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Mark Strand. L’assenza e l’ombra

di Andrea Galgano             18 giugno 2014*

mark-strand-timothy-greenfield-sandersAver amato come accade nelle ore vuote del tardo pomeriggio; lasciarsi andare e concepire un viaggio che alle spalle non lascia traccia di se stesso; affacciarsi dalla casa e vedere una figura che si piega in avanti come per opporsi al vento anche se non c’è vento; vedere i cappelli della gente in paese, gettati via in momenti di passione, sparsi per terra anche se la terra non la si può vedere. Tutto ciò nella vaga luce che ingiallisce, che si fa fioca nell’ora che precede il buio; niente di questo ha valore se non per il piacere che produce, ingigantendo un istante e in fin dei conti facendolo apparire come se fosse vero. E anni dopo imbattersi nella stessa scena — la figura che si piega allo stesso vento, gli stessi cappelli sparsi sulla stessa terra che non si può vedere.

Scrive così il poeta americano Mark Strand (1934), di origini canadesi, nel suo ultimo fulminante libro di prose dal titolo Almost invisible (2012), ora in Italia con il titolo Quasi invisibile (2014) e con la traduzione di Damiano Abeni.

Questo passaggio reca luce non solo sull’immagine modellata come un fascio di passaggi e paesaggi, ma anche sull’essen–zialità delle situazioni, degli oggetti e focus di sguardo e visione:

«Poiché abbiamo attraversato il fiume e il vento offre soltanto un torpido sdipanarsi di freddo cui ci siamo adattati con mansuetudine, senza più aspettarci altro oltre a ciò che ci è stato dato, e senza più chiederci com’è che siamo arrivati in questo luogo, non ci dispiace affatto che niente sia andato come avevamo sperato. Non c’è modo di dissipare la foschia in cui viviamo, non c’è modo di sapere che ci è stato inflitto un altro giorno. La neve silenziosa del pensiero si scioglie senza una sola possibilità di attecchire. Nessuno ha la minima idea di dove siamo. Le porte sull’assenza di luogo si moltiplicano e il presente è così distante, così profondamente distante» (Nasconditi la faccia tra le mani).

Il minimale barbaglio della sua concretezza dilata contorni, si appropria del tempo viaggiante e labile del ricordo e del sogno, diventa disparità di luogo e contorno:

Cara Henrietta, visto che sei stata tanto gentile da chiedermi perché non scrivo più, farò del mio meglio per risponderti. Ai vecchi tempi, i miei pensieri sfavillavano come minuscole scintille nel buio quasi assoluto della consapevolezza e io li trascrivevo, e pagina dopo pagina risplendeva di una luce che dichiaravo tutta mia. Sedevo alla scrivania, sbalordito da ciò che era appena successo. E perfino mentre guardavo le luci affievolirsi e i miei pensieri divenire piccoli mausolei senza alcun senso nel lucore residuo di tanta promessa, restavo ancora sbalordito. E quando scomparivano, com’era inevitabile, io ero pronto a ricominciare, pronto a restare seduto al buio per ore ad aspettare anche un’unica scintilla, nonostante sapessi che non avrebbe quasi per nulla emesso luce. Quello di cui non mi ero reso conto allora, ma di cui mi rendo conto fin troppo bene adesso, è che le scintille portano dentro di sé il desiderio di essere sollevate dal fardello della lucentezza. Ed è per questo che non scrivo più, e che il buio è la mia libertà e la mia contentezza (Una lettera da Tegucigalpa).

Oppure nel Notturno del poeta che amava la luna, la sostanziale affermazione della poesia si ferma come una ferita che sollecita il tempo, affabile e consunta, che tende alla «congiunzione luminosa di niente e tutto»:

Mi sono stancato della luna, stancato di quell’aria attonita, del ghiaccio azzurro del suo sguardo, dei suoi arrivi e delle sue partenze, del modo in cui avviluppa amanti e solitari sotto le sue ali invisibili, senza saperli distinguere. Mi sono stancato di così tante cose che un tempo mi incantavano, sono stanco di guardare l’ombra delle nuvole passare sull’erba illuminata dal sole, di vedere i cigni che scorrono avanti e indietro sul lago, di scrutare nel buio, sperando di trovare l’immagine di un sé ancora non nato. Lasciamo che la semplicità penetri l’occhio, semplicità come un tavolo su cui non è apparecchiato niente, come un tavolo che ancora non è nemmeno un tavolo.

