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2020.03.06 Il pensiero del giorno Il sangue della psiche e il rovescio della conquista

di Irene Battaglini

6 marzo 2020

leggi in pdf 2020.03.06 Il pensiero del giorno. Il sangue della psiche e il rovescio della conquista

«è  il senso la vera holding, non l’oggetto»

André Green

“Agire da primitivo e prevedere da stratega”. René Char, Fogli d’Ipnos, ‪1943-44

Le cose cambiano continuamente, non ci sono epidemie, pandemie o complotti, scenari post-atomici e disegni anti-europeisti più di quanto non ci siano abitualmente da migliaia di anni, e credo che nella storia dell’uomo, non vi sia complotto più doloroso di quello che emerge dal “rovescio della conquista”[1].

Nella dinamica dell’eccidio degli Indiani d’America, non vi era alcun complotto preordinato; nel malvagio commercio degli schiavi d’America, non vi è alcun disegno preconfezionato, poiché le comunicazioni offline non avrebbero permesso una simultaneità degli eventi come oggi si configura nella nostra cultura del sincronismo di rete; nella maggior parte delle nostre relazioni quotidiane, ispirate al reciproco “usarsi” narcisistico, non è alcun mercato regolato da norme online sulla compravendita degli affetti, soprattutto quelli che si accomodano sulla reciproca acquiescienza, che sia basata sullo scambio di bisogni (biologici, sessuali, emotivi, affettivi, economici, sociali) o ammantata di una delicata veste di sublimazione: si tratta, sempre e comunque, di un arcaico sentimento del mondo. Il sentimento del sangue del mondo, che è istintivo ma non ancora pulsionale, è asservito alla forza ctonia ma non è selvaggio, è vitalistico e dunque affine alla morte, alla sopraffazione, al divorare l’altro in quanto non preda, ma risorsa necessaria alla sopravvivenza: un sentimento che uccide una parte di noi, e non (solo) l’altro, quando esperiamo un asettico sadismo, una rinuncia all’immagine del “sangue della psiche”.

Tuttavia il sadismo esprime, sebbene ad una algida temperatura, pur sempre un rapporto con l’oggetto, un qualche segno della potente imago, che sia celestiale o di tenebra, su cui si fonda la nostra personale psicologia. Nel sentimento del sangue del mondo, non vi è spazio per l’immagine della psiche.

Scrive James Hillman[2]: «Si tratta di dare valore all’anima prima che alla mente, all’immagine prima che al sentimento». «Si tratta di dare valore all’anima prima che alla mente, all’immagine prima che al sentimento». Il che, a sua volta, impone di «rinunciare ai giochi di soggetto-oggetto, destra-sinistra, interno-esterno, maschile-femminile, immanenza-trascendenza, mente-corpo», in modo che «l’emozione trattenuta da quelle sacre reliquie possa infrangere quei vasi e tornare a fluire nel mondo».

Dal 22 febbraio, un sabato tra i più duri che io ricordi nella mia storia personale, mi sento trascinata dal desiderio di lasciarmi chiudere dalla spire della non-vita: Milano, Stazione Centrale. I treni che di solito sono un affezionato sintomo del nostro caos, diventano il segno inequivocabile della “psicosi bianca”[3] generata dal non poter stare nel lutto, invischiati come siamo nel sentimento del sangue del mondo. Non è la morte, non è il virus, non è il contagio, non è la paura: che cos’è la paura, se non il segno del mio essere viva. È il catechon che dilaziona e difende, e che io sento come utile e necessario nel suo principio antidolorifico. È Saturno, nel versante che si offre allo sguardo e ne impone una perdurante salificazione. Ma so, dai sogni che mi visitano, un luogo di cui credevo aver perso il diritto di servitù – perché non sono nostri, sono il mondo in cui abbiamo il privilegio di poter essere esploratori di una notte, di un secondo – che “l’immagine del sangue psichico” non è andata perduta.

Anima è sullo sfondo, si è fatta da parte, ha dovuto. Per non essere bruciata viva, per non essere troppo ferita. Si è dovuta nascondere, piange sulla sponda di un “pensiero del cuore” in attesa di tornare ad essere vista: può essere vista solo da chi possiede la vista. È l’anima del mondo che abita il cuore e lo fa ancora sussultare, un cardiopalma d’amore ad opera del dio dell’aurora: un progetto che ci vive, un domani che ci vuole e ci chiama. Io credo sia necessario affilare le armi, individuare una strategia (che non sia resiliente: deve essere invece solo apparentemente nervosa e delusa) e combattere per questa Anima, non è giusto lasciarla da sola.

Anima nella sua meravigliosa mutevolezza, che ogni uomo o donna possiede in scintilla, e che fa del singolo un attore a volte inconsapevole della lotta tra Eros e Thanatos nelle grandi sfide cosmiche. Vi sono esplosioni che uccidono interi “sistemi” solari, vi sono vaccini che uccidono i virus letali e difendono il sistema biologico umano. Potrebbe mai il corona virus lagnarsi per essere stato un giorno debellato dalla cosiddetta scienza?, beh no, ci auguriamo di no. Un oscuro disegno si configura in questo scenario di scambio di ruolo. Il bene non vincerà. Il corpo morirà e dovrà attrezzarsi per godere della sua breve corsa il più possibile.

E allora Anima, in che cosa ci aiuti a comprendere? Quello che cambia, è il nostro modo di percepire la realtà: la nostra capacità di intercettare il reale a tutti i livelli della sua manifestazione. È la vista che si acuisce, e si acuisce attraverso i sensi. I sensi possiedono la inner vision, ma la vista è un organo di senso. Un organo, un piano di note e di tasti, di senso e di significato. Una musica che nessuno ancora conosce, che deve essere “vista” con le mani, dalle mani, da quegli augusti alfieri di impronta che sono i polpastrelli, che tornino a suonarsi tra loro, a stare nella logica dei sensi. E se un giorno troveremo gli amanti addormentati sul finire di una spiaggia, non diremo più: che incoscienti, che esibizionisti. Diremo, finalmente il mondo è vissuto, e Anima si riprende il posto che Catechon le ha conservato, fingendo di asservirsi al sentimento sanguinario che ci ha colto come indigeni, schiavi, bambini abusati, a fare da contrappunto al conquistatore incoronato.

 

 

[1] Cfr.: Miguel León-Portilla, Il rovescio della conquista. Testimonianze azteche, maya e inca. Adelphi: Milano 1974.

[2] L’anima del mondo e il pensiero del cuore. Traduzione di Adriana Bottini. Piccola Biblioteca Adelphi, 2002, 9ª edizione.

[3] Cfr.: A.Green- J.L.Donnet, La psicosi bianca. Psicoanalisi di un colloquio, Borla, Roma 1992.

Rivoluzioni frommiane #4

di Guido Rutili 9 giugno 2019

PARTE QUARTA

leggi in pdf RIVOLUZIONI 4 

“Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche sé stesso; se può amare

solo gli altri, non può amare completamente.

Se l’amore per sé stessi non è disgiunto dall’amore per gli altri come ci spieghiamo l’egoismo, che ovviamente esclude qualsiasi interesse genuino per altri?

L’egoista s’interessa solo di sé stesso, vuole tutto per sé, non prova gioia nel dare ma solo nel ricevere. Vede il mondo esterno solo dal punto di vista di ciò che può ricavarne; non ha interesse per i bisogni degli altri, né rispetto per la loro dignità e integrità. Non riesce a vedere altro che sé stesso; giudica tutto e tutti dall’utilità che gliene deriva; è fondamentalmente incapace d’amare.

Questo non prova che l’interesse per gli altri e l’interesse per sé stessi sono alternative inevitabili?

Sarebbe così se l’egoismo e l’amore per sé stessi fossero la stessa cosa. Ma questa convinzione è l’errore che ha suscitato tante conclusioni errate riguardo il nostro problema.

Egoismo e amore per sé stessi, anziché essere uguali, sono opposti”[1].

Archimede, con una leva fisica, prometteva di sollevare un mondo particolarmente retrogrado rispetto alla propria capacità inventiva.

Erich Fromm, 1700 anni più tardi, costruiva una leva diversa, sociale, che avrebbe sollevato non solo il suo ma molti altri mondi a venire; negli anni ’60 del secolo scorso ridefinì l’amore per sé stessi.

Un’alternativa e non un sinonimo di egoismo, qualcosa di sovrapponibile all’amore per gli altri: principio fatto di una sostanza biofila capace di portarlo all’interno dell’individuo e veicolarlo verso gli altri con la medesima, sana, modalità propulsiva.

Una forma erotica produttiva che, al tempo in cui veniva pubblicato “L’Arte di Amare”, pareva presentare lacune importanti dovute a fattori sociali ed ambientali che rendevano difficile l’espressione lineare di una tendenza altruistica.

C’era forte necessità di rivendicare o rafforzare diritti umani a malapena sopravvissuti all’organizzazione precedente, belligerante, ormai superata.

L’individualità (intesa come attributo della persona, dello stato etc.), in un contesto in cui il mutuo aiuto era stato per duri anni rimpiazzato dall’aridità dell’affermazione individuale, aveva preso le sembianze di un’istanza potenzialmente pericolosa.

Ecco che l’egoista diveniva lo stereotipo del distruttore, dell’aggressore, di colui che cresceva nutrendosi dei frammenti di nemici onnipresenti, anche fantasmatici, anche ingiustamente investiti di questo ruolo.

Nel turbine di un tale stato reattivo, non c’era terreno che consentisse il fiorire di un amor proprio virtuoso, privo di effetti collaterali.

La consapevolezza che per dare in modo significativo è prima necessario essere, e che un’autenticità dell’essere presuppone la coscienza della centralità del Sé, non riusciva ad attecchire.

Eppure un Sé pienamente espressivo, capace di armonizzarsi alla comunità, abile ad erogare verso l’esterno in termini energeticamente positivi, non può esercitare nessuna funzione senza la contemplazione del proprio, solido centro.

Oggi le condizioni al contorno non sono le stesse: i valori conquistati e radicati dalle generazioni precedenti tremano sotto il peso di una coscienza collettiva annoiata, che li dà per scontati.

Non c’è belligeranza manifesta, ma solo aggressività velata.

Non si corrono pericoli e l’unica cosa che fa provare un brivido alle masse è l’horror vacui da assenza di saggi da seguire e nemici da debellare.

L’egoismo contemporaneo ha le spoglie del narcisismo maligno; non dunque quello che nutre il nucleo pulsante del singolo per permetterne la crescita, ma quello “fine a sé stesso”, che svaluta e appiattisce tutto ciò che lo circonda, al solo scopo di rivalutare la propria, neutra planarità.

Se l’egoismo di Fromm confliggeva con l’amore per sé stessi, l’odierno narcisismo cozza con l’individuazione dell’Io, aggravando la profondità del problema.

L’Io senza una casa non è più capace di amare, né in modo centrifugo né in modo centripeto, può solo illudersi di farlo, fraintendendo l’amore con una spinta di diversa origine.

La curiosa manifestazione sintomatica consiste nell’attribuzione di colpa verso un fantomatico neo-egoista dai tratti troppo tenui per godere del beneficio della rendicontazione verso la società.

La figura in luce, quella a lui contrapposta, è altresì l’enfatico promotore di un’affettività marcatissima, visibile anche ai miopi.

Ecco che torna il testo del maestro Fromm, che spiega bene questo neo-altruista nella metafora della “madre troppo premurosa”: “Mentre lei crede di essere particolarmente attaccata al suo bambino, in realtà ha una profonda, repressa ostilità per l’oggetto del proprio interesse.

È eccessivamente premurosa, non perché ami troppo il proprio figlio, ma perché deve compensare la sua incapacità d’amarlo[2].

Eccoci al punto.

Il problema non è più discernere tra egoismo e amore per sé stessi ma riuscire a salvare l’amore per sé stessi (fonte d’altruismo sano) dal falso altruismo (lampante ma caustico divoratore d’eros relazionale).

L’etero-tendenza spuria è infatti il fattore sociale dell’eccessiva (ma inautentica) preoccupazione per il bene di chi ci pare dipendente o richiedente: figlio adottivo di una collettività purtroppo incapace di concedersi eros ego-diretto.

Cogliendo la metafora della madre troppo premurosa, scoviamo così l’ombra motrice dell’accoglienza cieca: puro odio per il prossimo.

Abbiamo il vecchio problema del Super-Io inflativo, che taccia d’egotismo ogni faticoso moto auto-centrante, senza considerare il paradosso sotteso ad ogni intervento di castrazione: la rivoluzione del bene nel male e viceversa.

D’altra parte in psicoanalisi ogni atto positivo eccessivamente palesato è campanello d’allarme, poiché tende a cercare l’assoluto nel buono, esperienza soggettiva per eccellenza.

L’atto compiuto correttamente rende l’agente soddisfatto, la necessità di rimarcare il proprio operato lascia invece trasparire l’insoddisfazione strisciante e dolorosa di chi non ha tratto alcun piacere dalle proprie condotte.

La tendenza altruistica di oggi fa esplodere fragorosamente all’esterno un vuoto interiore incolmabile, nella falsa illusione che possa essere il fragore del botto a creare sostanza.

“L’egoista non ama troppo sé stesso, ma troppo poco; in realtà odia sé stesso. Questa mancanza di amore per sé, che è solo un’espressione di mancanza di produttività, lo lascia vuoto e frustrato.  È solo un essere infelice e ansioso di trarre dalla vita le soddisfazioni che impedisce a sé stesso di raggiungere.  Sembra interessarsi troppo di sé, ma in realtà non fa che un inutile tentativo di compensare la mancanza di amore per sé.  […] È più facile capire l’egoismo se lo si paragona ad un morboso interesse per gli altri”[3].

Si torna alla madre che enfatizza moti d’amore e cela l’odio, scambiando in definitiva l’autentico col falso.

L’obiettivo è morboso, come dice il sociologo tedesco, e porta ad un aggressivo interesse per l’altrui mondo, deformato dall’inflazione di elementi che non aveva e -probabilmente- neanche voleva.

Non c’è nulla di catartico, solo prodotti di scarto.

Quale tra tutti?

Frustrazione.

è sorpresa scoprire che (l’individuo), ad onta del proprio altruismo, è assai infelice e che i suoi rapporti con coloro che lo circondano non l’appagano[4]

La frustrazione è il primo stato psicologico a dominare il singolo e le masse che non nutrono il proprio nucleo narcisistico primario, secondo una sana ricetta a base di amore autentico per sé stessi.

Tale elemento, centralmente radicato nella struttura di personalità, è il sale della vita biologica, tanto da essere innato, bio-innestato.

È il successore della scossa coatta che porta lo spermatozoo a dimenarsi in modo tale da andare in una direzione ed un verso: dritto, avanti.

È il pronipote della forza che muove il primo respiro e il vagito liberatorio.

È la fame, la sete, la ricerca evolutiva.

Possiamo pensare che certi fattori, favorevoli alla vita, possano essere efficaci se presenti soltanto nel prossimo contestuale e non in noi?

No, assolutamente!

Ecco che compaiono dunque i casi particolarissimi di cui ci stiamo occupando: al “buon egoismo”, sfiorando l’ossimoro, accostiamo il “buon altruismo”, che si ottiene in primis dalla negazione dei luoghi comuni, passando dall’amore per sé stessi.

Oggi è un amore per sé stessi delicatamente ricodificato nei meandri di qualcosa di antico e primitivo, concesso dagli dei all’uomo per la virtù d’essere sceso dal paradiso terreste: la libertà di elargire amore, purché continui ad esistere, senza badare al luogo in cui lo si ripone, poiché più lo si usa, più si è capaci di generarne.

Come il Meister Eckhart citato nell’Arte di amare, siamo quindi capaci di affermare che “Se ami te stesso, ami gli altri come te stesso. Finché amerai un’altra persona meno di te stesso, non riuscirai mai ad amare te stesso, ma se ami tutti nello stesso modo, compreso te stesso, li amerai come una persona e quella persona è sia Dio sia l’uomo.

È grande e giusto chi, amando sé stesso, ama in egual modo il suo prossimo.”[5]

 

[1] Erich Fromm, L’arte di amare

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Ibidem

[5] Ibidem

 

LEGGI LE TRE SEZIONI PRECEDENTI

Rivoluzioni frommiane #3

 

Rivoluzioni frommiane

 

La salute mentale dei migranti in restrizione di libertà

di Ezio Benelli e Nicoletta Nicastro 8 gennaio 2019

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Nei nostri Istituti penitenziari è presente un elevato numero di migranti e tale dato è purtroppo in costante crescita. Facendo riferimento alle statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), in data 30 aprile 2018 erano presenti 58.285 detenuti, di cui 19.844 stranieri. Le maggiori presenze riguardano persone provenienti dal Marocco, Romania, Albania e Nigeria. Soltanto in Toscana sono presenti circa 3.300 detenuti, numero che evidenzia un importante sovraffollamento. In particolare, sempre per ciò che concerne la regione Toscana, nella casa circondariale di Grosseto è presente un sovraffollamento del 180 %; nella Casa di reclusione di San Gimignano il 155,3 %; infine presso Sollicciano a Firenze è del 141 %.

Gli Istituti penitenziari Toscani sono soprattutto maschili, solo 3 strutture su 18 ospitano reclusi di sesso femminile (Sollicciano, Pisa ed Empoli).

Effettuando un maggiore focus sugli aspetti socio-demografici possiamo evidenziare che la popolazione di riferimento è composta prevalentemente da uomini (N=2,973; 96 %). L’età media dei detenuti rispetto alla popolazione libera si aggira fra i 40,6 anni – 52,9 anni. I detenuti stranieri in Toscana sono pari al 48,4 % rispetto al totale della media nazionale del 34 %.  La suddivisione per Paese di provenienza non mostra, invece, particolari differenze.

Il livello culturale appare ancora molto basso con ben l’80% che non supera il diploma di scuola secondaria di I grado (49% registrato nella popolazione libera). Fra gli stranieri detenuti, il 40% ha conseguito soltanto la licenza elementare.

L’OMS promuove una lotta alle «disuguaglianze di salute» che risulta necessaria poiché la maggior parte dei detenuti provengono da contesti di forte svantaggio socio-economico. Sono cittadini i cui molteplici fattori, distali e prossimali, favoriscono l’insorgenza di gravi patologie croniche. Tutto questo rende particolarmente importanti gli interventi di prevenzione e di cura dei migranti.

Oltre agli aspetti suddetti, la tutela e la cura della loro salute rappresenta un criterio di civiltà che non solo protegge il singolo individuo ma l’intera società, nella quale essi rientreranno dopo l’allontanamento più o meno lungo in ragione del reato commesso.

