Archivi tag: Guido Rutili

2020.03.11 Il pensiero del giorno

di Guido Rutili

11 marzo 2020

leggi in pdf 2020.03.11 MOPP

Il mondo infetto (non infettato, badate bene) ci guarda di sbieco, pronto a colpirci.
Noi umani adulti, per la gran parte involuti, porgiamo la difesa estrema di cui siamo capaci:
torniamo bambini.

Tutti regrediti, ci scansiamo coi lucciconi, ci rivolgiamo al babbo clemente, che sia il capo o il direttore, il professore o il proprietario, ci atteniamo, ci attendiamo, timidi e rossi, indifesi, tremanti.
La fila davanti alla farmacia, le mani spellate dal disinfettante; la mascherina? Forse no, non lo sappiamo.

Quando eravamo in mania, presi dal fremito del carrierismo, finalizzato alla spesa senza filtri della domenica commerciale, serviva realizzare la prospettiva hollywoodiana della pandemia
zombificante, per compiere, da manuale, l’atto masochistico sintomatico.
Dall’inconscio collettivo giungeva un messaggio chiaro: “tornate a credere in me, invece di reificarvi in bozzoli illusori” ma non lo ascoltavamo difendendoci, razionalizzando e nascondendo,
rimuovendo e negando: “la psiche è una sciocca trovata novecentesca, facciamo finta che sia l’antagonista del pensiero scientifico e lasciamo alla pellicola la traccia intuìta!”

Però, qui ed ora, se torniamo tutti piccoli, disconfermare Freud diventa fastidiosamente difficile.
Dire che Jung o Toni Wolff, che parlavano di scienza collocandola su un punto qualsiasi dell’asse natura-cultura, erano sciocchi visionari, sembra eretico.

La psiche, cioè pensiero e non-pensiero (chiamarli conscio e inconscio mi pare ancora potenzialmente traumatico), torna alla ribalta e ci dice che la carne è una parte, ma solo una.

Presi dalla regalità del nuovo, nessuno ha dato nome al vecchio morbo appena descritto, perché al microscopio non si vede; voglio darglielo adesso io, “Mania Ossessivo-Paranoidea dell’atto Pratico”, MOPP.

Non mi interessa indugiare sul fatto che il MOPP abbia trovato terreno fertile in categorie di individui specifiche, con netta prevalenza nella fascia d’età che va dai 14 ai 60 anni circa; magari su
questo potremmo discutere in separata sede.

Vorrei invece focalizzare sulle categorie immuni da MOPP, scremando i bambini e i ragazzi, che pur non presentando sintomi, sono divenuti portatori sani.

Rimane una sola opzione.

Riflettiamo su una cosa: dell’umanità, ora confusa e manipolata da sé stessa, fa parte (e rimane in disparte) una categoria illustre, insignita e meritoria del più alto grado possibile: gli anziani.

Eroi, nemici della superficialità, pochi detentori dei valori non ancora liquefatti, lenti, sapienti, ricolmi di vita, ricchi, preziosi, scuotitori compulsivi di testa nel guardare l’operato dei nuovi arrivati.

Anziani.

Gli artefici più inoperanti.

L’immagine presente del futuro auspicabile.

Nelle culture ancestrali una barba bianca ha sempre destato rispetto ed è sempre stata capace di indurre la calma-consapevolezza, qualità ben nota ai seguaci taoisti. Il grembo della grande
vecchia è sempre stata la sede per la più grande elaborazione, figlia dell’abbandono conferito e necessario: non possiamo aver perso del tutto il significato più intimo di “rispetto”.

Il MOPP, all’acme della sua corsa, pochi mesi fa ha eseguito ciò che l’assioma di natura gli imponeva, cioè ha mutato per adattarsi: se qualcosa lo separava dal dominio totale, ha pensato di eliminarlo.

Rieccoci al Covid, al suo tocco mortifero sugli over 60, alla possibilità d’intervento che ci è data.

Sono forti, i grandi vecchi, hanno dalla loro la pratica della non-azione, ma non sono indistruttibili: se ci risvegliamo presto, possiamo aiutarli e subito dopo ritrovarli nella loro splendente totalità.

Non è solo per loro che va fatto, ma per ciò che rappresentano: la chiave!

Dato che la svista del MOPP, non contemplata dalla sua mutazione, è l’induzione nella regressione allo stato infantile, sfruttiamo questo mezzo e rivolgiamoci ai nostri nonni (non fisicamente, per
l’amor di Dio: che gli abbracci vengano tenuti per il futuro!).

Tra le altre cose, loro l’inconscio non l’hanno mai perduto: l’hanno conservato per noi nelle soffitte che ci meravigliano, piene di magnifiche cianfrusaglie ed oggetti sublimi, nell’attesa che
avessimo l’età per prendere la scala e raggiungerle. Non tentennano se chiamati all’atto d’amore, poiché ne comprendono l’abissale essenza.

La vita apocalittica di questi giorni, per chi alla carne bada decisamente poco (poiché ne percepirebbe meglio gli acciacchi) vede questi illustri esseri umani come presenze fantasmatiche: i
più, come ogni maestro di vita, si sentono in colpa per inadempienza. Niente nipoti, niente fatiche per i figli, niente possibilità di elargire borse traboccanti di cibo e di beni necessari a inverni che
per quanto infiniti verrebbero sconfitti.

Che un elogio dell’anzianità, capace di diventare auspicio di ritrovata profondità psicologica per ognuno di noi, ci pervada come un fluido e ci renda capaci di prendere, a questo bivio, la strada giusta

Un litro e un pugno d’equilibrio artistico

di Guido Rutili 6 novembre  2019

leggi in pdf Un litro e un pugno d’equilibrio artistico

Certe opere richiedono uno studio attento, di altre basta conoscere titolo e autore, di alcune ci interessa l’ultimo dei riferimenti bibliografici; appunti e sintesi sostituiscono le più inflazionate, poi ci sono quelle che leggiamo in atteggiamento volutamente sognante, gli articoli e i quaderni, poesie d’avanguardia e sonetti classici, montagne di volumi, rilegature e fogli, raccolte lecite e segreti dossiers.

Librerie accessibili a chiunque e inaccessibili ai non autorizzati, ovunque si desideri, a patto che niente esca dalla nostra vita.

Il testo che non sfugge all’esistenza di un uomo sempre ci sarà (folle l’esistenza che rifugge il testo), e chi riesce a creare librerie universali nel proprio passaggio in questo mondo, fa parte degli argonauti della collettività, di coloro che scrivono nel genoma e arricchiscono il patrimonio universale della specie. Perché ciò si realizzi serve però la capacità di raccogliere un impulso, l’unica ed ultima concessione degli dei agli uomini caduti, ovvero la creatività, nell’altisonanza del termine, che la configura come capacità di
ricostruire la forma, a prescindere dai pezzi, ovunque si trovino sparsi.