Pertanto, Mark Strand, come si legge nella nota di copertina del testo: «agisce con ironia spesso anche beffarda, esprime una sorta di insoddisfazione quieta eppure dominante, pervasiva, che coinvolge un’ampia serie di personaggi: un banchiere, un ministro della Cultura, un viaggiatore, il padrone di una grande villa e tanti altri, tutti collocati in situazioni ambientali particolari, come fossero elementi dei più disparati luoghi e paesaggi».

È la sospensione della storia, impastata di effimero ed eterno a colpire il suo occhio vigile, come accade ne Gli studiosi dell’ineffabile: «[…] Avevo affittato una casa sul mare. Ogni sera sedevo in veranda e mi auguravo di provare un’ondata di sentimento, un flusso di suono infuocato che mi portasse lontano da tutto ciò che avessi mai conosciuto. Ma una sera salii la collina alle spalle della casa e dall’alto contemplai una stradina serrata dove fui sorpreso di vedere lunghe file di persone che si trascinavano in lontananza», la loro opera, infatti, «ha a che fare con il sè».

Nonostante la polvere del loro cammino veli il cielo, uno di questi “camminatori” risponde all’obiezione del poeta: «siamo solo di passaggio, le stelle torneranno».

L’ansia di Strand non si attesta, quindi, solo sul valore ineffabile della poesia, sulla sua permeabilità quasi invisibile, ma sul valore prettamente conoscitivo ed esperienziale che egli chiama «firelit stream of sound» che porta in grembo la ruvidezza dell’inquietudine e del mistero, come una sorta di infinitesima resistenza che tiene.

È un suono profanato che compie la sua ferita nelle cicatrici e indossa l’estate fuggevole, per fermarlo, assisterlo, improntarlo. In Il desiderio del ministro della Cultura  viene esaudito, il suo burocrate «rientra a casa dopo una giornata estenuante in ufficio. Si sdraia sul letto e cerca di non pensare a niente, ma non accade niente o, per essere più precisi, il niente non accade».

Ma in questa propagazione di tenebra e chiarezza futile, egli è paziente, «e pian piano le cose scivolano via – le pareti di casa, il parco al di là della strada, gli amici nella città vicina» e la permanenza del buio, del vuoto e del nulla si affermano in una sorta di amaro divertissement, di ironia sagace e di piacevole contraddizione.

L’incompiutezza è l’abbozzo di una sospensione che attende, protesa, l’ineffabilità di un pronunciamento, il suggerimento di una porta aperta sull’inconoscibile. Il lettore, pertanto, diventa il protagonista di questa sospensione, prossima a dissolversi, ma in tempo per centrare l’andatura dell’essere, come un tramonto spossato o una storia assurda.

In un articolo su “Il Manifesto”del 15 giugno 2014, dal titolo Mark Strand: aspetta, silenzio, Caterina Ricciardi scrive:

Rispetto alle ultime rac­colte (dia­lo­gate per lo più con il per­so­nag­gio «Morte»), la ricerca poetico-esistenziale di Strand con­ti­nua in tale dire­zione ma in ter­mini sem­pre più bril­lanti nell’impiego vir­tuo­si­stico di un wit, un’arguzia, agghiac­ciante. Di fronte alla com­me­dia dell’assurdo che è l’esistere nel mondo, e nel mondo di oggi, il poeta, che corag­gio­sa­mente discende nei sot­to­suoli dell’anima e del reale, non è affatto ras­se­gnato a farsi fer­mare da un silen­zio bec­ket­tiano. L’intento è quello di inter­ro­gare entità inco­no­sci­bili, aprire porte proi­bite, come fecero altri in altri tempi e con altre alle­go­rie, e altri intenti, incluso quello di ritor­nare a rive­dere la luce. L’accostamento non è azzar­dato: le bufere infer­nali fla­gel­lano anche i suoi ‘dan­nati’.

