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Le dinamiche affettive nell’opera di Aleksandr Sergeevič Puškin

XVII Congresso Mondiale di Psichiatria Dinamica, San Pietroburgo 2014

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LECTURER
Doctor Andrea Galgano, poet, writer, literary critic, professor of literature at Erich Fromm School of Psychotherapy, Florence

Italian Branch
Chairman Doctor Ezio Benelli, International Foundation Erich Fromm, Florence

Abstract
The affective dynamics in the work and thought of Alexandr Pushkin

Alexandr Pushkin is the poet of harmony and its forced deprivation, such as correspondence of cosmic forces and order of universal life. In the analysis of his affective plots slides his secret freedom, its integral attachment with the historical events and the destinies of his time.
The art of Pushkin feels the weight of the art’s contradiction and its never-ending dialogue with the vertex of the freedom. It has gone through the literary and lively drama, as evidenced by the lyric, the tragedy, the prose and the history of criticism.
Even his family life shows the signs of a wound and an icy breath. The latent and grumpy relationship with his emotional tension, locates in the image of the snowstorm, his worthy representation.

The inevitability of fate is accompanied by the fatality dramatically lived, that doesn’t gain only the tragic meaning, but tries always to chase the spasm of the harmony and the balance point. Myth and reality that merge and end up to look the same. The talk follows these multidisciplinary lines, investigating the adversity of the contrasts between the characters, the relationship between the social struggle and the human ethical criterion. Here is his territory, as his death in a duel that becomes the tragic emblem of the poetry and the Russian people, in a dense and layered tissue of Romanticism and Realism.

leggi in pdf PUSKIN

Aleksandr_PuskinAleksandr Sergeevič Puškin (1799-1837) è il poeta dell’armonia e della sua privazione forzata, come corrispondenza di forze cosmiche e ordine della vita universale. Nell’analisi delle sue trame affettive scorre la sua segreta libertà, il suo integro legame con le vicende storiche e i destini del suo tempo1 .
L’arte di Puškin avverte il peso della contraddizione dell’arte e del suo colloquio inesausto con il vertice della libertà. Essa ha attraversato il dramma letterario e vitale, come si evince dalla lirica, dalla tragedia, dalla prosa e dalla storia della critica. Persino la sua vita familiare presenta i segni di una ferita e di un gelido alito. A tal proposito, così Pietro Citati scrive:

Non so quale poeta moderno abbia diffuso attorno a sé il fascino, che irradiò Aleksandr Puškin negli ultimi anni di vita. Forse soltanto il giovane Goethe e Baudelaire. Quando passeggiava per la Prospettiva Nevskij, aveva una tuba un po’ lisa, e un lungo cappotto rivestito di pelliccia e segnato dal tempo: al cappotto mancava sempre un bottone. Non era più il ribelle della tumultuosa giovinezza. Aveva accettato la realtà, la società, la famiglia: persino lo zar; e la società di Pietroburgo, mondana, frivola, perfida piaceva al suo acuto spirito mondano. Amava la musica secca del pettegolezzo, il suono breve della battuta, l’eleganza effimera dei balli. Proprio lui, lo spirito più libero dell’ Ottocento, era diventato un poeta-cortigiano, come Ariosto e Tasso: era consigliere e confidente dello zar; e questa parte gli piaceva e lo umiliava. Molti testimoni lo ritraggono a corte, o nei salotti aristocratici di Pietroburgo. Amava la bella conversazione: giocava con le parole, intrecciava merletti di una frivolezza squisita, si accendeva: lasciava che il suo disinvolto pensiero prendesse il suo passo naturale: svagato, indifferente ai sistemi, innamorato della pointe e dell’ immagine. Era elegantissimo, capriccioso, imprevedibile: la sua grazia era fondata sulla mobilità, la sprezzatura e, soprattutto, una cosciente aritmia. […] Ad un tratto si abbuiava. La letizia rivelava una malinconia sempre più cupa e ombrosa, o delle passioni e dei furori che a prima vista sembravano incomprensibili. Allora nessuno degli ascoltatori lo seguiva più. Nessuno capiva come Puškin potesse raggiungere, nel furore, una specie di freddo distacco: nessuno afferrava la sua demoniaca leggerezza, che lo portava al di là del mondo dei corpi, – e il Vuoto, in cui si inoltrava, il vertiginoso vuoto del quale era il solo sovrano, e che gli permetteva di diventare tutti gli sguardi, tutti i luoghi, tutte le parti, e dove alla fine rischiava di perdersi2.