Alla base dell’Ordinamento Penitenziario vige il principio di individualizzazione del trattamento con l’obiettivo di supportare e rieducare il detenuto attraverso non solo figure professionali esperte ma anche attraverso il mantenimento di elementi essenziali al benessere della persona quali la famiglia, l’istruzione, il lavoro, la professione del proprio culto, i rapporti con l’ambiente esterno ed attività ricreative sportive e culturali.

Sulla base di quanto appena detto, il Ministero della Giustizia e la Regione Toscana si impegnano nel porre iniziative che rendano concreto il principio della parità del trattamento penitenziario tra cittadini italiani e stranieri, nomadi ed apolidi, sia adulti che minorenni. Lo stesso Ordinamento Penitenziario all’art. 1 recita che il trattamento è improntato sul principio di uguaglianza e deve essere privo di discriminazioni e prevede inoltre che il trattamento sia attuato in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.

Al fine di un efficace trattamento bisogna tenere conto del disagio e della sofferenza psichica che caratterizza la storia personale di ogni migrante. La separazione dagli affetti e dalle proprie origini, la partenza, il viaggio, l’arrivo e l’incognito, creano situazioni di ansia e producono la rottura di equilibri prestabiliti.

La migrazione rimane un enigma per i clinici perché non tutti i migranti attraversano le stesse esperienze, o si situano in contesti sociali simili. Essi non preparano il loro viaggio allo stesso modo e non sono mossi dalle stesse ragioni. È il processo migratorio stesso e i conseguenti aggiustamenti culturali e sociali ad avere un ruolo sulla salute mentale dell’individuo.

Il viaggio del migrante è qualcosa che viene preparato molto tempo prima. Inoltre il soggetto migrante è scelto dalla famiglia secondo qualità di forza e resistenza. Sarà dunque il più forte della famiglia a partire per il viaggio.

Le variabili psicologiche del migrante secondo il viaggio sono principalmente di tre tipi:

  • variabili di origine, di partenza (pre-migratorie) tra cui la personalità dell’individuo, la cultura di provenienza;
  • variabili di percorso, di tragitto (migratorie) tra cui la transizione fisica da un paese all’altro, l’attraversamento, lo stress;
  • variabili di conclusione, di integrazione (post-migratorie) variabili connesse con l’integrazione, la differenza culturale, la ricerca del lavoro.

La migrazione sottopone individui e gruppi ad una diminuzione dei sistemi di compensazione e di difesa. Essa agisce sulle strutture psichiche e poi su quelle identitarie, come un evento plasmante.

La fase del processo migratorio che ha un maggiore impatto sulla salute mentale del soggetto è proprio l’arrivo. Poiché, per quanto la partenza e il viaggio siano stati dolorosi, l’arrivo è nell’immaginario del migrante la salvezza, la ricompensa al sacrificio e al rischio affrontato. A causa di questo, il momento dell’arrivo delude il migrante, che verrà a trovarsi in una condizione di disadattamento, povertà e solitudine. Probabilmente è proprio in questa fase che si delineano le prime predisposizioni al reato.

L’impatto doloroso dell’arrivo si evince anche dai risultati ottenuti al test LimFs, un questionario utilizzato per valutare le esperienze traumatiche e le difficoltà di vita in contesti migratori suddivise in tre momenti: prima della partenza, durante il viaggio e all’arrivo in Italia. Ciò che emerge, è che l’arrivo in Italia sembra essere il momento più traumatico per loro.

Tutto questo, infatti, rappresenta un momento contraddittorio di sofferenza e di aspettative. L’emigrante si trova a dover ridefinire il proprio progetto di vita e molto spesso anche la propria identità. Inoltre, viene esposto al lutto della separazione dalle proprie origini, dai legami affettivi interiorizzati nella sua costruzione psico-affettiva, sofferenze queste che sono molto complesse da elaborare.

Un altro momento delicato da prendere in considerazione come abbiamo detto è la partenza, le condizioni nelle quali è avvenuta, i motivi che sottostanno a tale scelta e che condizionano tutta la traiettoria del migrante. Per traiettoria non si intende soltanto una condizione geografica ma anche mentale ed emotiva. Altrettanto rilevanti sono le aspettative e le condizioni dell’arrivo poiché soprattutto se deludenti o sofferte possono condizionare tutto il percorso futuro.

Una volta giunto l’immigrato si trova nello stesso tempo a dovere riorganizzare la sua vita e ricostruire il senso della sua esistenza.

Possiamo comprendere come essi si ritrovano così a vivere un enorme disagio che può manifestarsi attraverso varie forme di somatizzazione; la sofferenza dell’essere escluso, del sentirsi di troppo diventa talvolta insopportabile. Tahar Ben Jelloun nell’”Estreme solitudine” ha messo in risalto l’importanza del corpo nelle manifestazioni del disagio e nella percezione di sé in relazione con la società. Situazioni quali la solitudine, l’esclusione sociale, le condizioni lavorative pesanti, l’assenza di una rete familiare di supporto possono portare a un “vuoto affettivo” nell’immigrato che corre il rischio di divenire straniero a sé stesso. Il grande antropologo Ernesto De Martino, parlava di “crisi della presenza” per spiegare i processi di alienazione e di depersonalizzazione nelle situazioni di crisi psichica. Il non esserci nel mondo e col mondo, sono vissuti che possono rappresentare molti immigrati.

E’ evidente dunque come l’intervento sul disagio del migrante sia un processo particolarmente delicato. Inoltre, se come già detto il trattamento penitenziario si basa anche sul mantenimento dei rapporti familiari, lavorativi, scolastici, religiosi e sociali, è abbastanza evidente come tali elementi siano più complessi da restaurare nel migrante detenuto. Si corre così il rischio che la misura restrittiva perda il suo valore rieducativo e diventi un ulteriore esperienza di emarginazione, solitudine e sofferenza.

La maggioranza degli stranieri in detenzione ha una elevata fragilità sia dal punto di vista fisico che psichico, spesso sono malate a causa delle trascuratezze sanitarie e con rilevanti disagi psichici pertanto il carcere diventa così un luogo materiale di contenimento, così da rendere complessa la comprensione critica del reato commesso. Il migrante all’interno della comunità detentiva è di frequente oggetto di emarginazione e di inferiorità sociale.

Al momento dell’ingresso in regime di restrizione, così come i detenuti italiani, i migranti effettuano non senza difficoltà di genere linguistico, dei colloqui con lo Psichiatra, lo Psicologo ed altri esperti del Servizio Nuovi Giunti per rilevare i disagi della persona e individuare la presenza di un rischio autolesionistico e suicidario. I vissuti di emarginazione, solitudine e lontananza dagli affetti, sono elementi importanti da tenere in considerazione per il monitoraggio del rischio di suicidio.

Cosi come l’ingresso, anche il momento della scarcerazione è particolarmente critico, molto spesso con l’assenza di punti fermi e di supporto la persona straniera può facilmente tornare a delinquere.

Uno dei principali ostacoli è la lingua e che si manifesta sin dall’ingresso in Istituto. Le difficoltà linguistiche incidono notevolmente sul senso di emarginazione e isolamento rispetto agli operatori, agli altri detenuti, al personale di polizia penitenziaria e diventa più complesso osservare le regole di vita dell’istituto penitenziario, registrando così rapporti disciplinari in cui l’interessato non ne comprende a pieno il valore rieducativo. Un importante aiuto potrebbe essere rappresentato da corsi linguistici all’interno del penitenziario.

I colloqui in carcere rappresentano una ulteriore criticità, poiché la lontananza delle famiglie e le estreme difficoltà di collegarsi con loro anche attraverso vie postali e telefoniche risulta difficile in relazione alle distanze geografiche e comunque sono meno efficaci di un contatto diretto.

La religione, come detto pocanzi è uno degli elementi essenziali alla base del trattamento rieducativo penitenziario. I dati statistici sopra riportati evidenziano la prevalenza della componente di persone appartenenti alla religione islamica. A tale proposito, l’articolo 26 dell’ordinamento penitenziario, sancisce la libertà di professare la propria fede religiosa praticandone i riti con la possibilità di richiedere l’assistenza dei ministri del proprio culto. I Ministri del culto possono dunque accedere agli istituti anche senza particolari verifiche da parte della Direzione del carcere, contrariamente avviene per alcune religioni tra cui quella dell’Islam, le quali sono praticate da ministri di culto attraverso una disciplina più complessa.

Una tematica che richiede particolare attenzione professionale, soprattutto in termini preventivi, è quella dell’autolesionismo, di cui si è già accennato sopra. Essa costituisce spesso un mezzo per comunicare la propria sofferenza, la propria alienazione.

Alcuni esperti Psicologi, sostengono che la solitudine dello straniero in carcere è probabilmente causata dalla sua assenza di ruolo e di funzione. Inoltre, il migrante trovandosi in una terra differente dalle sue origini non riuscendo ha delle difficoltà nell’introiettare il disvalore e la necessità di rispetto delle regole proprio perché appartengono a un Paese a cui non appartiene.

Attraverso l’istruzione, la buona pratica religiosa, la formazione professionale e la possibilità di accedere al lavoro anche esterno si può favorire una risposta incisiva volta a promuovere un processo di integrazione che favorisca una conoscenza della nuova società a cui il migrante si trova ad appartenere.

Un ulteriore importante intervento è sicuramente di tipo preventivo che possiamo distinguere in prevenzione primaria, secondaria e terziaria. La prima è volta ad eliminare o comunque ridurre le condizioni criminogene presenti in un contesto fisico o sociale, quando ancora non si sono manifestati segnali di pericolo. La seconda è costituita da misure rivolte a gruppi a rischio di criminalità; la terza interviene quando l’azione criminale è stata già commessa, per prevenire ulteriori recidive. Analizzando la relazione tra stress post-immigrazione e salute mentale (Li S.S. et al, 2016) è stato confermato che i rifugiati dimostrano elevati tassi di PTSD e di altri disturbi psicologici. I risultati indicano fattori socioeconomici, sociali e interpersonali nonché relativi al processo di asilo e alla politica di immigrazione. Una ricerca (Guardia D., 2016) ha cercato di fornire l’incidenza di disturbi mentali nei migranti di prima, seconda e terza generazione ed ha confermato che la migrazione costituisce un elemento di rischio psicopatologico. Nella comunità sud-asiatica presente in Gran Bretagna, per esempio, è stato riscontrato un maggior tasso di incidenza di psicosi rispetto alla popolazione nativa; risultati simili sono stati rilevati nella minoranza etnica caraibico-africana.

I dati di tutte le ricerche esaminate confermano che i fattori di stress post-migratori o legati all’ambientamento e all’integrazione sono stati i principali correlati della salute mentale negli immigrati umanitari.

Diventa necessario quindi programmare interventi di prevenzione e di riduzione del danno (programmi di assistenza psicosociale e psicologica).

Risulta importante creare appartenenza. Attraverso l’istruzione, la buona pratica religiosa, la formazione professionale e la possibilità di accedere al lavoro anche esterno si può favorire una risposta incisiva volta a promuovere un processo di integrazione che favorisca una conoscenza della nuova società a cui il migrante si trova ad appartenere.

Per un intervento quanto più efficace a livello di prevenzione, sostegno, cura e riabilitazione del disagio psichico del migrante è importante impegnarsi professionalmente in una dimensione multidisciplinare che possa condurre al benessere del soggetto e del contesto sociale in cui è inserito.

In conclusione, è opportuno sottolineare che alla luce di tutti questi fattori di rischio e di fragilità che espongono maggiormente i migranti alla possibilità di sviluppare disturbi mentali è necessario realizzare percorsi strutturati che coinvolgono equipe multidisciplinari (etnopsichiatri ed etnopsicologi, medici, mediatori linguistico culturali) che possano affrontare un fenomeno tanto complesso quanto collettivo.

I beneficiari di questi interventi non possono essere solo i diretti interessati nella migrazione ma anche le generazioni successive poiché i fattori di rischio per il disagio psichico non si esauriscono alla prima generazione ma possono avere ripercussioni fino alla terza generazione.

 

Fonti bibliografiche e sitografia:

 

Abye Tasse… et al., Culture a confronto. La gestione della diversità. Roma, Fondazione Silvano Andolfi, 2000.

Alain Goussot, Disagio psichico e immigrazione.

Ambrosini Maurizio, La fatica di integrarsi. Immigrati e lavoro in Italia. Bologna, Il Mulino, 2001.

Cianconi P., Psicologia e Psicopatologia delle migrazioni, 2018.

Di Rosa G., Le solitudini in carcere. il detenuto malato e il detenuto straniero: dialogo a tre voci, 2018.

  1. Grinberg, R. Grinberg, Psicoanalisi della emigrazione e dell’esilio. Edizioni Franco Angeli collana Serie di psicologia, 1990.
  2. Lavanco, C. Novara, Psicologia della notizia: Migrando da sé stessi, 2005.

Tahar Ben Jelloun, L’estrema solitudine. Edizioni Bompiani, 1999.

www.consecutio.org/2016/10/presenza-e-crisi-della-presenza-tra-filosofia-e-psicologia/

https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_7_1.page?contentId=SCA144231&previsiousPage=mg_14_7

http://www.ristretti.it/areestudio/giuridici/op/opitaliano.htm

Rivoluzioni frommiane #3

di Guido Rutili 30 settembre 2018

PARTE TERZA

leggi in pdf Rivoluzioni frommiane #3 

Il tema di padre e madre è estremamente attuale e  si configura come argomento centrale nell’ambito della letteratura a carattere psicologico.

Anche troppo.

Difficilmente se ne esce e difficilmente se ne fa a meno: è un argomento che non tollera imprecisioni, oppure diventa commerciale, banale, inflazionato.

Nel momento socio-antropologico dei valori che vacillano, della liquidità relazionale e della labilità dell’elemento che vorremmo a tutti i costi stabile, è cosa normale che s’ingeneri la spinta verso la riscoperta dei principi interni di genere, nella speranza che divengano segnali portanti di un’auspicabile restaurazione della personalità.

Quello sulla personalità (ed i relativi disturbi, di conseguenza) è un dibattito vivo, poiché tratta dell’elemento maggiormente responsivo quando si parla di intensi mutamenti ambientali.

In poche righe, cercando di visualizzare la struttura dell’ente espressivo dell’individuo, potremmo schematizzarlo come un insieme di oggetti autonomi e connessi tra loro; oggetti che potremmo definire “caratterizzanti”, ovvero portatori e promotori d’indoli diverse, la cui assonanza sinergica determina infine la gestalt della fisionomia individuale del Sé.
Viene da sé che padre e madre interni, nello schematismo appena proposto, occupino il ruolo dei sovrintendenti del gioco delle parti: essi dispongono, richiamano, stabiliscono le quote dei contributi, avvertono il sintomo, forniscono l’imprinting alla figura d’insieme.

Sulla base di tali premesse, una risposta alla trasformazione continua dei fattori al contorno basata sul rafforzamento della matrice nucleare interiore, diviene lecita: il lavoro sulla personalità è la contromisura efficace e l’investimento più coerente con il trend ambientale dell’epoca contemporanea.

Anche in questo caso, leggere tra le righe dell’Arte di amare ci fa compiere la rivoluzione a cui Fromm ci ha abituato, attraverso la quale uscire finalmente dal coro.
Padre e madre compaiono in forma inedita: pur ricontattando la propria connotazione originale, variano la “staticità dirigenziale” che li connota e maturano sulla base di una legge di moto che li arricchisce di un’insolita energia cinetico-evolutiva.

Insieme con la nostra consueta “lettura degli spazi vuoti” dell’opera frommiana, cresce l’universo delle riflessioni possibili e degli insegnamenti da cogliere.

Nel passaggio in rassegna dell’ente paterno e materno, lo psicoterapeuta tedesco conduce ad un’arte nell’arte: quella dell’esercizio genitoriale.

“l’atteggiamento materno e quello paterno corrispondono ai bisogni propri del bambino” [1]

Dentro la dimensione nella quale ci proietta il rapido estratto, l’atteggiamento si spoglia della veste del marginale e calza quella più centrale di “terreno di coltura psico-catalitico”.
Crolla l’assioma secondo il quale all’individuo appena venuto al mondo servano il padre e la madre in quanto esseri materici fisicamente prossimi e si rende necessario estrapolarne l’attitudine, per renderla (prima d’altro) oggetto d’attaccamento e di formazione.
I principi di genere emergono con forza proprio perché epurati dalla corporeità, quindi già pronti alla fruizione interna come elementi edificanti la fisionomia dei nuovi signori del Sé.

Ciò risulta rivoluzionario, non tanto perché nuovo rispetto alla teoria psicologico – scientifica, nata con enfasi freudiana sull’evento percepito ancor prima che esperito (non dimentichiamo la teoria sul trauma) o cresciuta sulla metafora di seni idealizzanti del tutto privi di materia, quanto poiché monito alla prassi razionale atavica che porta i genitori a fare la propria comparsa nella dimensione tangibile, nella veste di vello accogliente sul quale aggrapparsi, serrando la presa.

La prospettiva etologica a cui l’immagine riporta, dà indizi che avvicinano all’intuizione frommiana: l’atteggiamento del genitore è ciò che si riflette sul figlio, stimolandone la metamorfosi verso l’essere “individuato”.
Non a caso l’erede del predatore cede all’istinto (o mandato?) “predatorio” e quello della preda realizza l’attitudine alla fuga, usando il materiale genitoriale non come elemento condizionante ma come “attivatore” di una personalità probabilmente costellata a priori (seppure in potenza) da fattori biologici.

La disquisizione sull’influenza dell’atteggiamento del genitore sul piccolo, solleva una questione di importanza crescente: quali sono le modalità per ottenere la sua libera espressione, alla riscoperta di una specifica quota dell’Io che assolve la funzione desiderante?

Tornando all’osservazione diretta del regno animale, che in definitiva significa demolire le pesanti sovrastrutture psicologiche progredite, non possiamo non accorgerci di quanto il desiderio abbia una doppia valenza: da una parte di connettersi al centro pulsionale del genitore e gestirne la pressione interna e dall’altra di riconoscere l’istinto biologico del piccolo. Il tutto si risolve in una sinergia virtuosa, evolutiva per eccellenza.

Non c’è leone che contemplerebbe di privarsi dell’attrazione per la caccia, in nome di un presunto beneficio a carico dei suoi cuccioli; questo ancora prima di considerare che se lo facesse,  morirebbero di fame!
Ciò insegna che se il flusso pulsionale genitoriale è naturalmente espresso in una forma plausibile, si finisce per agevolare (e non per ostacolare) l’individuazione della prole.

Nella dimensione umana, assai più complessa, probabilmente non si assiste ad un collegamento altrettanto lineare ma il dilemma sulla rinuncia del genitore assume forme inaspettate.

