale preso a prestito dal fabbro, dal maniscalco, dal falegname, per dare altezza a forme semplici dalla struttura assemblata, a ricordare l’arte dei mastri antichi nel forgiare gli strumenti del lavoro: un omaggio alle cose, che si liberano della condizione di oggetti utili (come le lettere e la parola scritta) per diventare il simbolo del proprio servilismo: l’oggetto svilito dalla sua destinazione strumentale diventa un soggetto di bellezza silenziosa e perenne, come  in un processo di mummificazione, in cui gesso, vernice, legno, cartone, metallo, carta, stoffa, spago, matite, diventano elementi del lavoro manuale che, ricoperti di vernice bianca e opaca, subiscono l’ultimo trattamento immortale.

Nella metà degli anni ’70 Twombly realizza opere “multistrato”, vere e proprie creature che rappresentano la piena realizzazione del suo repertorio anticonvenzionale, costruite assemblando il collage di fogli ad altri media pittorici.

Gli spazi “vuoti” sono il collante necessario al dipanarsi di una creatività splendente, che attinge spietatamente alla linguistica, piratandone i sistemi di base. Il segno diventa “lemma” e spesso è contratto in un calco filologico: come se un bambino geniale avesse la capacità improvvisa di comunicare attraverso un linguaggio in cui verbo e immagine convergono in una bocca vulcanica fatta di meraviglie e di delicatezze, che vengono alla luce con estrema cura, a  volte con riferimenti geografici, come la serie dei quadri Bolsena (il lago vulcanico vicino a Viterbo).

Apollodoro from the portfolio Six Latin Writers and Poets, 1976-76, Cy TwomblyIn questi lavori, gli elementi grafici si fondono con forza tecnica sempre più rilevante in una sorta di dissoluzione vorticosa, di totale imprendibilità, ma sono talvolta caratterizzati da un nitore fantasmatico, come una sorta di alfabeto decifrabile dalla perizia di pochi eletti, come ad esempio in Apollodoro, (fig. 2), fino a raggiungere negli anni ’90 l’acme estetico di eleganti esemplari floreali che in qualche modo lo ricongiungono, in una sorta di re-unione con il principio, ai Fauve che ne connotarono gli inizi del percorso mezzo secolo prima, nel periodo americano, in cui fu della scuola dei grandi Robert Rauschenberg e Jasper Johns.

Un esempio folgorante è quello delle Quattro Stagioni, giganteschi pannelli che sembrano dimorare tra lo spazio scenico e quello architettonico, in una sorta di danza dei colori che si raccordano in chiazze in perenne tentativo di scendere verso il basso, trattenute contro la tela da invisibili fili, come mani che tentano di mitigare l’urlo di una dea di bellezza arcaica, maestra delle pitture rupestri.

L’ interno delle tavole è carico di una fortissima tensione, di una conflittualità invadente e di una cripticità linguistica che rimanda alla costante alternanza tra violenza e silenzio, tra sessualità e gioco, tra luce e fondale, in un rapporto emotivamente coinvolgente con lo spettatore: al quale non è difficile desiderare di balzare dentro il quadro e affondare gli occhi in quel coacervo di colore.

I fiori sono, in alcuni lavori, vere e proprie esplosioni e non è un caso se appartengono all’ultima parte del viaggio pittorico di Twombly. Artista ricchissimo e avido, così viene descritto, non fu mai collocato dalla critica americana nella Pop Art; questa sua ostinata originalità stilistica fu la sua fortuna: i suoi quadri sono valutati milioni di dollari e ambiti dai maggiori galleristi.

Non essendo “schematico”, si può solo ripercorrere a ritroso il suo progetto e intercettarne alcune coordinate, con una visione dall’interno, che sembra l’unica via percorribile, proprio come farebbe quello spettatore curioso e invadente. E tornando a quel processo alchemico stigmatizzato nella geologia delle opere, non è difficile individuare un alternarsi di strati di bianco, di rosso, di nero. La qualità dinamica dell’opera di Twombly si interseca con quella statica di depositaria del messaggio, è quindi un’opera magistrale che separa l’oro dal fango, e aggiunge un’aura di mistero e di sapienza, per quella inusuale competenza del maestro a rendere coscienti e ricchi sia il nero che il rosso l’uno dell’altro, stretti al confine tra il simbolico e l’astratto, uniti dall’invisibile catena dell’espressione del colore in piena luce, che sembra poter dire tutto, ma che di fatto rimanda sempre ad altro in un infinito specchio di rappresentazioni.

La catalogazione in “espressionismo”, infatti, è sempre relativizzante, perché non fa altro che dire continuamente che sotto l’espressione c’è una volontà di manifestare, di dire, di esprimere. Il messaggio “espresso” da Twombly è ancora totalmente indecifrato. Un’idea, un desiderio, di destituire il mito restituendo al sogno gli eroi e le anfore di un tempo passato.


 

 

 

Il Segno e la Veggenza di René Magritte

di Irene Battaglini                              15 luglio 2013

L’Immaginale

pdf    Il Segno e la Veggenza  di René Magritte

«Quanto ai nomi, diciamo che nessuno di essi ha alcunché di stabile, e che nulla impedisce che le cose che ora sono dette rotonde vengano chiamate rette e che le rette vengano chiamate rotonde, e [diciamo dunque] che le cose non sarebbero meno stabili per coloro che ne mutassero i nomi e le chiamassero in modo contrario».

Platone, VII Lettera, 343a 9-b 4

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René Magritte, La clairvoyance, 1936La Clairvoyance è un autoritratto ad olio su tela del 1936 di Magritte. René Magritte (belga, 1898-1967) è il pittore contemporaneo più discusso, studiato e interpretato al mondo. La sua adesione al surrealismo è il movente per fare della sua arte un ampio scenario simbolico, linguistico, onirico e metaforico, prestandosi ad ogni forma di interpretazione psicoanalitica, di diagnosi per lo più ispirate alla dinamica, peraltro assai congrua, del trauma della morte della madre, avvenuta in circostanze mai del tutto chiarite.

René Magritte dipinse talmente tanto, soggetti ed elementi così diversi, utilizzando oggetti e “lemmi figurativi” così privi di un legame sintattico elementare, eliminando ogni logica “conscia” o “inconscia”, da far pensare ad almeno tre questioni di fondo: la prima, che non si tratti di oggetti e di soggetti scelti da Magritte, ma più verosimilmente di universi esperienziali, in cui immagine e parola sono connessi da un’intima storia di amore e di ontologia semantica; in secondo luogo, che si esime dalla triangolazione interpretativa per andare in una dimensione narrativa autonoma, dotata di coerenza interna, il cui unico condizionamento è determinato dalla scelta di utilizzare un mezzo (la figurazione, perché la pittura è probabilmente l’arte che gli è congeniale) connaturato ad esser visto, dotato di centralità espositiva – e pagandone il prezzo; in terza istanza, emerge una caratteristica portante di Magritte: il bisogno di far emergere con chiarezza e determinazione, con principi di trasparenza e bellezza, il proprio mondo interiore, – anche del trauma, ma non solo – diventando testimone fedele e docile di una condizione creazionista, di una cosmogonia geneticamente governata dal cromosoma dell’eleganza, dell’armonia, dell’ironia. Non una archeologia simbolica e insondabile, mistificante. Non è solo il mistero a far da contrappunto glorioso alla vividezza dei colori e al nitore delle forme; non è solo la diade vita/morte a far da trama liturgica alle simbolizzazioni; forse è l’espressività di un popolo – quello che abita l’isola di Magritte – di un’era antisimbolica, linguisticamente smembrato dai sostegni metaforici, alla ricerca di un nuovo punto euclideo, di un dio che ne definisca l’alfa e l’omega. L’impressione è che un universo extramondano abbia deciso di materializzarsi e di usare le nostre competenze linguistiche per avvicinarsi a noi, per farsi intravvedere, scorgere solamente, seppure manifestandosi con fervida abbondanza. Come se il dio avesse deciso di uscire dal tempio, ma non di rivelarsi nella sua piena identità. Venuto nel mondo, si lascia cullare dalla fantasia degli uomini, e desidera aprire una sfida scoprendo le carte con l’ambiguità – dosando con saggezza e astuzia impeto e quiete, favola e stigma, legge e verità – di chi vuole a lungo impiegare la scena che gli viene concessa, sapendo di dover prima o poi entrare nell’archivio museale delle cose dell’arte. Sostiene Collina, psicologa dell’arte:

«La realtà e la surrealtà delle immagini magrittiane, il senso e il nonsenso in cui si dibattono attraversando continuamente quel confine tra razionale e irrazionale che i surrealisti volevano abolire, nascono all’interno della struttura stessa della visione; egli non descriveva, come Dalì, i sogni, a lui bastavano le sue visioni e il mistero si genera dal cuore stesso della realtà, come la morte di sua madre; e una vasta letteratura internazionale dalla quale attingeva ispirazione, come le opere di Stevenson, Hegel, Kant, Baudelaire, Verlaine, Poe e Lautréamont. E proprio in quest’ultimo, di cui Magritte illustrò  i Canti di Maldoror, è da ritrovare la fonte della figura dello “stregone” come colui che, analogamente all’artista, è partecipe attore dei misteri del mondo».[1]

Ed è il mercuriale – che si maschera da stregone, briccone, sciamano, artista – a farci da guida nel grande gioco delle rappresentazioni di Magritte, che se è vero che rimandano sempre agli scacchi, al metafisico, all’arcano disegno, è vero anche che rimandano ad un ulteriore che ci appartiene sotto le scarpe, che abbiamo ad un centimetro dal naso, che possiamo scorgere con la coda dell’occhio: qualche cosa che non possiamo centrare del tutto, che non possiamo definire, ma che appartiene al quotidiano – perché adopera le strutture del nostro immaginario – e non al mitografico o al mistico.