L’ineluttabilità del destino si accompagna alla fatalità drammaticamente vissuta, che non acquista solo un significato tragico, ma tenta di inseguire sempre lo spasmo dell’armonia e dell’equilibrio. Mito e realtà che si fondono e finiscono per assomigliarsi.
La riflessione sulla sua componente letteraria è inscindibile dal suo strappo di biografia, nel suo squarcio di sogno e distacco, vissuti sotto l’egida della poesia, del potere e della quotidianità, come sostiene giustamente Giovanna Spendel: «La biografia di Puškin è della massima importanza per la comprensione della sua opera e, viceversa, non c’è momento significativo di quest’ultima che non possa tradursi in un nome di luogo o di persona, in una data, in una situazione»3.
Tra la data della sua nascita (26 maggio 1799) e la data della sua morte (29 gennaio 1837) si dipana il tessuto della sua vita inquieta, della sua poesia che copre ogni genere, come il suo romanzo in versi, in cui «scorre un elenco di passioni fitto e vario; scorre un lungo giocar d’astuzia col potere autocratico, in cui l’immagine sociale del «grande poeta» finisce con l’immiserirsi, autodegradarsi giorno per giorno; scorre, infine, a ritmo sempre più celere e spietato, una sofferenza personale in crescendo, una specie di furore autopunitivo, di cui il matrimonio con la bellissima e giovanissima Natal’ja Gončarova e il duello con un suo corteggiatore sembrano conclusioni accidentali»4.
Lo scrittore che rappresenta la Russia e la sua “russicità” accorda la sua anima con le sue diverse componenti, laddove la lingua, il carattere e il paesaggio della sua letteratura classica convivono in un monumento di perenne inafferrabilità.
Una vitalità che compone le sue concrete immagini femminili, l’amore e i suoi rapimenti, l’Eterno Femminino e la Bellezza. In un epitaffio a sedici anni aveva scritto: «Qui Puškin è sepolto con la giovane Musa / Con amore, con pigrizia passò la sua allegra vita, / Non fece il bene, tuttavia nell’anima, / Grazie a Dio, era un uomo buono», come una sorta di appartenenza che invocava qualcosa di Eterno, un passaggio che sfiorasse la sua anima di giovane aquila.
La sua dinamica affettiva non ha riposo. Tutte le donne segnate, amate, o quelle persino sfiorate hanno un’impronta devota ma di stuporoso tormento, come testimonia Marina Cvetaeva, riferendosi alla poesia Al mare:

Il mio mare – il libero elemento puškiniano – era il mare dell’ultima volta, dell’ultimo sguardo. Per quale ragione io, ancora piccola bambina, tante volte scrivevo con la mia mano: «Addio, libero elemento!» – o anche senza nessuna ragione: io tutte le cose della mia vita, di esse mi sono innamorata, e poi le ho amate con l’addio, e non gli incontri, ma gli strappi, non la fusione, non per la vita, ma per la morte. E, in un senso del tutto diverso, il mio incontro col mare si rivelò essere proprio un addio, un duplice addio: un addio al mare libero elemento che davanti a me non c’era e che io, voltando la schiena al vero mare, ricreavo – bianco su grigio – cifra dopo cifra – e con l’addio a quel vero mare che stava davanti a me e che io, a causa di quel primo mare, non potevo amare. E dirò di più: l’ignoranza della mia infanzia, che identificava l’elemento con i versi, si rivelò una visione: il «libero elemento» si esprimeva con i versi, e non col mare, con i versi, cioè con l’unico elemento al quale non si può mai dire addio5 .

Permane una sorta di sconsolata segretezza nella sua opera. Puškin ha conosciuto la solitudine e l’esilio, il dramma della libertà e della patria, rivissuti nelle corrispondenze con gli elementi (mare, nave, paesaggio esotico, libertà) che, per alcuni versi, lo avvicinano a Byron, pur mantenendo una dinamica classicità di idea e pensiero, come ha sostenuto D.P. Mirskij 6.
Nelle sue liriche si afferma lo strato acceso di lamento interno, di passione voluttuosa e accesa, di compiuta stanza interiore: «Lida, amica mia fedele, / Perché attraverso il sonno lieve / spesso io, spossato dall’amore, / sento il tuo lieve lamento? / Perché, nell’amore felice / Nel vedere un sogno spaventoso, / Lo sguardo immobile, timoroso / È fisso verso la tenebra? / Perché, quando io assaporo / il rapido svenimento dell’estasi, / Osservo talvolta / Le tue lacrime segrete?» (A una giovane vedova).
Quando invece descrive «il genio della pura bellezza», Anna Petrovna Kern, l’anima puškiniana si attesta in uno stupore visivo che, subito, lascia spazio alla solitudine e alla tempesta, come se l’improvviso epifenomeno affettivo debba abbracciare lo spazio immoto e solitario che non lascia tregua alle lontananze:

Ricordo il momento incantato: / davanti a me tu sei apparsa, / Come una fuggitiva visione, / Come il genio della pura bellezza. / Nelle angustie di una disperata tristezza, / Negli scompigli della rumorosa vanità, / Risuonava a lungo in me la tenera voce, / E sognavo i cari lineamenti. / Passarono gli anni. L’impeto ribelle delle tempeste / Disperse i sogni di un tempo, / E io dimenticai la tua tenera voce, / I tuoi lineamenti celesti. / Nella solitudine, in una tenebra di carcere / si trascinavano cheti i miei giorni / Senza un dio, senza ispirazione, / Senza lacrime, senza vita, senza amore.