Ciò che può apparire potenzialmente dannoso per i figli, non fa che compromettere l’attivazione di alcuni elementi tipici nella personalità di quei discendenti, falsamente tutelati da elucubrazioni che trovano appoggio più nel giudizio morale e nell’aberrazione socio-culturale che nell’assioma di natura.

Un ipotetico oppositore di questa teoria, potrebbe avvalersi della clausola teorica psicoanalitica di base, magari estrapolata dal preciso contesto di appartenenza, chiamando in causa sguardi sbagliati, seni buoni e cattivi, bontà insufficienti, desideri incestuosi, che nella storia hanno corso il rischio di sminuire l’Io desiderante del genitore, promuovendone aspetti per nulla autentici.

È importante allora che venga enfatizzato un concetto: desiderio e privazione non sono le due facce della stessa medaglia. Un desiderio autentico rappresenta la modalità espressiva estrovertita per antonomasia, l’intuito “portato a terra”, la comprensione della propria natura e, a mezzo di questa, della natura collettiva.

 

Se vogliamo essere degni depositari del fuoco di Prometeo, dovremo divenire consapevoli di quanto l’attitudine, forgiata in primis dall’Io desiderante, sia il fertilizzante delle vite in divenire, possibile vettore di crescita.

Il genitore desiderante è la radice del figlio capace di compiere una sana individuazione. Fromm, senza fare esplicitamente questa premessa, continua dicendo che “la persona matura è arrivata al punto in cui è madre e padre di sé stessa”[2].

Questo riporta alle considerazioni effettuate nella parte iniziale: individuarsi è costellare il Sé sotto l’egida delle istanze materna e paterna che siamo riusciti a radicare al centro della personalità.

L’individuo, per avere la possibilità di compiere un simile radicamento, deve avere gestito ed ancor prima elaborato certe forze; solo dopo può avere inizio l’esercizio della funzione integrata, la cui fisionomia è finemente rappresentata da lineamenti mutuati dall’azione sul materiale presente a priori da parte degli antichi atteggiamenti esperiti.

A valle di certe considerazioni emerge nuovamente un grande coraggio nel pensiero frommiano: sterilizzare senza divagazioni due figure di riferimento come padre e madre, di cui non è contemplata l’esistenza narcisistica idealizzante, bensì l’equazione di condotta, paradossalmente formulata sull’inedito asse desiderio – virtù.

L’audace passaggio, oltre ad equilibrare le posizioni reciproche tra genitori e figli come esseri umani anziché pedine gerarchicamente disposte da retrogradi principi moralizzanti, definisce un modello fisio-psicologico “buono” di attaccamento: distanza ed esempio fuori, integrazione e presenza dentro, all’insegna di un’azione integrante della personalità in formazione e non portatrice di repliche proiettive disarmonizzanti.

Un vero e proprio esorcismo del complesso di generazione che riconduce sempre ed irrimediabilmente alle figure genitoriali: un assioma secondo il quale la presunzione di creare sfocia nel narcisismo di ritorno, apparentemente maturo come ineluttabilmente regressivo.

Che si voglia o no, Fromm mette i primi parenti in panchina e cala la scure sulla loro importanza: l’arte è quella di amare, per amare bisogna essere trasportati (senza deroga, per i greci) e per essere trasportati serve un veicolo. Non c’è spazio per figure pesantissime che rallenterebbero la corsa coatta e magnifica verso l’oggetto pulsionalmente ricercato. Soprattutto non c’è spazio “autocelebrativo” al quale padre e madre reali possano fare riferimento per giustificare la propria rinuncia ed il proprio desiderio vittimistico.

Rieccoci al punto iniziale: il veicolo è il motivo per cui Fromm dona ai genitori interni una legge di moto del tutto coerente con i principi della dinamica, sull’onda del terzo enunciato di Newton, quello di azione e reazione, per il quale l’impulso (etimologicamente “spinta”), è la forza capace, anche in tempi minimi, di generare grandi variazioni nella quantità di moto.

Padre e madre corporei sono elementi statici per la dinamica psichica del loro prodotto, eppure il loro atteggiamento è impulso puro, volto ad evitare alla nuova vita complessa una “partenza da fermi”.

Tanto ci viene detto in poche, essenziali parole: un doppio preludio, all’arte di esercitare la genitorialità ed all’arte della controparte di compierla come funzione interna portante, tutto sotto il comun denominatore costituito da un concetto di amore pieno, multiforme, completo.

[1]  Erich Fromm, L’arte di amare

[2] Erich Fromm, L’arte di amare

LEGGI LE DUE SEZIONI PRECEDENTI

Rivoluzioni frommiane

Un uomo senza tenerezza

Nove uomini declinano il maschile contemporaneo, dalla metonimica penna ipermoderna di David Szalay

di Irene Battaglini 19 agosto 2018

leggi in pdf Szalay, Tutto quello che è un uomo, recensione di Irene Battaglini

Lo spirito con il quale si sconfigge un uomo è lo stesso con il quale si sconfiggono dieci milioni di uomini.

Miyamoto Musashi

Tra la nascita e la morte,
tre su dieci sono attaccati alla vita
tre su dieci sono attaccati alla morte,
tre su dieci si agitano oziosamente
Soltanto uno sa come morire
continuando tuttavia a vivere
[…]
Perché egli è morto
e non può più essere ucciso

Lao Tzu

Emilio Vedova, da Lacerazione. Plurimi/Binari 77/78 Credits: myartguides.com Courtesy Fondazione Vedova, Venezia

 Il tempo, nella sua circolarità biunivoca, e nella sua linearità parametrica, è il decimo capitolo “nascosto” di questa opera destinata a brillare negli occhi del lettore che ha già inciampato nella “selva oscura”. Il tempo, una matrice dal respiro calmo e regolare, di cui si intuisce la presenza fin dall’inizio di questo castello dei destini incrociati, in cui la scherna e maschia scrittura di David Szalay si offre come tramite per il desiderio inesprimibile dei nove “personaggi”, frattali di un unico, fatalmente errabondo per le province di Europa, uomo: l’uomo, segnatamente di genere maschile, al tempo della contemporaneità.

L’uomo attraversa le nove porte recando i nomi più indifferenti: l’introverso e sensibile Simon, l’apatico e incredulo Bernard, il cavaliere ramingo Balázs, il solipsistico e polveroso Karel, lo spregiudicato Kristian, l’inconsistente James, il povero Murray, l’opulento Aleksandr, il rassegnato Tony. Nove storie di individuazione mancata, di stupore che non oltrepassa la soglia dell’emotività.

Nella testa di Simon si è infilata un’immagine arrivata da chissà dove, l’immagine della vita umana sotto forma di bolle che salgono nell’acqua. Le bolle salgono in nuvole e sciami, toccandosi e mescolandosi ma restando comunque definite mentre dalle profondità viaggiano verso la luce, finché in superficie smettono di esistere come entità individuali. Nell’acqua esistevano fisicamente, individualmente; nell’aria sono parte dell’aria stessa, parte di un insieme infinito, inseparabili da tutto il resto. Sì, pensa strizzando le palpebre nella luce attenuata dalla foschia, gli occhi pieni di lacrime, è proprio così – la vita e la morte.[i]

Siamo nel tempo del non-tempo, dell’eterno presente che si frammenta in condivisioni di eventi sincronici, tutti espressione dello stesso uomo, del suo unico sentimento del mondo, evidentemente privo del linguaggio che si fa scansione dell’Io nel tempo: il linguaggio occidentale, prima dell’avvento dei social media, è convenzionato secondo una accezione temporale delle coniugazioni. I nove uomini della contemporaneità sembrano dire: uno solo è il respiro, uno il battito, quello dell’universo a cui apparteniamo. La deriva regressiva del sentimento del mondo si trasforma in una illusoria seduzione della giovane madre Eurozona. Questo sembra il messaggio di fondo, il rumore cosmico che interviene dal di sotto, dall’inconscio sociale che si costella attraverso le “storie”. Questa prospettiva in Szalay non ha nulla di spirituale o mistico, ma ci fa vedere da vicino il mondo interno che è proprio dell’uomo contemporaneo. Un uomo che è ancora decidualmente maschile. Non si tratta di storie, non si tratta di fatti, di “spaccati” dell’Europa o di un tentativo di restaurare l’appartenenza radicale alle singole realtà territoriali dei personaggi: il problema del viaggio in Szalay non si pone se non come espediente retorico. Tutti gli uomini di Szalay sono un solo uomo che non viaggia se non esplorando e cortocircuitando in se stesso. L’uomo di Szalay sembra aver perduto il dolore della lacerazione primaria, percorre traiettorie parallele – come quaderni segreti – senza mai incontrare il Trauma, evitandolo in una samsara di mondi impersonali; calpestando tra sé e sé, senza saperlo, la propria soggettività e tutti i sogni e gli aneliti identitari, fino all’annientamento; e si fa latore, quest’uomo mondializzato, del fallimento di quella richiesta esistenziale che era di una Europa vecchia, desueta, ora indementita, attraversata da una corrente fredda[ii] che inaridisce Anima, la allontana, dissolvendo l’ordine simbolico.

«Una calza rammendata è preferibile ad una calza lacerata: non così per l’autocoscienza». Il sano intelletto, scriveva Hegel, sta dalla parte della calza rammendata. Tuttavia la soggettività sta dalla parte della coscienza e della lacerazione, «perché ciò che è lacerato è aperto, attraverso la sua lacerazione, per l’ingresso dell’assoluto»;[iii] e questa ferita negata, che non sanguina e non si infetta, che non guarisce e non ri-ferisce, genera nei personaggi un pensiero febbricitante, una razionalità semplice aggrappata alla balaustra vertiginosa di un linguaggio ricco in ambivalenze, efficientista, che si fa mezzo e non espressione, struttura e non idea, e dunque sembra perdere quella sua proprietà ermeneutica interpretativa del mondo interno. I personaggi non si esprimono, talora comunicano attraverso interfacce sociali, e sporgendosi – curiosando, forse attratti da una latenza di verità – sul pozzo della follia smarriscono per sempre la chiamata, non sono più in ascolto.[iv]

Nel corso dei nove diari di viaggio, il tempo coagula et solve e ricongiunge il primo all’ultimo, mediante la ripetizione dell’esperienza del tempo in maniera del tutto indipendente dall’età dei protagonisti nelle terre che, solo apparentemente, attraversano: Francia, Cipro, Danimarca, Spagna, Polonia, Italia, Inghilterra, Germania, Repubblica Ceca.

Treni, navi, elicotteri, automobili. Non vi è esperienza di tempo nelle singole soggettività, e questo suffraga la tesi di una unica coscienza aurorale disattesa, che sembra aver perso la verità chiaroscurale che è propria della consapevolezza di una “parte” nascosta. Questa ricerca, è opera che tocca al lettore. Se è pronto per scendere nella coscienza abissale di Zeno cento anni dopo: cannabis, alcool, sesso, scommesse, denaro, rischio, ricatto: sono le nuove dipendenze senza serietà, che escono dalla cornucopia del tempo di una notte accecante, senza sogni.

Il primo diario di viaggio” apre con una epigrafe: Seventeen, I fell in love. Un ragazzo di Berlino è spinto con forza nella voragine del divertimento, in cui l’azione è protagonista, nella pulsionalità gestuale, della vita psicologica. Il pensare è sfrangiato, sorretto da uno sguardo senza prospettiva.

Emilio Vedova, Assurdo diario di Berlino n. 14, 1964 Credits: artsandculture.google.com

Non è un caso se la pittura di “azione” nasce proprio al centro dell’Europa alla fine degli anni’60. Scriveva il pittore veneziano Emilio Vedova, interpretando in nuce con illusoria lucidità, quel mondo di uomini attivi, dall’intelligenza convergente, in cui lo spirito rivoluzionario è interiorizzato, va cercato, rintracciato, se ancora sussiste:

Il plurimo, in sé – prima di una teoria di movimento, di multiple possibilità, è la necessità di mobilitare i vari piani gestuali, lo spingersi di questi nello spazio: nel quotidiano, tra noi. Come presenza, come subito-gesto-dichiarazione, pittura che “si fa” nel suo muoversi. Nel caso di questi miei plurimi berlinesi, una simultaneità di presenze, sentimenti -, fatti avvenuti, che avvengono, che non possono non provocare chi arriva in questa città gravida di diverse “paure”: ieri, oggi, di latente dimenticanza; di equivoci; di malinconie anacronistiche; di reciproci antagonismi sovreccitati; di scontri di situazioni. A Berlino sono tornato, sono venuto a lavorare per rendermi conto, de visu, ancora, poter rintracciare, dopo le mostruose incrostazioni naziste, nelle strade, nella sua inquieta babelica vita, lo spirito democratico, critico, che animò un tempo Grosz Dix, Beckann, … Dada Berlin![v]

Il senso di colpa metafisico dell’Europa, colpevole di essere sopravvissuta agli orrori, non è ancora stato interiorizzato, come Karl Jaspers insegna.[vi] Un uomo che sta sulla linea – coartato ad aspettare la “fine”, quello di Szalay, un uomo ai margini del grande muro, mittle-europeo, al bordo di un burrone che conchiude nella valle incantata che incatena all’oggi, per il quale il pane di ieri non è buono domani, il pane è morso, è morto, non-sacro, impietrito nella madia del tempo tra finito e infinito. Un uomo dal furore inesprimibile, senza ombra e pieno per questo di voluttà e violenza nel giorno, in piena luce, in dislivello prometeico tra il proprio Io e un Ideale lontano, demolito e abbattuto, che ha perso la memoria, la sua storia, proprio come il giovane Simon è la versione millennial di suo nonno Tony, stanco persino del suo segreto impronunciabile, annichilito dall’impotenza di non aver più tempo per occuparsi dell’eternità (non un senza un lirismo, volutamente di maniera, dello scrittore di Budapest):

Si immagina sempre che alla fine arrivi un po’ di serenità. Una qualche forma di serenità. Non solo un penoso disastro di merda e dolore e lacrime. Un po’ di serenità. Qualunque cosa significhi. E più il momento si avvicina, più quel significato diventa astruso. Amemus aeterna et non peritura. Sembrerebbe un buon consiglio, se si è in cerca di serenità. Solo che c’è sempre quel problema – che cosa si intende per aeterna? Che cosa è eterno a questo mondo? Ovunque Tony guardi, dalla pelle cadente delle sue deboli mani di vecchio, che non sente poi così sue, visto che non si pensa come un vecchio, fino al sole che diffonde una luce bianca sul piatto paesaggio circostante – ovunque guardi, vede solo peritura. Solo ciò che passa.[vii]

DAVID SZALAY

Tutto quello che è un uomo

Milano: Adelphi 2017, pp. 402. Euro 22,00

Traduzione di Anna Rusconi

[i] David Szalay, Tutto quello che è un uomo. Milano: Adelphi 2017, Cap. I, p. 24.

[ii] Cfr.: A. Neumann, 2008: «La crisi mondiale del capitalismo fa andare a pezzi gli schemi di pensieri rigidi e ben consolidati, provocando una ricerca di senso intensa, senza che un certo marxismo raffreddato possa apportare delle risposte. Parlo della “corrente calda” della Scuola detta di Francoforte, questo Wärmestrom, termine che è stato inizialmente utilizzato da Ernst Bloch per distinguere la polarizzazione storica del marxismo europeo, tra una corrente fredda, dottrinaria, economicista e calcolatrice, ed una corrente calda, interessata alla soggettività politica ed all’imprevisto».

[iii] M. Heidegger, Che cosa significa pensare? Milano: SugarCo 1978-79, pp. 84-85. Cfr. anche: Santi Barbagallo, Heidegger e il calzino di Hegel. Sull’unità del simbolico e del diabolico nell’arte, 2007. In Teoria del mondo minimo, 6 novembre 2014.

Luogo di questa discussione, di questa più o meno regolare tribunalizzazione dell’Uno è, ancora una volta, una frase di Hegel, che Heidegger utilizza a mo’ di esempio, curiosamente deformandola e invertendone il senso. La frase, del resto nota, è la seguente: “Una calza rattoppata è preferibile ad una lacerata; non è così per l’autocoscienza…”. Nel corso del seminario su Hegel tenutosi a Le Thor nel 1968, Heidegger riformula così l’annotazione hegeliana: “Una calza lacerata è preferibile a una calza rattoppata…” […] “Lacerare (zerreissen) significa rompere-in-due, dividere: di una cosa farne due. Se una calza è lacerata, allora non c’è più (ist nicht mehr vorhanden), – ma attenzione: non c’è più come calza. In effetti, se ce l’ho ai piedi non vedo a rigore la calza “in buono stato” come calza. Al contrario, se è strappata ecco che LA calza appare con più forza attraverso “la calza a brandelli”. “In altre parole: ciò che manca alla calza lacerata è l’UNITÀ della calza. Ma, paradossalmente, questo difetto è in sommo grado positivo perché, nell’essere strappata della calza, questa unità è presente in quanto unità perduta”. (…) …tutti i tentativi di sopprimere la “lacerazione” (Zerrissenheit) devono essere abbandonati, –  in quanto la “lacerazione” è ciò che sta e deve rimanere al fondo (im Grunde). Perché? Risposta: perché solo nella lacerazione, come abbiamo appena visto, può apparire in quanto assente l’unità. “Nella lacerazione” così si esprime Heidegger “è sempre sovrana l’unità, o la riunificazione necessaria, cioè l’unità vivente”.

[iv] Per Martin Heidegger, parlare “del” linguaggio è impossibile poiché parlandone vi siamo invischiati: il linguaggio ci ha dunque preceduto, poiché esiste una circolarità ermeneutica fra uomo e linguaggio. Parlare di qualcosa significa che già abbiamo una comprensione di quel qualcosa come un mondo, e la comprensione non può avercela fornita che il linguaggio. Tale circolarità si articola come chiamata e ascolto: il linguaggio che pensiamo di usare, “è stato” prima di noi, poiché senza di esso nemmeno possiamo pensare, dunque essere uomini.

 

[v] Emilio Vedova, da una lettera ad un amico, Berlino, luglio 1964. Emilio Vedova. 2013, Skira, p. 43

[vi] Karl Jaspers, La questione della colpa. Il filosofo tedesco nel 1946 tiene una serie di lezioni all’università di Heidelberg, intorno alla domanda: Quanto e quando un cittadino tedesco può ritenersi assolto o colpevole, che responsabilità ha, diretta o indiretta, nei confronti dell’olocausto? Il filosofo enuncia quattro tipi di colpa: colpa giuridica: individuale, imputabile al singolo soggetto attraverso il procedimento giuridico; colpa politica: collettiva, legata al ruolo del cittadino, esposta alla storia, e al rapporto tra vincitori e vinti; colpa morale: ancora individuale, per le azioni e le omissioni del singolo, che deve essere giudicato dalla sua propria coscienza morale; colpa metafisica: collettiva, riguardante l’uomo in quanto ontologicamente umano, e a giudicare è il proprio senso “trascendentale”, quando, di fronte al male, non ha fatto il possibile per impedirlo.