Strand mette in scena il suggello di un’epica sparita e sparsa, abitata dalla moltitudine delle identità e dalla sottigliezza dell’invisibile che instaura un lungo processo meditativo irrisolto che indaga la condizione umana e cerca la salvezza fissata, il punto denso, l’istante che si sporge sul vuoto e, come annota ancora la Ricciardi, mira

alla scan­sione in gal­le­ria di una suc­ces­sione di tableaux vivant, riqua­dri (anche tipo­gra­fici) ani­mati da una consorteria di per­so­naggi, per lo più appar­te­nenti a un’estenuata classe bor­ghese (un ban­chiere, un mini­stro della cul­tura, un gior­na­li­sta, un io qua­lun­que), per­so­naggi appa­ren­te­mente nor­mali e tut­ta­via ritratti alle prese con situa­zioni biz­zarre in nudi interni (una camera da letto, un bor­dello, un castello, un bou­doir matri­mo­niale) o, più spesso, in pae­saggi esterni ino­spi­tali, algidi spec­chi alla Magritte, iper­rea­li­stici e al con­tempo inson­da­bili e miste­riosi. In que­sti cro­no­to­poi del nulla il sog­getto osserva il pro­prio azzeramento nel mondo, oppure, nell’evitarlo, si lascia tra­sci­nare da un incontrolla­bile impulso verso un viag­gio non si sa mai da quale e in quale dire­zione, un viag­gio nell’ignoto che non sem­bra pre­ve­dere arrivi.

Premio MacArthur Fllowship, Pulitzer nel 1999 e poeta laureato, Strand è espressione di un gesto poetico che stanzia i suoi confini tra gli eccessi di presagio e luce (omens of the end), laddove l’aneddoto biografico, la dedica, le immersioni nel buio, manifestano la tensione verso una strana disarmonia e una caccia di istanti:

Non ogni uomo sa cosa canterà alla fine, / guardando il molo mentre la nave salpa, o cosa sentirà / quando sarà preso dal rombo del mare, immobile, là alla fine, / o cosa spererà una volta capito che non tornerà più. / Quando il tempo è passato di potare la rosa, coccolare il gatto, / quando il tramonto che incendia il prato e la luna piena che lo gela / non compariranno più, non ogni uomo sa cosa invece scoprirà (The End).

Attraverso un’istanza con forte eco leopardiana, egli va a caccia delle ombre, delle assenze riformulate, delle confessioni pastorali che dissolvono i nastri temporali e le dislocazioni di identità e di memoria: «Il sole che cala. I prati in fiamme. / Il giorno perso, la luce persa. / Perché amo quel che svanisce?» (The Guardian).

La sua confessione si richiama alla classicità accesa di Teocrito prima e di Virgilio e Ovidio poi, frequenta certa poesia accesa del ‘600, affermando la sua illuminazione e il suo tracciato antimimetico.

È come se il paesaggio della sua anima manifestasse e dichiarasse apertamente una esclusione, una evanescenza vibrante, come scrive Luigi Sampietro su “Il sole 24ore” del 17 luglio 2011, in una interessantissima recensione alle poesie di Strand, apparse qualche anno fa per Mondadori: «è un detective metafisico che si sofferma sulle tracce di chi — o di ciò– che ora, qui, è assente e non si vede, ma che deve pur esserci o esserci stato. V’è un lato enigmatico, per non dire enigmistico — oltre che, ben inteso, umoristico, — in taluni momenti della sua poesia».

I suoi paesaggi e i suoi spazi, come i campi, i panorami e diorami marittimi e montani, rivelano una struttura compositiva sommersa e racchiusa in un punto di fuga che consuma il destino delle scene e degli attori della sua pagina, in cui si fondono la malinconia irreversibile delle cose perdute, l’ironia e la narrazione comico–surreale: «Da qui sgorga la poesia: abitiamo in un posto / che non è nostro, e, soprattutto, non è noi».