Leonardo Rocco Antonio Maria Sinisgalli, polimorfo come un nome che lo proietta nel multiverso dello scibile compreso, duttile come il maestro Leon Battista Alberti che inaugura la prima pagina del Furor
Mathematicus, ineluttabile come la coppa disegnata da Lucantonio degli Uberti che fregia l’ultimo foglio del libro, c’insegna a essere in ogni opera letta, in ogni esperienza acquisita, in ogni algoritmo della mente e nel fulmineo flusso inconscio.

Senza sentire il tempo, simultaneamente.

Un evento quantico, come suggerirebbe quel Carlo Rovelli che ritrova il “Furor” nel proprio “Ordine del tempo”, che ci giunge alleviando l’onere di contare i minuti, troppo spesso pesanti nella legislazione della vita; per Sinisgalli l’ordine s’intesse sull’armonia, non sull’ascissa conologica.

In quel vuoto cartesiano, di cui non si sente alcuna mancanza, le coordinate sono paradossalmente ben identificate: l’autore vive in coerenza con ciò che scrive, per questo l’insalata scientifico-umanistica che propone ha un sapore indimenticabile, è una creazione da grande chef.

Sinisgalli sogna matematica e fisica all’Università, intanto pubblica poesie e s’intende d’azienda, salvo poi laurearsi in ingegneria meccanica col progetto di un motore per aeroplano leggero: quella ghisa che leggiadra prende il volo – cosa che a raccontarla farebbe ridere – nel contesto non ci scompone, anzi desta interesse, appare umile e realizzabile.

E qui si compie l’opera unificatrice nucleare di questo artista, capace di tramandare la geometria senza mai
chiamarne in causa le formule:

“L’inverno ci stringe d’assedio nella nostra solitudine. Il corpo è aspro e pulito: l’aria di certi giorni tersa più della falce. Nelle nostre stanze il fuoco ha questo crepitìo continuo, questo attizzarsi, questo mangiarsi il proprio cuore insaziabilmente. Quando eravamo ragazzi ci bastava, per scaldarci, un pezzo di brace raccolto nel cavo delle mani: vi soffiavamo fino a consumarlo col nostro fiato. […] Ci eravamo fatti del mondo l’immagine di un corpo duro che d’inverno ritrovava la sua rigida compattezza, il suo estremo di solidificazione sonora, contro cui la mazza batteva i suoi colpi e si alzavano ripe di sostegno alle frane, si scavavano mine nella roccia”.

Ogni interfaccia col cavo di quella mano rende il solido vivo al punto di ricollegarsi al corpo duro e compatto che può forgiare, non in una sterile danza di riga e squadra, ma nella pulsante cadenza dell’azione senziente e sognante, di chi le due cose sa intrecciarle bene: ecco che la geometria s’imprime come un lampo, per non decadere più.

L’autore lo sa, perciò conclude con un’affermazione tranciante:
“Nessuno ormai dubita dello stimolo che venne a Cartesio dal calore acido della stufa quando, in quel lontanissimo inverno, stendeva le prime miracolose pagine del Discorso”.

Mentre il saggio ci degna della propria presenza osmotica, il precettore sorveglia prestazioni in divenire, il santo frammenta intorno a noi parole infuse ed il maestro c’invita ad osservare l’orma dei propri passi, la figura che nel Furor Mathematicus riveste l’autore è quella del comandante solitario, le cui Moby Dick stanno dietro l’interesse che nutre per ogni flutto. Egli tramanda il fenomeno della curiosità causale senza ulteriore intento di renderci suo equipaggio, volendo leggere a chi ascolta un diario di bordo, suo unico e gradito compagno.

Certo che c’illumina, quando parla dell’attrito come “perdita con cui la natura si ripaga”, come contromisura per fare “di ogni fenomeno un avvenimento sigolare” che ci “toglie qualunque illusione di
perpetuità” e che incarna quel “residuo che dà l’avvertimento più certo della presenza della materia come degradazione, chiusura, ripetizione”. Non potrebbe essere altrimenti, poiché la sua freccia centra l’essenziale con una grazia inattesa, che deve sconvolgere, pena la rilettura coatta finché questo risultato non si verifichi.

Leonardo (solo il nome, nomen omen, di lui che come l’omonimo da Vinci fregia la copertina e poi la firma) soddisfa il limite di ogni ingegnere, raccontandogli finalmente come il giunto cardanico sia la geniale trasposizione in meccanica dell’opera organica compiuta da Dio, ma al contempo meraviglia il poeta, che si nutre affascinato non del concetto sotteso alle parole ma della permeanza dell’intelletto gravido d’eros con cui viene esposto.

Grazie a questa sua mirabile capacità non indispettisce, pur passando di lì al poco al “carciofo alla romana”, nella sfumatura con la quale esso s’innesta nel modello matematico di resa delle superfici complesse: in quel dialoghetto riportato i suoi eminenti interlocutori glissano ma il lettore no, e sorride compiaciuto al prodotto della mente che è passata oltre il calcolo differenziale, non senza averlo prima ben compreso. Se d’insegnamenti dobbiamo parlare quest’ultimo elemento mi è d’aiuto: raramente un testo sorprende per la ricchezza delle conoscenze che lo generano. Spesso un’opera di saggistica indugia in settori tecnici, come invece un bel romanzo parla del piacevole nulla, ma quasi mai si riesce ad odorare il nous generativo dell’opera, con la stessa attitudine che ci restituisce il profumo inconfondibile di casa.

Il Furor Mathematicus non viene mai meno, non delude né abitua anzi, in modo attento impedisce alla “mania di comprensione” di esplodere ed alla “frustrazione di non sapere” di sopraggiungere, in ritmo serrato e cadenzato: chiuderlo prima d’averlo reso inconsciamente proprio, è del tutto impossibile.

È un evento, come ho già detto.

Neanche il cambio psicoide, o solo futurista, del colore degl’intermezzi o la frammentazione dei pensieri randomici, cambiano il magnetismo della seduzione sinisgalliana.

Sono dapprima dialoghi, il cui carattere surreale presto diviene frugale e corroborante come un pasto domenicale, poi discorsi in prosa o aforismi della sera, versetti senza metrica che però s’incollano, in terribile risonanza, a qualcosa di ideico e già noto.

L’intermezzo tra i fogli grigi sorprende, e lo fa con la lama del ricordo; l’autore, quello della memoria che “s’intorbida quando la interroghiamo in un modo brusco o inatteso”, evidentemente sa contemplare immagini senza togliere loro il tempo di rinvenire nella forma.