[vii] David Szalay, Tutto quello che è un uomo. Milano: Adelphi 2017, Cap. IX, p. 390.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rivoluzioni frommiane

di Guido Rutili 8 maggio 2018

PARTE PRIMA

leggi in pdf Rivoluzioni frommiane

Erich Fromm evidenzia una dimensione dell’amore che fa riflettere:

la responsabilità, nel vero senso della parola, è un atto strettamente volontario; è la mia risposta al bisogno, espresso o inespresso, di un altro essere umano.

Essere “responsabile” significa essere pronti e capaci di “rispondere”. […] Come Caino, domandare: -Sono il custode di mio fratello?-. La persona che ama risponde. La vita di suo fratello non è solo affare di suo fratello, ma suo. Si sente responsabile dei suoi simili così come si sente responsabile di sé stesso[1]

Il miracolo che l’autore compie nell’Arte di amare non è solo quello di celebrare l’amore, non solo quello di elevarlo a insegnamento e contemplarne la composizione sminuzzandone il principio-guida in tanti sub-elementi costituenti; non si limita neanche ad effettuare una semplice riformulazione del concetto di “responsabilità”.

Egli opera sottilmente nell’inversione di polarità.

La responsabilità, da elemento occludente e passivo che era, diviene innesco attivo ed apre inediti scenari.

Da baluardo del Super-ego aggressivo e onnipresente, prende i connotati di costituente redentore dell’istanza castrante per antonomasia.

Eppure, dice Fromm, si tratta di punti di vista.

Siamo alle solite, si torna alla storia di Saturno e Urano.

Non ci fermiamo, però alla prima lettura del mito, nella quale l’immagine feroce è del Titano che evira il genitore.

Procediamo alla seconda, la terza, la quarta, fino a fare onore al bacino di ricchezza che solo certe scritture riescono a rappresentare: una sorgente perpetua e sacra, che non genera solo acqua ma ogni sorta di manna nutritiva.

Nell’altra lettura, Saturno lo libera di qualcosa; prima di tutto da un’aggressività tanto spiccata da indurlo a dare in pasto i propri figli e confinarli (in preda alla nevrosi di controllo) nel Tartaro viscerale della moglie.

L’atto del taglio non è solo menomazione del padre. È affrancamento, nella sterilità, da un altrettanto sterile complesso di dominio eterno.

Con l’evirazione, atto dinamico, ha fine anche l’obbligo di generare lignaggi, che quasi è un paradosso.

Fromm voleva che notassimo questo tipo di sfumatura.

Il sovvertimento del punto di vista, il vero “mezzo pieno” che costituisce il nucleo stesso del pensiero produttivo.

In un’ottica archetipica: – Liberate il Senex dalle proprie vesti di agente saccente e frustrante e godete della saggezza e del “senso del tempo” di cui è portatore, facendone motore attivo per una virtuosa capacità (quantomeno) di rendervi “opportuni” in ogni contesto-.

Nel prodigio della rivoluzione di vedute acquista significato anche il nome greco di Saturno, ovvero Crono, nella virtù di colui che “porta il tempo”.

La divinità che continuo a citare è quella che sovrintende, per diritto quesito, l’istanza Freudiana super-egoica; non possiamo pensare che nelle castrazioni continue che è chiamata ad effettuare eserciti solo un’azione negativa e mai una volta agisca a beneficio dei tanti tesori che si pone la missione proteggere.

Il Super-Io positivo-frommiano è la nuova frontiera della consapevolezza; l’esercizio e la rivoluzione di vedute possono renderlo attivo e, in senso lato, positivo.

Quando mai avevamo assistito ad una rivalutazione tanto feconda ed esplicita di un elemento in ombra come il “senso di responsabilità”?

Di quante cose ulteriori diverremmo capaci, nel momento in cui il Super-Io si mettesse a remare all’unisono con le altre istanze, raddoppiandone la spinta propulsiva?

Avremmo un Io capace di accogliere i suggerimenti dell’Es nella stessa modalità fluttuante ad acritica di cui sono fatte le libere associazioni.

Avremmo la disinibizione della saggezza, la sfacciataggine della cognizione, la fluidità della libertà in ogni campo dell’esistenza, la calma dello “stare nel tempo”.

In ogni sacca di vita quotidiana sapremmo, in poche parole, quale strada intraprendere, senza fretta né esitazione, forti del proprio solido e proattivo Super-Ego.

E l’azione non avrebbe fine nell’istanza, perché essa è dimora di una nostra vecchia ed illustre conoscenza.

Il padre.

Reale, interiore, vivo o defunto, presente o assente, idealizzato o svalutato e chi più ne ha più ne metta; l’oggetto padre, insomma.

Un altro importante elemento assolto, libero di vestire panni meno severi, nelle sue versioni intrapsichica e relazionale, felice della castrazione saturnina prosciogliente.

Proprio così: Fromm riesce a restituire energia propulsiva alla figura paterna, cosa che non aveva trovato (apparentemente) dipanamento nelle due o tre generazione che ormai ci separano da lui!

Il re e il maschile, un fondamentale costituente del nostro Io dicotomico ermafrodito, affrancato in un solo passaggio.

La ricetta frommiana ritrovata pare trovare i propri equilibri non tanto nell’ingrediente ma nel suo stato di “attivazione”.

Volendo rendere produttiva la responsabilità dovremo prima renderla attiva da passiva che era, motrice da subìta, eterodiretta da auto-imposta, mai più lasciata giacere nel bacino della stasi.

Se non ci fosse attivazione, non potrebbero essere gettate le basi per configurare un’arte.

Dell’ultimo termine, difatti, colpisce una definizione, semplicemente ricavabile dalla prima ricerca sul web: “qualsiasi forma di attività dell’uomo come riprova o esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva”.

Esprimersi è fornire alla domanda interna una risposta che può permettersi di essere dilagante nel mondo esterno.

L’arte di amare, in poche parole, è imparare a conferire all’ente interno, incorporeo e desiderante (totipotente, ancora latente) la fluidità materiale necessaria per espandersi a macchia d’olio.

Sui corpi, le cose, le istanze del mondo che prima di tale operazione sentiamo estraneo.

Allora amiamo per esprimerci, renderci progressivamente consapevoli, individuarci.

Amiamo per esistere.

Pensiamo che tutto questo sia rivoluzionario? Eppure la responsabilità non è che uno dei quattro principi che l’autore dell’Arte di amare riconfigura e ri-attiva, rendendoli colonne portanti dell’essere capace di “essere”.

Premura, responsabilità e comprensione sono strettamente legate tra loro. Sono un complesso di virtù che fanno parte di una personalità matura, di una persona che sviluppa proficuamente i suoi poteri, che sa quello che vuole, che ha abbandonato sogni narcisistici di onniscienza e onnipotenza, che ha acquisito l’umiltà fondata sulla forza intima che solo l’attività produttiva può dare[2]

 La premura è il secondo elemento.

Questa volta parla di madre eppure, al contempo, cessa di farlo, perché anche questo costituirebbe la prima lettura, quella più immediata e, di conseguenza, più banale.

L’amore è premura soprattutto nell’amore della madre per il bambino. Noi non avremmo nessuna prova di questo amore se la vedessimo trascurare il suo piccolo. […] Amore è interesse attivo per la vita e la crescita di ciò che amiamo. Là dove manca questo interesse, non esiste amore[3]

 Siamo ancora in presenza di qualcosa che fisiologicamente appare statico e per rendersi mobile presuppone “lavoro”.

Lavoro concepito come nella mente del matematico francese Gaspard Gustave de Coriolis: variazione di energia cinetica.

Lavoro rendicontato.

In altre parole: forza trasformativa.

Non possiamo pensare di imparare un’arte giacendo inerti sul divano o attendendo che la genetica evolva senza premesse darwiniane.

Come dire: è l’amore un’arte? Allora richiede sforzo e saggezza![4]

La premura, oltre che essere presente, rende il proprio palesamento quota costituente imprescindibile.

Non è strano, è semplicemente eterodiretto.

Come l’amore di Fromm; come l’arte di esprimerlo e, nel farlo, di provarlo.

Nel libro di Giona, che l’autore cita, perfino Dio decide di rimarcarlo: -Tu hai avuto pietà sotto la pianta per la cui crescita tu non hai lavorato. Essa è cresciuta in una notte, ed è morta in una notte!-[5]

Ed anche questo Dio è Super-ego, ancora una volta presente nella propria accezione positiva e proattiva: una sfaccettatura che comincia ad essere non più soltanto enfatizzata, ma divinizzata!

La madre, dicevo, scompare.

Scompare perché, una volta compiuto il prodigio della mobilitazione di principi inizialmente passivi, il maternage può lasciare posto ad altro.

Essi si compiono, quindi la madre, che esercita bene la premura, afferma sé stessa e completa l’oggetto delle proprie cure, poi lo affranca dalla propria presenza.

Due parole hanno reso liberi due genitori: responsabilità ha elaborato il padre e premura la madre.

Semplice. Come la scrittura dell’autore. Cristallino.

Ora che l’Io è ri-composto con due presenze di genere e pare completo, cos’altro potrebbe suggerire Fromm che non ha già detto?

Rispetto e conoscenza.

In buona parte “parenti”, l’uno della responsabilità, l’altra della premura.

Essere responsabili implica rispetto, premurosi conoscenza.

Però queste due nuove parole servono a tracciare qualcosa che non era emerso.

La distanza.

Essere premurosi ha una distanza non nota, ma esserlo conoscendo profondamente l’oggetto della propria premura rende inevitabilmente prossimi.

[…] per conoscere pienamente nell’atto d’amore, devo conoscere psicologicamente la persona amata  e me stesso, obiettivamente, devo vederla qual è in realtà, abbandonare le illusioni, il quadro contorto che ho di lei[6]

 Essere responsabili ha un raggio ampio ma esserlo rispettando l’oggetto verso il quale si è responsabili, porta vis à vis con l’altro.

Rispetto non è timore né terrore; esso denota, nel vero senso della parola (respicere = guardare), la capacità di vedere una persona com’è, di conoscerne la vera individualità[7]

 Le rivoluzioni Di Erich Fromm sono dinamicamente frontali, center to center.

Per questo convince, per questo innova.

 

[1] Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori editore, 1986 Milano

[2] ibidem

[3] ibidem

[4] Così ha inizio l’opera di Erich Fromm, L’arte di amare.

[5] Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori editore, 1986 Milano

[6] ibidem

[7] ibidem

PARTE SECONDA

21 maggio 2018

leggi in pdf  Rivoluzioni frommiane – Seconda Parte

La psicologia come scienza ha i suoi limiti, e come la conseguenza logica della teologia è il misticismo, così la conseguenza diretta della psicologia è l’amore[1]

L’amore è inizialmente trattato da Fromm come effetto di una solitudine esistenziale, che riesce a trasformarsi in atto compiuto soltanto attraverso l’unione universale.

L’universale appartiene a Dio, così come “quel” tipo di unione nucleare col creato e col trascendente. L’unione immanente la rispecchia da quaggiù (allo stesso modo in cui la generazione di un figlio rispecchia la creazione) attraverso la congiunzione tra maschile e femminile.

L’unione universale poggia sull’amore universale, quella umana sull’amore polare inteso come campo gravitazionale che spinge il principio femminile verso quello maschile; se in ambedue i casi l’amore è arte, si passa da “arte dell’Anima” (di subodorare l’eterno) a “arte della mente” (di riconoscere l’altro prossimo idoneo).

In ogni caso abbiamo redenzione: guarigione mistica da una parte, trattamento psicoterapeutico dall’altra.

Pace dell’anima o benessere psicofisico.

Ancora una volta semplice, ancora una volta sorprendente.

Fromm parla quando tace, nel riverbero delle parole appena pronunciate. Così facendo, definisce.

La conseguenza del logos del soffio vitale (psicologia, perché le parole pesano), o chiave di traduzione dalla lingua degli angeli a quella con cui noi non-divini possiamo comunicare, è l’attrazione polare.

Cos’ha da invidiare, tale speculazione umanistica, alla recente scoperta della parentela tra gravità e tempo, ultima frontiera della fisica quantistica, acme della ricerca dissecante-analitica, reiterata all’infinito da refusi nevrotico-mercuriali ormai connaturati nell’uomo moderno?

Amore: attrazione tra istanze.

Gravità: attrazione tra corpi.

Misticismo: attrazione verso Dio.

Tempo: attrazione tra eventi quantistici.

Assiomi equivalenti che si ripetono in diverse dimensioni?

Con la domanda ancora sospesa abbassiamoci di quota, torniamo nel solo dominio dell’uomo e parliamo di princìpi, di biologia e, al limite, di psicologia.

“[…]si leva un bisogno più immediato, più biologico: il desiderio di unione tra il polo maschile e quello femminile. Il concetto di questa polarizzazione è espresso in modo efficace nel mito che in origine l’uomo e la donna erano un unico essere, che furono tagliati a metà, e da allora ogni maschio è alla ricerca della parte femminile di sé stesso, in modo da potersi riunire con essa.

[…] La polarizzazione sessuale porta l’uomo a cercare l’unione in modo preciso: quello della fusione con l’altro sesso. La polarità tra maschio e femmina esiste anche “tra” ogni uomo ed ogni donna. Così come fisiologicamente l’uomo e la donna hanno in sé gli ormoni del sesso opposto, essi sono anche bisessuali in senso psicologico. Portano in sé stessi il principio del ricevere e del dare, della materia e dello spirito”[2]

Difficile scappare dalla riflessione, leggendo certi pensieri.

C’è un motivo.

Fromm è un cannocchiale.

Lo stesso con cui Galileo ebbe l’occasione e la fortuna di diventare eretico e lo stesso che permise a Copernico di ribaltare gli schemi antropocentrici, rendendoli “principio-centrici”.

Se osserviamo da fuori lo “strumento ottico” Fromm possiamo bearci della scorrevolezza della sua scrittura, della bellezza formale e del messaggio costante e fluido, ma guardandoci dentro, rischieremo di comprendere!

Dall’inizio: difficile pensare all’amore senza considerare l’attrazione di genere, perché si riforma il tao, prende anima la matrioska della vita in cui, alla Ficino, il piccolo è come il grande e il grande come il piccolo.

Tale dinamica di seduzione agganciamento e sintesi, avviene tra princìpi prima ancora che tra generi.

Ed ecco che prende corpo la psicologia; sebbene l’Arte di amare non abbia alcuna pretesa di essere uno strumento tra le mani del professionista psicologo, si innalza a trattato fondamentale per tale figura.

Dice in questi passaggi che l’ermafrodito psichico che abita il nucleo di ognuno rappresenta già il luogo di convivenza taoista e gravitazionale tra due energie di genere e che l’attrazione maschio-femmina “somatici” semplicemente lo ricorda, senza tuttavia rappresentare l’elemento causale.

Dice che l’accoppiamento sessuale e sessuato che reca la nuova vita biologica rispecchia la morula psichica che porta all’integrità dell’Io.

Dice che l’equilibrio tra maschile e femminile determina l’uomo più di quanto altri equilibri corollari possano fare, poiché il mysterium coniunctionis è tra re e regina, nord e sud, padre e madre, positivo e negativo, non tra altre polarità, ammesso che esistano.

Forgia l’uomo dall’Anima androgina, ricavandolo da una pietra che al suo interno già l’ospitava, come un novello Michelangelo, dimostrandoci che il maschio senza femmina e la femmina senza maschio non creano il campo e proprio per questo ogni essere, seppure caratterizzato più dall’uno che dall’altro, non può negare che l’altra parte lo costituisca.

Nella prassi terapeutica ritengo che questo sia un caposaldo.

Per ogni professionista: partire dal nucleo, dall’istanza più interna alla più esterna, dagli equilibri archetipici dell’Io, prima di curarsi di ciò che gli gravita attorno.

Difficilmente avremo la comparsa del disagio in una persona che ha ben presente l’istanza di padre e quella di madre nucleari; perché dunque curare i processi nevrotici ignorando che, alla loro base, qualcosa lavora seguendo asimmetrie non fisiologiche?

L’Io bisessuato. Fresco di conio frommiano: rivoluzione numero 2!

E se Fromm, anch’esso umano e dunque fallace, afferma che il padre della psicoanalisi sbagli (scrivendo: Egli [Freud, N.d.A.] espresse questa teoria nel volume “tre saggi sulla sessualità”, sostenendo che la libido ha una natura maschile, senza nemmeno considerare che ci sia una libido anche nella donna[3]), perdoneremo facilmente la svista: alla base sta la contestazione che gli fu contemporanea e che domina ogni altra epoca. In ogni momento storico, homo homini lupus, tendiamo inevitabilmente a disconfermare i giganti che ci portano sulle loro spalle!

Freud ed i suoi successori, tra cui l’autore di cui stiamo parlando, hanno linguaggi del tutto affini, consapevolmente o meno.

Esaminando le parole riportate in Fromm che cita Freud, la connotazione maschile della libido intende delinearne la fisionomia

Attiva e non passiva: maschile in questo senso.

Penetrante e non accogliente: maschile in questo senso.

Esplosiva e non implosiva: maschile in questo senso.

Dunque del tutto conforme agli assiomi dell’Arte di amare.

A questo va associato un corollario. Difficilmente, in psicologia, qualcuno ha aggiunto elementi sostanziali e veramente rilevanti al pensiero di Freud: questa frase divide chi lo ha letto da chi lo ha compreso.

Possiamo lasciare ai posteri l’onore di avere approfondito magistralmente la sua teoria.

Possiamo lasciare a tutti noi la capacità di decrittare e scompattare ciò che un uomo non poteva dire in una sola vita.

Fromm, certamente illustre tra i discenti, con l’Arte di amare accompagna il terapeuta, accompagna l’uomo, accompagna la sintesi nell’Io e porta giustizia all’essenza dell’amore.

[1] Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori editore, 1986 Milano

[2] Ibidem

[3] Ibidem

Fromm e l’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari

Lettura di Irene Battaglini e Giorgio Risari 15 giugno 2017

leggi in pdf Fromm e l’Antiedipo

gustave_moreau_-_oedipus_and_the_sphinx_-_wga16201Dalla mano l’autunno mi bruca la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
il tempo ritorna nel guscio.