Ecco l’esito di una via vera e reale, lo spiraglio del cielo aperto. L’esclusione e l’assenza riflettono il moto umano del lutto battente e di quello che sarebbe potuto essere ma non è stato, come «i colori che svaporano» e attendono il breve solco della slabbratura della grazia: «In un campo / io sono l’assenza / del campo. / È / sempre così».

L’assenza che si fa prospettiva, come l’avvenimento dei quadri Edward Hopper o le incisioni di M.C. Escher, grande incisore olandese di distorsioni e prospettive, colorano un’illusione che permette la dilatazione dello sguardo e il rovescio della sua avventura: «l’amore che arriva, / la luce che viene. / Ti svegli e le candele entrano a fiotti nel cuscino, / sprigionano caldi bouquet d’aria. / Perfino così tardi gli ossi del tempo splendono / e la polvere del domani s’incendia in respiro».

La tonalità di ombra con cui il malessere e il dolore si schierano, trova solo in una fissità di sponda derisa e mutata, la sua figura agganciata e prossima che «data l’impalpabilità e la sostanza cinerea di fatti e oggetti e desideri lasciati puntualmente fluire, non gli è possibile nascondere un sorriso (ora amato ora distaccato) quando accade che una qualsiasi “situazione compiuta” presuma di stagliarsi e di durare». (Marco Giovenale, in «Poesia», marzo 2005)

Scrive Rosanna Warren:

il protagonista di Strand è un “io”, un personaggio che si sottrae al paesaggio. È una poesia semplice come un teorema, eppure inesauribilmente misteriosa. Come interpretare la reiterata auto asserzione […] che cancella il sé? Forse l’“io” è incorporeo come l’aria di cui prende il posto […] nel suo connubio di astrazione filosofica e linguaggio americano contemporaneo, il poema modula e incarna la riduzione che onora, spostandosi da un “campo” a “campo”, operando espansioni e contrazioni minime alla lunghezza dei versi e consegnando il proprio vuoto all’aria, perché lo riempia dopo ogni strofa.

La natura mitologica del suo pensiero rivela il rovescio che abita lo spazio poetico del simbolo, giacendo nella separazione, come l’io che rinuncia, uscendo da sé e fermandosi sui detriti di ciò che resta: «Mi svuoto dei nomi degli altri. / Mi svuoto le tasche. / Mi svuoto le scarpe e le lascio sul ciglio della strada», o ancora «Adagio esco ballando dalla cassa in fiamme della mia testa. / E chi non è nato e rinato di continuo in paradiso?».

L’io, che sta «diventando orizzonte» e invoca an island in the dark, solca il suo respiro tormentato e spezzato, come un rito di assenze tremanti e di “sereniani” vuoti radiosi: «lei guardava fisso… / non me, ma oltre me, uno spazio / che poteva essere colmato da qualcuno / che ancora doveva arrivare». (Specchio)

La realtà, collocata sulle impronte sparse del metafisico, regola il tempo che sfugge ai suoi contorni definiti e definibili, e rende il suo magma ipnotico, diretto, fortemente evocativo, come il tramonto, ora della doppia luce e ingresso calmo e lento al buio inevitabile e dissolto: «l’oscurità si fa desiderio, / quando non v’è nulla che non aneli nascere; / i giorni in cui il destino del presente è pienezza di brezza».

L’evocazione è vigoria di respiro e eco quasi kafkiano, arroventato e perduto; respiro cosmico e malinconia di circonferenze espressive, che mostrano la loro ambiguità e la loro caduta, in un tragitto metafisico, nello spazio quintessenziato:

Dove stava scritto che una sera così si sarebbe dispiegata, / oscuramente incidendosi ovunque, o per quel che importa, dove / stava scritto che io sarei rinato di continuo in me stesso, / come sto facendo perfino ora, come ogni cosa in questo attimo, / e avrei sentito la caduta della carne nel tempo, e l’avrei sentita volgersi / silenziosamente, adagio, come se stesse rimettendosi nel verso giusto?.