Poi il ritorno dell’immagine amata, sebbene fuggitiva, innesca una nuova ebbrezza non spoglia, ma ricolma di una fenomenologia intensa. «Questa poesia», commenta Eridano Bazzarelli,

è forse eccezionale proprio per la sua infinita armonia: l’«eroe lirico» rivede dopo qualche tempo colei che è «il genio della pura bellezza». La parola «genio» era, naturalmente, nello stile dell’epoca, una parola «neoclassica» (ma anche, con qualche sfumatura diversa, romantica). Ma si consideri, pur nella rozzezza della traduzione, il trasparire della grande tenerezza di Puškin, la storia della sua «disperata» tristezza, la vicenda del ricordo della «tenera voce», la disperazione e il deserto seguiti agli entusiasmi dell’amore di un tempo. Ed ecco che la ricomparsa del genio della pura bellezza, con i suoi lineamenti celesti, che l’eroe lirico, nelle tempeste della vita aveva dimenticato, che aveva dimenticato nella solitudine del «carcere», quando era senza un dio, senza ispirazione, senza lacrime, senza vita, senza amore, ecco dunque che la ricomparsa della bella donna, simile a «fuggitiva visione», risveglia il cuore del poeta, gli ridona vita, lacrime e amore. […] E questa lirica “riassume”, se vogliamo dire così, tutta l’esistenza di Puškin, il movimento della sua vita7.

L’esaltazione della quotidianità passa attraverso miniature filosofiche, passaggi di fiato ed ombra, fa vivere i suoi personaggi e «[…] la natura vista come paesaggio, nel fluire delle stagioni, e anche come simbolo dell’uomo e dell’inesorabile scorrere del tempo.
Ad essa si possono riportare quasi tutti i motivi che affiorano in moltissime poesie: l’aspirazione alla libertà, il viaggio come movimento o come ricerca di una meta e di un riparo, il desiderio di pace e di serenità, la fragilità della bellezza, i limiti dell’amore»8: «Primavera, primavera, tempo d’amore / Come mi pesa quando arrivi tu, / quale languido fermento / Nell’anima mia, nel mio sangue… / Come al cuore m’è estraneo il godimento… / tutto che esulta e riluce / angoscia e tedio è per me».
La disperata vitalità del suo paesaggio è natura che si muove, vita irresistibile, segno scandito dell’esistenza che si appropria delle stagioni che dilagano con la loro sontuosa ambiguità, il loro appannarsi o fiorire, come viaggio misurato di ossimori e di spiriti liberi: «La tormenta distrugge le intenzioni degli uomini e, come se giocasse, divide gli uni, trascina gli altri, crea nuovi destini. Alla fine però, sia pure con una mutata fisionomia dei personaggi, si ristabilisce quell’idillio al quale tendono i racconti del ciclo»9.
La tormenta di neve rappresenta l’esito simbolico di una forza esterna che conquista la scena dove i protagonisti vivono il loro teatro (si pensi all’incontro tra il nobile Grinev e il fuggiasco contadino Pugačev in La figlia del capitano oppure nel racconto La tormenta di neve), entra nei sogni, instaura un forte legame con la morte, intreccia la dura trama delle vicissitudini ed essa, come scrive Irina Koleva:

assume una funzione compositiva, perché la vita di Grinev e della sua fidanzata Maša rimarranno in seguito nelle mani dei ribelli guidati da Pugačev; dall’altro, acquista un’intensa carica simbolica, rappresentando la rivoluzione popolare. Un anonimo tumulto contadino all’improvviso degenera in una feroce sanguinosa guerra civile, che, come una tempesta di neve, trascina nel suo vortice distruttivo le vite umane. La tormentosa lotta sociale scatena la crudeltà in entrambi i protagonisti: i contadini sterminano la nobiltà, i nobili da parte loro, per salvare il proprio potere, agiscono spietatamente contro i ribelli. Il tragico pensiero di Puškin sull’impossibile riconciliazione tra le parti avverse incide sulla problematicità dell’opera – il rapporto tra la lotta sociale e il criterio etico umano10.

Essa, pertanto, acquista un significato ultimo e decisivo, non soltanto come scena determinante, ma come esternazione del compiuto della sua opera, come scorcio disegnato della vita quotidiana dei personaggi, dipinti nella storicità della fiaba e nella letteratura che diventa storia. La bufera, quindi,

sovrasta sempre la volontà e le intenzioni degli uomini. Di certo, nel racconto puškiniano si sente pure l’eco del tema romantico della fatalità, espresso, forse, in modo più marcato dallo scrittore e drammaturgo austriaco Franz Grillparzer. Tuttavia, il tema del destino, pur essendo drammatico, in Puškin non acquista mai un significato tragico, poiché esprime armonia ed equilibrio – i tratti essenziali del suo mondo poetico11.