Clairvoyance è segno e destino, è intelligenza metacognitiva, è intuizione e obbedienza. Eppure i protagonisti sono oggetti e soggetti “semplici”, dotati di autonomia scenica. Proviamo ad elencare i mattoncini della composizione, partiamo dai fondamentali, adottando il criterio del “rasoio di Ockham” e prendendo tutto l’insegnamento di Wittgenstein «non pensare, ma osserva!» (1967, 46): a volte l’indagine è investigazione, ma si deve basare sulla descrizione fenomenologica, sull’osservazione della realtà: un tavolino coperto da un drappo rosso, un uovo, un cavalletto, una tela; il pittore, in autoritratto e vestito con rigida eleganza, seduto compostamente su una sedia, con una tavolozza sulla mano sinistra, che “dipinge” una piccola aquila grigio-azzurra sulla tela. Qual è l’elemento che genera dissonanza? Che cosa è apparentemente incongruo, o – sempre con Claudia Collina:

«in prospettiva antropologica, [invece], l’immagine dell’artista che dona la vita, che anima con la sua materia, riporta alla spiritualità fideistica nella potenza creativa della divinità che alita il soffio vitale in forme di argilla, ma porta con se anche il suo ambivalente contrario, come ogni situazione: l’artista è mirabile, ma pericoloso.  È creatore possente, ma mago cattivo, che come alita la vita la pu  anche togliere. E da questo sincretismo d’origine antropologica alla lettura psicanalitica della psicogenesi del creare, indissolubilmente legata al suo opposto del dialettico distruggere, il passo è breve.  Magritte, come si vede dalla fotografia e dal dipinto Doppio autoritratto – Magritte mentre dipinge la chiaroveggenza e La chiaroveggenza, si autocelebra in veste di mago chiaroveggente portatore di messaggi simbolici sinonimi di presagio e messaggi celesti, come l’uccello che è anche latore di stati spirituali e superiori dell’essere; deux artifex in piena onnipotenza confermato anche dal ritratto da Terapeuta in veste magica di viandante e custode dello spirito».

Sappiamo anche che Magritte non amava l’interpretazione psicoanalitica. Negli Scritti:  «L’arte come la concepisco io, è refrattaria alla psicanalisi: essa evoca il mistero senza il quale il mondo non esisterebbe, ossia il mistero che non si deve confondere con una sorta di problema per quanto difficile sia. Io mi sforzo di dipingere se non immagini che evochino il mistero del mondo. Perché ciò sia possibile devo essere ben vigile, ossia devo cessare di identificarmi interamente con idee, sentimenti, sensazioni».[2]

Come facciamo a liberare Magritte dal destino indesiderato della psicoanalisi – seppure legittimo, utile, essenziale ad agevolare la lettura delle opere? Leggere le opere come un test proiettivo è ingiusto. Abilitare i quadri a insegnanti di linguistica è un’operazione altrettanto impropria. Danno suggerimenti, elicitano fantasmi, emozioni e forme, aprono un discorso. Ma noi dobbiamo capire che cosa stia facendo Magritte. Escludiamo la celebrazione narcisistica del self-portrait: sarebbe una condizione ovvia e a priori di ogni qualsivoglia autoritratto, e l’artista belga aveva il talento per ritrarsi in ogni guisa, in ogni condizione desiderata, con ogni mezzo espressivo disponibile. Dobbiamo chiederci perché lo faccia in quel modo, con la meditata tecnica dello storyboard, in cui non si lascia nulla a al caso. Escludiamo la volontà oniromantica: è ovvio che dentro un uovo si celi l’embrione di un oviparo, che sia un rapace o un gabbiano, è un fatto meramente incidentale. Quello che non è ovvio è perché un pittore debba interrogarsi su cosa dica un uovo. Infatti egli non lo fa. Egli non si interroga, ma si pone nel gesto del “sentire”, in una dimensione come di ascolto attivo dei movimenti all’interno dell’involucro gestazionale. Osserva con grande umanità il piccolo uovo, tende l’orecchio, è “professionale” e al tempo stesso “familiare”. Fa da tramite, da diaframma, da cassa di risonanza? Neppure, o comunque non si esaurisce in questo la funzione mantica, e non è neppure utile al processo di differenziazione senza l’apporto del soggetto che trova la propria strada di individuazione. L’aquila azzurrognola deve avere la sua parte nella storia.

… Il protagonista solo apparentemente dipinge. Di fatto sta osservando e ascoltando l’uovo, e non solo dipingendo. È l’aquila a farsi dipingere perché sembra averlo deciso: è tutt’altro che appena nata. Esce fuori, vuol volare. Egli guarda l’uovo perché è là dentro che stanno il genoma, il disegno, la mappa del viaggio. Ma non è un chiaroveggente, perché come abbiamo detto non occorre esserlo per sapere che dall’embrione si manifesterà l’individuo: vuole dirci che il chiaroveggente si lascia vedere dentro e mette in forma scritta, figurativa o verbalizzata i suggerimenti non già dell’uovo, ma di quell’individuo che là dentro è costretto ad albergare. Egli libera. Non è dunque solo stregone, ma ostetrico: disegna il parto autoctono di un individuo ben differenziato, in grado di dire delle cose precise, dotato di esperienza e dignità. Eppure manca ancora qualche cosa, non è necessario l’ostetrico se non alla presenza incombente di una puerpera. Ebbene, il pittore-veggente è cavità endometriale, è luogo di attaccamento e prima base sicura, è nido e valva di perla. Ma è sopra ogni cosa la scena primaria del delitto dell’essere-nel-mondo: una colpa priva di fondamento che è fondamento del codice morale.

Quindi è il processo di re-metaforizzazione e non l’immagine a far da quaderno per il nostro apprendimento. È un materno indiscutibile, che non si offre nella struttura standardizzata – rotonda, concava, toroidale, neppure nell’identità orientale vuoto = forma. Salta la metafora e salta il dominio target della metafora. Chi vuole comprendere, si accosti con silenzio e con attenzione, si liberi dalle preordinate e – seppur pertinenti ed eleganti – restituzioni lacaniane sulla natura che imparenta linguaggio ed inconscio. Il problema è l’archetipo, la sua qualità non frammentaria ma densamente unitaria, che deve essere scissa per essere analizzata, interrogata, segmentata e resa utile allo psicologo.

Il mercuriale – la qualità visionaria e trasformativa – è mescolato (e non invischiato) allo ctonio, al materno, al generativo, in una unità compositiva di magistrale forza espressiva, anche per le felici proprietà degli elementi: tre supporti quadrati (tavolino, tela, tavolozza), tre esseri viventi (uovo, pittore, aquila), tre supporti “bucati” (cavalletto, sedia, tavolozza), con un unico piccolo pennello a far da strumento chirurgico, da estensione della mano-levatrice: non è forse la Chiaroveggenza di Magritte, una retorica intorno all’arte della maieutica? Il valore dell’opera, se diamo credito a questa nostra ipotesi, diventa il cuore di una questione conoscitiva che intende andare nella direzione filosofica e morale, restituendo alla pittura una funzione non solo decorativa e sentimentale ma intellettiva, non solo linguistica e comunicativa ma morale in senso alto, di costruzione di tematiche proprie di ogni universo. In altre parole, il processo è protagonista, la relazione è decisiva, la mappa è centrale, mentre oggetto, soggetto e segno sono periferici, strumentali. Non si tratta quindi di una abolizione della metafora, ma della istruzione di processi di metaforizzazione complessi, riordinati, ristrutturanti del pensare, del nominare, e in definitiva del “vedere”. Quindi non è solo una riparazione della ferita portata dalla madre-morte del piccole René, ma della grande occasione di cogliere nei segni dei fatti della nostra vita quello che è il cuore della ricerca dell’oggetto perduto e dell’oggetto ritrovato. Una poetica dello sperdimento e un colore acceso a celebrare la nascita come apertura al mondo della logica e della semiotica: perché se l’aquila viene al mondo pronta per volare, tesa verso un “alto”, l’omo nasce animato dal desiderio dell’ “oltre”, dell’autentico Sé che è «bisogno di libertà di vivere», per dirla con David Foster Wallace.

Sostiene Arturo Martone, filosofo del linguaggio:

«Di là dalle questioni interne al testo wittgensteiniano (Voltolini: 2003), la pratica del vedere come, almeno in questa lunga notazione di LW, concerne sempre e soltanto il vedere A come B, ovvero A nei termini di B, concerne cioè tutti quei casi – percettivi, immaginativi e fantastici, interpretativi o infine propriamente conoscitivi -, nei quali accade come uno spostamento o trasferimento di senso, da A a B e viceversa (nel senso dell’interazionismo di Black: 1983), nel senso cioè che, proprio come s’era richiamato per il processo di metaforizzazione, anche qui un topic viene ridefinito nei termini di un vehicle, ovvero un dominio fonte viene ri-categorizzato nei termini di un dominio target. Dicendolo appena diversamente, certe proprietà vengono sia mutuate, o per riprendere quella già vista terminologia jakobsoniana, selezionate a partire da un dominio target o vehicle, e sia riferite ovvero combinate ad altre proprietà, quelle del dominio fonte o topic. E però, e sarà proprio questo uno dei punti conclusivi di questo contributo, è ammissibile che oltre al vedere A come B, si dia anche un vedere A come A (o anche, certo, un vedere B come B)? Che vuol dire questa domanda? Con essa ci si interroga sul senso, ammesso pure che se ne dia uno, di quelle cosiddette proposizioni identiche ovvero tautologie che, com’è noto, sempre Wittgenstein riteneva, se non propriamente insensate, come appartenenti tuttavia al simbolismo della logica (1964: 4.46, 4.461, 4.4611, 4.462, 4.463, 4.464).» [3]

Alla luce della logica, tutto appare nominabile: archetipi, figure, simboli. Ad esempio: l’uovo è simbolo della vita, della nascita. Il viaggio invece nel simbolismo della logica e nel processo di evoluzione metaforica che è interno a tutti i linguaggi, è un viaggio a ritroso, a dover nascere e camminare su un sentiero magmatico, nella luce crepuscolare dello sguardo del maestro-veggente. È un viaggio ai margini della poetica di Magritte, che ci apre alla vastità e al precipizio come fa l’uomo di Friedrich affacciato al mare di nebbia. Si affida alla natura, sorella simbolica, ma non troppo. Sorella di fatto, capace di attendere che il poeta e il pittore si annidino dentro i suoi millenni alla ricerca del vero Sé.



[1] Claudia Collina, Università degli Studi di Bologna, “Didattica & Ricerca  a.a. 2006-2007”, Gli autoritratti di René Magritte alla luce della psicoanalisi,

http://www.psicoart.unibo.it/Interventi/Interventi%20Collina%20Magritte.pdf

[2] René Magritte, Scritti, traduzione a cura di L. Sosio, Milano, Abscondita, 2001

[3] Arturo Martone, Università degli Studi L’Orientale di Napoli, Tra metaforizzazione e nominazione. Una ipotesi di ricerca.   http://www.unior.it/userfiles/workarea_477/Martone%20LZ%202%2029-12-2010.pdf  [Grassetti miei].