È un ricordo consapevolmente illusorio e mai idealizzato, dove all’improvviso sorge la struttura dell’anatomia della mente, resa con capacità ritrovata e trasversale, degna di un vecchio professore in medicina che, abbandonata l’aula consueta dei bramosi, decide di dedicarsi ai poveri e i passanti di “là fuori”.

In qualche momento al lettore prende un tremito: qui c’è l’Albero di Porfirio! Gli occhi indugiano senza desiderare, è un meraviglioso viaggio quello in cui ci porta il “Furor”: nessuno vuole più scendere!

Sinisgalli è l’equilibrista che, calcolato il baricentro, s’accorge di camminare sul filo impossibile delle chimere della mente, che in piedi nel mondo non potrebbe stare, eppure da solo “tiene” il peso e la sostanza.

Insomma gli alchimisti non sono scomparsi, neanche nella contemporanea fuga da ogni cosa delle società, ormai apparentemente liquide e segretamente stremate dalle crociate contro i propri fantasmi: prova ne sono ancora i testi, non digitali frutti dell’albero “in cloud”, ma vecchie pagine che vogliamo ancora di colore diverso, perché diverse siano nel contributo alle nostre anime per sempre antiche.

Chiudere un libro, farlo con un ringraziamento nello scoprire che abbiamo nuovi occhiali per vedere ogni cosa, è un complimento per pochi pionieri di ogni futuro, senza che il calcolo delle probabilità che ne sancisce la mutevolezza spaventi più di tanto; ora quel libro chiuso è un’opera d’arte, che un uomo eccezionale ha reso patrimonio comune.

Leonardo Sinisgalli, Furor Mathematicus, a cura di Gian Italo Bischi, Mondadori, Milano 2019.

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato anche su “Roma – Cronache Lucane”, 6 novembre 2019

Un litro e un pugno d’equilibrio artistico, Roma Cronache Lucane, 6 novembre 2019

Rivoluzioni frommiane #4

di Guido Rutili 9 giugno 2019

PARTE QUARTA

leggi in pdf RIVOLUZIONI 4 

“Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche sé stesso; se può amare

solo gli altri, non può amare completamente.

Se l’amore per sé stessi non è disgiunto dall’amore per gli altri come ci spieghiamo l’egoismo, che ovviamente esclude qualsiasi interesse genuino per altri?

L’egoista s’interessa solo di sé stesso, vuole tutto per sé, non prova gioia nel dare ma solo nel ricevere. Vede il mondo esterno solo dal punto di vista di ciò che può ricavarne; non ha interesse per i bisogni degli altri, né rispetto per la loro dignità e integrità. Non riesce a vedere altro che sé stesso; giudica tutto e tutti dall’utilità che gliene deriva; è fondamentalmente incapace d’amare.

Questo non prova che l’interesse per gli altri e l’interesse per sé stessi sono alternative inevitabili?

Sarebbe così se l’egoismo e l’amore per sé stessi fossero la stessa cosa. Ma questa convinzione è l’errore che ha suscitato tante conclusioni errate riguardo il nostro problema.

Egoismo e amore per sé stessi, anziché essere uguali, sono opposti”[1].

Archimede, con una leva fisica, prometteva di sollevare un mondo particolarmente retrogrado rispetto alla propria capacità inventiva.

Erich Fromm, 1700 anni più tardi, costruiva una leva diversa, sociale, che avrebbe sollevato non solo il suo ma molti altri mondi a venire; negli anni ’60 del secolo scorso ridefinì l’amore per sé stessi.

Un’alternativa e non un sinonimo di egoismo, qualcosa di sovrapponibile all’amore per gli altri: principio fatto di una sostanza biofila capace di portarlo all’interno dell’individuo e veicolarlo verso gli altri con la medesima, sana, modalità propulsiva.

Una forma erotica produttiva che, al tempo in cui veniva pubblicato “L’Arte di Amare”, pareva presentare lacune importanti dovute a fattori sociali ed ambientali che rendevano difficile l’espressione lineare di una tendenza altruistica.

C’era forte necessità di rivendicare o rafforzare diritti umani a malapena sopravvissuti all’organizzazione precedente, belligerante, ormai superata.

L’individualità (intesa come attributo della persona, dello stato etc.), in un contesto in cui il mutuo aiuto era stato per duri anni rimpiazzato dall’aridità dell’affermazione individuale, aveva preso le sembianze di un’istanza potenzialmente pericolosa.

Ecco che l’egoista diveniva lo stereotipo del distruttore, dell’aggressore, di colui che cresceva nutrendosi dei frammenti di nemici onnipresenti, anche fantasmatici, anche ingiustamente investiti di questo ruolo.

Nel turbine di un tale stato reattivo, non c’era terreno che consentisse il fiorire di un amor proprio virtuoso, privo di effetti collaterali.

La consapevolezza che per dare in modo significativo è prima necessario essere, e che un’autenticità dell’essere presuppone la coscienza della centralità del Sé, non riusciva ad attecchire.

Eppure un Sé pienamente espressivo, capace di armonizzarsi alla comunità, abile ad erogare verso l’esterno in termini energeticamente positivi, non può esercitare nessuna funzione senza la contemplazione del proprio, solido centro.

Oggi le condizioni al contorno non sono le stesse: i valori conquistati e radicati dalle generazioni precedenti tremano sotto il peso di una coscienza collettiva annoiata, che li dà per scontati.

Non c’è belligeranza manifesta, ma solo aggressività velata.

Non si corrono pericoli e l’unica cosa che fa provare un brivido alle masse è l’horror vacui da assenza di saggi da seguire e nemici da debellare.

L’egoismo contemporaneo ha le spoglie del narcisismo maligno; non dunque quello che nutre il nucleo pulsante del singolo per permetterne la crescita, ma quello “fine a sé stesso”, che svaluta e appiattisce tutto ciò che lo circonda, al solo scopo di rivalutare la propria, neutra planarità.

Se l’egoismo di Fromm confliggeva con l’amore per sé stessi, l’odierno narcisismo cozza con l’individuazione dell’Io, aggravando la profondità del problema.

L’Io senza una casa non è più capace di amare, né in modo centrifugo né in modo centripeto, può solo illudersi di farlo, fraintendendo l’amore con una spinta di diversa origine.

La curiosa manifestazione sintomatica consiste nell’attribuzione di colpa verso un fantomatico neo-egoista dai tratti troppo tenui per godere del beneficio della rendicontazione verso la società.

La figura in luce, quella a lui contrapposta, è altresì l’enfatico promotore di un’affettività marcatissima, visibile anche ai miopi.