La connotazione orfica del paesaggio strandiano è capace di soffermarsi sul crinale di un confine, lo abita, sostituisce le ombre con il vertice della descrizione di senso e dell’avamposto delle parole strenui, con il colloquio con un elemento che risplende: «descrivere gli occhi di lei, / la fronte su cui si stendeva la luce d’oro della sera, / la curva del collo, il declivio delle spalle, ogni parte / fino giù alle cosce, ai polpacci, lasciando sgorgare le parole, come suscitate dal sonno, controcorrente, alla deriva, / contro il volere dell’acqua, dove ogni affaticarsi / condannato e futile».

Il paesaggio insegue la sua perdita e cerca la poesia che compie il suo atto vivente e il suo sacrificio nella prospettiva dell’azione: incorporea, evanescente, scomparsa e abdicata: «la storia della fine, dell’ultima parola / della fine, quando narrata, è storia senza fine».

In un’intervista di Luigia Sorrentino, Strand sostiene non solo l’indefinibilità della sua poesia ma anche il singolare pronunciamento, persino comico, dell’opera nel suo compiersi:

Non posso definire la mia poesia. Non credo spetti a me. Di certo ci sono certi temi che si ripetono nella mia poesia, aspettative, attesa, delusione, il buio che avanza, tuttavia quando scrivo non ho in mente niente di tutto questo. Non considero il mio lavoro nella sua totalità, mai, ma considero le singole poesie mentre ci sto lavorando. Poi una volta che ho scritto la poesia, non ci penso più. Me ne sbarazzo. E inizio un’altra poesia. Se avessi pensato di avere dei temi sui quali dovevo ritornare ancora e ancora, mi sarei sentito paralizzato. Sarei stato prigioniero di una nozione astratta di ciò che stavo facendo. Sarebbe stata la mia morte. […]

Nella estemporaneità lirica il fasto della poesia coglie la grazia di un’altezza splendida, promuove il canto estraneo delle cose, ma non si annulla, anzi rinviene i processi della sua nascita, in un vocabolario di brume e venti notturni, nell’estrema visione mistica delle luci lunari disilluse: «venne in una lingua / non sfiorata dalla pietà, in versi, oscuri e fastosi, / in cui la morte è rinata e inviata nel mondo come dono, / così che il futuro, privo di voce propria e di speranza».

In una intervista rilasciata a Laura Lilli su “la Repubblica” del 12 luglio 2007, Strand riferendosi a quel «luogo di perpetuo inizio che in sé contiene / ciò che mai occhio ha visto, mai orecchio ha udito, mano / mai ha toccato, ciò che mai è nato in cuore d’uomo», afferma la sostanziale potenza della poesia in un luogo terrestre non soggetto a giurisdizione, a cui il poeta si inchina, consacrandolo, nella sua caducità frammentata.

Altrove su “Il sole 24ore” del 3 luglio 2011, con un elzeviro dal titolo Ritrovarsi sull’isola dei poeti, egli scrive:

È una cosa curiosa: la vita che conduciamo ci consente solo di rado di fermarci a riflettere su ciò che abita nel nostro corpo e, di conseguenza, possiamo diventare così estraniati da noi stessi da aver poi bisogno della poesia per ricordarci che cosa si prova a esser vivi. La nostra abitudine a pensarci in relazione agli altri e a giudicarci in base a come agiamo in un contesto sociale ci rende più vicini allo spirito della narrativa: il comportamento esteriore è più facile da osservare, può essere percepito immediatamente, ed è quindi più semplice giudicarlo. […]

Una poesia, tuttavia, avrà necessariamente un’esistenza nel tempo, se non altro per il modo in cui si relaziona alle opere precedenti, assieme alle quali viene a formare un lungo specchio ininterrotto che, nel fluire dei secoli, ritrae la soggettività umana. È curioso notare come i sentimenti, pur accompagnandoci sempre, siano così difficili da cogliere da sembrare qualcosa di effimero. In genere vi prestiamo attenzione quando si fanno avanti con impellenza, nei momenti critici, quando è più forte l’esperienza della perdita: durante una separazione, per esempio, o in seguito alla morte di una persona cara. È allora che ci rivolgiamo alla poesia perché ci dica quali sono i nostri sentimenti, per mettere in parole ciò che supera la nostra capacità di articolazione. Inoltre, la poesia ha la capacità di conservare il senso di urgenza di tali momenti, permettendoci di riviverli più e più volte: anche quando una poesia è incentrata sulla perdita, il suo scopo è quello di conservare, di trattenere. Vogliamo serbare ciò che sentiamo nel profondo ma in un modo tale da trasformarlo in piacere.