I pastelli di Giovanni Boldini. Di Anima e di Ombra

di Irene Battaglini                                                                       Prato, 1° giugno 2013

L’IMMAGINALE

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pdf I pastelli di Giovanni Boldini, di Anima e di Ombra

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Pittore complesso che lascia aperta la domanda sulla fine dell’eros nell’arte contemporanea, italiano di Ferrara che si impose a Parigi dalla metà dell’Ottocento fino a tutta la Belle Epoque. Una storia ottuagenaria, quella di Giovanni Boldini, alimentata dalla immane bibliografia epistolare in cui sono raccontate le vite e le opere, le passioni e i piccoli fatti quotidiani, di molti protagonisti di quel periodo: Edgar Degas, Telemaco Signorini, il mercante Goupil, il pittore Paul César Helleu, il caricaturista Georges Goursat Sem. Storie mediate dalle scritture di Cristiano Banti (amico intimo e mancato suocero di Giovanni), del fratello Gaetano Boldini, dell’ultima compagna e biografa Emilia Cardona, che divenne sua moglie ed erede universale di tutte le opere del ferrarese.

Fine psicologo della mente femminile, che conosce in ogni inclinazione di seta e in ogni misura dell’iride, ritrattista senza pari della voluttà, della sfida e dell’ironia, magnifico pittore dei fasti della Vecchia Europa che sembrano difendere, come sentinelle di broccato e di luce, le “divine” e i ricchi signori, dei fiori policromi che invadono i giardini come stelle che si aprono al sole, dei cieli splendenti di azzurri di cui la natura stessa ancora gli chiede ragione, egli fu maestro silenzioso, non ebbe allievi significativi, ma estimatori e molti acquirenti, e molti amici nella Parigi sfolgorante di quel tempo. Un tempo che Giovanni Boldini seppe dipingere facendo di ogni quadro un incantesimo, uno stratagemma percettivo in grado di sospendere ogni giudizio nello spettatore. Irascibile, sardonico, geniale, fecondo oltre misura con la sua monumentale produzione, trasformò il privilegio di ritrarre nel suo studio a Plaine-Monceau ereditato da Sargent le più facoltose donne europee e americane, nella sfida a spogliare l’arte da ogni tradizione “ottocentesca”. Il suo rapporto con le avanguardie ricalca il conflitto interiore e il carico di giudizio e di sentimento che agitò gli attori di quel clima di grande trasformazione che andava degradando nella grande guerra. Di lui disse con sagacia Ardengo Soffici, – «testimone spietato del suo tempo, un superbo cronista al quale sono preclusi però i sacri e profondi recinti dell’arte», secondo Fernando Mazzocca, (Il genio inafferrabile di Boldini e la sua discussa fortuna, in Boldini, cit.) – su «La Voce»:

«Il Boldini, non è infatti né un creatore né un poeta, e si può persino dubitare che sia un pittore; […] non si cura di cullare con l’armonia l’anima del riguardante né di elevarla verso una nuova concezione del mondo: egli si contenta di denunziarne il carattere dei suoi modelli. Più che un pittore-poeta egli è un dunque un verificatore, tutt’al più un commentatore. Anzi un commentatore malevolo, […] che deve considerare la gente del bel mondo – questi nemici tradizionali della sua razza – con occhi ostili, freddissimi; cercarne e scoprirne, soprattutto, le tare fisiche e morali. […] Grande? Chi dice che sia grande? Io no di certo. Io dico che è vivo, che esprime spiritosamente ciò che cade sott’occhio in quella spregevole società in cui vive – e che tutti i Sargent, tutti i la Gandara e tutti gli Helleu di questo mondo, non sono che dei miserabili pappagalli a petto a questo italiano, che fu un ragazzaccio a Montemurlo cinquant’anni fa, e che è ora un arbitro delle eleganze parigine» (marzo 1909).

Famoso, acclamato, coinvolto in tutte le manifestazioni mondane e artistiche parigine, ma non solo, non amava esporre in mostre personali la sua ricca produzione.

Francesca Dini: «Quanto a Carlo Placci, rinomato “maestro di cosmopoli”, egli non ebbe nessuna difficoltà a definire Boldini, nei primi anni del Novecento, “il nostro miglior artista italiano” per i suoi “quadri a fuochi d’artificio”, per le sue “tele spruzzate, piene di talento”, per il “diabolismo delle sue strambe linee”; sebbene umanamente gli apparisse poco interessante in quanto “poco intelligente nel parlare, così invidioso, acre, dispettoso, gnomico” (M.-J. Cambieri Tosi, Carlo Placci, maestro di Cosmopoli nella Firenze tra Otto e Novecento, Firenze 1984). La deformità fisica di Boldini, la sua condizione di straniero in terra di Francia avrebbero potuto farne un sopravvissuto della cinica società francese di fine secolo, ed invece proprio tali limiti resero più efficace quella maschera di terribilità attraverso la quale il ferrarese riuscì vincente sulla società a lui contemporanea, sedotta dalla forte personalità, prima ancora che vinta dagli innegabili meriti della sua pittura.

Si è forse mancato di riflettere su come, a fronte della dettagliata biografia del Nostro, non si abbia notizia di una mostra personale, se si esclude naturalmente quella allestita in occasione del suo viaggio a New York, nel 1987, presso la filiale americana di Boussod, Valadon and Co. È come se l’artista, in virtù del suo essere peintre mondain, deliberatamente si sottraesse al giudizio di quella società francese che lo venerava e lo temeva, “cattivo e indiscreto fino alla villania” (J.-P. Crespelle, Les Maîtres de la Bella Epoque, Parigi 1966); difetti questi che secondo taluni furono all’origine dello strepitoso successo dell’italiano, in un’epoca in cui la perfidia era conveniente. Vero e proprio domatore, il ferrarese cavalca le cronache mondane del tempo». (Francesca Dini, Dalla “macchia” alla Belle Epoque: il geniale virtuosismo di Boldini, in Boldini, a cura di Francesca Dini, Fernando Mazzocca, Carlo Sisi, Ed. Marsilio, Venezia 2005)

Rubò a Degas – come fecero De Nittis e Zandomeneghi – l’uso del pastello di cui divenne padrone, anticipò gli informali con le “sciabolate” di colore e per il critico Ragghianti seppe sintetizzare le influenze del Seicento e del Settecento (studiò Tiepolo, – e con lui Guardi, Piazzetta e Magnasco – Rembrandt, Bernini, ma soprattutto Frans Hals, Menzel e Anders Zorn) in una

«stenografia convulsiva, in cui ogni referenza cade per mettere a nudo l’esplosione di un movimento che ha una violenza turbinosa e un’irresistibile forza d’impulso [che porta a farne] il precursore di Boccioni, e qual precursore;  [innestando la questione, ripresa non sempre con misura dalla critica successiva, se era legittimo potergli assegnare] la tessera retrodatata di futurista: sta poi a vedere se l’avrebbe accettata, come non vorrebbe oggi esser considerato un “gestuale” avanti lettera, separando la coscienza lucida del suo io da ogni automatismo nervoso-muscolare» (C.L. Ragghianti, Le acrobazie di Boldini, «L’espresso», 1963).

Jean Boldini, come lo chiamavano fuori dall’Italia, seppe calcare le scene del ritratto internazionale con brillante savoir faire, con la sicurezza tecnica di un grande tra i più grandi. La figura, il volto, gli spazi, non ebbero segreti per la mano e l’occhio di Giovanni Boldini. Si può sottolineare a Boldini una certa disinvoltura da pagina lucida, una scivolata troppo svelta nella seduzione che il corpo femminile esercita con il suo incedere sempre doppio, ma non la «pittura futile e piacevolastra» che critici come Tinti gli assegnarono con disprezzato sussiego, come avrebbero fatto anche con De Nittis. Soltanto Jean-Louis Vaudoyer e la moglie Cardona ne elaborarono fino alla fine la visione a tutto tondo che gli sarà tributata nel Novecento, anche dalla picassiana Gertrude Stein: «Tutta la nuova scuola è nata da lui perché egli per primo ha semplificato la linea e i piani. Quando i tempi avranno situato i valori al giusto posto, Boldini sarà considerato il più grande pittore del secolo scorso», consacrandolo così all’alba della più transeunte contemporaneità.

Il grande ritratto “borghese”, dunque, fu tutt’altro che un trampolino per essere à la mode. Egli sperimentò con abilità straordinaria il ritratto macchiaiolo, sovrapponendo la pittura di impressione alla componente classica, ma la cifra che viene delineandosi si fa interprete di una sensibilità estroversa e visionaria, innamorata del colore, corrispondente al concetto di Montesquiou[1] – definito da Proust «Principe della Decadenza»:

«Pariginismo, Modernità, sono le due parole scritte dal maestro ferrarese su ogni foglia del suo albero di scienza e di grazia. […] Modernità, secolare antico richiamo, che fu il filo di perle di un Coello, la gorgiera di un Pourbus, la piega di un Watteau; che poi sarà quel tal bolero di un Boldini, quel tal drappo di Bernard, un abito da sera di Whistler».

Dipinse la sensualità e l’eros rilevando dagli occhi, dalle labbra, dalle spalle della modella tutte le istanze che la fortunata neppure sapeva di portare nel proprio destino, protagonista assoluta del suo amore fatto di pastelli, canti italiani, luci sferzate dall’uso di un nero le cui “lamate” ricordano la più violenta pittura del Novecento. Nella scena dell’atelier, Boldini si dedica completamente alla sua missione interpretativa, chiedendo alla creatura, timida ma in qualche modo ansiosa di essere ri-velata attraverso lo sguardo vorace e sensibile dello “gnomo”.

È uno psicoanalista della pittura, sapiente conoscitore del transfert erotico: Boldini saggia la seduzione della dama-modella, l’arma principale di una creatività che si esprime per sublimazione. Egli ama le sue modelle, le mette al centro di una relazione esclusiva, di delicata confidenza affettiva, in cui intervengono variabili latenti a dimostrazione del fatto che la componente panica è sempre presente nei lavori, anche quelli mirabilmente velati di  un bianco trasparente degno di una sposa.