Ecco che torna il testo del maestro Fromm, che spiega bene questo neo-altruista nella metafora della “madre troppo premurosa”: “Mentre lei crede di essere particolarmente attaccata al suo bambino, in realtà ha una profonda, repressa ostilità per l’oggetto del proprio interesse.

È eccessivamente premurosa, non perché ami troppo il proprio figlio, ma perché deve compensare la sua incapacità d’amarlo[2].

Eccoci al punto.

Il problema non è più discernere tra egoismo e amore per sé stessi ma riuscire a salvare l’amore per sé stessi (fonte d’altruismo sano) dal falso altruismo (lampante ma caustico divoratore d’eros relazionale).

L’etero-tendenza spuria è infatti il fattore sociale dell’eccessiva (ma inautentica) preoccupazione per il bene di chi ci pare dipendente o richiedente: figlio adottivo di una collettività purtroppo incapace di concedersi eros ego-diretto.

Cogliendo la metafora della madre troppo premurosa, scoviamo così l’ombra motrice dell’accoglienza cieca: puro odio per il prossimo.

Abbiamo il vecchio problema del Super-Io inflativo, che taccia d’egotismo ogni faticoso moto auto-centrante, senza considerare il paradosso sotteso ad ogni intervento di castrazione: la rivoluzione del bene nel male e viceversa.

D’altra parte in psicoanalisi ogni atto positivo eccessivamente palesato è campanello d’allarme, poiché tende a cercare l’assoluto nel buono, esperienza soggettiva per eccellenza.

L’atto compiuto correttamente rende l’agente soddisfatto, la necessità di rimarcare il proprio operato lascia invece trasparire l’insoddisfazione strisciante e dolorosa di chi non ha tratto alcun piacere dalle proprie condotte.

La tendenza altruistica di oggi fa esplodere fragorosamente all’esterno un vuoto interiore incolmabile, nella falsa illusione che possa essere il fragore del botto a creare sostanza.

“L’egoista non ama troppo sé stesso, ma troppo poco; in realtà odia sé stesso. Questa mancanza di amore per sé, che è solo un’espressione di mancanza di produttività, lo lascia vuoto e frustrato.  È solo un essere infelice e ansioso di trarre dalla vita le soddisfazioni che impedisce a sé stesso di raggiungere.  Sembra interessarsi troppo di sé, ma in realtà non fa che un inutile tentativo di compensare la mancanza di amore per sé.  […] È più facile capire l’egoismo se lo si paragona ad un morboso interesse per gli altri”[3].

Si torna alla madre che enfatizza moti d’amore e cela l’odio, scambiando in definitiva l’autentico col falso.

L’obiettivo è morboso, come dice il sociologo tedesco, e porta ad un aggressivo interesse per l’altrui mondo, deformato dall’inflazione di elementi che non aveva e -probabilmente- neanche voleva.

Non c’è nulla di catartico, solo prodotti di scarto.

Quale tra tutti?

Frustrazione.

è sorpresa scoprire che (l’individuo), ad onta del proprio altruismo, è assai infelice e che i suoi rapporti con coloro che lo circondano non l’appagano[4]

La frustrazione è il primo stato psicologico a dominare il singolo e le masse che non nutrono il proprio nucleo narcisistico primario, secondo una sana ricetta a base di amore autentico per sé stessi.

Tale elemento, centralmente radicato nella struttura di personalità, è il sale della vita biologica, tanto da essere innato, bio-innestato.

È il successore della scossa coatta che porta lo spermatozoo a dimenarsi in modo tale da andare in una direzione ed un verso: dritto, avanti.

È il pronipote della forza che muove il primo respiro e il vagito liberatorio.

È la fame, la sete, la ricerca evolutiva.

Possiamo pensare che certi fattori, favorevoli alla vita, possano essere efficaci se presenti soltanto nel prossimo contestuale e non in noi?

No, assolutamente!

Ecco che compaiono dunque i casi particolarissimi di cui ci stiamo occupando: al “buon egoismo”, sfiorando l’ossimoro, accostiamo il “buon altruismo”, che si ottiene in primis dalla negazione dei luoghi comuni, passando dall’amore per sé stessi.

Oggi è un amore per sé stessi delicatamente ricodificato nei meandri di qualcosa di antico e primitivo, concesso dagli dei all’uomo per la virtù d’essere sceso dal paradiso terreste: la libertà di elargire amore, purché continui ad esistere, senza badare al luogo in cui lo si ripone, poiché più lo si usa, più si è capaci di generarne.

Come il Meister Eckhart citato nell’Arte di amare, siamo quindi capaci di affermare che “Se ami te stesso, ami gli altri come te stesso. Finché amerai un’altra persona meno di te stesso, non riuscirai mai ad amare te stesso, ma se ami tutti nello stesso modo, compreso te stesso, li amerai come una persona e quella persona è sia Dio sia l’uomo.

È grande e giusto chi, amando sé stesso, ama in egual modo il suo prossimo.”[5]

 

[1] Erich Fromm, L’arte di amare

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Ibidem

[5] Ibidem

 

LEGGI LE TRE SEZIONI PRECEDENTI

Rivoluzioni frommiane #3

 

Rivoluzioni frommiane

 

Rivoluzioni frommiane #3

di Guido Rutili 30 settembre 2018

PARTE TERZA

leggi in pdf Rivoluzioni frommiane #3 

Il tema di padre e madre è estremamente attuale e  si configura come argomento centrale nell’ambito della letteratura a carattere psicologico.

Anche troppo.

Difficilmente se ne esce e difficilmente se ne fa a meno: è un argomento che non tollera imprecisioni, oppure diventa commerciale, banale, inflazionato.

Nel momento socio-antropologico dei valori che vacillano, della liquidità relazionale e della labilità dell’elemento che vorremmo a tutti i costi stabile, è cosa normale che s’ingeneri la spinta verso la riscoperta dei principi interni di genere, nella speranza che divengano segnali portanti di un’auspicabile restaurazione della personalità.

Quello sulla personalità (ed i relativi disturbi, di conseguenza) è un dibattito vivo, poiché tratta dell’elemento maggiormente responsivo quando si parla di intensi mutamenti ambientali.

In poche righe, cercando di visualizzare la struttura dell’ente espressivo dell’individuo, potremmo schematizzarlo come un insieme di oggetti autonomi e connessi tra loro; oggetti che potremmo definire “caratterizzanti”, ovvero portatori e promotori d’indoli diverse, la cui assonanza sinergica determina infine la gestalt della fisionomia individuale del Sé.
Viene da sé che padre e madre interni, nello schematismo appena proposto, occupino il ruolo dei sovrintendenti del gioco delle parti: essi dispongono, richiamano, stabiliscono le quote dei contributi, avvertono il sintomo, forniscono l’imprinting alla figura d’insieme.