La sintassi, come la sua anima percorre il mito e le sue istanze, il corpo della poesia con il vagabondaggio offuscato che avviene, come un passo disilluso e mortale davanti al buio.

leggi in word Mark Strand. L’assenza e l’ombra

*versione ampliata di Mark Strand. L’assenza e l’ombra in GALGANO A., Mosaico, Aracne, Roma 2013, pp. 453-58.

L’inconscio della scrittura. Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013

L’inconscio della scrittura. Andrea Galgano ­– Irene Battaglini, Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013 

recensione di Giuseppe Panella

Frontiera di Pagine5 ottobre 2013

Fin dalle sue origini, la psicoanalisi si è cimentata con la letteratura e con l’arte, provandosi a dare una serie di risposte agli stessi interrogativi che la critica letteraria si pone da sempre.

Una lunga serie di analisi freudiane al riguardo costituiscono un corpus impressionante di tentativi di spiegare, attraverso l’interrogazione dell’inconscio, del perché un’opera d’arte sia nata così e abbia assunto proprio l’assetto formale che ad essa risulta necessario e consapevolmente più adeguato ad esprimere le esigenze dell’artista che l’ha realizzata.

Il caso rappresentato dal saggio di Freud sul Mosè di Michelangelo del 1914 (ma anonimo e poi riconosciuto solo nel 1924) è al riguardo esemplare: l’atteggiamento e la postura del profeta biblico sono la spia, la traccia manifesta della volontà di Michelangelo di spiegarne il comportamento successivo e l’atteggiamento umano di collera che lo contraddistinguono.

La raccolta degli scritti di Irene Battaglini e di Andrea Galgano, simbolicamente intitolata Frontiera di pagine, vuole disporsi teoricamente sul discrimine esistente tra critica d’arte ed esercizio psicoanalitico e cercare di utilizzare entrambe per raggiungere il risultato voluto: la ricostruzione del percorso di un’artista importante e significativo e lo svelamento del segreto contenuto nelle sue opere in modo tale da far esplodere tutta la potenza dell’inconscio che in esse si dispiega.

Nell’Introduzione, firmata da entrambi gli autori, si può conoscere esaurientemente lo scopo che essi si sono prefissi con questa loro raccolta:

<<La scrittura impone l’esperienza di un viaggio e di un possibile approdo che richiedono la speranza come messa alla prova, scuotimento, tocco, abbandono e dono delle responsabilità. E’ il gesto della beatitudine e della ferita che ogni volta si annunciano e si impongono a cogliere il nome che plasma la realtà, e che sconvolge misure strette, destando il suono di un’attenzione. La parola che “squadri da ogni lato l’animo nostro informe”, direbbe Montale, ha un limite sfarzoso e doloroso: toccare il sigillo rinnovato delle cose e non riuscire a sagomare tutta la realtà. E’ il limite passionale e fragile della condizione umana, la luce che si incide in solchi di tela e strappi di fogli, nei chiaroscuri dove non si esiliano le ombre[1]>>.

 L’esperienza della letteratura rappresenta <<abitare l’inizio delle cose>> – affermano i due autori citando uno splendido saggio della scrittrice statunitense Flannery O’ Connor (Natura e scopo della narrativa, contenuto in Nel territorio del diavolo. Sul mistero dello scrivere) -, scrivere significa agire sui sensi del lettore, motivarli e permettergli di andare al fondo del reale, nella sua concreta reviviscenza effettuale, nel suo esplicito definire il mondo e dargli un nuovo perimetro, una nuova sagomatura. Scrivere significa rifare la realtà attraverso una ri-forma dell’apparato percettivo sia di chi scrive sia di chi legge, sia dell’autore che del “suo” lettore (esplicito ma anche “implicito” – se si deve prestar fede alle analisi semiologiche di Umberto Eco).