Pensiamo alla Donna in nero che guarda «Il pastello bianco» (1889), e al Pastello bianco, dell’anno precedente, che ritrae Emiliana Concha de Ossa, una «giovinetta di 18 anni bella come un amore» (G. Boldini, lettera a Cristiano Banti, 1888), la minore delle tre sorelle nipoti del diplomatico – e amante dell’arte – il cileno Ramon Subercaseaux. Entrambi i lavori costituiscono in realtà un unico capolavoro di “architettura d’interni”, in cui Boldini introduce elementi rivoluzionari, come a inserire nella scena un osservatore silenzioso seduto in poltrona – un voyeur rispettabile; un rispecchiamento in ombra con una sconosciuta madame noir, una creatura sublime ed eterea appoggiata ad un punto sospeso nello spazio di un angolo di un salotto autorevole, significato dalla presenza di una poltroncina dal velluto turchese, dotando il personaggio principale – la diciottenne Emiliana – di una straordinaria compresenza teatrale nel vuoto scenario di una vita ancora da scrivere. Egli la sa descrivere con una perizia psicologica straordinaria, chiamando in causa gli archetipi junghiani a testimoni di una grazia che può essere solo trascendente. La luce pervade ogni spigolo, sebbene sia totalmente artificiale, con una freschezza sognante, nuziale.

I lavori hanno grandezza naturale, e sono di una bellezza che stordisce. Il primo, Il pastello bianco, è Anima allo stadio più perfetto. Le cronache e le lettere provano che sarà lo stesso Boldini il primo a restarne ammutolito e turbato (tanto da conservare per sé il lavoro, non volendosene privare, ma preparando un secondo originale per il committente), non solo per la innegabile meraviglia che in lui destava quella ragazza che inaugurò il ciclo delle «divine», quanto per la forza inaudita che dal pannello – completamente ricoperto di pastello usato con la superbia stilistica di Liotard, Mengs, Rosalba Carriera – sembrava emanare. Quella dolcezza era sprigionata dalla declinazione dei bianchi che descrive benissimo la scrittrice Colette nel 1932, ricordano una visita all’atelier del ferrarese: «Era da quel bianco generico che stavan nascendo, sulla tela, una pennellata dietro l’altra, i bianchi di crema, di neve, di carta lucida, di metallo nuovo, i bianchi degli abissi e dei confetti, i bianchi esasperati».

Questa “variabilità”, questa sensualità sacralizzata, sono il frutto di un’operazione che non può essere fatta senza l’aiuto del divino, una sorta di sublimazione all’interno di un processo in cui Boldini sembra padroneggiare perfettamente gli stadi del femminile. Tuttavia il costellarsi così “rapido” e incontrollato di Anima dovette invaderne la consueta sicurezza, al punto da destare il bisogno di tornare ad Ombra, a uno stadio precedente, una condizione meno pericolosa, in cui fosse ancora il “domatore”, com’era appellato, di quelle dame intelligenti e capricciose che frequentano il suo studio per anticipare, sulle tele magnifiche (che Whistler definì «sinfonie»), l’ardita bellezza dallo sguardo fiero e diretto della donna del Novecento. Alcuni critici hanno fatto riferimento al tema del Doppio, nella visitazione di questo lavoro di una complessità frattalica, influenzati anche dalla necessità di collocare in un rimando letterario (si pensi al ritratto di Dorian Gray) l’escamotage del pittore. Più lo si osserva, più aumentano i particolari che fanno pensare ad un Giovanni Boldini non solo geniale ritrattista ma anche intrigante, intelligente, riflessivo, avveduto pensatore dei processi di transfert che governano la dinamica, mai sufficientemente indagata, tra pittore e modella, tra artista e modello, tra soggetto e oggetto relazionale. Il campo è di una vastità tale che merita di essere studiato a fronte di una domanda via sull’eros e il narcisismo nell’arte contemporanea.


[1] conte Robert de Montesquiou-Fézensac, più comunemente noto come Robert de Montesquiou (Parigi, 7 marzo 1855 – Mentone, 11 dicembre 1921) è stato un poeta, scrittore e celebre dandy francese.

 

220px-Giovanni_Boldini01Giovanni Boldini

Anthropos, Signore nel Regno della Forma

di Irene Battaglini                                                                                           Prato, 12 maggio 2013

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pdf: Vinicio Serino – Antropologia delle forme simboliche

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La-ruota-di-Siena

«In effetti, noi intendiamo qui i sacramenti come dei segni o delle figure; ma queste figure non sono le virtù, ma i segni delle virtù, e ce ne serviamo come di una parola scritta per gli insegnamenti. Fra i segni, gli uni sono naturali, gli altri positivi, sul che si dirà cosa sia un sacramento, nella quarta parte di questa opera, sotto la settima particella del canone, alla parola mysterium fidei (mistero della fede)».

Guillaume Durand de Mende (1230-1296), vescovo francese della Chiesa Cattolica. Rationale divinorum officiorum, (lib. I-V, Prefazione. II. I segni)

Antropologia delle forme simboliche è un viaggio negli incunaboli della forma che “si fa” simbolo. Il figlio dell’Uomo esce dai ruoli ascritti dalla condizione umana e diventa protagonista di una storia che investe il suo passato remoto ma che è ancora viva e piena di domande: la storia della sua psicologia e della sua tensione a comprendere se stesso, ad abitare e arredare tutta la sua casa multidimensionale cui aderisce in ogni angolo dell’esistenza. E proprio brandendo questo candeliere che spande molte e diverse luci,  il lavoro di Vinicio Serino è scientifico, storico, seducente, poetico e un po’ mistico: si investe di questa necessità plurima di esplorare.

Il professore senese è antropologo e docente di Antropologia alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm e alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Siena. Autore di oltre settanta lavori tra articoli, testi critici e saggi, con Antropologia delle forme simboliche ci fa dono di un’opera che racchiude una vita dedicata alla studio delle declinazioni del pensiero, del linguaggio  e della creatività dell’uomo.

Se l’antropologia (antropo-, dal greco άνθρωπος ànthropos = “uomo”; -logia, dal greco λόγος, lògos = “parola, discorso”), è una scienza di proporzioni universali che risponde al bisogno dell’uomo di conoscere se stesso – di spiegare a se stesso e ai suoi compagni di viaggio il mistero delle proprie origini e del proprio destino – Ànthropos e sua sorella, la Terra, costruiscono secondo l’autore un progetto di reciprocità ontologica, in cui gli affondi di Jung con l’inconscio collettivo sono arginati dalla felice visione sistemica e interdipendente di Durand. Questa lettura non può che aprire al dramma della contraddizione che è antropologica e che oggi potremmo chiamare matrice di conflitti individuali e sociali.

In questa traversata di rinnovate interpretazioni, l’autore non dimentica mai la profonda solitudine che l’uomo è chiamato a sperimentare, e il suo delicato quanto feroce bisogno di attaccamento, di essere protetto, di ingraziarsi il dio, di vantare diritti sull’altro per garantirsi una sopravvivenza, di accaparrarsi il partner più forte e fecondo e al tempo stesso di proteggere gli elementi deboli del nucleo. Egli si nasconde in una foresta e nello stesso tempo compone mosaici, vive dolci sentimenti di amore che scompigliano le sue azioni dettate da un primigenio comportamentismo, studia le forme delle onde, delle bestie e dell’orizzonte, il movimento degli astri e il suo spostarsi, il suo cercare, il suo meditare nella sosta eppure essere nomade, sopravvive alla decimazione delle malattie e si aggrappa a quel retaggio orale che sarà la sua nave senza porto: tutto questo imparando il segno e incrementandone ad ogni ricodifica l’ampiezza di significazione. Scrive le note musicali, applica le regole della numerazione, innalza piccoli altari che diverranno templi millenari, impara a declinare i ruoli in modelli. I modelli sono forme della mente e del comportamento. Dal caos perviene all’ordine, dalla confusione sedata con la violenza della sopraffazione esprime con le gerarchie – forme sociali – i campi d’azione del potere dentro e fuori i confini del gruppo e del territorio che si assegna per investitura, per necessità di stare, di restare.

In questa avventura si cala questo splendido saggio di antropologia e di filosofia della forma.

Il testo non è solo uno strumento meramente utile allo studioso e al ricercatore. È scrigno ingemmato di immagini e di riferimenti, scritto con generosa semplicità e con opulenza di contenuti e di rimandi. La vasta bibliografia è seguita dall’indice dei nomi e dei luoghi (facendo del testo un manuale versatile e una fonte proficua di informazioni) e la veste editoriale è arricchita da una copertina effetto “tela” che ha ancora il profumo dei veri libri con i quali è piacevole accompagnarsi.

Ogni capitolo aggiunge qualche cosa allo studio della formazione e della produzione del simbolo, senza mai allontanarsi dal nucleo centrale, che è l’attesa dell’autore stesso nei confronti della prospettiva antropologica. Una prospettiva nella quale crede con la fermezza dello scienziato e la passione dello studioso con il cuore volto al mistero.

Vinicio Serino ci trascina dentro la storia dell’Uomo a partire dai suoi primi movimenti di pensiero, di riflessione, di socializzazione, offrendo una visuale rilevante anche alla posizione del femminile all’interno del processo immaginativo, partendo dalla storia delle aree del Karadag, dove si sarebbe sviluppata la tecnica della domesticazione delle piante (7000-3000 a.C.):

«citazioni simboliche della sessualità nelle “Veneri” preistoriche,  (…) che si ritrovano tutte nelle rappresentazioni dell’Antica Madre Generante, la Grande Dea delle popolazioni destinate a diventare le artefici della Rivoluzione agricola, il più grande passo in avanti realizzato dalla Umanità nel corso della sua storia perché, da allora in poi, avrebbe prodotto direttamente quanto necessitava alla propria esistenza.

(…) “La dea manifestava le sue innumerevoli forme attraverso varie fasi cicliche che vigilavano sul buon andamento di ogni cosa; molti erano i modi in cui si rivelava, nei mille accadimenti della vita”. (M. Gimbutas, Le dee viventi, 2005).  L’ipotesi formulata da Gimbutas [“una sola dea in molte forme”], affascinante per quanto tutt’altro che unanimemente raccolta dagli studiosi, ipotizza una centralità della donna nella religione della Euro/Asia antica …» (Antropologia delle forme simboliche, p. 99 e segg.)