Nello specchio è domenica,
nel sogno si dorme,
la bocca parla vero.

Il mio occhio scende al sesso dell’amata:
noi ci guardiamo,
noi ci diciamo cose oscure,
noi amiamo come papavero e memoria,
noi dormiamo come vino nelle conchiglie,
come il mare nel raggio sanguigno della luna.

Noi stiamo alla finestra abbracciati, dalla strada ci guardano:
è tempo che si sappia!
È tempo che la pietra si degni di fiorire,
che l’affanno cresca un cuore che batte.
È tempo che sia tempo.

È tempo.

Paul Celan

Non possiamo identificarci con le nostre idee. Le idee hanno importanza, ma una importanza relativa. Chi non sa superare la dicotomia tra l’essere e il pensare, tra ciò che uno è e ciò che uno pensa, diventa schiavo del proprio pensiero e in ultimo termine perde il senso cristiano dell’esistenza.

Raimon Panikkar

Come Edipo, viviamo inconsapevoli dei desideri che offendono la morale, di quei desideri che ci sono stati imposti dalla natura; quando ci vengono svelati, probabilmente noi tutti vorremmo distogliere lo sguardo dalle scene dell’infanzia.

Sigmund Freud

L’Anti-Edipo è un’opera complessa, la cui collocazione nel periodo intorno al Sessantotto ha innescato filoni critici in contraddizione: risulterebbe, con le parole dello stesso Deleuze, da una parte il frutto azzardato e controverso di un pensiero anarcoide, che Deleuze definisce parafrasando Kant: «una specie di Critica della ragion pura al livello dell’inconscio»[1] e, dall’altra, uno «spinozismo dell’inconscio».[2]

Così prosegue Deleuze in uno scritto fondamentale[3] in cui accoglie l’idea di Spinoza ad assumere come “modello” di conoscenza (come vera e propria mappa psicologica esperienziale) il corpo:

Si tratta di mostrare che il corpo va oltre la conoscenza che se ne ha, e che nondimeno il pensiero oltrepassa la coscienza che se ne ha. Non vi sono meno cose nella mente che oltrepassano la nostra coscienza che cose nel corpo che sorpassano la nostra conoscenza. E dunque per un solo e medesimo movimento che arriveremo ad afferrare la potenza del corpo al di là delle condizioni date della nostra conoscenza a cogliere la potenza della mente al di là delle condizioni date della nostra coscienza. Si cerca di acquisire una conoscenza delle potenze del corpo per scoprire parallelamente le capacità della mente che sfuggono alla coscienza, per poter comparare le potenze. In breve, il corpo, secondo Spinoza, non implica alcuna svalorizzazione del pensiero in rapporto all’estensione, ma cosa assai più importante, una svalorizzazione della coscienza in rapporto al pensiero, e una scoperta dell’inconscio, e di un inconscio del pensiero, non meno profondo che I’ignoto del corpo.[4]

L’inconscio del corpo sottende, in questa esperienza di conoscenza, alla nascita di un «Io» corporeo, il quale deve evidentemente trovare la sua condizione privilegiata per esprimersi, proprio attraverso il corpo: e come, se non attraverso il «desiderio»? Il tema del desiderio è propriamente centrale all’Edipo, come si legge nella letteratura psicoanalitica classica. Scrive Freud:

Già da piccolo, il figlio comincia a sviluppare un’affettuosità particolare per la madre, che considera come cosa propria, e ad avvertire nel padre un rivale che gli contrasta questo possesso esclusivo; e, allo stesso modo, la figlioletta vede nella madre una persona che disturba il suo affettuoso rapporto con il padre e che tiene un posto che lei stessa potrebbe occupare molto bene.

Apprendiamo dall’osservazione quanto sia precoce l’età cui risalgono questi atteggiamenti.

Li designiamo col nome di “complesso edipico”, perché la leggenda di Edipo realizza con un’attenuazione minima i due desideri estremi risultanti dalla situazione del figlio: uccidere il padre e prendere in moglie la madre. (Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, 1915-32).

Poggiandosi sull’idea di fondo che:

Nel complesso di Edipo si ritrovano i principi insieme della religione, della morale, della società e dell’arte, e ciò in piena conformità coi dati della psicoanalisi che vede in questo complesso la sostanza di tutte le nevrosi, per ciò che della loro natura siamo finora riusciti a penetrare. (Sigmund Freud, Totem e tabù, 1913)

La tesi fondamentale di Deleuze e Guattari, sostenuta nell’opera L‘Anti-Edipo, è che l’obiettivo – non riuscito- della psicoanalisi sia la liberazione dal desiderio degli oggetti parentali della famiglia, obiettivo nel quale la stessa psicoanalisi freudiana rimane invischiata: il complesso di Edipo teorizzato da Freud, colpevolizza e imbriglia il “desiderio” che, intrappolato dai e nei legami familiari, viene poi dato, reso disponibile con la sua energia immensa alle forze della riproduzione sociale. Sostiene il filosofo Treppiedi nella rivista «La Deleuziana»:

Appaiono ancora rilanciabili tre domande dell’Anti-Edipo: I) Quali le traiettorie della psicanalisi dopo la scoperta freudiana di un principio di produzione inconscia? II) Perché il disagio psichico è vissuto con un certo imbarazzo nell’ambito di diversi saperi e di diverse istituzioni? III)

In che modo l’inconscio incide sulle contraddizioni del presente, dunque, sui conflitti tra realtà differenti e sempre più estese quali società, gruppi, schieramenti?

Il noto attacco dell’Anti-Edipo alla psicoanalisi non si separa dal tentativo, sviluppato nel corso dell’intero libro, di fondare una politica del desiderio.

Tentativo, questo, che Deleuze e Guattari articolano sui due piani strettamente connessi di una critica alle letture «edipizzanti» del sociale e di un’analisi dei modi di riproduzione del capitalismo.

Ponendo le questioni nel segno di questa duplice tensione, Deleuze e Guattari concepiscono la «schizoanalisi» come una pratica mediante cui rilevare criticamente, nel loro contesto, i limiti di psicoanalisi e marxismo nelle loro stesse capacità di lettura e trasformazione della realtà e della storia. [5]

Scrive Deleuze: «La psicoanalisi parla parecchio di inconscio ma poi in pratica lo fa per ridurlo, distruggerlo, emarginarlo. L’inconscio viene visto come un negativo, è il nemico». Continua il filosofo francese:

Che errore aver detto l'(es). Ovunque sono macchine, per niente metaforicamente: macchine di macchine, coi loro accoppiamenti, colle loro connessioni. Una macchina-organo è innestata su una macchina-sorgente: l’una emette un flusso, che l’altra interrompe. Il seno è una macchina che produce latte, e la bocca una macchina accoppiata a quella. La bocca dell’anoressico oscilla tra una macchina da mangiare, una macchina anale, una macchina da parlare, una macchina da respirare (crisi d’asma). Così si è tutti bricoleurs; a ciascuno le sue macchinette. Una macchina-organo per una macchina-energia, sempre flussi e interruzioni.[6]

Il “vuoto edipico” sarà riempito di “merci” e “macchine sociali”, questa è la sintesi meno improbabile che avrebbe dato Erich Fromm, che dedicò al tema il saggio Il complesso di Edipo e il mito di Edipo (1949), per esplorarlo ulteriormente all’interno del più ampio Il linguaggio dimenticato. Introduzione alla comprensione dei sogni, delle fiabe e dei miti del 1962.

La critica di Deleuze e Guattari è che la psicoanalisi freudiana è solidale con la famiglia e con l’assetto sociale tradizionale conservatore se non reazionario, rifiutando trasformazioni politiche e sociali.

Si pone comunque una questione a priori legata al significato che nella società contemporanea si attribuisce all’ideologia, e che posto l’idea di ideologia con il suo campo semantico, abbia avuto nella psicoanalisi, il cui è establishment è radicato nella società occidentale.

Sappiamo che Fromm coltivò una sua “personale” ideologia,[7] come sostiene Marco Bacciagaluppi, tuttavia fuggì sempre una modalità centralizzante, basata sul suo pensiero, restando sempre in una posizione mobile e a-dogmatica, senza mai imporre ad una scuola di costituirsi in nome di una ortodossia della tecnica. Possiamo ipotizzare che Fromm immaginò una psicoanalisi forte di una carica umanistica sorretta dall’ortoprassi, verosimilmente nel senso in cui la intende Panikkar, in risposta all’adesione al binomio ortopoiesi-ortodossia.[8]

Se per Freud l’inconscio è da produrre, per Fromm il “desiderio” dev’essere costruito e mantenuto libero dai legami familiari, verso la società e la storia ma in senso rivoluzionario, dato che il desiderio, da un punto di vista umanistico -sempre buono e naturale – è libertà dell’individuo al di là della storia e della società, al limite persino la libertà assoluta della e nella schizofrenia.

Nella lettura deleuziana, l’Edipo e l’Anti-Edipo sembrano due polarizzazioni, o almeno rischiano di diventarlo, in questo modo di procedere, non tenendo conto della dimensione esperienziale in cui è possibile sfiorare il desiderio senza esserne abitati, accettare un livello edipico in cui sia inclusa la transizione, la capacità di stare in equilibrio, di guadare la palude vorticosa dell’abbraccio. Sostiene Roland Barthes nei Frammenti di un Discorso Amoroso:

  1. Oltre all’accoppiamento (e al diavolo l’Immaginario), vi è quest’altro abbraccio, che è una stretta immobile: siamo ammaliati, stregati: siamo nel sonno, senza dormire; siamo nella voluttà infantile dell’addormentamento: è il momento delle storie raccontate, della voce che giunge a ipnotizzarmi, a straniarmi, è il ritorno alla madre (nell’amorosa quiete delle tue braccia, dice una poesia musicata da Duparc). In questo incesto rinnovato, tutto rimane sospeso: il tempo, la legge, la proibizione: niente si esaurisce, niente si desidera: tutti i desideri sono aboliti perché sembrano essere definitivamente appagati.
  2. Tuttavia nel mezzo di questo abbraccio infantile, immancabilmente, il genitale si fa sentire; esso viene a spezzare l’indistinta sensualità dell’abbraccio incestuoso; la logica del desiderio si mette in marcia, riemerge il voler prendere, l’adulto si sovrappone al bambino e, a questo punto, io sono contemporaneamente due soggetti in uno: io voglio la maternità e la genitalità. (L’innamorato potrebbe definirsi un bambino con il membro eretto: tale era il giovane Eros).[9]

Vediamo i nodi critici della teoria di Guattari alla luce della psicoanalisi umanistica di Erich Fromm e della sua revisione dialettica:

Innanzitutto il “complesso di Edipo” non è universale ma è tipico della società occidentale “patricentrica”: esistono infatti tribù extraeuropee australiane (isole Tobriand) dove il ruolo paterno è svolto dallo zio o dalla zia. L’universalità, stigmatizzata da Freud in Totem e Tabù, del complesso edipico, risulterebbe eccessivamente generalizzata. Con lo stile amabile e persuasivo, allo stesso tempo rigoroso e piano, che contraddistingue i suoi scritti, Freud (da L’interpretazione dei sogni, 1900):

Se Edipo Re è in grado di scuotere l’uomo moderno come ha scosso i greci suoi contemporanei, ciò non può che significare che l’effetto della tragedia greca non è basato sul contrasto tra destino e volontà umana, ma sulla particolarità della materia sulla quale questo contrasto viene mostrato. Deve esistere nel nostro intimo una voce pronta a riconoscere nell’Edipo la forza coercitiva del destino, mentre soggetti come quello della Bisavola o di altre simili tragedie del destino ci fanno un’impressione di arbitrarietà, e non ci toccano. Ed effettivamente nella storia di Re Edipo è contenuto un tale motivo. Il suo destino ci scuote soltanto perché avrebbe potuto diventare anche il nostro, perché prima della nostra nascita l’oracolo ha pronunciato ai nostri riguardi la stessa maledizione. Forse è stato destinato a noi tutti di provare il primo impulso sessuale per nostra madre, il primo odio e il primo desiderio di violenza per nostro padre; i nostri sogni ce ne convincono. Re Edipo, che ha ucciso suo padre Laio e che ha sposato sua madre Giocasta, è soltanto l’adempimento di un desiderio della nostra infanzia. Ma a noi, più felici di lui, è stato possibile, a meno che non siamo diventati psiconevrotici, di staccare i nostri impulsi sessuali dalla nostra madre, e dimenticare la nostra invidia per nostro padre. Davanti a quel personaggio che è stato costretto a realizzare quel primordiale desiderio infantile, proviamo un orrore profondo, nutrito da tutta la forza della rimozione che da allora in poi hanno subito i nostri desideri. Il poeta, portando alla luce la colpa di Edipo, ci costringe a conoscere il nostro proprio intimo, dove, anche se repressi, questi impulsi pur tuttavia esistono. Il canto, con il quale il coro ci lascia: …”Vedete, questo è Edipo, i cittadini tutti decantavano e invidiavano la sua felicità; ha risolto l’alto enigma ed era il primo in potenza, guardate in quali orribili flutti di sventura è precipitato!” – è un’ammonizione che colpisce noi stessi e il nostro orgoglio, noi che a parer nostro siamo diventati cosi saggi e così potenti, dall’epoca dell’infanzia in poi.

Gli fa eco Erich Fromm, con altrettanta autorevolezza:

II mito di Edipo offre un eccellente esempio dell’applicazione del metodo freudiano e allo stesso tempo un’ottima occasione per considerare il problema sotto una prospettiva diversa, secondo la quale non i desideri sessuali, ma uno degli aspetti fondamentali delle relazioni tra varie persone, cioè l’atteggiamento verso le autorità, è considerato il tema centrale del mito. Ed è allo stesso tempo una illustrazione delle distorsioni e dei cambiamenti che i ricordi di forme sociali e di idee più antiche subiscono nella formazione del testo evidente del mito. […]

Il concetto del complesso di Edipo, che Freud ha così efficacemente espresso, divenne una delle pietre angolari del suo sistema psicologico. Egli credeva che esso fosse la chiave per comprendere la storia e l’evoluzione della religione e della morale e che costituisse il meccanismo fondamentale dello sviluppo del bambino. Sosteneva inoltre che il complesso di Edipo è la causa dello sviluppo psicopatologico e il «nocciolo della nevrosi».

Freud si riferiva al mito di Edipo secondo la versione contenuta nell’Edipo Re di Sofocle. La tragedia ci racconta che un oracolo aveva predetto a Laio, Re di Tebe, e a sua moglie Giocasta, che se essi avessero avuto un figlio, questi avrebbe ucciso il padre e sposato la propria madre. Quando nacque Edipo, Giocasta decise di sfuggire alla predizione dell’oracolo, uccidendo il neonato. Ella consegnò Edipo a un pastore, perché lo abbandonasse nei boschi con i piedi legati e lo lasciasse morire. Ma il pastore, mosso a pietà per il bambino, lo consegnò a un uomo che era a servizio del Re di Corinto, il quale a sua volta lo consegnò al padrone. Il Re adotta il bambino e il giovane principe cresce a Corinto senza sapere di non essere il vero figlio del Re di Corinto. Gli viene predetto dall’oracolo di Delfi che è suo destino uccidere il proprio padre e sposare la propria madre e decide quindi di evitare questa sorte non ritornando più dai suoi presunti genitori. Tornando a Delfi egli ha una violenta lite con un vecchio che viaggia su un carro, perde il controllo e uccide l’uomo e il suo servo senza sapere di aver ucciso suo padre, il Re di Tebe.

Le sue peregrinazioni lo conducono a Tebe. In questa città la Sfinge divora i giovinetti e le giovinette del luogo e non cesserà finché qualcuno non avrà trovato la soluzione dell’enigma che essa propone. L’enigma dice: «Che cos’è che dapprima cammina su quattro, poi su due e infine su tre?» La città di Tebe ha promesso che chiunque lo risolva e liberi la città dalla Sfinge sarà fatto Re e gli sarà data in sposa la vedova di Laio. Edipo tenta la sorte. Trova la soluzione all’enigma cioè l’uomo che da bambino cammina su quattro gambe, da adulto su due e da vecchio su tre (col bastone). La Sfinge si getta in mare urlando, Tebe è salvata dalla calamità, Edipo diviene Re e sposa Giocasta, sua madre.

Dopo che Edipo ha regnato felicemente per un certo tempo, la città viene decimata dalla peste che uccide molti cittadini. L’indovino Tiresia rivela che l’epidemia è la punizione del duplice delitto commesso da Edipo, parricidio e incesto. Edipo, dopo aver disperatamente tentato di ignorare la verità, si acceca quando è costretto a vederla e Giocasta si toglie la vita. La tragedia termina nel punto in cui Edipo ha pagato il fio di un delitto che ha commesso a sua insaputa, nonostante i suoi consapevoli sforzi per evitarlo.[10]

Fromm gerarchizza il tabù dell’incesto in termini socialmente funzionali rispetto al problema, più ampio dal punto di vista della gestione del potere, del parricidio: l’incesto sarebbe quindi «uno dei simboli della vittoria del figlio che prende il posto del padre e con questo tutti i suoi privilegi»,[11] collocando la rivalsa di Edipo su un piano simbolico, quasi volesse essere l’espressione del desiderio madre-figlio come forza rivoluzionaria in grado di dare potere alla società matriarcale rispetto a quella di discendenza paterna, prendendo spunto dalla tesi di J.J. Bachofen, il cui saggio del 1861 Mutterrecht [= Diritto Materno],[12] viene esplicitamente citato da Fromm.[13]

Il complesso edipico è quindi inteso in senso umanistico come situazione psicologica di protezione, sicurezza, affetto, cibo, ovvero come ricerca di unità e di fusione fra il bambino e il mondo esterno, mediata dai genitori o altre figure parentali. Scrive Fromm, approfittando del discorso su Freud per esercitare una lettura del mito:

È giustificata la conclusione di Freud secondo la quale questo mito conferma la sua teoria che inconsci impulsi incestuosi e il conseguente odio contro il padre-rivale sono riscontrabili in tutti i bambini di sesso maschile? Invero sembra di sì, per cui il complesso di Edipo a buon diritto porta questo nome. Tuttavia, se esaminiamo più da vicino questo mito, nascono questioni che fanno sorgere dei dubbi sull’esattezza di tale teoria. La domanda più logica è questa: se l’interpretazione freudiana fosse giusta, il mito avrebbe dovuto narrare che Edipo incontrò Giocasta senza sapere di essere suo figlio, si innamorò di lei e poi uccise suo padre, sempre inconsapevolmente. Ma nel mito non vi è indizio alcuno che Edipo sia attratto o si innamori di Giocasta. L’unica ragione che viene data del loro matrimonio è che esso comporta la successione al trono. Dovremmo forse credere che un mito, il cui tema è costituito da una relazione incestuosa fra madre e figlio, ometterebbe completamente l’elemento di attrazione fra i due? Questa obiezione diventa ancora più valida se si considera che la profezia del matrimonio con la madre è ricordata una sola volta da Nicola di Damasco, che secondo Cari Robert attinge a una fonte relativamente tarda.[14]

L’umanista tedesco mette l’accento sul contrasto generazionale, spostando la collocazione intrapsichica dell’incesto ad un’area psicodinamica interpersonale, mediando il passaggio attraverso un acuto salto di paradigma sulla sponda socio-antropologica. Puntualizza Fromm, ampliando la lettura del mito ad una domanda di senso metastorico e filologico:

Come possiamo concepire che Edipo, descritto come il coraggioso e saggio eroe che diviene il benefattore di Tebe, abbia commesso un delitto considerato orrendo agli occhi dei suoi contemporanei? A questa domanda si è talvolta risposto, facendo notare che per i greci il concetto stesso di tragedia stava nel fatto che il potente e forte venisse improvvisamente colpito da sciagura. Rimane da vedere se una tale risposta sia sufficiente o se ne esista un’altra più soddisfacente.