L’armonia e l’equilibrio seguono una loro linea netta di sinuosa espressione, di inebriamento umano e poetico che tocca la vertigine erotica («Ol’ga, pupilla di Cipride / Ol’ga, prodigio di bellezza, / come sei abituata tu / A prodigare carezze e offese! / Con il bacio del piacere / tu ci sconvolgi il cuore, / E di una tentatrice felicità / tu ci dici l’ora segreta / […] In nome della gioiosa dissolutezza, / in nome degli affanni di Priapo, / In nome della tenerezza, in nome dell’oro / In nome del tuo fascino, / Ol’ga, sacerdotessa del piacere, / Ascolta il nostro pianto innamorato»), la morte, la bellezza estrema, la profezia di una carnalità sottile, l’anacreontica11 di un erotismo leggero (Gabrieliade).
La sintesi della conoscenza reale e della conoscenza letteraria fondono la sua figura femminile in un unico movimento di realtà e visione, fuse in un unico canto di amore, sfrangiato in ogni cromatura possibile, in ogni luce lieve o luminosa, rapito spesso nella fuggevolezza: «Vi ho amata: l’amore ancora, forse, / Non si è spento del tutto nella mia anima; / Ma non voglio che esso vi inquieti ancora; / A nessun modo vi voglio rattristare. / Vi ho amata silenziosamente, senza speranza, / Oppresso ora dalla timidezza, ora dalla gelosia; / Vi ho amata così sinceramente, così teneramente, / Che Dio vi conceda di essere così amata da un altro», oppure come lampo di sogno fugace e bellezza irraggiungibile («Mentre mi attaccavano i cavalli, / mi presero la mente e il cuore / Il tuo sguardo e la tua selvaggia bellezza»), finanche dubbio maledetto: «Maledico le perfide fatiche / Della mia criminosa giovinezza / E le attese di incontri convenuti / Nei giardini, nel silenzio delle notti. / Maledico il sussurro d’amore delle parole, / la melodia misteriosa dei versi, / E le carezze delle sventate fanciulle, / E le loro lacrime, e il tardo rimorso».
Il suo caleidoscopio è capace di restituire una sequenza di istantanee, di fotogrammi fissati in una luce ombrosa, in cui la figurazione della scena concede, da una parte, il frammento della vita vissuta e, dall’altro, trova, persino, nello splendore cromatico, il legame discontinuo e forte con il vivente e i suoi contrari.
È l’arte dell’Armonia che tiene insieme l’estrema libertà della poesia e della profezia poetica in un universo di impressioni e di quadri esistenziali che uniscono e riportano all’Unità.
Nella sua esperienza mitica ed epica esiste una coralità di elementi, una significazione che scandisce i movimenti in un binomio di luce ed ombre, come accade ne La donna di picche: «Nel fantastico letterario Puškin, come del resto la maggior parte degli scrittori del suo tempo, spiega sempre tutto con delle motivazioni realistiche. Rientra nella tradizione del tempo anche la pazzia finale di German che viene considerata come una specie di liberazione dalla quotidianità, una suprema condizione di libertà, e che costituisce un elemento costante nell’estetica del romanticismo: peraltro, prima di diventare pazzo, l’eroe di Puškin si distingue per una intelligenza fredda, sottile, calcolatrice»13, come afferma lo stesso German, per cui «Il gioco m’interessa fortemente, ma non sono in grado di sacrificare l’indispensabile per la speranza di acquistare il superfluo», e poco dopo il suo autore rivela: «Aveva delle forti passioni e un’immaginazione infuocata; ma la fermezza l’aveva salvato dai soliti errori della gioventù».
Anche l’ultimo capitolo presenta questo binomio di luce umbratile. La realtà trova il suo contrario e tutto si confonde, come la disperazione e la delusione di Liza e la follia di German, appunto. Commenta ancora la Spendel:

La comparsa dello spettro assume una motivazione fantastica e nello stesso tempo realistica perché le carte nominate dalla contessa defunta avrebbero in seguito portato alla vincita. Proprio nel continuo oscillare tra l’elemento fantastico e quello reale, nonché nelle velate osservazioni sulla realtà, si nasconde tutta l’ironia di Puškin. È però attraverso la lapidarietà e la sobrietà della frase che Puškin cerca di costruire quella «lingua metafisica» che sola sa rendere la ricchezza della vita14.