Il fulcro di tutta l’opera è il tentativo di spiegare e di comprendere, in un valzer di doppi passi ermeneutici, come l’Uomo si sia prima coinvolto e poi sempre di più specializzato nella sua attività culturale,  linguistica, comunicativa, con l’intento di cementare i legami sociali e consolidare le posizioni acquisite, nella natura e nel mondo, come nelle relazioni, attraverso lo sviluppo di traiettorie di conoscenza e di ritualizzazione, alla luce dei fattori genetici, evoluzionistici e storici che ne hanno determinato il destino e il progresso. Il tema delle relazioni è centrale nel discorso di Serino ed è per questo che Antropologia delle forme simboliche è indispensabile nella libreria dello psicologo e del sociologo, ma anche del medico e dello studioso di lettere. In ogni biblioteca che detenga una sezione “Umanistica”, sarà necessario fare spazio a questo volume, proprio perché tenta ad ogni rigo di andare oltre il “classico” programma di antropologia per addentrarsi nella dinamica di interiorizzazione del simbolo, sia dal punto di vista del pensiero logico-argomentativo sia dal pensiero immaginale e intuitivo. Quest’apertura rigorosa, scientifica e tagliente allo studio del rapporto interno della psiche, di questo binomio affascinante e insidioso, rende questo testo ulteriormente originale e intimamente connesso alla psicologia dinamica e alla psicologia dell’arte.

Lo studio di Serino è innovativo perché lascia una pietra angolare nel panorama delle pubblicazioni intorno a Ànthropos. Per sorreggere le tesi proposte, non esita a chiamare in causa i filosofici classici e gli ermetici, i santi e gli iniziati, gli psicologi di ogni casta (da Freud a Vigotskij a Gombrich, fondatore della psicologia dell’arte), poeti e scrittori da Petrarca a Yourcenar, passando per autori discussi come Carl Gustav Jung,  Gilbert Durand, Mircea Eliade, René Guenon.

Questo slancio narrativo fa del libro un punto di partenza per il destino dell’antropologia, che si vuole ancora porre come carrefour tra le scienze sperimentali e quelle umanistiche.

«Si tratta, dunque, di penetrare in una scienza la quale, occupandosi sia delle variazioni biologiche dell’Uomo, come pure dei “parametri che definiscono o che controllano il manifestarsi dei tratti biologici” (cit. Ponte e Bizard, 2006), si presenta alla stregua di una disciplina di confine. Non più limitata, da questo punto di vista, alla dimensione della natura, ma che si colloca, piuttosto, tra il biologico e il sociale. In sostanza, allora, l’antropologia moderna – senza alcuna ulteriore specifica – può essere intesa come quella disciplina orientata ad occuparsi sia dei meccanismi genetici dell’evoluzione che dei processi di socialità – nell’ambito dei quali gioca un ruolo fondamentale la cultura, e quindi il simbolo – nella consapevolezza che, per capire davvero l’Uomo, non basta ricostruirne le tappe segnate dalle scansioni evolutive, ma occorra anche considerarne la condizione di “animale sociale” (cit.)». (Antropologia delle forme simboliche, pp. 13-14)

Si conclude così il primo capitolo, dando a tutto il lavoro l’imprinting di una carta programmatica che coinvolge moltissime aree della conoscenza.

Le otto tappe che seguono, dal secondo alle conclusioni, rappresentano un vero e proprio processo di trasformazione: si parte dalle origini della cultura e della socialità, si affrontano il politeismo e il monoteismo sul piano delle trasformazioni e delle culturali, per arrivare al cuore del simbolo, alle strategie di decodifica dei messaggi che l’uomo ha saputo mettere a punto, “attraversando” i sentieri iniziatici, alla ricerca di nuove correlazioni tra ermetismo e forme simboliche, all’interno di una nuova alchimia, illuminata dai quadri del Lorenzetti e dai versi stupendi della Tavola Smeraldina.

«Nella senese Sala della Pace colui che entrava veniva immediatamente colpito dalle vivaci tonalità cromatiche dell’affresco e da quella congerie di personaggi, reali e simbolici: percepiva subito il messaggio in maniera unitaria, il pensiero era l’immagine, l’immagine era il pensiero, secondo una tecnica che, probabilmente, l’alchimista e filosofo Raimondo Lullo avrebbe chiamato, nel contesto della propria Ars magna, combinatoria. Combinatoria appunto di immagini e di pensiero in grado, attraverso la loro compenetrazione, di esprimere – adeguatamente – un significato.

D’altra parte, come dice E. Wind, in un’opera ancora in grado di emozionare l’attento lettore, il simbolo “in virtù della sua obliquità”, ossia il mostrare una cosa per intenderne un’altra, “conserva suggestioni recondite che un’affermazione semplice e chiara elude e dissolve…”. Il meccanismo vale sia per le metafore che per i simboli, perché, aggiunge Wind, “le metafore hanno nel linguaggio lo stesso ruolo che i simboli hanno nelle arti visive: sostituiscono una cosa per un’altra e parlano per allusioni”. In tal modo, aggiungiamo recuperando ancora da Wind, il messaggio (nascosto) è più compatto, perché in grado di condensare, efficacemente, ciò che il “creatore culturale” intendeva comunicare». (Antropologia delle forme simboliche, p. 262 e segg).

Il viaggio di Vinicio Serino include due soste essenziali alle significazioni simboliche delle Cattedrali Cristiane, e prende a coordinate l’affresco del Buono e del Cattivo Governo di Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena nella prima metà del ‘300, e il cammino iniziatico, con la ricostruzione del “labirinto delle Sibille” nella Cattedrale di Siena. Entrambe le opere possono essere considerate punti cardine del processo esoterico.

Sempre Durand de Mende:

Tutte le cose che appartengono agli uffici, agli usi o agli ornamenti della Chiesa, sono piene di figure divine e di mistero, e ognuna, in particolare, trabocca di una dolcezza celeste, quando nondimeno incontri un uomo che le esamini con attenzione e amore, e che sappia trarre il miele dalla pietra e l’olio dalla più dura roccia. Chi conosce tuttavia l’ordine del cielo, e ne applicherà le regole alla terra? Certo, colui che vorrà scrutarne la maestà sarà schiacciato dalla sua gloria, poiché si tratta di un pozzo profondo, e io non ho di che attingervi, a meno che colui che dona a tutti abbondantemente e senza rinfacciarlo, non mi offe a l’occasione di bere pieno di gioia alle fontane del Salvatore, l’acqua che cola al centro delle montagne. Tuttavia, non si può dare ragione di tutto quello che ci è stato trasmesso dai nostri antenati (Dt 32, Gb 38, Pr 25, Gv 4, Gc 1, Sal 103, Is, 12 Ap 3, Ct 2, Es 25, Sap 10, Gv 3); giacché è necessario anche toglierne, il che non ha delle ragioni. E, per questo dunque che io, Guillaume Durand, nominato vescovo della santa Chiesa di Mende per sola concessione di Dio, io busserò, e non smetterò di bussare alla porta, se tuttavia la chiave di Davide si degni di aprirmela, cosicché il re mi introduca nella cantina dove egli sorveglia il suo vino, e dove  mi sarà rivelato il modello divino che fu mostrato a Mosè sulla montagna, sino a che io possa spiegare, in termini chiari e precisi, che cosa significhino e che cosa racchiudano tutte le cose che si riferiscono agli uffici, agli usi e agli ornamenti della Chiesa, fissandone le regole dopo che questo mi sarà rivelato da colui che rende eloquente la lingua dei fanciulli e il cui spirito soffia dove vuole, distribuendolo a ciascuno come più gli piace per la lode e per la gloria della Trinità. (Guillaume Durand de Mende (1230-1296), vescovo francese della Chiesa Cattolica, Rationale divinorum officiorum, lib. I-V, Prefazione, I. Il miele dalla pietra e l’ordine del Cielo)

Le 56 tarsie marmoree che ricoprono il pavimento furono realizzate tra il 1369 e i 1547.  Il primo grande riquadro rappresenta Ermete Trismegisto, il “tre volte grandissimo” (recita il cartiglio sotto la figura: “Contemporaneo di Mosé”), che secondo le tradizioni non appartiene alla cultura cristiana. È la figura che accoglie il pellegrino-visitatore appena varcata la soglia del sagrato, dove sono raffigurati i simboli del lac (latte) e del mel (miele). Simboli che richiamano il nutrimento del Cielo nel Regno di Dio.

      Antropologia delle forme simboliche        Antropologia delle forme simboliche, di Vinicio Serino

Angelo Pontecorboli Editore, Firenze

279 pp., Euro 22,50

Le porte di sabbia lilac-poin​t di Kairouan

di Irene Battaglini                                          Prato, 28 aprile 2013

L’immaginale

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pdf  5. PAUL KLEE 28 04 2013

 «Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte.
Poi pesante e prezioso e reso forte dal fuoco.
Di sera pervaso da Dio e curvato.
Infine etereo avvolto di blu,
si libra su campi innevati, verso cieli stellati».
Paul Klee, 1918
 
«L’arte non deve riprodurre il visibile ma deve rendere visibile»
Paul Klee, La confessione creatrice, 1920 – Lezioni al Bauhaus

 

L’universo pittorico di Klee è governato dalle leggi della fisica e del linguaggio dei segni, esposte nelle virtù più eleganti, sofisticate, delicate.

Due sono le anime che si avvicendano nella pittura di Klee, nella recondita armonia della danza degli opposti: la dolcezza estrema di una mano autorevole e formativa, paterna, piena, senza ripensamenti, e la necessaria spinta sconfinante di un bambino che esplora l’universo delle cose e di Dio. Avanguardista per i critici, fu l’esempio silenzioso e rivoluzionario dell’antimodernismo nell’arte contemporanea. Coniugò i tratti appresi dalle tradizioni pittoriche e dallo studio dei grandi ai colori bruni e rossi delle terre e ai freddi viola del cielo, ai verdi dei prati e degli occhi di un gatto, amò l’Italia e la sua anomalia genetica, il suo viversi senza ipotesi, dentro se stessa, la sua storia.

Pittore-uomo tra le macerie classiche, raccoglie uno ad uno quei cocci spenti sotto i quali arde la cenere dell’arte mediterranea. I suoi patchwork cromatici, splendenti più del bronzo fuso dei grandi decori dell’Art Nouveau, di cui pure fu contemporaneo, accendono fuochi di immensa potenzialità espressiva. Le sue linee – le più sottili, quelle del periodo del Bauhaus, dagli anni 20 agli anni 30 –, sono il grimaldello che fa apparire il possibile, il dono del colore, la realizzazione delle possibilità. Eccellenti fulcri generativi per la formazione dei giovani modernisti, allievi di Walter Gropius, di fatto sono veri e propri interventi di psicologia dell’arte, di indagine nelle stratificazioni dell’inconscio dinamico e cognitivo, alla ricerca di impliciti sostegni al necessario, al minimale come essenziale, di leggi che governano mondi sconosciuti alle geometrie euclidee perché a queste precedenti.