Sulla base di tali premesse, una risposta alla trasformazione continua dei fattori al contorno basata sul rafforzamento della matrice nucleare interiore, diviene lecita: il lavoro sulla personalità è la contromisura efficace e l’investimento più coerente con il trend ambientale dell’epoca contemporanea.

Anche in questo caso, leggere tra le righe dell’Arte di amare ci fa compiere la rivoluzione a cui Fromm ci ha abituato, attraverso la quale uscire finalmente dal coro.
Padre e madre compaiono in forma inedita: pur ricontattando la propria connotazione originale, variano la “staticità dirigenziale” che li connota e maturano sulla base di una legge di moto che li arricchisce di un’insolita energia cinetico-evolutiva.

Insieme con la nostra consueta “lettura degli spazi vuoti” dell’opera frommiana, cresce l’universo delle riflessioni possibili e degli insegnamenti da cogliere.

Nel passaggio in rassegna dell’ente paterno e materno, lo psicoterapeuta tedesco conduce ad un’arte nell’arte: quella dell’esercizio genitoriale.

“l’atteggiamento materno e quello paterno corrispondono ai bisogni propri del bambino” [1]

Dentro la dimensione nella quale ci proietta il rapido estratto, l’atteggiamento si spoglia della veste del marginale e calza quella più centrale di “terreno di coltura psico-catalitico”.
Crolla l’assioma secondo il quale all’individuo appena venuto al mondo servano il padre e la madre in quanto esseri materici fisicamente prossimi e si rende necessario estrapolarne l’attitudine, per renderla (prima d’altro) oggetto d’attaccamento e di formazione.
I principi di genere emergono con forza proprio perché epurati dalla corporeità, quindi già pronti alla fruizione interna come elementi edificanti la fisionomia dei nuovi signori del Sé.

Ciò risulta rivoluzionario, non tanto perché nuovo rispetto alla teoria psicologico – scientifica, nata con enfasi freudiana sull’evento percepito ancor prima che esperito (non dimentichiamo la teoria sul trauma) o cresciuta sulla metafora di seni idealizzanti del tutto privi di materia, quanto poiché monito alla prassi razionale atavica che porta i genitori a fare la propria comparsa nella dimensione tangibile, nella veste di vello accogliente sul quale aggrapparsi, serrando la presa.

La prospettiva etologica a cui l’immagine riporta, dà indizi che avvicinano all’intuizione frommiana: l’atteggiamento del genitore è ciò che si riflette sul figlio, stimolandone la metamorfosi verso l’essere “individuato”.
Non a caso l’erede del predatore cede all’istinto (o mandato?) “predatorio” e quello della preda realizza l’attitudine alla fuga, usando il materiale genitoriale non come elemento condizionante ma come “attivatore” di una personalità probabilmente costellata a priori (seppure in potenza) da fattori biologici.

La disquisizione sull’influenza dell’atteggiamento del genitore sul piccolo, solleva una questione di importanza crescente: quali sono le modalità per ottenere la sua libera espressione, alla riscoperta di una specifica quota dell’Io che assolve la funzione desiderante?

Tornando all’osservazione diretta del regno animale, che in definitiva significa demolire le pesanti sovrastrutture psicologiche progredite, non possiamo non accorgerci di quanto il desiderio abbia una doppia valenza: da una parte di connettersi al centro pulsionale del genitore e gestirne la pressione interna e dall’altra di riconoscere l’istinto biologico del piccolo. Il tutto si risolve in una sinergia virtuosa, evolutiva per eccellenza.

Non c’è leone che contemplerebbe di privarsi dell’attrazione per la caccia, in nome di un presunto beneficio a carico dei suoi cuccioli; questo ancora prima di considerare che se lo facesse,  morirebbero di fame!
Ciò insegna che se il flusso pulsionale genitoriale è naturalmente espresso in una forma plausibile, si finisce per agevolare (e non per ostacolare) l’individuazione della prole.

Nella dimensione umana, assai più complessa, probabilmente non si assiste ad un collegamento altrettanto lineare ma il dilemma sulla rinuncia del genitore assume forme inaspettate.

Ciò che può apparire potenzialmente dannoso per i figli, non fa che compromettere l’attivazione di alcuni elementi tipici nella personalità di quei discendenti, falsamente tutelati da elucubrazioni che trovano appoggio più nel giudizio morale e nell’aberrazione socio-culturale che nell’assioma di natura.

Un ipotetico oppositore di questa teoria, potrebbe avvalersi della clausola teorica psicoanalitica di base, magari estrapolata dal preciso contesto di appartenenza, chiamando in causa sguardi sbagliati, seni buoni e cattivi, bontà insufficienti, desideri incestuosi, che nella storia hanno corso il rischio di sminuire l’Io desiderante del genitore, promuovendone aspetti per nulla autentici.

È importante allora che venga enfatizzato un concetto: desiderio e privazione non sono le due facce della stessa medaglia. Un desiderio autentico rappresenta la modalità espressiva estrovertita per antonomasia, l’intuito “portato a terra”, la comprensione della propria natura e, a mezzo di questa, della natura collettiva.

 

Se vogliamo essere degni depositari del fuoco di Prometeo, dovremo divenire consapevoli di quanto l’attitudine, forgiata in primis dall’Io desiderante, sia il fertilizzante delle vite in divenire, possibile vettore di crescita.

Il genitore desiderante è la radice del figlio capace di compiere una sana individuazione. Fromm, senza fare esplicitamente questa premessa, continua dicendo che “la persona matura è arrivata al punto in cui è madre e padre di sé stessa”[2].

Questo riporta alle considerazioni effettuate nella parte iniziale: individuarsi è costellare il Sé sotto l’egida delle istanze materna e paterna che siamo riusciti a radicare al centro della personalità.

L’individuo, per avere la possibilità di compiere un simile radicamento, deve avere gestito ed ancor prima elaborato certe forze; solo dopo può avere inizio l’esercizio della funzione integrata, la cui fisionomia è finemente rappresentata da lineamenti mutuati dall’azione sul materiale presente a priori da parte degli antichi atteggiamenti esperiti.

A valle di certe considerazioni emerge nuovamente un grande coraggio nel pensiero frommiano: sterilizzare senza divagazioni due figure di riferimento come padre e madre, di cui non è contemplata l’esistenza narcisistica idealizzante, bensì l’equazione di condotta, paradossalmente formulata sull’inedito asse desiderio – virtù.

L’audace passaggio, oltre ad equilibrare le posizioni reciproche tra genitori e figli come esseri umani anziché pedine gerarchicamente disposte da retrogradi principi moralizzanti, definisce un modello fisio-psicologico “buono” di attaccamento: distanza ed esempio fuori, integrazione e presenza dentro, all’insegna di un’azione integrante della personalità in formazione e non portatrice di repliche proiettive disarmonizzanti.