Questi problemi sorgono dall’analisi di Edipo Re. Se consideriamo soltanto questa tragedia senza tenere conto delle altre due parti della trilogia, Edipo a Colono e Antigone, non è possibile dare una risposta definitiva. Ma siamo almeno in grado di formulare una ipotesi e cioè: che il mito può essere inteso come simbolo non dell’amore incestuoso fra madre e figlio, ma della ribellione del figlio contro l’autorità del padre nella famiglia patriarcale; che il matrimonio fra Edipo e Giocasta è soltanto un elemento secondario, soltanto uno dei simboli della vittoria del figlio che prende il posto di suo padre e con questo tutti i suoi privilegi.

La validità di questa ipotesi può essere verificata coll’esame del mito di Edipo nel suo complesso, specialmente nella versione di Sofocle contenuta nelle altre due parti della sua trilogia, Edipo a Colono e Antigone.[15]

Non dimentichiamo che uno de più agguerriti contestatori di Freud fu lo studioso della mitologia greca Jean-Pierre Vernant, che scrive:

Come può un’opera letteraria che appartiene alla civiltà ateniese del V sec. a.C. e che traspone essa stessa in maniera molto libera una leggenda tebana molto più antica, anteriore al regime della polis, confermare le osservazioni di un medico degli inizi del XX secolo sulla clientela di malati che frequentano il suo studio?[16]

Il “desiderio”, categoria centrale di Deleuze inteso come libertà del soggetto e sua espansione continua autoindotta in una spirale sempre più stringente, per Fromm è sottoposto alla relazione soggetto umano-legge di realtà, libertà-necessità, io-Mondo: non è desiderio e libertà assoluta ma impulso congenito a “essere ciò che io sono” in base alla natura umana che si esprime nel mondo e grazie al mondo” (qui la società può assumere una funzione favorevole o ostile riguardo a tale attività di realizzazione della personalità e della natura umana). La ricerca di libertà assoluta del desiderio che si “desidera” è una fuga inconscia dalla realtà e dalle sue leggi. In questa direzione, di negazione e non accettazione della necessità della realtà, culmina nella malattia mentale e quindi nel delirio schizofrenico.

Il “desiderio” vuoto ma assoluto, senza contenuto e valori etici umani discriminanti, è invece secondo Fromm interno al dinamismo della natura umana intesa come insieme di poteri e facoltà autenticamente umane: amore, pensiero, libertà, immaginazione “produttiva”, capaci di portare l’essere umano al miglior sviluppo in relazione al mondo e alla società. Tale sviluppo umano è aiutato da valori umani positivi che sono combinati con lo sviluppo dei tratti caratteriali, da quelli dipendenti orali, a quelli accumulatori anali, a quelli sfruttanti orali sadici aggressivi, a quelli genitali” produttivi”. Tale perfezionamento dei poteri e facoltà umane producono “gioia della funzione”, vale a dire l’uomo gode della e nella propria attività, provando piacere e felicità intesa come vita ben vissuta.

Per Deleuze, l’inconscio è al servizio e in funzione del desiderio sempre “buono e naturale”, per Fromm, al contrario, il desiderio è al servizio dell’inconscio umanistico dell’essere umano – inconscio che può avere un valore positivo ma anche negativo –, insomma il desiderio non sempre è buono e “desiderabile” ai fini della felicità e anche della salute mentale dell’individuo. (Basti pensare a un carattere sadico o masochistico che prova desiderio e piacere nell’infliggere o subire dolore a sé o agli altri). Il desiderio insomma va vincolato a valori umani positivi e “umanistici”, etici e spirituali, nonché sociali ed interpersonali. Per dirla con Fromm bisogna essere “responsabili del proprio inconscio”, quindi del proprio “desiderio”.

L’energia liberata grazie alla terapia analitica dalle dissociazioni e dal complesso edipico o meglio dalla fase preedipica secondo Fromm, serve a emancipare l’individuo dai propri complessi psicologici, blocchi ostruttivi ed inibizioni caratteriali che gli impediscono di essere se stesso in modo originale, autentico e creativo, perfezionando se stesso e in modo “produttivo” la società “alienata” ed alienante: così si riduce la “patologia della normalità” ed accedendo ad un più alto livello di coscienza di sé (eliminando dissociazioni e distorsioni paratattiche intrapsichiche) di intuizione dell’Essere della Realtà Umana, raggiungendo una condizione di Ben-essere, di “illuminazione” e di vita ben-vissuta cioè in armonia con se stesso e con il mondo circostante.

Restando in contatto con Erich Fromm, con il suo modo di concepire l’Essere, incontriamo il pensiero di Leopardi, che ha conosciuto il desiderio e percorso il sentiero dell’insolvibilità nel gorgo muto di una poesia estrema eppure vitale:

Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana.[17]

Umanizzare l’uomo e “de-patologizzare la società” (anche con riforme politiche sociali economiche) vanno di pari passo.

Una società migliore consente un migliore sviluppo umano e inversamente un umanità migliore, in senso psicologico etico spirituale, realizza una migliore organizzazione e funzionamento della società.

Insomma secondo Fromm la psicoanalisi è una teoria e pratica terapeutica al servizio della salute mentale come pure dell’umanesimo, nel senso più alto del termine, cioè come perfezionamento della vita del soggetto umano realizzando la sua identità soggettiva in relazione alla natura umana che gli inerisce e alle condizioni sociali economiche esistenziali in cui è situato.

Nasce, intorno alla soggettività, una domanda tutta interpersonale. Che cosa sarebbe l’Uomo, senza un Edipo? Senza sperimentare il desiderio e senza conoscere il significato che si esperisce per il tramite della limitazione? Scriveva Karen Blixen:

Fino ad oggi […] nessuno ha veduto gli uccelli migratori dirigersi verso sfere più calde che non esistono, o i fiumi dirottare attraverso rocce e pianure per correre in un oceano che non può essere trovato. Perché Dio non crea una brama [un desiderio] o una speranza senza aver pronta una realtà che le esaudisca. La nostra brama [il nostro desiderio] è la nostra certezza, e beati siano i nostalgici, perché torneranno a casa.[18]

Edipo e anti-Edipo, dovranno abbracciarsi nella psicologia dell’adulto, nell’affermazione della sua soggettività. D’altro canto, la psicoanalisi è uno scenario di discussione lacerato, in alcuni casi, dallo scontro ideologico. È necessario ricondurre il confronto, come avrebbe voluto lo stesso Fromm, ad una dialettica dei saperi, dei punti di vista, e non ad un conflitto di potere tra ortodossia e invidia del potere. Con la brillante sintesi di Luigi Longhin:

Il problema dell’ortodossia è presente fin dagli inizi della storia della psicoanalisi. Intorno agli anni cinquanta dello scorso secolo si iniziò a ritenere che la metapsichica di Freud non era sostenibile, pur essendo ritenuta una dottrina sacra. Nascono nuove metapsichiche, ma in modo celato, perché l’ortodossia deve essere rispettata. Sorge il problema epistemologico che permette di indicare quando una disciplina può dirsi scientifica con la concezione analogica di scienza e la precisazione dei pilastri fondamentali di ogni scienza, ivi compresa la psicoanalisi. Da qui l’importanza dell’approfondimento scientifico: una delle conquiste più qualificanti dell’epistemologia attuale per poter distinguere la scienza dall’ideologia.[19]

La dirompente rivolta anti-ideologica tout court, non mediata da una morbidezza interpretativa, rischia di essere distruttiva, e di tradire se stessa, aderendo ad un nuovo, più temibile e cieco potere furioso, invidioso, a qualche livello strettamente edipico. L’adesione alla teoria fondazionale che si regge sull’Edipo, «sull’eccessivo spostamento di accento sul Super-Io paterno»[20], rischia invece di costruire una tecnica schiacciante, inglobante, facendo della psicoanalisi una sorta di madre-cattiva, e disconoscendo quindi il fondamento maschile su cui millantava di reggersi. Non è possibile, quindi, affermare conclusioni mature restando intrappolati nella paura della polarizzazione: occorrerà stare in questa tensione, accogliere e nello stesso tempo archiviare tutte le voci contrastanti, ammettere che la psicoanalisi “buona”, dipende da chi la esercita, e da come l’Edipo – in qualità di struttura interna, di modello operativo – si debba rapportare alle spinte anti-edipiche interne, che pure devono esistere, poiché ci permettono di vigilare sull’abuso di potere, di evitare la tremenda deriva delle letture unipolari, monoculari, senza profondità. Riconoscere il mito, quale che sia, che è in grado di utilizzare il nostro mondo emotivo, di abitarlo. Scrive Hillman:

Se abbiamo una grande inquietudine e dei problemi, il primo passo per uscire dal problema è capire che al centro del problema in questione c’ è un mito. Allora capiamo che non siamo solo noi come individui la causa di quella inquietudine. È il perdurare di una strutturazione mitica del comportamento umano a operare in me.[21]

D’altro canto, ad un certo punto si sancisce il passaggio da un mito paterno ad un mito “materno”, inteso come prospettiva interpersonale, proprio nella psicoanalisi.

Grotstein (1981) parla di una rivoluzione epistemologica nella psicoanalisi, che è insita nello spostamento «dai meccanismi di rimozione ai meccanismi di scissione e di identificazione proiettiva».[22]

La materia della tragedia, il tessuto del mito, le fasi della psicodinamica, allora si intrecciano, come piani che si incrociano, a ricordare Escher, e il suo gioco metafisico di scale.

Concludiamo con Roland Barthes, sempre dall’Abbraccio nei Frammenti:

  1. Momento dell’affermazione, per un po’, anche se limitatamente, disordinatamente, qualcosa è andato per il verso giusto: sono stato appagato (tutti i desideri aboliti attraverso la pienezza del loro soddisfacimento): l’appagamento esiste, e io lotterò senza tregua per ottenerlo di nuovo: attraverso tutti i meandri della storia amorosa, mi ostinerò a voler ritrovare, rinnovare, la contraddizione, la contrazione, dei due abbracci.[23]

 

[1]  G. Deleuze (1975-1995), Due regimi di folli e altri scritti, Einaudi, Torino 2010, p. 255.

[2] G. Deleuze (1972-1990), Pourparler, Macerata, Quodlibet, 2000, p. 192.

[3] Cfr. G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione (1968), Spinoza (1970), Spinoza. Filosofia pratica (1981).

[4] G. Deleuze (1981), Spinoza: filosofia pratica, Guerini e Associati, Milano 1991, p. 29

[5]  ladeleuziana.org

[6] G. Deleuze, F. Guattari (1972), L’Anti-Edipo. Capitalismo e Schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, p. 3.

[7] Cfr.: M. Bacciagaluppi, L’ideologia personale di Erich Fromm, in A. Imbasciati, L. Longhin, Psicoanalisi, Ideologia ed Epistemologia, a cura di L. La Stella, Aracne, Roma 2014, pp. 253-258.

[8] Panikkar (1996) fa ricorso ad un nuovo concetto, ortoprassi, per parlare di due espressioni della fede e della credenza che non possono né essere mescolate né si escludono a vicenda: dottrina e morale. La prima identifica la fede con l’ortodossia, adesione ad una giusta dottrina, ma identificare la fede con l’ortodossia può portare al “dogmatismo” (che mette in risalto rigidamente il valore di una determinata formulazione intellettuale della fede). «La formulazione della fede non può essere essenzialmente legata al suo contenuto perché ciò ne violerebbe il carattere trascendente. La fede è un mistero che non può essere vincolato a una forma di espressione definitiva né riferito univocamente ad alcuna formulazione» (La nuova innocenza). La seconda insiste sul carattere morale dell’atto religioso, supremazia del bene, tendendo ad identificare la fede con un determinato comportamento morale corretto (ortopoiesis). Identificare però la fede con la rettitudine morale porta al “moralismo” (esasperazione dell’atto di fede); quindi “si distrugge il fondamento stesso della religione che pretende essere ben più che un mero perfezionismo”. Panikkar propone, come superamento di entrambi gli estremi, il concetto di fede quale ortoprassi. L’uomo è più che semplice spettatore e interprete del mondo, è prima di tutto un attore; l’ortoprassi vuole essere un autentico cammino di salvezza, “divinizzazione”. La fede dunque non è tanto una dottrina o una morale, quanto “un atto fondamentale che ci apre alla possibilità di perfezione” (L’homme qui devient Dios, Paris 1970).

[9] R. Barthes (1977), Frammenti di un discorso amoroso, p. 13, «Abbraccio», Einaudi, Torino 2014.

[10] E. Fromm (1962), Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1995, pp. 188-193.

[11]  E. Fromm, ibidem, pp. 193 e segg.

[12] Cfr. Bachofen, in E. Fromm (1962), Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1995, p. 196.

[13] Bachofen sostiene che agli albori della società prevalessero le organizzazioni matriarcali, anche per la necessità di verificare l’attendibilità della discendenza. Giocasta protende verso il marito Laio, consentendo un ulteriore rinforzo della forma patriarcale.

[14] E. Fromm, Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1962, pp. 188-193.

[15] E. Fromm, ibidem.

[16] J.P. Vernant (1967), Edipo senza complesso, Mimesis, Milano 1996, p. 33.

[17] G. Leopardi (1831-1835), Poesie e prose, «Pensieri» LXVIII, Mondadori, Milano 1980, v.II, p. 321.

[18] K. Blixen (1958), Capricci del destino, Feltrinelli, Milano 2003, p. 40.

[19] L. Longhin, La psicoanalisi può contenere un’ideologia?, in A. Imbasciati, L. Longhin, Psicoanalisi, Ideologia ed Epistemologia, a cura di L. La Stella, Aracne, Roma 2014, pp. 233-252.

[20] F. Fornari, La lezione freudiana, Feltrinelli, Milano 1983, p. 213.

[21] J. Hillman, L’anima del mondo. Conversazione con Silvia Ronchey, Rizzoli, Milano 1999.

[22] L. Longhin, ibidem.

[23] R. Barthes, op. cit., p. 13 e segg.

LA GRAVIDANZA COME “GESTAZIONE ONIRICA” – l’arte (collettiva) dell’attesa –

di Giovanna Nicolò 3 febbraio 2017

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Dreamers Meeting Place di Duy Huynh

SOMMARIO

  • La gravidanza: gestazioni psichiche
  • Una “gestazione onirica”

La culla onirica originaria e la funzione di rêverie

  • Nuove prospettive di sostegno alla genitorialità in gravidanza

La formazione per una rêverie sociale

 

La gravidanza: gestazioni psichiche

Paul-Claude Racamier (1986) ha coniato il termine maternalità – condensando i termini materno, maternità e natalità – per indicare quell’insieme di peculiari processi psicoaffettivi che costituiscono una vera e propria crisi esistenziale, corrispondente al tempo della gravidanza e al periodo postnatale.

Si può parlare, in altri termini, di una “gestazione psichica”, cioè del formarsi di un grembo psichico, che accompagna la “gestazione biologica”, anche se va detto che «lo sviluppo dell’embrione-feto-bambino nel pensiero della madre non segue sempre il ritmo fisiologico» (Marinopoulos, 2005, p. 138), e lo stesso vale per le rappresentazioni di sé come madre: non è scontato   che   la   donna   incinta   sia   psicologicamente   pronta   a   diventare   madre.     Proprio

«l’accompagnamento del concepimento mentale al concepimento biologico mette la donna in condizione di sviluppare la capacità di tenere e di contenere permettendo lo sviluppo armonico della relazione madre-bambino» (Ferrara Mori, 2008, p. 111).

 A sua volta, il padre è chiamato a costruire uno spazio intrapsichico che gli consenta di immaginare il bambino che la partner porta in grembo, la partner come madre, sé come padre, in modo da poter assolvere, già in gravidanza, la sua funzione di contenimento e sostegno, relazionandosi con la diade madre-bambino: anche per l’uomo la gravidanza comporta una serie di processi psicoaffettivi che può determinare una vera crisi (potremmo parlare di “paternalità”), un lavoro che, al pari di quello della donna incinta, implica processi di rielaborazione e anticipazione che fondano tanto i necessari rimaneggiamenti identificatori quanto gli scambi interattivi che si vengono ad instaurare in gravidanza e dopo la nascita del figlio (sul piano immaginario come su quello reale).

Di fronte al lavoro psichico che i “genitori in divenire” intraprendono, e alla luce dello stato di particolare sensibilità psicosomatica che essi sperimentano, possiamo affermare che entrambi sono “gravidi”: tanto per la madre quanto per il padre, la gestazione psichica configura la dimensione nella quale poter rielaborare i fantasmi originari che si riattualizzano, potersi riorganizzare a livello identitario, poter riconoscere il bambino come il frutto creativo di un progetto di coppia, in modo da accoglierlo come figlio – altro da sé e soggetto in divenire – e preparare il suo “arrivo nel mondo”. Tutto questo corrisponde a fantasie caleidoscopiche, che possono essere “di transizione” (evolutive- trasformative) o “senza ritorno” (regressive-coattive), idealmente collocabili lungo un continuum, trattandosi di dimensioni non mutualmente escludentesi, comunque compresenti (Ferraro, Nunziante Cesàro, 1985).