Sostiene lo stesso Klee: «Io, a differenza di Kandinskij e di Marc, vivo un mondo intermedio; mentre Kandinskij vive il mondo iperuranico, dove c’è lo spirituale, l’assoluto, l’abbandono del sensibile, Marc vive il mondo terreno, io vivo un mondo intermedio, abitato dai morti e dai non nati, cioè delle possibilità che non si sono date» e ancora «Nell’al di qua non mi si può afferrare. Ho la mia dimora tanto tra i morti quanto tra i non nati. Più vicino del consueto al cuore della creazione, gli altri al cuore della creazione, ma non abbastanza vicino». (Paul Klee, Diari, 1898-1918)

Klee non dichiara un rifiuto nei confronti dell’arte contemporanea, – che all’epoca tracciava i primi segni fondamentali, – tutt’altro. Kandinskij e Marc sono suoi grandi amici. Era forse l’unico artista d’avanguardia in grado di leggere il greco antico. Nei Diari dirà che l’Italia classica rimane la base, il punto di partenza per il suo lavoro autonomo. Alcuni mesi prima di morire ebbe un dichiarato riavvicinamento al suo background classico. Già nel 1932, Klee compone il mosaico Testa di atleta (Metropolitan Museum of Art, New York), che recentemente Phyllis Lehmann ha collegato con i mosaici antichi, con le teste di atleti, rinvenuti nelle Terme di Caracalla. Lo studioso ceco Jan Bažant, nell’articolo Klee’s “Senecio” and “senecio” in Rome, (pp. 332-335, 2004, “Umění Art”, Journal of the Institute of Art History, Academy of Science of Czech Republic), argomenta copiosamente le connessioni tra Klee e l’arte classica, scandagliando quelle direzioni spesso trascurate dai critici, che tendono a collocare Klee a ridosso delle linee che collegano le avanguardie al minimalismo e all’architettura di interni, l’astrattismo all’espressionismo elegante, come una sorta di filosofo della forma senza alberi genealogici. Un Klee naturalmente intatto, portatore di una storia senza tempo passato. Ma sono le immagini a tradire questa idea di superficie.

Alla fine della sua vita la bellezza chimerica delle sue figure “astratte” (di fatto vicine alla percezione basica, alla “scena primaria” della storia dell’arte) divengono vere e proprie imago, si pensi alle serie di Eidola, Angeli, Passioni, che somigliano ad un percorso alchemico di approssimazione all’immagine primordiale della morte. Morte che si fa figura, fatto, e costringe Klee ad abbandonare anche il regno della metafora e della rappresentazione. Il visibile emerge nella piena luce, è risurrezione e destino, bianco ritorno al colore in purezza, unito e compatto, il colore spirituale di Kandinskij.

Sono figurette che si addobbano di un pudore intimo, di una lingerie inviolabile, come se racchiudessero nella loro purezza originaria un’etica mai provvisoria dell’identità. Che diventa questione non negoziabile: Klee dipinge, scrive, ed è musicista affermato.

È la discussione intorno al segno che è centrale, mentre i linguaggi possono essere scelti, possono essere sovrapposti. La pittura non è il suo destino, ma il crogiuolo più adatto ad accogliere la sua attitudine a comporre e scomporre, avendone una restituzione immediata e tangibile. Se il lavoro di Klee è la negazione della materia nello studio sulla materia, egli decide di farlo con la metodologia più adeguata: ovvero sul campo, non già adottando escamotage intellettuali, ma confrontasi direttamente con la materia pittorica, elaborando un suo proprio sistema di enunciati a sostenere un’architettura estetica alla sua tensione verso la liberazione dai vincoli della sintassi abitativa che l’uomo organizza scartando continuamente tutti gli input che non riesce ad elaborare.

I tratti di bambino creativo rispecchiano l’adesione alla percezione scomposta, frammentaria e sfalsata che il bambino ha della realtà del mondo sensibile, ma anche il grumo percettivo vitale che costituisce il primo passo dell’uomo nell’universo naturale attraverso i suoi sensi ancora non del tutto perfezionati, nel quale il soffio è nell’atto di essere inspirato, nel quale il verbo è nel punto di essere detto. Quest’uomo balbettante percepisce l’orizzonte e le forme degli animali e il suo muoversi a tentoni, e ancora non comprende del tutto il rapporto che si genera tra loro per triangolarne la posizione. Di fatti, i disegni di Klee non costruiscono un percorso regressivo verso le forme arcaiche, diciamo le forme impresse nel sistema nervoso rettiliano, ma sono un approdo antropologico nella sua ricerca delle percezione immaginale del primo istante, della scintilla dell’origine. Klee sostiene che l’arte debba rendere visibile l’invisibile. Quindi non deve scontornare, dal tutto, l’antico e il primitivo sottraendone il nuovo, ma far vedere quel che l’occhio non ha potuto imprimere in forma segnica, in altre parole fa un lavoro di integrazione e non di sottrazione. In questo sta il suo antimodernismo rivoluzionario. Egli si libera dell’asservimento progressista alla materia e alla tecnica per declinare la sua totale autonomia narrativa e linguistica, ed è questo coraggio a farne uno dei più celebrati ed amati pittori di ogni tempo. Egli piace, perché raggiunge il cuore, perché evidenzia il trascurato, perché alimenta l’occhio desiderante dell’uomo di una tensione mai colma ma sempre sul punto di rivelarsi, alla De Chirico, alla Morandi. Non è mai saturo, non è mai in risposta. Interpretato ed errante, Klee è e si vive, si fa vivere dal mondo, si mette al servizio della dimensione umana, traghettandoci in quel futuro plastico dell’arte contemporanea in cui il dibattito tra l’archetipo legislatore della forma e il versante destruente della materia è sempre acceso. Il lascito di Klee è però molto molto impegnativo. Le riflessioni sulla sua produzione monumentale (si contano oltre novemila opere …) costituiscono un nucleo fondamentale di nodi critici, sui quali ancora si articolano mostre internazionali, cataloghi, saggi, laboratori e piste di ricerca. Ma fu soprattutto un teorico, un filosofo dell’estetica. «L’importanza di Klee per concenzione artistica del Novecento è pari a quella che ha avuto Leonardo da Vinci con il suo De Pictura del Quattrocento, in mezzo non c’è nessun altro che eguagli una pari grandezza», sostiene Giuseppe Di Giacomo (Paul Klee, treccani.it, 2012).

Deborda, colorando, dai confini che egli stesso ha disegnato sulla carta; esprime, dipingendo, una ingenuità cromatica che ha del sublime, che arresta ogni tentativo di collocazione, che declina l’invito alla mattanza del raziocinio.

La pittura di Klee è poetica e sperduta, perché è innamorata del mondo. Egli è da subito abile nella sintesi, ma in realtà in ogni suo lavoro si cela sempre il tema dell’infinito, o meglio del rapporto primigenio tra l’Uomo e l’Infinito. ”Davanti le porte di Kairouan” ne rappresenta l’anelito e l’epifania.

Ha il chiarore dell’alba, Kairoaun, e la tenebra della notte imminente nel deserto. I colori sono dell’ebbrezza delicata, gli sfondi e i protagonisti in primo piano, un tutt’uno con i molteplici orizzonti. L’acquerello del 1914 è di una bellezza impressionante, e – insieme a Cupole rosse e bianche, Case rosse e gialle a Tunisi, Motivo da Hammamet, Il tappeto del ricordo, – Davanti alle porte di Kairouan è una preghiera, un desiderio puro di unione con il mondo, di ritorno al naturale.

La tavolozza cromatica è delicata, eppure i rosa dell’alba sono i viola del tramonto, i grigi colori della polvere sollevata dai dromedari sono pari agli ori della sabbia intrisa di sole sfolgorante. A farla da padrone il rosso. Un rosso che non c’è eppure si percepisce, pervade come un inchiostro liquido e magico tutta la tela di carta, di quegli inchiostri invisibili che appaiono come per magia, appena ti avvicini alla mappa del tesoro. È il rosso della terra, che è contiguo al viola del cielo in assenza del verde. Questi colori giocano a nascondino, si separano, si accoppiano, si rincorrono. L’inafferrabile visione di Klee, è la sintesi del suo amore per il colore, per la pittura, per il creato: «Un senso di conforto penetra profondo in me, mi sento sicuro, non provo stanchezza. Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore». Kairouan, 16 aprile 1914.

Il linguaggio poetico di Paul Klee

di Andrea Galgano                                                                                             Prato, 18 aprile 2013

Poesia Contemporenea

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pdf: IL LINGUAGGIO POETICO DI PAUL KLEE

220px-Paul_Klee_1911Il gesto poetico di Paul Klee (1879-1940) persegue il segreto e l’attrazione della genesi, la coltivazione di una ricerca, mai marginale, che non tocca il movimento di una glossa all’opera figurativa, ma sostanzia la percezione linguistica in una accezione significativa e densa, in un tratto omologo all’espressione artistica.

Se nei suoi Diari lo scenario, il divenire e il formarsi della creazione raggiungono l’acme di una continua tensione, i suoi testi poetici non affermano una subordinazione all’atto artistico, ma raccolgono il fecondo rapporto tra l’artista e la creazione, tra la tensione cosmica e la sigla strutturale dell’umano:

«Sguardo retrospettivo. Mi sono posto dinanzi a me stesso, a scrutarmi. Ho detto addio alla musica, alla letteratura. Ho desistito dall’aspirare ad una raffinata esperienza sessuale, rinunciando a quella tale avventura. Anche alle arti figurative penso appena, devo dedicarmi prima a sviluppare la mia personalità. In questo devo essere conseguente e non cedere alle sollecitazioni. Sono certo che solo così riuscirò a trovare poi la giusta espressione nell’arte»

o ancora

«L’arte è una similitudine della creazione. Essa è sempre un esempio, come il terrestre è un esempio cosmico. La liberazione degli elementi, il loro raggruppamento in sottoclassi composte, lo smembramento e la ricomposizione in un tutto da più parti contemporaneamente, la polifonia figurativa, il raggiungimento della quiete mediante la compensazione dei movimenti: sono tutti alti problemi formali, fondamentali per la conoscenza della forma, ma non ancora arte della cerchia superna. Nella cerchia superna, dietro la pluralità delle interpretazioni possibili, resta pur sempre un ultimo segreto – e la luce dell’intelletto miseramente impallidisce».