L’io di Puškin vive l’eterna lotta tra il bagliore pulviscolare e l’incanto della libertà, tra la forza opposta del potere e del soggiogamento e il tentativo di inoltrare il suo sguardo alla veduta prospettica del mondo, aperto all’Infinito, ma sempre pronto a un ripiegamento e a un accoglimento: «E sarò caro al popolo perché / nobili sentimenti destai con la mia lira, / ed in crudele secolo la libertà cantai / e chiesi grazia per i caduti. / Al comando di Dio resta docile, Musa, / senza temere offesa né chiedere corona, / indifferente accogli la calunnia e la lode, / e con lo sciocco non contendere».
La trasparenza della sacralità è il tarlo della sua poesia, mistica bellezza, spasmo di terra, fino all’estremità dell’Eterno femminino, unico principio cosmico trascendente15: «Si sono avverati i miei desideri. Il Creatore / Ti ha mandata a me, te, mia Madonna, / immagine purissima del più puro incanto».
Ne Il cavaliere di bronzo, sua opera inedita in vita e perfetta metafora del potere, si assiste alla gigantesca lotta tra l’impiegato Evgenij e il potere dell’imperatore, simboleggiato dalla statua equestre di Pietroburgo, il cavaliere di bronzo. Lo zar sposta la capitale da Mosca a Pietroburgo, costringendo a un lavoro disumano migliaia di uomini e persino gli stessi abitanti a dover fronteggiare, data la confluenza della città con il fiume Nevà, ogni tipo di inondazione. La magnificenza architettonica della città, vista nel proemio, è spazzata via dalla storia che presenta il suo imprevisto. Commenta Gianfranco Lauretano:

In questa lotta la persona, per Puškin, è schiacciata e distrutta. Il romantico e neoclassico, byroniano e shakespeariano Puškin, che si aggrappa poeticamente alle forze dell’individuo e della natura, ha una visione tragica del destino della persona di fronte alla violenta e gigantesca volontà del potere. […] C’è un punto preciso nel poema da cui inizia la disgrazia dell’uomo Evgenij: quello in cui comincia a far progetti, a sistemare il futuro suo e della sua fidanzata. Si noti che è l’unico punto in cui Puskin fa parlare il protagonista e da lì inizia la sua tragedia. Quando la persona è sconfitta? Quando assomiglia al potere. Quando come quello pretende di ingabbiare la vita e di schematizzare il tempo. E nel farlo afferma, come il potere, la sua autosufficienza e autoreferenzialità. La fiducia di Evgenij nelle sue forze e nelle sue capacità viene d’un colpo spazzata via dall’alluvione e lui muore. Il potere lo ha reso presuntuoso e, intrinsecamente, solo di fronte all’imprevisto. Il rapporto che s’instaura tra la statua di bronzo di Pietro il Grande e Evgenij ormai impazzito è gotico e mostruoso, è un non-rapporto tra due solitudini, tra due autoreferenzialità che il mistero degli avvenimenti naturali distrugge. Il potere, secondo Puškin, ci fa fuori facendoci credere capaci di guidare il nostro destino con le nostre forze solitarie e perdenti16.

Puškin attraversa il dominio della Bellezza, sconfinando nel territorio delle Muse. In questa esaltazione e manifestazione suprema dell’Anima del Mondo vibra tutta la sua personale tensione, come vocazione e aspetto mitopoietici.
La cara immagine di Natal’ja Gončarova, moglie e compagna, è il suo tumulto di estasi infrante, rimane la bellezza che sopravvive alla morte, come sacralità franta ma inattaccabile.
La sua imago poetica insegue il sogno profetico e biblico (Il profeta) e la fenomenologia della Bellezza ai termini, la libertà ariosa di una sterminata tensione e l’appartenenza alla gloria patria.
La fenditura della luce non si compone solo di firmamenti di cielo aggrappati ai passaggi, ma è stupore, fiamma, dolore che brucia, coscienza spezzata.
L’introspezione, la memoria, l’infinita riflessione della vanità della vita scandagliano la sua meditazione lieve, come rimpianto e mistero di una particella dolce di tristezza improvvisa: «Attraverso le ondulate nebbie / Traspare la luna, / Sulle tristi radure / Essa versa tristemente la luce. / Sulla strada invernale, noiosa / Corre l’ardita trojka, / Il campanellino dal monotono suono / Echeggia estenuante» oppure in Elegia, che unisce la purezza classica dei rimpianti dei giorni andati alla innata volontà di vivere, amare e compiersi.
Il paesaggio di Puškin conta le sue ore nel paesaggio-Russia, stabilisce un sacro e ineffabile rapporto naturale, si appropria della versatile anima russa e delle sue città (Russia centrale, San Pietroburgo, ma anche Caucaso, Crimea e Georgia) e dipinge l’odore del suo canto misterioso17.
L’inquietudine puškiniana (toska) nasce da un ideale greco, sviluppa il suo spleen (chandra) in un’ottica di perdita e di rimpianto ma mai di annullamento.
La comparsa dello stupore fa largo a un incendio interiore, come se l’affanno, il canto, l’anima umbratile debbano sporgersi e tentare una dolce enclave, che però rimane annebbiata e sperduta come un germoglio, e la stessa armonia, la stessa misura che determinano l’esistenza restano tra sfumatura e delicatezza pittorica, una lingua che disegna, uno schianto nebbioso.
Poi una rotta nuova, più dolorosa, fa attendere il suo presagio naufrago, «Nel canto del postiglione / c’è qualcosa di famigliare: / ora allegria che avvampa, / ora dolore del cuore… / Noia, tristezza…ma domani, Nina, / domani sarò da te, / non smetterò più di guardarti, / vicino al camino dimenticherò tutto», il tempo si consuma così, in un annebbiamento di passi: «Poi la lancetta delle ore / concluderà il suo giro, / e allontanati gli importuni / la mezzanotte ci unirà. / Mesta e gioiosa, Nina, è la via, / il postiglione si è addormentato, / la campanella è una nenia, / il volto della luna s’è annebbiato».
Così come la virtù eroica femminile (Il prigioniero del Caucaso) raggiunge l’acme di una elevazione estrema e senza risparmio, fino al prezzo della vita. Anzi è nel gesto estremo che il suo taglio all’esistenza si fa netto e deciso.
Il dramma eroico di Puškin è un dramma di libertà che si compone in una sorta di placida ambiguità, «tra il libertario (del resto assai moderato) e il nobile russo di antica famiglia, orgoglioso dei successi della patria e della dinastia, sta, forse, il segreto della vita di Puškin, la chiave di molti suoi atteggiamenti, spesso assai contraddittori»18 .
L’Eugenio Onegin, romanzo in versi che lo tiene occupato dal 1824 fino al 1830-31, oltre ad essere una sorta di enciclopedia della vita russa, racchiude l’esperienza vitale del poeta, riassume le sue speranze e disillusioni, compie il suo diario: «Eugenio è un personaggio libero, indipendente anche da Puškin, col quale ha in comune un certo numero di atteggiamenti, di idiosincrasie, di vizi, di ideali. Puskin e Onegin sono figli della stessa epoca, della stessa civiltà, dello stesso gruppo sociale e culturale, la nobiltà colta e il suo modo di vedere se stessi e gli altri ceti. […] Il poema trova la sua espressione più sottile in un equilibrio mirabile fra l’impeto soggettivo e la sua oggettivazione poetica, la sua resa in parole e sillabe, nessuna delle quali gira a vuoto»19. Scrive Venceslao Ivanov:

Il poeta non si limita a tracciare caratteri ed a narrare vite di singoli personaggi sullo sfondo della Russia dipinta su larga scala, col suo popolo immobile e il suo ceto superiore vagamente irrequieto coi suoi paesaggi e costumi, col suo grande e il suo piccolo mondo, colle sue tradizioni gerarchiche e la sua avidità di mode straniere e d’idee occidentali, ma compie qualcosa di più, e cioè rintraccia (il che è un compito riservato al romanzo e realizzabile solo nell’ambito di esso) lo sviluppo dei caratteri, la loro lenta formazione attraverso i successivi avvenimenti interiori e certe crisi d’anima che la trasfigurano20 .

Tat’jana e Onegin vivono il loro flusso delle stagioni, che imprimono nelle cose e negli uomini il loro avvicendarsi, riflettono i conflitti, i sentimenti e la dinamicità dei personaggi.
Eugenio Onegin è un dandy che ha perduto la sua ricchezza, che però ritrova grazie alle fortune ereditate da uno zio. Dovendo vivere per qualche tempo in campagna, conosce il poeta Lenskij, gli diviene amico e questi gli presenta la famiglia dei Larin.
La figlia maggiore dei Larin, Tat’jana si innamora a prima vista di Onegin, al quale scriverà una lettera estrema e infiammata, ma questi inizialmente la rifiuta.
Poco dopo, Lenskij insiste perché il suo amico assista a un ballo per l’onomastico di Tat’jana. Annoiato, Onegin decide di vendicarsi, seducendo Olga, fidanzata di Lenskij che sta al gioco. Sentendosi tradito, il poeta lo sfida a duello il giorno dopo all’alba. Onegin lo uccide ed è costretto a lasciare la città.
Alcuni anni dopo, egli si mette in viaggio e ritorna a Mosca, ritrova Tat’jana, sposata con un principe e immersa nell’alta società. Si rende conto dell’errore commesso prima e del suo rifiuto: ella preferisce restare fedele a suo marito, ma in segreto la meravigliosa fiamma del suo amore è viva.
Il mondo culturale di Pietroburgo21 e Mosca viene rappresentato in tutta la sua fluidità: Onegin è l’emblema straordinario che sfugge alla comprensione del suo tempo, si abbandona al segno dell’angoscia, il suo amico Lenskij evade nell’elegia mistica della sua fantasia, Tat’jana sposa un generale al quale vuole rimanere fedele, in lei Dostoevskij nel suo Discorso su Puškin ne fa il modello delle virtù tradizionali della donna russa, fedele al marito e alla religione e verso la quale il poeta ha una particolare tenerezza, le dona un’aura dolce quasi crepuscolare di sogno, che mantiene la sua ferita non chiusa: «La conclusione di Onegin è l’angoscia, la tristezza e l’irrequietudine, che lo sospingono senza pace, che provocano in lui una serie di fallimenti, a cominciare da quello che costituisce il racconto, il fallimento del suo incontro con Tat’jana» .
Il taglio dell’anima è un solco perduto. Onegin conosce la frattura della noia e il crampo di un desiderio invisibile, come se la consapevolezza di un passaggio maturo sia una lettera di anelito:

Belle siete voi, rive della Tauride, quando vi si vede dal vascello alla luce della mattutina Cipride, come io la prima volta vi scorsi; e voi mi siete apparse come nel fulgore delle nozze; sotto il cielo lucido e azzurro risplendevano le vostre montagne; il ricamo delle valli, degli alberi, dei villaggi si apriva dinanzi a me. E là. Tra le capanne dei Tartari… quale fiamma si risvegliò in me, di quale incantata malinconia si strinse il mio cuore ardente! Ma dimentica il passato, o musa!

Scrive Franco Cordelli:

Evgenij in sostanza è un dandy, anzi un vero e proprio libertino. Non può amare. Si rifiuta. Tatjana è lì, ma lui se ne va. Poi le preferisce Olga, che giudica meno impegnativa. Che può Lenskij se non sfidare a duello quella così irresistibile gioventù, quella travolgente natura che Onegin incarna? Sono le due anime di Puskin. L’anima spavalda di Onegin non può che accettare la sfida e quella piagata dall’ idea dell’ onore di Lenskij, fedele all’ idea suprema, la bellezza, non potrà che cadere sul campo (come sette anni dopo aver finito il poema accadrà a Puskin, che sospettava d’ essere tradito dalla moglie Natalja e dal vanitoso D’ Anthès). Quando Evgenij si deciderà per Tatjana sarà troppo tardi. Le strofe forse più belle del poema sono nell’ ultimo canto: la XXVIII e la XLI, le due metamorfosi di Tatjana – che ancora amando Evgenij, ma ormai sposata, lo rifiuterà. Non c’ è alternativa, ci dice Puskin: la metafora (la metamorfosi), cioè il romanticismo, tormenta; e la lettera, il così prendersi sul serio, cioè il realismo, uccide23 .

La malinconia di Onegin espande la sua cromatura di suono e sentimento («egoista sofferente» lo ha definito Belinskij24), è in definitiva, il crollo della gioventù dopo l’esaltazione napoleonica. Il personaggio qui non coincide con il suo autore, ma presenta tratti simili, un’identità oggettiva, una febbre incurabile, la sottile magia di una speranza che vorrebbe vivere.
La sfrontatezza della sua noia si appropria del disordine, vive nella convulsa confusione di una fisiologia disordinata, potremmo dire, che rappresenta la modernità dell’uomo, la sua inesausta e perenne ricerca di senso.
La poesia di Puškin ricrea la realtà, appartiene all’armonia del mistero del tempo, la segreta libertà che permette l’emersione geometrica25 del magma poetico. Svanito il suo sogno di libertà, la rassegnazione di dover fronteggiare i molti nemici, dal ministro della pubblica istruzione Sergej Semjonovič Uvarov, fino alla società di corte, invidiosa della sua fama e della sua grandezza26, i debiti, gli strozzini, compirono la frattura del sogno di formarsi un riparo stabile: «Per il suo carattere generale, l’ideologia di Puškin si può definire un conservatorismo, che si unisce tuttavia a una tensione forte per uno sviluppo libero della cultura, per un assicurato ordine politico e per l’indipendenza della personalità»27.
Georges D’Anthès, emigrato francese, proclamava di essere innamorato di Natal’ja, la cara moglie del poeta:

una serie agghiacciante di casi, che non hanno nessun rapporto tra loro, eppure formano una catena ferrea di piccoli eventi, di coincidenze, di sentimenti, di abitudini volgari, di scherzi grossolani, di piccole colpe, di furori, di desideri mortali. Questa catena ferrea di dettagli dobbiamo chiamarla Caso o Destino? Quanto a noi, restiamo terrorizzati dal fatto che le vicende, senza che nessuna mano umana le abbia preparate, mostrino un’ intenzione così pervicace e sinistra, come se davvero qualche sovrumana figura in ombra, negli ignoti meccanismi della storia, abbia meticolosamente congegnato la rovina di Puskin28.

Sembrava invaghirsi di una morte estrema, sfidò a duello D’Anthès e il fango delle delazioni e morì, fra dolori atroci per difendere il suo onore nell’ inverno del 1837 29, come una coltre di solchi immutabili ed eterni («O no, la vita non mi ha stancato, io amo vivere, io voglio vivere, l’anima non è divenuta per niente fredda dopo la perdita della giovinezza. Ancora sono in serbo dei miei piaceri per la mia curiosità, per i cari sogni dell’immaginazione, per i sentimenti…per tutto»), come echeggia questa lirica scritta alla vigilia della morte: «Dimentico della selva e della libertà, / Un passero prigioniero sopra di me / becca un chicco e spruzza l’acqua, / E si consola con una viva canzone», conscio che egli non morirà del tutto, la sua lettera sull’acqua consegnerà le sue schegge al futuro immortale e «l’anima nel mio canto / Sopravvivrà alle ceneri scampando al disfacimento / E io avrò gloria finchè sotto la luna / Anche un solo poeta rimarrà».