Non possiamo sottovalutare i «segni di prevenzione genitoriale» (Missonnier, 2003) e le potenzialità “virtualmente” insite nella fase d’attesa. Non va dimenticato che è «la qualità strutturale della riemergenza conflittuale, indotta dalla trasparenza psichica del periodo prenatale, che sarà messa alla prova dalla realtà del parto e dalla presenza del neonato in carne ed ossa. La sfumatura più o meno traumatica della transizione alla genitorialità postnatale dipenderà in parte dalla qualità della maturazione dell’anticipazione della genitorialità nel periodo prenatale» (ibidem, p. 50) […] «la storia individuale e intergenerazionale di ognuno dei genitori e la storia della loro coniugalità danno un profilo singolare all’anticipazione perinatale individuale e coniugale» (ibidem, p.73). Riconoscere tutto ciò significa anche, dunque, fare prevenzione.

Una “gestazione onirica”

Le differenti funzioni genitoriali corrispondono a rappresentazioni in parte analoghe ma in gran parte peculiari. La riflessione sulla relazione tra sogno e gravidanza mi ha dato modo di sottolineare come questa peculiarità sia profondamente fondata – oltre che su una dimensione mitica culturalmente connotata, a sua volta radicata nella differenza biologica tra donna e uomo – su fantasie preconsce ed inconsce, “antiche” e/o “in costruzione”, ad occhi aperti e/o oniriche.

Il feto è un «oggetto virtuale» (Missonnier, 2003), è sentito come parte di sé eppure non si vede, c’è e non c’è, e per questo la sua rappresentazione implica uno sforzo notevole. Se il sogno è il primo stato nella formazione del pensiero, che dà forma alle esperienze emozionali e tesse legami tra la vita fantasmatica e la realtà esterna (Bion, 1962), sognare il bambino significa accoglierlo e ri- conoscerlo in uno spazio transizionale, significa costruire un involucro contenitivo e trasformativo dell’esperienza interiore della gravidanza, un’esperienza comune e condivisa. La gravidanza può allora essere pensata come sogno, come “gestazione onirica”: i processi di rielaborazione ed anticipazione immaginativa implicano attività di legame e trasformazione in funzione della costituzione di un grembo psichico che contenga il feto-bambino.

 Come sappiamo per Freud il sogno ha essenzialmente tre funzioni: preservare il sonno; realizzare il desiderio inconscio mediante allucinazione; consentire, attraverso l’interpretazione, l’accesso all’inconscio. Gli psicoanalisti moderni e contemporanei hanno ripreso e parzialmente sviluppato queste tesi, in particolare «I modelli psicoanalitici attuali vedono nello strumento clinico dell’interpretazione una costruzione di senso e non uno svelamento di significato, spostando chiaramente in primo piano i processi comunicativi, il modo di agire il racconto del sogno, il testo relazionale rispetto a processi come la rimozione, la censura. (…) Nello stesso processo analitico, il sogno è ricondotto a una modalità di narrazione-racconto nell’ambito della privilegiata relazione duale paziente-analista» (Margherita, 2009, pp. 45-47).

La culla onirica originaria e la funzione di rêverie

 Kaës (2002) afferma che «il lavoro del sogno, a monte per quanto riguarda le possibilità, e a valle per quanto riguarda il suo racconto, avviene nel rapporto con altri sognatori» (ibidem, p. 38). A valle, l’utilizzazione del sogno nel legame intersoggettivo e nello spazio psichico comune può avere diverse funzioni: principalmente quelle di appoggio e holding onirico, di messaggio, di elaborazione terapeutica e di restaurazione del Preconscio; a monte, la formazione dello spazio psichico comune e condiviso deriva da quella dello spazio onirico originario: una dimensione «pre-onirica» che realizza il desiderio inconscio di un’identità magica con l’oggetto e ne è, al contempo, il «prodotto incestuoso».

La rêverie materna costituisce il presupposto della costituzione dell’apparato per sognare e per pensare (Bion, 1962): i riflessi trasformativi che la madre, sin dalla gravidanza, restituisce al bambino costituiscono la fonte, la materia e il processo della «culla onirica originaria», definita da Kaës (2002) come «il luogo primo dello spazio psichico comune e condiviso». Secondo Kaës la psiche dell’infans nasce dal sogno della madre, dalla sua funzione di rêverie, dalla culla che i pensieri onirici in gravidanza – pensieri di un altro e di più di un altro – vengono a formare. Questo involucro onirico originario protegge dagli stimoli perturbatori che renderebbero irraggiungibile lo scopo del sogno, ossia la realizzazione allucinatoria del fantasma di desiderio inconscio: «Sognare è prima di tutto tentare di mantenere l’impossibile unione con la madre, preservare una totalità indivisa, muoversi in uno spazio di prima dei tempi» (Pontalis, 1972). Costituendo il sonno una «riattivazione del soggiorno nel grembo materno» (Freud, 1915, p. 176), il disinvestimento richiesto dal sogno ha come correlato l’investimento dello spazio materno: «Il corpo proprio non ha solo uno statuto di contenitore e di fonte dello spazio del sogno (…) il corpo e la psiche materni assicurano le condizioni del sogno, lo albergano e forse lo lavorano» (Kaës, 2002, p 40).

 Kaës (2002) sottolinea anche che se la funzione sognante materna è compromessa, la ricostituzione nella madre della funzione di para-eccitazione – e del rapporto simbolico con il bambino – richiede un’attività trasformativa sostitutiva che il padre è chiamato a svolgere, assumendo una funzione “materna” di holding onirico: se il padre – o chi per lui – non riconoscesse, contenesse e trasformasse l’esperienza traumatica, svolgendo una funzione sognante che contiene e garantisce la rêverie materna, gli elementi sensoriali grezzi – elementi beta – (Bion, 1962) andrebbero a contaminare lo spazio psichico comune della diade – lo «spazio psichico comune e condiviso» di cui parla Kaës, trovando vie di espulsione nell’agire e nella somatizzazione, con effetti disorganizzanti, devastanti sulla relazione con il feto-bambino, sulla sua esperienza e sulla formazione del suo apparato per sognare e pensare. Il padre è chiamato a farsi «primo nemico» per bonificare dal male, garantendo la simbiosi madre-bambino e, quindi, la sopravvivenza di entrambi (Fornari, 1981): sembra che il padre faccia un po’ da tramite, che la sua rêverie funzioni come dispositivo transizionale, come una sorta di sogno-crocevia. Il grembo psichico che si viene a formare in gravidanza porta in sé, quindi, non solo il bambino che nascerà ma anche il divenire di una madre e di un padre.

Nuove prospettive di sostegno alla genitorialità in gravidanza

Dunque, con la nascita viene alla luce, sottoponibile all’esame di realtà, tutto ciò che nell’attesa i genitori hanno trasformato dentro di sé, attraverso sogni che tessono legami e ne elaborano le dinamiche. È soprattutto per questo che la fase dell’attesa non va sottovalutata, nel bene e nel male, ed è necessario sviluppare nuove prospettive e pratiche di sostegno alla genitorialità in gravidanza. A tal proposito, altrove (tesi di laurea magistrale) ho fatto riferimento a sguardi ed interventi che possono andare incontro ai bisogni e ai desideri dei genitori in divenire, offrendo dimensioni di accoglienza ed elaborazione: la pre-infant observation, i corsi di preparazione ah hoc rivolti a padri in attesa, la formazione specialistica per una rêverie sociale.

La riorganizzazione necessaria affinché la gravidanza si configuri quale progetto creativo ed evolutivo di coppia è un lavoro, principalmente psichico, che chiama in causa non solo i genitori ma anche gli operatori che li incontrano e che dovrebbero offrire un adeguato contenimento e supporto, nonché la società in senso più ampio, con il suo piano istituzionale da non tralasciare. Il sogno parentale, che tesse e trasforma fantasie polifoniche, dovrebbe infatti poter essere elaborato in una enveloppe che fornisca ulteriore holding, onirico e narrativo, dando modo ai genitori di integrare l’attesa nella propria storia, personale, familiare e transgenerazionale. Definisco “rêverie sociale” quella funzione elaborativa che si distribuisce e realizza attraverso il lavoro di “corpi sociali concentrici”, un lavoro di riconoscimento, accoglienza, contenimento e trasformazione.

La formazione per una rêverie sociale

«C’è una storia biologica, genetica, gravidanza-parto-nascita, che necessita di attenzioni mediche, ma c’è soprattutto una storia relazionale, che necessita di un’attenzione empatica e rigorosa» (Ferrara Mori, 2008, p. 150): sembrerebbe quasi un fatto scontato, ma in realtà questa storia relazionale, in quanto tale ambivalente, può passare “inosservata”, può essere “oscurata” o “distorta” per evitare il conflitto o difendersi da esso, e non soltanto da parte dei protagonisti della storia – i genitori – ma anche da parte di tutti i professionisti chiamati a “gestire” anzitutto l’evento biologico, con il rischio di tecnicizzare quel peculiare, imprevedibile e caleidoscopico microcosmo che l’esperienza interiore della gravidanza crea, mette in moto, trasforma.

È dunque di fondamentale importanza una preparazione psicologica alla maternità, un accompagnamento   nell’ambito   del   quale   «La   psicologa   ha   una   funzione   di  accudimento dell’esperienza gestazionale» (ibidem, p. 69), insomma un ascolto che in primis possa riconoscere l’ambivalenza, più o meno polarizzata, insita nella gravidanza, «teatro di luci e ombre» (Marinopoulos, 2005). Ciò rende altrettanto fondamentale formare all’ascolto, in primo luogo tutti gli operatori che assistono la gravidanza e la nascita.

L’ascolto a cui faccio riferimento si costella di parole sensibilmente scelte e condivise, che fanno da filo conduttore. «Curare le future madri richiede tecnica, sorveglianza, garanzie mediche. Ma per prendersi cura di loro è indispensabile aggiungere a tutto questo la parola. Parlare alle madri, sostenerle nell’espressione di un dire emotivo nuovo, a volte perturbante, è indispensabile nella nostra presa in carico. È uno strumento al tempo stesso terapeutico e di prevenzione» (Marinopoulos, 2005, p.157). Deve trattarsi – e qualcuno potrebbe pensare ad un paradosso – di una parola che presta ascolto, che si presta ad esprimere quanto risuona nella comunicazione empatica, non sempre conscia, non sempre detta, non sempre dicibile, affinché l’esperienza emotiva vissuta possa farsi narrazione, e trovare il proprio posto in una storia rappresentabile ed elaborabile, costruita attorno all’evento gravidanza, ma proiettata oltre. L’ascolto partecipe diviene così un incontro che concilia, in modo da disporre un altro incontro, l’Incontro tra il genitore e suo figlio.

Allargando lo sguardo, possiamo, infatti, trovarci d’accordo sul fatto che «la difficile e complessa convivenza dei codici lavorativo, femminile e materno necessita di un contenitore sociale e sanitario» (Ferrara Mori, 2008, p. 144). Ed aggiungo che anche il padre in attesa – a maggior ragione, alla luce dei profondi cambiamenti socio-culturali che negli ultimi cinquant’anni hanno investito le funzioni genitoriali – ha bisogno di una “rete” di contenimento e sostegno, di “rêverie sociale”.

Purtroppo nella società odierna, sempre più individualistica, si tende a vivere anche la maternità e la paternità come questioni private, e ciò annulla o, comunque, compromette quella funzione sognante di holding sociale che dovrebbe essere a monte e a garanzia della rêverie materna e paterna. Vorrei concludere con una riflessione di “apertura”. Apertura a nuove prospettive e pratiche che partano dalla formazione di tutti gli operatori sociali che, in diversi modi e tempi, si trovano ad incontrare la gravidanza e la nascita.

«Operare per la nascita alla vita significa lavorare per la nascita dei padri, delle madri e dei bambini. Significa prendersi cura della nascita della famiglia. Se capissimo questo, se provassimo a elaborare un “involucro empatico sociale non giudicante”, sapremmo prestare un’attenzione autentica a tutte queste nascite. Se la cura psichica è di competenza dello psicologo, l’accoglienza delle emozioni dei futuri genitori è di competenza di tutti1. Innanzitutto naturalmente del personale che li accoglie nel reparto, che però è impotente senza un pensiero collettivo che lo sostenga. (…) La maternità [come la paternità – aggiungo] è un’iniziazione rituale al divenire genitore, è un luogo di passaggio che deve essere pensato e contenuto dalla nostra società, come fa una madre con il figlio. Questo sarà possibile solo se viene accettata la dimensione simbolica dell’incontro del feto-bambino con i suoi genitori (…) Dobbiamo esserci per tutte le madri [e i padri]» (Marinopoulos, 2005, p. 170).

Il «corpo sociale» può e deve farsi «madre delle madri» (Ferrara Mori, 2008), e dei padri. Farsi involucro onirico.

___________________________________________________________________________

1  Il corsivo è mio.

BIBLIOGRAFIA

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Racamier P. C., Taccani S. (1986). Il lavoro incerto, ovvero la psicodinamica del processo di crisi. Pisa: Edizioni del Cerro.

27
Miracle of Birth di Vladimir Kush

 

Il ciclo Antoine Doinel. Disavventure di una autorealizzazione

di Giovanna Nicolò 25 novembre 2016

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  • Introduzione

Era il 2009. Frequentavo allora il corso di Laurea triennale in Psicologia dei processi relazionali e di sviluppo, le cui lezioni si tenevano in Aula Piovani – Facoltà di Lettere e Filosofia – via Porta di Massa, 1 – Napoli. Proprio in quella stessa aula si tenne la Giornata di Studio Internazionale “La famiglia nel cinema: un oggetto della psicoanalisi applicata”, alla quale partecipai. Fu in quell’occasione che ebbi modo di assistere alla proiezione del film “I quattrocenti colpi” di François Truffaut. Ricordo che ospitammo Anna Loncan[1], il cui intervento (Bambini trascurati: potenziamento dei legami tra distruttività e creatività. A proposito de “I 400 colpi” di François Truffaut) fu per me particolarmente interessante.

All’epoca, pur rimanendo profondamente colpita sia dal film che dalla storia e dalla lettura squisitamente psicoanalitica che era stata proposta, non mi appassionai a tal punto (e me ne meraviglio ancora!) da scoprire e voler conoscere l’intero ciclo Antoine Doinel, che consta di cinque film, quattro lungometraggi ed un cortometraggio. L’anno scorso mi capitò poi di rivedere, da sola, quel film visto per la prima volta in una aula universitaria allestita a sala cinematografica, ma stavolta volli seguire la storia “fino in fondo”, o meglio sino all’ultimo film del ciclo, “L’amour en fuite”, che io definirei un amabile punto di integrazione, sotto tanti aspetti, come si vedrà. Avendo suscitato in me nuove riflessioni, connessioni e considerazioni non slegate da tematiche che mi sono care sul piano formativo-professionale.

Ma facciamo un passo indietro …

 “Les Quatre Cents Coups”. Il primo lungometraggio di un giovane regista, François Truffaut, allora ventisettenne, diventò immediatamente celebre, inaugurando, nel 1959, la corrente cinematografica «La Nouvelle Vague», di cui costituisce l’emblema. La presentazione a Cannes, dove vinse la Palma d’Oro, sancì per il regista l’inizio di una carriera tutta in rapida ascesa, rappresentando per i giovani cineasti della corrente La Nouvelle Vague l’occasione di affermare, dinanzi al grande pubblico, la loro presenza a livello internazionale.

“Les Quatre Cents Coups” viene tradotto letteralmente in italiano con il titolo “i 400 colpi”, erroneamente, distorcendone il reale significato, che voleva essere inteso come il modo di dire “combinarne di tutti i colori” o anche “fare il diavolo a quattro”. Del resto, non ci si riferisce semplicemente alle stupidaggini compiute da un adolescente, ma, più profondamente, si rinvia ai “duri colpi” che Antoine, nella sua breve ma complicata storia, ha subìto e continua ad attirare a sé, in un circolo vizioso.

I 400 colpi non vuole essere né saggio pedagogico né opera leggera, ma lo specchio di una verità intima e profonda, che fa incontrare ed integra amabilmente coppie antinomiche (nomotetico/idiografico; tragedia/commedia, ecc.), in un itinerario unitario ed unico.

Un film mitico, una novità, dal punto di vista concettuale, stilistico ed espressivo, capace di meravigliare critica e pubblico. Un capolavoro che inizia una impresa unica nel suo genere: sarà il primo film di un ciclo – quattro lungometraggi, un cortometraggio, distribuiti nell’arco di vent’anni (Les 400 coups, 1959; L’ amour à vingt ans, 1962; Baisers volés, 1968; Domicile conjugal, 1970; L’ amour en fuite, 1979) – che vedrà lo stesso protagonista, interpretato dallo stesso attore (Jean-Pierre Léaud), crescere (da adolescenza a età adulta), lungo un percorso esistenziale di difficile auto-realizzazione.

L’asse narrativo è la figura in divenire di Antoine Doinel, sotto molti aspetti autobiografica, “alter ego” del regista Truffaut. In “Les 400 coups”, il dodicenne parigino Antoine è un figlio non desiderato e non amato, manipolato all’occorrenza, e lo sa: cresciuto dalla nonna durante la sua infanzia, vive ora con la madre e il padre adottivo, una coppia finta, formale, esito di un matrimonio riparatore, in una casa nella quale Antoine non ha diritto neppure a spazi fisici (dorme nell’ingresso).

Antoine esprime fame di attenzione e amore che gli adulti, autorità rigide, non sono disposti a concedergli; egli ricerca limiti e confini che possano placare, seppur provvisoriamente, i suoi bisogni di essere visto e contenuto, mediante tendenze e comportamenti antisociali in adolescenza (bugie, furti, fughe), che si traducono, in età adulta, nella reiterazione di meccanismi di difesa fallimentari (si pensi all’incapacità di Antoine di tenersi un lavoro, alla frequentazione occasionale di bordelli, alle molteplici relazioni sentimentali ed extraconiugali).

In una delle prime sequenze di Domicile Coniugale, Antoine, parlando con un ex collega del suo matrimonio con la giovane violinista Christine, afferma: «Non ho mai amato una donna in particolare. Sono amante della famiglia, padre madre …, e finalmente non sono più solo». Di Christine ama il suo essere dolce e pulita e la gentilezza della sua famiglia, elementi che gli consentono di sperimentare, almeno superficialmente, un senso di sicurezza e fiducia. Sarà proprio lei, Christine, la madre di suo figlio, che Antoine chiamerà Alphonse a dispetto del parere materno. Doinel tenderà a mentire e a tradire, continuamente, senza provare alcun senso di colpa e rimorso. Dopo un tradimento, dichiarerà a Christine: “sei la mia sorellina, sei mia figlia, sei mia madre”, la quale gli risponderà: “avrei preferito essere la tua donna”. L’ultimo film della saga vede il divorzio da Christine, ma anche l’incontro con una figura “terapeutica”, che gli consentirà di prendere consapevolezza dell’irrisolto, di ri-conoscere sua madre, oramai morta, e di lasciarsi andare ad un amore incondizionato (quello per Sabine). Direbbe Erich Fromm alla “libertà di” … sperimentare l’unità prodotta da un attivo amore che trascende l’ego, supera le modalità dell’avere e sceglie l’autenticità dell’essere.