Dunque, se in questo libro la sua attenzione si rivolge ai meccanismi precipui di indagine, nella sua poesia sembrano assentarsi le cromature, discostandosi da altri poeti espressionisti, come Georg Trakl, ad esempio, in cui la forte pregnanza cromatica ha densità metaforica ed esaurisce il momento della scrittura.

Scrive Giorgio Manacorda, a cui si deve l’edizione dell’opera poetica di Klee: «Nei versi di Klee non si incontrano colori, non affiora una visione cromatica della realtà. I versi di Klee non descrivono il fantasma colorato del mondo, così come non lo descrivono i suoi quadri. […] Il colore è intuito dal lettore come qualità non nominata di una funzione. In questi lessemi («essere incandescente», «incandescenza», «bruciare», «sangue», ecc.)  la valenza semantica prevale sul momento dell’implicito e presente valore cromatico».

Tale valenza si contrappone all’impressione, abbracciando la vertigine di un lessico mitico e simbolico. Il rapporto tra i segni linguistici e la densità espressiva carpisce la forte corposità di metafora e connette la sofferenza dell’esistere alla sensazione panica, al turbamento, all’abrasione, specie quando egli scrive: «Io somiglio al dirupo / dove la resina cuoce nel sole, / dove i fiori scottano», oppure, «Mi rifugiai nei campi assolati abbandonato / al rovente declivio».

Il vocabolario delle immagini, che egli sviluppa, si avvale del pittogramma che si trasforma in icona, ridestando una stretta vicinanza tra la decorazione del passaggio interiore con la simbolizzazione dell’atto figurativo.

Il testo visivo di Klee sottende a una orizzontalità pronunciata e invoca una lettura intrinsecamente temporale, in cui l’enfasi, il volume e il ritmo conferiscono un netto e inequivocabile parallelo visivo.

La metafora incendiaria raccoglie la solitudine nei confronti degli elementi della natura, cambia prospettiva di paesaggio, come un’esclusione sproporzionata e tripudio d’assedio, finestra verbale e visuale: «Come davanti alla tempesta / fuggono gli uomini … / Io sono il timoniere e la mia nave / forte mi porta alla meta» oppure «Io sono cresciuto solo su una landa / (…)  / tempeste andavano e venivano, / avevano spazzato via ogni debole cosa. / (…) Il mio riparo sia intanto solamente il pensiero».

Il momento prometeico di Klee però afferma, rispetto allo Sturm und Drang, a cui potrebbe rimandare, un’apertura alla realtà, come centro di amore e orrore, scultura di frammenti, grido di sole: «Tu sei grande, è grande / la tua opera. Ma / solo grande all’inizio / incompiuta. / Un frammento. // Compila! / Allora griderò l’evviva!».

La sua vertigine tra uomo-artista e divinità raccoglie un confronto solitario, insegue un discorso sul reale che non ha l’enfasi estatica ma «il problema del rapporto con dio è il problema del rapporto (gnoseologico) con il meccanismo che muove l’universo. Dalla dialettica o forse, meglio, dalla contrapposizione tra particolare e universale non nasce nessun misticismo». (Giorgio Manacorda)

La relazione dinamica tra la natura e la metafora è biunivoca e diverge nella sottigliezza di una struttura semantica che nega quest’ultima, per raggiungere la conoscenza dei meccanismi cosmici.

La misura con il dio-cosmo non annulla distanze, ma provoca la sbavatura della sofferenza oltre il margine umano. L’uomo-artista riesce, attraverso la profusione creativa, ad abbracciare e raggiungere l’ordine cosmico. Il risultato è un vortice e una vertigine metafisici: «Pensa di essere morto / lontano e dopo molti anni / ti viene concesso un solo sguardo / verso la Terra. // Vedrai un lampione e un cane / vecchio con la zampa alzata. / Singhiozzerai dalla commozione».

La distanza è una visione che non solo partecipa, ma “vede” il suo processo creativo, attraverso lo svolgimento di una istanza umana sofferta, dura e lenta: «La mia testa brucia da saltare / / Uno dei mondi / che nasconde / deve nascere // Ma prima di creare / devo soffrire».

Il parto creativo avvicina l’anima alla genesi femminile. La donna di Klee ha il nome annunciante di un infinito silente e artefice, plasmatrice e innovatrice della fecondità ideale, come il verde della vita e dell’amore verso Evelina, gioia e aggettivo di una fertile serenità:

«Eveline è un sogno verde tra gli alberi, il / sogno di un bambino nudo nella campagna. / Me ne andai fra gli uomini per non lasciarli più / e fu impossibile essere così felice. / Liberato dal potere di troppo noti dolori / mi rifugiai nei campi assolati abbandonato / al rovente declivio. E ritrovai Eveline, donna / ma non invecchiata. Solo spossata dall’estate. / adesso lo so cosa volevo quando cantavo. / siate teneri con i miei doni» o ancora «Appoggiati a me / e seguimi se / si apre la terra / chiudi gli occhi. // Fidati del mio passo e del mio / freddo alto spirito. / Così come Dio / saremo in due».

Il chiaroscuro della penombra, del contrasto, di un rinvio di buio alla luce condensano il paesaggio interiore. Laddove egli dichiara di lavorare «sempre in rapporto alle più inconsce dimensioni del quadro», la sua tendenza pittorica e poetica abbraccia l’immaterialità, la astratta precisione e l’astrazione mitica, archetipica e autonoma, come scrive Clement Greenberg: «In Klee il disegno è, per così dire, temporale, o musicale».

Il poeta che disegna le sue partiture di profili o segni astratti, figure e confessioni precarie afferma la sua linea temporale-musicale, come conferma ancora Greenberg: «La linea di Klee indica, conduce, allaccia, congiunge. L’unità si attua per mezzo di relazioni e di armonie che giocano attraverso aree neutre la cui presenza è più una presunzione che un fatto».

Il verso si ricollega proprio ai segni che determinano l’arte, al mistero dei suoni, vicini più a sostantivi che ad aggettivi, indicati dal tocco verbale per «dare ordine al movimento», per offrire consistenza al valore ritmico della lingua.

Ed ecco che il colore, nelle poesie in controluce o in chiaroscuro, diventa gesto che si azzera, vive di assenza, annullato e ridotto a luce, ombra, bivio di buio: «E tuttavia questo genere di colore, nelle mani di Klee, raggiunge una particolare specie di profondità. Non una profondità nella quale gli oggetti rappresentati sono probabili, ma qualcosa di soffuso, respiri di colore che danno un baluginare distante, ambiguo». (C.Greenberg)

Il segno grafico o verbale, differenziato dal processo metaforico, ha una istanza primitiva, originaria come l’arte del Paleolitico, l’equilibrio e il disequilibrio e la coltre di una percezione.

La parola acquista un potere descrittivo che «ha il compito di completare e precisare le impressioni» e la continua oscillazione tra poesia e arte figurativa e musicala determina il motivo potente e fragile di una vicinanza che possa formalizzare il vissuto e il mistero indicibile: «In fondo essere poeta non dovrebbe ostacolare l’arte figurativa. E se dovessi decidermi per la poesia, Dio sa cosa altro vorrei fare».

La profonda parentela tra la pagina dipinta e quella scritta non contiene solo la fissazione di uno spazio, ma la stessa sospensione dell’oggetto determina la perdita dello spessore esistenziale.

Quando Klee si muove dal modello all’archetipo rintraccia una linea articolata ed elementare, rende appieno l’univocità del segno come affermazione piena, come sonda di un rapporto complementare di ordine e caos: «L’arte è una similitudine della creazione. Essa è sempre un esempio, come il terrestre è un esempio cosmico». L’estrema iconizzazione del testo poetico realizza mimesi e replicabilità, promuove un codice speculare di rovesciamento e  ripetizione per leggere il caos e ristabilire l’ordine che non muta.

Il cardine sistematico del testo rispecchia la scacchiera cromatica della figurazione e della costellazione e visualizzazione di altri significanti. Esiste, pertanto una variante codica tale per cui sia i testi e sia gli ordini vengono presi come varianti di un ordine invariante, come annota Giorgio Manacorda: «L’operazione di Klee tocca un tale grado di astrazione e di formalizzazione da presupporre un allontanamento definitivo dall’ordine dei referenti extra-testuali, in direzione (viceversa) della fondazione di strutture archetipiche che poi vengano costantemente «replicate» dai testi e «iconizzate» in essi».

Roman Jakobson in un interessante testo che indaga la produzione poetica di Holderlin, Brecht e Klee: «Una sorprendente unione di trasparenza radiosa e di magistrale semplicità con multiformi indicazioni permette, al Klee pittore e poeta, di dispiegare un’armonica combinazione di molteplici procedimenti sia sulla superficie di una tela sia nelle brevi note di un diario».

L’acuta sensibilità, che unisce la profondità chiaroscurale ella miniatura verbale e il concetto grammaticale alla geometria della visione, permette l’organizzazione del movimento creativo in relazioni logiche che costituiscono il senso profondo e complesso di visibile e in-visibile, di domanda ed enigma: «Nel mondo terreno non mi si può afferrare perché io abito altrettanto bene tra i morti come i non nati. Più vicino del consueto al cuore della creazione ancora troppo poco vicino».

La fine ha trovato l’inizio.

KLEE P., Poesie, a cura di Giorgio Manacorda, Guanda, Parma 1995.

ID., Confessione creatrice e altri scritti, Abscondita, Milano 2004.

ID., Diari 1898-1918. La vita, la pittura, l’amore: un maestro del Novecento si racconta, Net, Milano 2004.

AICHELE PORTER H., Paul Klee Poet/Painter, Boydell & Brewer Ltd., Woodbridge 2006

GREENBERG C., Saggio su Klee, Il Saggiatore, Milano 1960.

JAKOBSON R., Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 2002.

WyMAN S., The Poem in the Painting: Roman Jakobson and the Pictorial Language of Paul Klee, Word & Image: A journal of Verbal / Visual Enquiry, Routledge 2004.

 

La poetica del terrore di Alfred Kubin

di Irene Battaglini

L’immaginale                                                                                        Prato, 16 aprile 2013

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ALFRED KUBIN - THE LAST KING, 1902La vera funzione dell’Arte è rivelare la bellezza nascosta, l’impronta divina che è in tutte le cose.

Roberto Assagioli

 

 

 

 

 

Alfred Kubin,The last king, 1902

 

Alfred Kubin è assai vicino al segreto della materia oscura.