Un vero e proprio esorcismo del complesso di generazione che riconduce sempre ed irrimediabilmente alle figure genitoriali: un assioma secondo il quale la presunzione di creare sfocia nel narcisismo di ritorno, apparentemente maturo come ineluttabilmente regressivo.

Che si voglia o no, Fromm mette i primi parenti in panchina e cala la scure sulla loro importanza: l’arte è quella di amare, per amare bisogna essere trasportati (senza deroga, per i greci) e per essere trasportati serve un veicolo. Non c’è spazio per figure pesantissime che rallenterebbero la corsa coatta e magnifica verso l’oggetto pulsionalmente ricercato. Soprattutto non c’è spazio “autocelebrativo” al quale padre e madre reali possano fare riferimento per giustificare la propria rinuncia ed il proprio desiderio vittimistico.

Rieccoci al punto iniziale: il veicolo è il motivo per cui Fromm dona ai genitori interni una legge di moto del tutto coerente con i principi della dinamica, sull’onda del terzo enunciato di Newton, quello di azione e reazione, per il quale l’impulso (etimologicamente “spinta”), è la forza capace, anche in tempi minimi, di generare grandi variazioni nella quantità di moto.

Padre e madre corporei sono elementi statici per la dinamica psichica del loro prodotto, eppure il loro atteggiamento è impulso puro, volto ad evitare alla nuova vita complessa una “partenza da fermi”.

Tanto ci viene detto in poche, essenziali parole: un doppio preludio, all’arte di esercitare la genitorialità ed all’arte della controparte di compierla come funzione interna portante, tutto sotto il comun denominatore costituito da un concetto di amore pieno, multiforme, completo.

[1]  Erich Fromm, L’arte di amare

[2] Erich Fromm, L’arte di amare

LEGGI LE DUE SEZIONI PRECEDENTI

Rivoluzioni frommiane

Rivoluzioni frommiane

di Guido Rutili 8 maggio 2018

PARTE PRIMA

leggi in pdf Rivoluzioni frommiane

Erich Fromm evidenzia una dimensione dell’amore che fa riflettere:

la responsabilità, nel vero senso della parola, è un atto strettamente volontario; è la mia risposta al bisogno, espresso o inespresso, di un altro essere umano.

Essere “responsabile” significa essere pronti e capaci di “rispondere”. […] Come Caino, domandare: -Sono il custode di mio fratello?-. La persona che ama risponde. La vita di suo fratello non è solo affare di suo fratello, ma suo. Si sente responsabile dei suoi simili così come si sente responsabile di sé stesso[1]

Il miracolo che l’autore compie nell’Arte di amare non è solo quello di celebrare l’amore, non solo quello di elevarlo a insegnamento e contemplarne la composizione sminuzzandone il principio-guida in tanti sub-elementi costituenti; non si limita neanche ad effettuare una semplice riformulazione del concetto di “responsabilità”.

Egli opera sottilmente nell’inversione di polarità.

La responsabilità, da elemento occludente e passivo che era, diviene innesco attivo ed apre inediti scenari.

Da baluardo del Super-ego aggressivo e onnipresente, prende i connotati di costituente redentore dell’istanza castrante per antonomasia.

Eppure, dice Fromm, si tratta di punti di vista.

Siamo alle solite, si torna alla storia di Saturno e Urano.

Non ci fermiamo, però alla prima lettura del mito, nella quale l’immagine feroce è del Titano che evira il genitore.

Procediamo alla seconda, la terza, la quarta, fino a fare onore al bacino di ricchezza che solo certe scritture riescono a rappresentare: una sorgente perpetua e sacra, che non genera solo acqua ma ogni sorta di manna nutritiva.

Nell’altra lettura, Saturno lo libera di qualcosa; prima di tutto da un’aggressività tanto spiccata da indurlo a dare in pasto i propri figli e confinarli (in preda alla nevrosi di controllo) nel Tartaro viscerale della moglie.

L’atto del taglio non è solo menomazione del padre. È affrancamento, nella sterilità, da un altrettanto sterile complesso di dominio eterno.

Con l’evirazione, atto dinamico, ha fine anche l’obbligo di generare lignaggi, che quasi è un paradosso.

Fromm voleva che notassimo questo tipo di sfumatura.

Il sovvertimento del punto di vista, il vero “mezzo pieno” che costituisce il nucleo stesso del pensiero produttivo.

In un’ottica archetipica: – Liberate il Senex dalle proprie vesti di agente saccente e frustrante e godete della saggezza e del “senso del tempo” di cui è portatore, facendone motore attivo per una virtuosa capacità (quantomeno) di rendervi “opportuni” in ogni contesto-.

Nel prodigio della rivoluzione di vedute acquista significato anche il nome greco di Saturno, ovvero Crono, nella virtù di colui che “porta il tempo”.

La divinità che continuo a citare è quella che sovrintende, per diritto quesito, l’istanza Freudiana super-egoica; non possiamo pensare che nelle castrazioni continue che è chiamata ad effettuare eserciti solo un’azione negativa e mai una volta agisca a beneficio dei tanti tesori che si pone la missione proteggere.

Il Super-Io positivo-frommiano è la nuova frontiera della consapevolezza; l’esercizio e la rivoluzione di vedute possono renderlo attivo e, in senso lato, positivo.

Quando mai avevamo assistito ad una rivalutazione tanto feconda ed esplicita di un elemento in ombra come il “senso di responsabilità”?

Di quante cose ulteriori diverremmo capaci, nel momento in cui il Super-Io si mettesse a remare all’unisono con le altre istanze, raddoppiandone la spinta propulsiva?

Avremmo un Io capace di accogliere i suggerimenti dell’Es nella stessa modalità fluttuante ad acritica di cui sono fatte le libere associazioni.

Avremmo la disinibizione della saggezza, la sfacciataggine della cognizione, la fluidità della libertà in ogni campo dell’esistenza, la calma dello “stare nel tempo”.

In ogni sacca di vita quotidiana sapremmo, in poche parole, quale strada intraprendere, senza fretta né esitazione, forti del proprio solido e proattivo Super-Ego.

E l’azione non avrebbe fine nell’istanza, perché essa è dimora di una nostra vecchia ed illustre conoscenza.

Il padre.

Reale, interiore, vivo o defunto, presente o assente, idealizzato o svalutato e chi più ne ha più ne metta; l’oggetto padre, insomma.

Un altro importante elemento assolto, libero di vestire panni meno severi, nelle sue versioni intrapsichica e relazionale, felice della castrazione saturnina prosciogliente.