L’interesse principale di Irene Battaglini è rivolto alla pittura, in primo luogo a quegli scienziati come Eric R. Kandel, Premio Nobel per la medicina nel 2000 per i suoi studi sulla conservazione della memoria, che ha dedicato a pittori della Grande Vienna di inizio Novecento (Gustave Klimt, Oscar Kokoschka, Egon Schiele) ed anche a pensatori e scrittori come Freud, Arthur Schnitzler o Friedrich Nietzsche, un saggio di grande rilevanza teorica in cui cerca di ritrovare nei meandri ancora oscuri della mente il senso profondo della loro luminosità.

Ma, dopo il neurologo Kandel, fanno la loro apparizione il grande pittore pugliese De Nittis e le sue rappresentazioni della Roma postunitaria, Giorgio Morandi e il senso inesprimibile delle sue “bottiglie” e dei suoi cortili, le notti ebraico-orientali di Marc Chagall, il velo impalpabile dei quadri di Gaetano Previati, il movimento “panico”di Henri Matisse con la danza primigenia dei suoi semidei “impaludati nella natura” (p. 57), i colli eleganti e invalicabili delle donne di Amedeo Modigliani, il mondo notturno e falsamente realistico bensì stilizzato ed erratico di Edward Hopper (si pensi al suo quadro più noto, Nighthawk oppure a Morning Sun che la Battaglini analizza con grande finezza), il “mare di nebbia” di David Caspar Friedrich e il suo Viandante, icona vivente del Sublime, per finire con Il Calvario di Pieter Bruegel il Vecchio, la materia tormentata della spiritualità religiosa di William Congdon, i colori aspri e sanguigni di Renato Guttuso e i disegni dechirichiani ed inquietanti dello scrittore Dino Buzzati.

Lo spazio che Andrea Galgano si ritaglia è molto ampio ed è, quindi, impossibile ripercorrerlo tutto nello spazio di una nota di recensione: il critico letterario parte di “profumi della trasparenza” di Saffo per passare attraverso Catullo e l’amore impossibile per Lesbia, l’elegia tormentata di Tibullo e Properzio, i Tristia di Ovidio, la vertiginosa archeologia del poema dedicato a Beowulf, la saga sanguinosa e poetica dei Nibelunghi, Perceval le Gaulois di Chretien de Troyes e la sua innocente ricerca dell’innocenza perduta tramite la cerca del Santo Graal, Maria di Francia e i suoi Lais, Geoffrey Chaucer e i suoi Canterbury Tales di ispirazione boccacciana, la sequenza di vita e morte del Ragno Amore di John Donne, il Dolce Stil Novo di Guido Cavalcanti, Luis de Camões e i viaggi di scoperta di Vasco da Gama, il teatro sacro (e profano) di Jean Racine, la Notte oscura Juan de la Cruz e il suo tormento spirituale, la squillante ritmicità dei poemi di Fjodor Tjutčev (che furono straordinariamente tradotti un tempo da Tommaso Landolfi), la narrativa inquietante e “inesauribile” di Charles Dickens…

E ancora, scivolando sempre più verso il Novecento, la “camera chiusa” di Emily Dickinson, la poesia “barbara” e l’amore passionale (e segreto) di Giosuè Carducci, il mondo del “sottosuolo” dell’anima di Renè de Chateaubriand, la di speranza ricerca di certezze di Heinrich von Kleist e la sua crisi kantiana culminata nell’amore di Penthesilea per Achille, la teratomorfa poetica angoscia di Isidore Ducasse (falso) conte di Lautrèamont e le sue creazioni allucinate e perverse, e poi ancora The tempest di William Shakespeare (chiunque egli sia stato) e il mondo provvidenzialistico di Alessandro Manzoni fino alla lirica narratività di Thomas Hardy, al “canto fioco” di Marceline Desbordes-Valmore per culminare nella poesia (e nella vita) errante di Arthur Rimbaud.