Conosce il linguaggio arcaico dei sogni in bianco e nero, sfolgorante tripudio di colori indicibili all’occhio umano, colori animali, viaggi – fuoco alla scoperta di forme di vita aliene perché non ancora note, con cui stringersi negli appartati silenzi di una giungla aperta solo all’inconscio e al sogno.

Popolazioni di piccoli esseri con zampe e piccoli occhi sanguinari, di creature o-scene, prive di pudore e di ritegno, inghiottite dallo stomaco eterno del tempo arcaico.

Un tempo senza meridiane, demarcato dalle sfumature rese con la violenza strabiliante dello stilo che incide la pietra-carta. Non privo di effetti destruenti su colui che guarda, salvato di quando in quando da figure più amabili e mai dolci, mai tenere. Ma dotate di una qualche ispirazione simpatetica. Figure quasi vergini che deflorano la pupilla, ignare della propria immane forza ctonia. Una bella dormiente è di fatto cadaverica, un caro animale domestico è in realtà l’investigatore pubblico di un devastante tradimento affettivo.

In Alfred Kubin (1877-1959, austriaco di origine ceca) la privatezza del sogno e la vergogna dell’istinto manifesto costituiscono la coppia protagonista di un duplice matrimonio di opposti. Si tratta di vecchi amanti clandestini, di violacciocche, rose e fragole passate, che un tempo furono turgide e splendenti. Il tempo ha distrutto quelle irrorate terre di passione e ha prosciugato tutto, desertificato. Nuove forme di vita hanno popolato quel campo desolato, cittadini nuovi di un cimitero di veli di spose e di giovani martiri in abito da cerimonia. Il funerale è stato officiato e nelle camere scurite dal freddo le pareti divengono luogo di immaginazione perversa.

L’impianto accusatorio della linguistica di Kubin è una sorta di emisfero monco di un mondo che necessita di comprensione e di attesa di una risurrezione. È un universo onirico psicoide, a base di strampalate occasioni di tessitura di storie e di incrocio di segni.

I tratti del disegno e delle incisioni sono sempre trasversali, sottili, chiusi. La definizione, tuttavia, non è mai fumettistica e il tratto grafico tradisce un amore pittorico, sfocia in una grafologia iridata su un fondale opacizzato, è equidistanza dal caos eppure è sempre commistione nel magma da cui sembra emergere l’immagine principale.

Una criminologia immaginale, quella di Alfred Kubin. Che rievoca Lovecraft, e Edgar Allan Poe, di cui fu illustratore in oltre settanta opere.

Gli uomini di molti disegni sono spesso ipocondriaci, malaticci, preda di donne-licantropo, attentati da strategie di autoannientamento, vittime consapevoli e un po’ masochiste di uno schema sovrabbondante e conosciuto.

La copiosa produzione di Alfred Kubin è stata da sempre teatro di riflessioni di ordine psicoanalitico, e ci coinvolge anche come studiosi di psicologia dell’arte per via dell’effetto scenico dell’orrore, che ha una sua ragione di essere anche nell’estetica stessa, se si tiene conto della suggestione che riceviamo in relazione alla forma e alla tessitura di ogni singolo disegno. Simona Argentieri, in «Alfred Kubin: un sognatore a vita» (nel saggio La lente di Freud. Una galleria dell’inconscio, a cura di Giorgio Bedoni), articola la riflessione a proposito del rapporto tra psicologia e arte in Kubin:

«[…] sarebbe assurdo precludersi l’esplorazione dei possibili nessi tra parole e immagini, tra opera e vita quando Kubin stesso ne fa un elemento costante della sua poetica, intrecciando continuamente il percorso creativo con l’autobiografia. Direi anzi che un elemento particolarmente interessante è proprio la meticolosità con la quale egli costruisce la sua teoria su se stesso: l’autodiagnosi di patogenesi traumatica dei suoi tormenti, corredata dalla certificazione degli scritti e dalla preziosa esibizione sintomatica dei disegni. Anche la cura, d’altronde, ha tale qualità autarchica e autoreferente: l’isolamento di dieci giorni in corrispondenza di una crisi, la parentesi buddhista, la scrittura del romanzo L’altra parte che – a suo dire – avrebbe composto di getto in sole dodici settimane come rimedio al dolore della morte del padre.

Come è suo diritto, egli talvolta mente sulla stesura dei resoconti […], tuttavia è vero – come dice Erwin Mitsch (1988) – che su questa base emotiva si fondano il fascino e la forza soffocante che emanano dalla sua opera, che si eleva molto al di sopra della pittura concettuale e allegorizzante dei suoi contemporanei.

Insomma, c’è del metodo, sia pure ingenuo, nella sua follia; e c’è della teoria, sia pure convenzionale, nella sua sommessa infelicità e nella sua fedeltà ad un processo creativo fatto di andirivieni tra disegno e scrittura,che intreccia l’invenzione, il “gioco crepuscolare della fantasia”, le reminiscenze infantili con angosce esistenziali nutrite dalle letture di filosofi quali Nietzsche e Schopenhauer, di scrittori come Poe e Hoffmann, di lezioni di artisti come Klinger, Munch, Redon, Ensor, Goya, Rops… Sappiamo anche che teneva sulla scrivania il famoso libro di Hans Prinzhorn, che era andato a visitare la sua famosa collezione di artisti folli della Clinica Psichiatrica di Heidelberg, con i quali dichiarava una dolente fratellanza umana ed estetica. (*) Così procedeva con immagini e parole alla costruzione dell’immagine di sé, adattando eventualmente la biografia all’arte, che – a suo avviso – è la “conseguenza della vita”. (*) In un articolo pubblicato nel 1922 su “Kunstblatt” ne esalta “i miracoli dello spirito dell’artista che emergono dagli abissi reconditi e imponderabili”».

Nei suoi lavori, quindi, l’urgenza abreattiva del trauma e lo spasmo creativo dello «spirito dell’artista» si accordano in una ricerca violenta di armonia, con l’esito di rovesciare i codici della psicopatologia, che è fondamentalista circa l’identità tra psicosi e assenza di consapevolezza.

I temi della fine del mondo, dell’incubo, della coazione a ripetere, dell’accesso al simbolico della morte in ogni sua declinazione, sono stati ampiamente trattati dai critici e dagli storici dell’arte, che non hanno mancato di esaurire in giudizi talora molto duri la sua talentuosità, innegabilmente mescolata con la mostruosità. Ebbe in vita numerosi riconoscimenti, un’esistenza piena in un clima di grandi eventi culturali, ma anche storici e politici. Fu tutt’altro che estraneo a questa realtà, conobbe e strinse amicizia con le maggiori personalità artistiche e letterarie del suo tempo. In un certo senso, l’impressione è che sia stato confinato a sofisticato e misterioso illustratore del terrifico e del luttuoso. Una sorta di sovversivo dell’estetica, il «polo contrario di Klimt […], il lato notturno della Secessione» (K. Schuster, 1981), nell’andirivieni mortifero di Ade e Persefone, sotto l’invariabile dominio di Crono.  Espressionista della notte, che si abitua quasi a “rubare” lo spazio creativo, iniziando a disegnare dietro le mappe catastali ereditate dal padre.

In un certo senso, la psicoanalisi è stata ed è una chiave di lettura che, in mano ai profani, gioca a favore della patogenesi dell’arte. E Kubin, anche solo per l’autoritratto in cui si disegna decapitato con la testa in un vassoio (illustrazione a Hugo Schmidt, Demoni e storia notturna, Monaco 1922), è preda ambita per la psicodiagnostica la più liberamente proiettiva. Com’è giusto che sia, se si considera che chi espone le proprie opere non può esimersi dall’essere sottoposto ad ogni forma di valutazione. In qualità di ipotesi inconfutabile, possiamo considerarla un punto di intersezione con altre ipotesi anziché una mappa di orientamento. Uno dei problemi filologici che emerge nello studio di Kubin, è la sua versatilità rispetto al mezzo creativo. Scrittore, pittore, incisore, disegnatore, illustratore, grafico (pensiamo agli inquietanti capilettera), usò la penna, l’acquerello e le chine con generosità di segno.  Studiarne le incisioni, significa approcciarsi al suo linguaggio, che è però ampiamente rappresentato nel romanzo L’altra parte e nelle altre produzioni letterarie. Egli illustra il suo stesso libro con l’impeto ribelle dello scrittore ferito dal suo stesso desiderio, ornandolo con lavori scurissimi, intessuti di graffi allucinati, a rappresentare case immerse nella notte deserta, scorci di paesi maledetti, finestre chiuse su muri di silenzio: spazi privi di una dimensione umana, in apparenza. Oppure, in realtà, completamente immersi nella melma che si fa fatica a drenare, che si relega alla notte, all’onirico, al mysterium tremendum.

Difatti fu proprio C. G. Jung (1928) a portare l’attenzione sulla qualificazione archetipica di Kubin, in cui l’abbandono passivo al fantastico e al simbolico assolve una funzione «trascendente, artisticamente valida».

Per la stessa ragione, possiamo articolare la sua collocazione tra i più grandi artisti del suo tempo. Fu cassa di risonanza del decadimento delle cose e del mondo, tanto da meritarsi di essere annoverato tra i “profeti del tramonto” da Vassily Kandinsky: oscuri narratori delle rovine dell’Europa avvolta dalla caligine che segue al crollo degli dei.

In lavori come Bancarotta (1938) o La morte del povero dello stesso anno, sembra assumere su di sé la fortissima responsabilità di un’Austria crocevia di conflitti bellici in un’Europa vessata dalle forze disgreganti. Non si tagliò fuori dal dibattito della sua epoca, anzi ne fu protagonista insieme a tanti nomi illustri, come Mann, Kafka, Jünger, Redon, con cui strinse ampi rapporti epistolari.

Subì l’influenza di maestri come Goya e Bosch, oltre a Max Klinger, che anticiparono quel che i Surrealisti usavano addurre alle fonti inesauribili dell’inconscio.

Alfred Kubin non può essere quindi collocato tra le sponde rovinose di una psicopatologia della scrittura, del segno e del simbolo. I lavori vanno presi tutti insieme e visti come un “arazzo rovesciato”, parafrasando il titolo dell’ultimo lavoro di Andrea Monda e Giovanni Cucci. Il male non può essere spiegato ma al massimo raccontato. E in questo caso disponiamo di un immenso racconto, il romanzo della vita e dell’arte di un uomo che si mette a nudo e ci offre una delle più vaste geografie dell’inconscio, individuale, sociale, collettivo.