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1 EDMONDS R., Pushkin: the man and this age, MacMillan, London 1994.

2 CITATI P., Puskin ferito a morte, “La Repubblica”, 4 maggio 1995.

3 PUSKIN A., Opere, a cura di Eridano Bazzarelli, introduzione di Giovanna Spendel, Mondadori, Milano 2012, p.XV.
4 Ibidem, p.XVI.

5 CVETAEVA M., Il mio Puškin, traduzione di Giovanna Ansaldo, Marcos y Marcos, Milano 1985.
6 MIRSKIJ D.P., Storia della letteratura russa, II ed., Garzanti, Milano 1977.

7 BAZZARELLI E., Introduzione…, p.13.

8 SPENDEL G., Introduzione a Poesie, in PUŠKIN A., Opere, p.11.
9 LOTMAN J., Puškin, in: Storia della civiltà letteraria russa (a cura di) M. Colucci e R. Picchio, vol. I, Torino, pp. 403-433. 1997, p.424.

10 KOLEVA I., L’immagine della tempesta di neve nell’opera di Puškin, Gogol’, Blok. Fra tradizione e innovazione, in «LC» Rivista online del Dipartimento di Letterature e culture europee, Università degli studi di Palermo 2009, p.3.
11 ID., cit., p.4.
12 Cfr. BAZZARELLI E., Anacreonte in Russia, in «Acme», 23, 1970. pp. 5-32.

13 SPENDEL G., Introduzione a La dama di picche, in PUŠKIN A., Opere, p.73

14 ID., cit. p.774.
15 Cfr. ANDREEV D., Raccolta delle opere in tre volumi, Moskva 1995.

16 LAURETANO G., Introduzione, in PUŠKIN A, Il cavaliere di bronzo, Raffaelli, Rimini 2003.

17 GREENLEAF M., Pushkin and romantic fashion: fragment, elegy, orient, irony, Stanford University Press, Stanford, California 1994.

18 BAZZARELLI E, Introduzione a Il prigioniero del Caucaso, in Opere, cit., pp. 191-192.
19 ID., Introduzione, in PUŠKIN A., Eugenio Onegin, Rizzoli BUR, Milano 2000, p.20.
20 IVANOV V., Introduzione a Eugenio Oneghin, Bompiani, Milano 1936, pp. 12-13.

21 Cfr. VOLKOV S., San Pietroburgo. Da Pushkin a Brodskij, storia di una capitale culturale, Mondadori, Milano 1998, DEBRECZENY P., Social functions of literature: Alexander Pushkin and Russian culture, Stanford University Press, Stanford 1997.
22 BAZZARELLI E., cit. p.24

23 CORDELLI F., L’amore e i tormenti di Puškin, in “Corriere della Sera”, 4 dicembre 2011.
24 Cfr. BELINSKIJ, V.G., Polnoe Sobranie Sočinenij, tom 7, Moskva 1957.
25 BLAGOJ D. D., Il magistero di Puškin, Mosca 1955.

26 Cfr. VITALE S., Il bottone di Puskin, Adelphi, Milano 1996.
27 SEMJON L.F., Studi su Puškin, Paris 1987, p.47.
28 CITATI P., cit.
29 Il grande poeta Michail Jur’evič Lermontov scrisse questi versi in suo onore: «Il Poeta è morto! – schiavo dell’onore – / è caduto, calunniato, / col piombo nel petto e assetato di vendetta, / ha chinato la testa orgogliosa!… / Non ha sopportato l’anima del Poeta / il disonore delle offese meschine, / contro la società s’alzò / solo come prima… ed è stato ucciso! / Ucciso!… a che serve piangere ora, / intonare inutilmente vacui elogi, / e balbettare patetiche scuse?
Si è compiuta la sentenza del destino! / Forse che per la prima volta avete perseguitato così ferocemente / la sua libera, coraggiosa voce / e per puro divertimento / avete soffiato sul fuoco quasi nascosto? / Ebbene? divertitevi… egli la tortura finale / non poteva sopportarla: / si spense, come una fiaccola, il genio miracoloso, come una ghirlanda appassì». (in LERMONTOV M. J., Liriche e poemi, Adelphi, Milano 2006).

Andrea Galgano
2014

In Frontiera di Pagine, www.polimniaprofessioni.com/rivista/
e Psicoanalisi Neofreudiana, www.ifefromm.it/rivista.php
per gentile concessione della Prof. Maria Ammon, Dap, Berlino

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