Il percorso di Galgano attraversa tutta la grande cultura letteraria del Novecento, quella che egli definisce giustamente Il fuoco della contemporaneità dall’appena scomparso Àlvaro Mutis a Thonas Stearns Eliot, da Joseph Conrad a Flannery O’ Connor, da Harold Pinter a Guillaume Apollinaire, dal Premio Nobel Tomas Tranströmer, da John Cheever a Sherwood Anderson per dedicare poi un nutrito paragrafo all’amata Flannery O’ Connor.

Le analisi di Galgano sono brevi ma preziose nella loro minuta ed esauriente concisività: poche frasi, qualche citazione e una manciata di giudizi critici che bastano a definire l’essenza profonda della poesia o della narrativa di autori studiati a profusione e sui quali sono stati spesi tempo e versati fiumi d’inchiostro in maniera straordinaria (e talvolta fin troppo dispersiva).

Galgano riassume il loro mondo con brevi tratti di penna e ne mette in progressione “ritratti in piedi” suggestivi e calzanti, puntando su particolari significativi piuttosto che cercare una compiutezza che sarebbe impossibile, se non nociva per la comprensione del personaggio studiato.

Nel testo dedicato a Flannery O’ Connor, Galgano ha accenti di forte pathos (ma criticamente motivato e fondato sulla natura delle opere realizzate dalla scrittrice americana):

<<E’ sempre un mondo in continua creazione, ricolmo di promesse, un abisso di ombra – basti pensare a La schiena di Parker -, in cui spesso la visio Dei è piena, soggiace non già ad un’intuizione spirituale ma a un dato di realtà, raccolto in modo anagogico. Lo spirituale anzi diventa materia, il tragico cristiano si evidenzia appieno, come strumento conoscitivo e lente della realtà. Solo nella Grazia si scopre il destino. In essa si ritrova quella salvezza, che dall’esterno interviene con dirompente misericordia a rendere più uomo l’uomo (Un brav’uomo è difficile da trovare) e rende la fede un atto ragionevole di apertura libera. Il campo di Flannery O’ Connor è la pagina umana, vista nel suo effimero e nella sua debolezza, ma è anticamera concreta e terribile appoggiata al cielo>>.[2]

 Con accenti certamente diversi ma con la stessa passione di ricerca Irene Battaglini aveva scritto di Edward Hopper e della sua ricerca pittorica:

<<Il realismo di Hopper è di fatto “o-sceno”: il grande artista americano intendeva far parlare quella fenomenologia della parola che si rappresenta nel suo silenzio, e che si dà a volte all’uomo anche contro la sua volontà. Un sogno, una chiamata, un insight. Ogni esperienza di certezza è preclusa a coloro che indagano la realtà in rapporto alla sua rappresentazione. Occorre abbandonare i manuali, le scale quantitative, le misure di falsificazione e quell’orgoglioso ricorso al regno delle cose probabili, quando si tenta di dirimere la controversia tra possibile e impossibile, tra vero e falso. Nel divario tra le due ali di una farfalla non si registra alcuna probabilità, piuttosto si osserva il movimento preciso: la serena accettazione dell’ala di avere una compagna gemella e irraggiungibile, speculare e vitale. Edward Hopper ha fatto esperienza di sé e viaggio iniziatici nella dimensione conoscitiva della luce che invade lo spazio, indagando con coerenza sperimentalista il piano dei piccoli infiniti che si affastellano sulla tela>>.[3]

 Per entrambi, dunque, l’analisi critica non è disgiunta dalla ricerca letteraria e la volontà di usare la parola non soltanto per spiegare o analizzare ma soprattutto per dire una verità che solo arte e letteratura sono in grado di far comprendere appieno e di utilizzare in tutta la sua interezza ermeneutica.



[1] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Introduzione a Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013, p. 17.

[2] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine cit., p. 264.

[3] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine cit., p. 71.