Proprio così: Fromm riesce a restituire energia propulsiva alla figura paterna, cosa che non aveva trovato (apparentemente) dipanamento nelle due o tre generazione che ormai ci separano da lui!

Il re e il maschile, un fondamentale costituente del nostro Io dicotomico ermafrodito, affrancato in un solo passaggio.

La ricetta frommiana ritrovata pare trovare i propri equilibri non tanto nell’ingrediente ma nel suo stato di “attivazione”.

Volendo rendere produttiva la responsabilità dovremo prima renderla attiva da passiva che era, motrice da subìta, eterodiretta da auto-imposta, mai più lasciata giacere nel bacino della stasi.

Se non ci fosse attivazione, non potrebbero essere gettate le basi per configurare un’arte.

Dell’ultimo termine, difatti, colpisce una definizione, semplicemente ricavabile dalla prima ricerca sul web: “qualsiasi forma di attività dell’uomo come riprova o esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva”.

Esprimersi è fornire alla domanda interna una risposta che può permettersi di essere dilagante nel mondo esterno.

L’arte di amare, in poche parole, è imparare a conferire all’ente interno, incorporeo e desiderante (totipotente, ancora latente) la fluidità materiale necessaria per espandersi a macchia d’olio.

Sui corpi, le cose, le istanze del mondo che prima di tale operazione sentiamo estraneo.

Allora amiamo per esprimerci, renderci progressivamente consapevoli, individuarci.

Amiamo per esistere.

Pensiamo che tutto questo sia rivoluzionario? Eppure la responsabilità non è che uno dei quattro principi che l’autore dell’Arte di amare riconfigura e ri-attiva, rendendoli colonne portanti dell’essere capace di “essere”.

Premura, responsabilità e comprensione sono strettamente legate tra loro. Sono un complesso di virtù che fanno parte di una personalità matura, di una persona che sviluppa proficuamente i suoi poteri, che sa quello che vuole, che ha abbandonato sogni narcisistici di onniscienza e onnipotenza, che ha acquisito l’umiltà fondata sulla forza intima che solo l’attività produttiva può dare[2]

 La premura è il secondo elemento.

Questa volta parla di madre eppure, al contempo, cessa di farlo, perché anche questo costituirebbe la prima lettura, quella più immediata e, di conseguenza, più banale.

L’amore è premura soprattutto nell’amore della madre per il bambino. Noi non avremmo nessuna prova di questo amore se la vedessimo trascurare il suo piccolo. […] Amore è interesse attivo per la vita e la crescita di ciò che amiamo. Là dove manca questo interesse, non esiste amore[3]

 Siamo ancora in presenza di qualcosa che fisiologicamente appare statico e per rendersi mobile presuppone “lavoro”.

Lavoro concepito come nella mente del matematico francese Gaspard Gustave de Coriolis: variazione di energia cinetica.

Lavoro rendicontato.

In altre parole: forza trasformativa.

Non possiamo pensare di imparare un’arte giacendo inerti sul divano o attendendo che la genetica evolva senza premesse darwiniane.

Come dire: è l’amore un’arte? Allora richiede sforzo e saggezza![4]

La premura, oltre che essere presente, rende il proprio palesamento quota costituente imprescindibile.

Non è strano, è semplicemente eterodiretto.

Come l’amore di Fromm; come l’arte di esprimerlo e, nel farlo, di provarlo.

Nel libro di Giona, che l’autore cita, perfino Dio decide di rimarcarlo: -Tu hai avuto pietà sotto la pianta per la cui crescita tu non hai lavorato. Essa è cresciuta in una notte, ed è morta in una notte!-[5]

Ed anche questo Dio è Super-ego, ancora una volta presente nella propria accezione positiva e proattiva: una sfaccettatura che comincia ad essere non più soltanto enfatizzata, ma divinizzata!

La madre, dicevo, scompare.

Scompare perché, una volta compiuto il prodigio della mobilitazione di principi inizialmente passivi, il maternage può lasciare posto ad altro.

Essi si compiono, quindi la madre, che esercita bene la premura, afferma sé stessa e completa l’oggetto delle proprie cure, poi lo affranca dalla propria presenza.

Due parole hanno reso liberi due genitori: responsabilità ha elaborato il padre e premura la madre.

Semplice. Come la scrittura dell’autore. Cristallino.

Ora che l’Io è ri-composto con due presenze di genere e pare completo, cos’altro potrebbe suggerire Fromm che non ha già detto?

Rispetto e conoscenza.

In buona parte “parenti”, l’uno della responsabilità, l’altra della premura.

Essere responsabili implica rispetto, premurosi conoscenza.

Però queste due nuove parole servono a tracciare qualcosa che non era emerso.

La distanza.

Essere premurosi ha una distanza non nota, ma esserlo conoscendo profondamente l’oggetto della propria premura rende inevitabilmente prossimi.

[…] per conoscere pienamente nell’atto d’amore, devo conoscere psicologicamente la persona amata  e me stesso, obiettivamente, devo vederla qual è in realtà, abbandonare le illusioni, il quadro contorto che ho di lei[6]

 Essere responsabili ha un raggio ampio ma esserlo rispettando l’oggetto verso il quale si è responsabili, porta vis à vis con l’altro.

Rispetto non è timore né terrore; esso denota, nel vero senso della parola (respicere = guardare), la capacità di vedere una persona com’è, di conoscerne la vera individualità[7]

 Le rivoluzioni Di Erich Fromm sono dinamicamente frontali, center to center.

Per questo convince, per questo innova.

 

[1] Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori editore, 1986 Milano

[2] ibidem

[3] ibidem

[4] Così ha inizio l’opera di Erich Fromm, L’arte di amare.

[5] Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori editore, 1986 Milano

[6] ibidem

[7] ibidem

PARTE SECONDA

21 maggio 2018

leggi in pdf  Rivoluzioni frommiane – Seconda Parte

La psicologia come scienza ha i suoi limiti, e come la conseguenza logica della teologia è il misticismo, così la conseguenza diretta della psicologia è l’amore[1]

L’amore è inizialmente trattato da Fromm come effetto di una solitudine esistenziale, che riesce a trasformarsi in atto compiuto soltanto attraverso l’unione universale.

L’universale appartiene a Dio, così come “quel” tipo di unione nucleare col creato e col trascendente. L’unione immanente la rispecchia da quaggiù (allo stesso modo in cui la generazione di un figlio rispecchia la creazione) attraverso la congiunzione tra maschile e femminile.

L’unione universale poggia sull’amore universale, quella umana sull’amore polare inteso come campo gravitazionale che spinge il principio femminile verso quello maschile; se in ambedue i casi l’amore è arte, si passa da “arte dell’Anima” (di subodorare l’eterno) a “arte della mente” (di riconoscere l’altro prossimo idoneo).

In ogni caso abbiamo redenzione: guarigione mistica da una parte, trattamento psicoterapeutico dall’altra.

Pace dell’anima o benessere psicofisico.

Ancora una volta semplice, ancora una volta sorprendente.

Fromm parla quando tace, nel riverbero delle parole appena pronunciate. Così facendo, definisce.

La conseguenza del logos del soffio vitale (psicologia, perché le parole pesano), o chiave di traduzione dalla lingua degli angeli a quella con cui noi non-divini possiamo comunicare, è l’attrazione polare.

Cos’ha da invidiare, tale speculazione umanistica, alla recente scoperta della parentela tra gravità e tempo, ultima frontiera della fisica quantistica, acme della ricerca dissecante-analitica, reiterata all’infinito da refusi nevrotico-mercuriali ormai connaturati nell’uomo moderno?

Amore: attrazione tra istanze.

Gravità: attrazione tra corpi.

Misticismo: attrazione verso Dio.

Tempo: attrazione tra eventi quantistici.

Assiomi equivalenti che si ripetono in diverse dimensioni?

Con la domanda ancora sospesa abbassiamoci di quota, torniamo nel solo dominio dell’uomo e parliamo di princìpi, di biologia e, al limite, di psicologia.

“[…]si leva un bisogno più immediato, più biologico: il desiderio di unione tra il polo maschile e quello femminile. Il concetto di questa polarizzazione è espresso in modo efficace nel mito che in origine l’uomo e la donna erano un unico essere, che furono tagliati a metà, e da allora ogni maschio è alla ricerca della parte femminile di sé stesso, in modo da potersi riunire con essa.

[…] La polarizzazione sessuale porta l’uomo a cercare l’unione in modo preciso: quello della fusione con l’altro sesso. La polarità tra maschio e femmina esiste anche “tra” ogni uomo ed ogni donna. Così come fisiologicamente l’uomo e la donna hanno in sé gli ormoni del sesso opposto, essi sono anche bisessuali in senso psicologico. Portano in sé stessi il principio del ricevere e del dare, della materia e dello spirito”[2]

Difficile scappare dalla riflessione, leggendo certi pensieri.

C’è un motivo.

Fromm è un cannocchiale.

Lo stesso con cui Galileo ebbe l’occasione e la fortuna di diventare eretico e lo stesso che permise a Copernico di ribaltare gli schemi antropocentrici, rendendoli “principio-centrici”.

Se osserviamo da fuori lo “strumento ottico” Fromm possiamo bearci della scorrevolezza della sua scrittura, della bellezza formale e del messaggio costante e fluido, ma guardandoci dentro, rischieremo di comprendere!

Dall’inizio: difficile pensare all’amore senza considerare l’attrazione di genere, perché si riforma il tao, prende anima la matrioska della vita in cui, alla Ficino, il piccolo è come il grande e il grande come il piccolo.

Tale dinamica di seduzione agganciamento e sintesi, avviene tra princìpi prima ancora che tra generi.

Ed ecco che prende corpo la psicologia; sebbene l’Arte di amare non abbia alcuna pretesa di essere uno strumento tra le mani del professionista psicologo, si innalza a trattato fondamentale per tale figura.

Dice in questi passaggi che l’ermafrodito psichico che abita il nucleo di ognuno rappresenta già il luogo di convivenza taoista e gravitazionale tra due energie di genere e che l’attrazione maschio-femmina “somatici” semplicemente lo ricorda, senza tuttavia rappresentare l’elemento causale.

Dice che l’accoppiamento sessuale e sessuato che reca la nuova vita biologica rispecchia la morula psichica che porta all’integrità dell’Io.

Dice che l’equilibrio tra maschile e femminile determina l’uomo più di quanto altri equilibri corollari possano fare, poiché il mysterium coniunctionis è tra re e regina, nord e sud, padre e madre, positivo e negativo, non tra altre polarità, ammesso che esistano.

Forgia l’uomo dall’Anima androgina, ricavandolo da una pietra che al suo interno già l’ospitava, come un novello Michelangelo, dimostrandoci che il maschio senza femmina e la femmina senza maschio non creano il campo e proprio per questo ogni essere, seppure caratterizzato più dall’uno che dall’altro, non può negare che l’altra parte lo costituisca.

Nella prassi terapeutica ritengo che questo sia un caposaldo.

Per ogni professionista: partire dal nucleo, dall’istanza più interna alla più esterna, dagli equilibri archetipici dell’Io, prima di curarsi di ciò che gli gravita attorno.

Difficilmente avremo la comparsa del disagio in una persona che ha ben presente l’istanza di padre e quella di madre nucleari; perché dunque curare i processi nevrotici ignorando che, alla loro base, qualcosa lavora seguendo asimmetrie non fisiologiche?

L’Io bisessuato. Fresco di conio frommiano: rivoluzione numero 2!

E se Fromm, anch’esso umano e dunque fallace, afferma che il padre della psicoanalisi sbagli (scrivendo: Egli [Freud, N.d.A.] espresse questa teoria nel volume “tre saggi sulla sessualità”, sostenendo che la libido ha una natura maschile, senza nemmeno considerare che ci sia una libido anche nella donna[3]), perdoneremo facilmente la svista: alla base sta la contestazione che gli fu contemporanea e che domina ogni altra epoca. In ogni momento storico, homo homini lupus, tendiamo inevitabilmente a disconfermare i giganti che ci portano sulle loro spalle!

Freud ed i suoi successori, tra cui l’autore di cui stiamo parlando, hanno linguaggi del tutto affini, consapevolmente o meno.

Esaminando le parole riportate in Fromm che cita Freud, la connotazione maschile della libido intende delinearne la fisionomia

Attiva e non passiva: maschile in questo senso.

Penetrante e non accogliente: maschile in questo senso.

Esplosiva e non implosiva: maschile in questo senso.

Dunque del tutto conforme agli assiomi dell’Arte di amare.

A questo va associato un corollario. Difficilmente, in psicologia, qualcuno ha aggiunto elementi sostanziali e veramente rilevanti al pensiero di Freud: questa frase divide chi lo ha letto da chi lo ha compreso.

Possiamo lasciare ai posteri l’onore di avere approfondito magistralmente la sua teoria.

Possiamo lasciare a tutti noi la capacità di decrittare e scompattare ciò che un uomo non poteva dire in una sola vita.

Fromm, certamente illustre tra i discenti, con l’Arte di amare accompagna il terapeuta, accompagna l’uomo, accompagna la sintesi nell’Io e porta giustizia all’essenza dell’amore.

[1] Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori editore, 1986 Milano

[2] Ibidem

[3] Ibidem