Con queste parole il regista Truffaut racconta chi è Antoine: “Antoine Doinel procede nella vita come un orfano e cerca famiglie sostitutive. Purtroppo quando le trova tende a scappare perché rimane un individuo incline alla fuga. Doinel non si oppone apertamente alla società, e in questo non è un rivoluzionario, ma fa la sua strada ai margini della società, diffidando di essa e cercando di farsi accettare da coloro che ama e che ammira perché la sua buona volontà è totale. Antoine Doinel non è quello che si potrebbe chiamare un personaggio esemplare, ha fascino e ne abusa, mente molto, chiede più amore di quanto non ne abbia da offrire lui stesso, non è l’uomo in generale è l’uomo in particolare. Antoine Doinel ama la vita, ma soprattutto gli piace di non essere più bambino, cioè qualcuno di cui si può disporre senza chiedergli un parere, qualcuno che si può lasciare da parte, dimenticare o rifiutare con crudeltà”[2].

Antoine è un uomo “terreno”, al quanto egocentrico, in alcune circostanze sembrerebbe poco empatico o addirittura egoista. Un essere umano “tragico”, alle prese con il perenne oscillare tra voglia bramosa di vivere e senso di alienazione; al contempo, assistiamo però al dispiegarsi del suo processo di autorealizzazione. D’altronde l’umanesimo di Truffaut, ereditato da Renoir, è da ritrovarsi in ogni suo personaggio.

Il pubblico ben accoglie questo protagonista, per il quale sente di nutrire un affetto insolito: lungi dall’incarnare il prototipo dell’eroe cinematografico, la sua insicurezza e il suo brancolare nella vita, tra gioie e dolori, conquiste ed errori, fortuna e disgrazia, lo rendono un anti-eroe automaticamente simpatico, in quanto vicino alla realtà ordinaria, tessuta di circostanze ed esperienze che non fanno che confermare la precarietà e le contraddizioni di una esistenza umana, alla ricerca di una felicità ideale ed impossibile, ma testimoniano anche l’apertura, nelle mani dell’uomo, di un ventaglio di infinite potenzialità.

  • Una anamnesi in celluloide

In “Les 400 coups” (- I 400 colpi) il dodicenne parigino Antoine, frutto di una relazione prematrimoniale, è un figlio non desiderato e non amato, manipolato all’occorrenza, e lo sa: affidato alla nonna materna (l’indebolimento fisico di quest’ultima deciderà l’accesso di Antoine al domicilio coniugale), vive ora con la madre e il padre adottivo, una coppia finta, formale, in una casa nella quale Antoine è tenuto in uno stato di abbandono affettivo e materiale dalla madre (basti pensare che non ha una camera da letto propria, dorme nell’ingresso, senza coperte, in un sacco a pelo).

La madre, Gilberte, donna bella e affascinante, salvata la faccia con un matrimonio riparatore, intreccia relazioni extraconiugali. Non presta attenzione ai bisogni di Antoine e non si prende cura di lui, pensa solo a se stessa; il padre adottivo, apparentemente bonario, strumentalizza il bambino per irritare o compiacere la moglie, a seconda delle circostanze, e non è certo una figura autorevole, rinfacciando e facendo pesare il fatto di aver riconosciuto un figlio non suo. Antoine, una notte, ascolterà una conversazione tra i coniugi a tal proposito, scoprendo la sua condizione di “bastardo” nato da padre ignoto attraverso gli echi ovattati ma distinti di una “scena primaria” burrascosa, provenienti dalla camera dei genitori.

A scuola Antoine manifesta la sua irrequietezza. Per questa ragione, lo scarso rendimento e gli scherzi, diventa, in diverse occasioni, il capro espiatorio di marachelle di altri. Il solo conforto alla sua solitudine è la lettura e l’amicizia con il suo compagno di scuola René, migliore (ed unico) amico, compagno di disavventure, appoggio per l’evasione. È con lui che marina la scuola per andare al cinema, nei parchi parigini e al Luna Park, alla ricerca di esperienze e attrazioni eccitanti (molto toccante la scena della giostra in cui il ragazzo sembra vivere un momento di puro divertimento). Un giorno, marinata la scuola in compagnia di René, scopre per caso la relazione adulterina della madre, incrociandola per strada e assistendo al bacio tra Gilberte e l’amante; l’indomani a scuola giustifica la sua assenza con una eclatante quanto simbolicamente carica bugia: “mia madre è morta”. Scoperta la bugia, la madre domanderà al marito: “Perché ha fatto morire me e non te?”. Accorrono a scuola la madre e il padre adottivo, il quale lo punisce dandogli un ceffone davanti a tutti i compagni di classe. Umiliato per la sua menzogna, Antoine fugge di casa e si rifugia nella stamperia dello zio di René, vagando poi di notte per le strade di Parigi. Rientrato a scuola, viene “perdonato” dalla madre, la quale, temendo che il figlio denunci la sua infedeltà coniugale, tenta di conquistarne la complicità, promettendogli una forte somma di denaro se migliora i voti in francese; così Antoine prende in prestito da Balzac uno stralcio che descrive la morte di un vecchio (riscrive una pagina letta dal romanzo La ricerca dell’assoluto) per scrivere un tema che riguarda la descrizione di “un fatto grave a cui avete assistito e che vi ha profondamente commosso” (parlerà della morte del nonno). Tornato a casa accende un cero a Balzac appiccando fuoco alle tende, ma non basta perché per quel compito il ragazzo verrà accusato di plagio dal maestro e punito.

Deluso e disperato, Antoine fugge ancora e va a vivere in casa di René. Escogita di rubare una macchina da scrivere nell’ufficio del padre, per pagare, per sé e per l’amico, una gita al mare, che non ha mai visto. Una volta realizzato il furto, i due ragazzi cercano, senza successo, di venderla a un ricettatore, Antoine viene scoperto dal custode nell’atto di restituirla. Il padre lo denuncia, punendolo senza esercitare una reale funzione paterna. Il ragazzo passa, così, una notte in cella con un delinquente e alcune prostitute. La madre, per liberarsene, acconsente con durezza, “per dargli una lezione”, a che venga rinchiuso in un riformatorio lontano da Parigi, dove la disciplina è molto rigida, tanto che Antoine viene punito fisicamente con un sonoro ceffone per aver consumato anzitempo il suo pane. Viene poi interrogato da una psicologa sulla sua vita intima e sui difficili rapporti con i genitori, rispondendo alle domande con sconcertante franchezza: è in occasione di questo colloquio che viene fatta, dal diretto interessato, una sintesi più completa della propria storia infantile, fornendo elementi che prima non erano emersi del tutto. Antoine evoca anche una conversazione burrascosa udita tra la nonna e la madre, dichiarando “Mi ha voluto far abortire” (il doppiaggio in italiano non traduce il lapsus, A. dice della madre solo che “aveva voluto abortire”).

René va a trovarlo ma, per le regole dell’istituto, non può parlargli. La madre gli comunica in modo brusco la decisione di abbandonarlo a se stesso e che il padre non avrebbe più voluto incontrarlo, colpevolizzando del rigetto paterno e, meno esplicitamente, del proprio. Durante una partita di pallone Antoine approfitta della disattenzione dei sorveglianti e fugge, in una lunga corsa sino al mare. Si spinge sino alla battigia e si volta, dopo essere entrato con le scarpe in acqua. La scena finale vede un fermo immagine, in cui viene inquadrato lo sguardo del giovane Antoine verso lo spettatore, uno sguardo di dolore, ma privo di retorica, carico di speranza e di desiderio di libertà.

Nel cortometraggio “Antoine e Colette” (- Antoine e Colette, in L’amore a vent’anni) si assiste alla prima storia sentimentale di Antoine. Antoine, giovanissimo, lavora alla Philips e vive da solo. Innamorato di Colette, una studentessa che ha incontrato ad un concerto della Gioventù musicale, Antoine, romantico e sognatore, si sforza di avvicinarsi a lei e di conoscerla, ma Colette è sfuggente; non esita a traslocare per andare ad abitare di fronte a casa sua, diventando amico dei genitori della ragazza. “E questo, appunto, spiega l’insuccesso di Antoine in “L’amore a vent’anni”: Colette non sa che farsene di un ragazzo che ha sedotto i suoi genitori!” – dichiara il regista in “Il piacere degli occhi”.

In “Baisers volés” (- Baci rubati) ritroviamo 5 anni dopo Antoine Doinel che, partito volontario per il servizio militare (per dimenticare la delusione amorosa), è stato riformato dall’esercito per instabilità di carattere. Va in un bordello, dove la freddezza di una prostituta, giovane e bella, lo spinge fuori dalla camera, ma si imbatte in un’altra donna del mestiere, più grande e più materna, che preferisce alla prima. Si reca a casa della sua vecchia amica Christine Darbon, dove i genitori della ragazza lo accolgono volentieri mentre Christine lo tratta con distacco. Il padre di Christine gli procura un lavoro come portiere di notte dell’Hotel Alsina. Antoine è entusiasta in quanto ha la possibilità di leggere indisturbato, ogni tanto va a cena dai genitori di Christine; una sera, in cantina, ruba alla ragazza un bacio.

Antoine perde il posto perché lascia entrare un investigatore privato che sorprende una coppia clandestina in una stanza dell’albergo. Proprio l’investigatore, però, lo fa assumere nella sua agenzia, la Dubly. Antoine si dedica a maldestri pedinamenti; nel frattempo frequenta Christine, ma sembra essere lui ora quello distaccato, sfuggente. Gli viene affidato il caso del Signor Tabard, facoltoso proprietario di un negozio di calzature, che lo ingaggia come finto magazziniere per portare avanti indagini sul “perché è detestato da tutti” (questo l’interrogativo posto dall’uomo all’investigatore a capo dell’agenzia), ma si innamora della idealizzata Signora Tabard. Nel frattempo Christine si reca al negozio, per avere notizie di Antoine, il quale reagisce in malo modo a quelle che percepisce come pretese improvvise della ragazza: durante questo incontro Antoine, preso dalla rabbia, dice a Christine che non la stima e che non la stimava neppure quando credeva di amarla. La Signora Tabard, capito il debole di Antoine per lei, si reca a casa del giovane e lo seduce, trascorrendo qualche ora lieta con lui. “Io non sono un’apparizione … sono una donna” – afferma Fabienne Tabard, aggiungendo che tutti siamo unici ed insostituibili e che il padre sul letto di morte disse: “la gente è eccezionale”. Antoine viene licenziato per la storia con la Tabard, in quella circostanza un infarto stronca l’investigatore che aveva fatto assumere Antoine, il quale, dopo i funerali, alla ricerca di attenzione e consolazione, finisce con una prostituta.

Viene assunto poi dalla ditta SOS che ripara tv a domicilio. Christine viene a saperlo dal padre, che fa un incidente con il furgoncino della ditta, incontrando casualmente Antoine. La ragazza, approfittando dell’assenza dei genitori per il weekend, manomette la televisione e chiama il servizio di assistenza per rivedere Antoine. Quest’ultimo, inizialmente freddo e distaccato, infastidito dai modi gentili di Christine, si scioglierà poi fra le sue braccia. Scocca la scintilla tra i due, che si fidanzano. Il film termina con la scena che vede i due passeggiare in un parco mano nella mano e con la dichiarazione d’amore eterno che uno sconosciuto (che dall’inizio del film seguiva Christine) fa alla ragazza: “Io sono definitivo … voglio che lei rompa legami provvisori” … Quello sconosciuto viene forse a rappresentare lo stesso Doinel, che dichiara la sua intenzione di iniziare una storia seria, che sia per sempre, con Christine.

In “Domicile Coniugale” (italianizzato con il titolo “Non drammatizziamo … è solo questione di corna) Antoine e Christine sono due giovani coniugi che conducono una esistenza modesta ma tranquilla, sempre supportati dai genitori di lei. Christine, concertista, dà lezioni di violino, mentre Antoine prepara colorazioni artificiali di fiori destinati ad un negozio non lontano da casa. Il vicinato è amico, durante tutto il film presente come risorsa della coppia. In una delle prime sequenze, un vecchio compagno dell’officina di riparazioni ritrova Antoine mentre sta tingendo dei fiori nel cortile, viene a sapere che è sposato con una giovane violinista e gli dice: “In fondo, ti sono sempre piaciute le ragazzine beneducate, quelle borghesi, vero?” E Antoine gli risponde: “Non ho mai amato una donna in particolare. Sono amante della famiglia, padre madre …, e finalmente non sono più solo”. In Domicile Coniugale per la prima volta Antoine si oppone apertamente, seppure in una sola occasione, al fare borghese della famiglia della moglie e alle buone maniere obbligate nei confronti delle persone influenti (la lettera al senatore che ha permesso loro di attivare tempestivamente la linea telefonica di casa), e in una discussione a tal proposito con Christine Antoine afferma che non ha tempo di annoiarsi  – lui – e che non vede l’ora di invecchiare per potersi dedicare a passioni che non ha tempo di coltivare adesso.

Non del tutto soddisfatto del proprio lavoro, si mette alla ricerca di qualcosa di nuovo e, scambiato per un altro uomo, raccomandato, viene assunto in un’industria idraulica, come addetto alla guida di un modellino di nave. Christine nel frattempo, rimasta incinta, dà alla luce un maschietto, che vorrebbe chiamare Ghislain ma che Antoine registra all’anagrafe con il nome di Alphonse. In clinica, quando prende il braccio per la prima volta il figlio Antoine afferma: “È il più bel bambino del mondo anche perché è mio figlio … crescerà più forte e intelligente del padre e sarà un uomo importante, più importante di Victor Hugo. Tutte le cose che ho sognato e non ho fatto tu le realizzerai”. Antoine dimostra a suo modo vicinanza alla moglie, ma pare più concentrato su se stesso; Christine si sente poco capita, gli dice che è stanca e nervosa e preferisce, per quella notte in clinica, stare da sola.

Antoine, trascurato da Christine, si lascia sorprendere dal fascino esotico di Kyoko, la moglie di un cliente dell’industria per cui lavora, della quale diviene l’amante. La donna invia dei fiori con all’interno dei messaggi d’amore indirizzati ad Antoine, quest’ultimo li getta, ma un bambino vicino di casa va a trovare il piccolo Alphonse e porta quei fiori trovati nella spazzatura a Christine. Qualche giorno dopo i fiori si aprono lasciando cadere i messaggi e facendo scoprire alla moglie il tradimento di Antoine. Christine attacca violentemente Antoine e, dopo una parentesi di finzione in cui ricevono a casa la visita dei nonni materni, costringe Antoine a trasferirsi in un hotel. Christine gli urla: “Non è stato un tradimento ma qualcosa di più grave … mi hai tolto la fiducia, mi hai distrutto la vita, non crederò più a niente”. Antoine si arrabbia, non tenta più di giustificarsi, se ne va. Ma gli incontri con Kyoko, tipica donna geisha, perdono il fascino iniziale ed annoiano Antoine. Christine, del resto, non ha smesso di amare il marito e glielo dice apertamente. Non approva, però, il progetto di Antoine di scrivere un romanzo, che secondo Christine «non può essere un regolamento di conti». Quando Antoine la bacia dolcemente e le confida: “Sei la mia sorellina, sei mia figlia, sei mia madre”, Christine risponde: “avrei preferito essere la tua donna”. Dopo un incontro con Christine, nel quale hanno espresso affetto e tenerezza reciprocamente, Antoine va in un bordello (qui confida alla prostituta Marie: “io odio tutto quello che finisce, che ha termine, che muore”). Successivamente ricerca nuovamente la sua dolce Christine e si riappacificano.

In “L’amour en fuite” (- L’amore fugge) Antoine ha superato la trentina e lavora come correttore di bozze. È innamorato di Sabine, commessa in un negozio di dischi, e sta per divorziare da Christine, dalla quale è separato da 5 anni. Circa due anni fa Antoine ha pubblicato il suo romanzo autobiografico (Les salades de l’amour – Le insalate dell’amore). Il giorno dell’udienza per il divorzio, Antoine e Christine, che hanno optato per il divorzio consensuale, si lasciano andare ai ricordi: non c’è rabbia, non mancano invece il bene reciproco ed il rispetto. Colette (la prima cotta di Antoine in “L’amore a vent’anni”), oggi avvocato, intravede e riconosce Antoine Doinel e va ad acquistare il suo romanzo.

Antoine e Colette si rincontrano alla stazione, dove Antoine ha accompagnato il figlio Alphonse (in partenza per il mare) mentre Colette è diretta ad Aix en Provence per seguire un caso in cui è chiamata a difendere il colpevole in un caso di infanticidio, il ché le risulta difficile e penoso (durante il film emergerà che Colette ha perso sua figlia, morta investita da una automobile quando aveva appena 3 anni; quel trauma ha determinato la separazione dal marito, 5 anni fa, mentre oggi Colette è innamorata del libraio Xavier, che si scoprirà essere il fratello di Sabine). Antoine non esita a salire sul treno, pur senza biglietto, per poter incontrare Colette e parlarle, ma i due finiscono per discutere in quanto la donna dichiara una volta per tutte di non aver mai amato Antoine e di essersi anzi sentita oppressa dalla sua insistenza.

Nel frattempo Sabine, stanca delle continue assenze di Antoine, lo lascia. Sarà Antoine a ritornare da lei, con una sicurezza mai provata ed espressa prima in campo sentimentale. Un passaggio importante e determinante per questa svolta è rappresentato dall’incontro casuale tra Antoine e Lucien, “L’amante numero 1” (così lo definisce Antoine in una lettera a Sabine) della madre Gilberte, quel tale che da ragazzo Antoine aveva visto baciare la madre per strada: Antoine Doinel può in questa circostanza ri-conoscere la madre (descritta da Lucien come una donna “anarchica”, che soffriva l’ipocrisia della società, e al contempo un “pulcino” da difendere, che “voleva bene” ad Antoine) e, in un certo senso trovare quella figura reale e vera di riferimento che da tempo ricercava (Lucien ha assistito fino ai suoi ultimi giorni di vita la madre Gilberte, morta all’età di 47 anni). Con Lucien, Antoine si reca per la prima volta a trovare sua madre al cimitero di Montmartre. “Somigli a tua madre” – dice Lucien ad Antoine.

Antoine, con la benedizione di Christine e Colette, ritorna da Sabine per farle capire che è stata la prima donna che ha amato ciecamente e ha voluto conquistare davvero sin dall’inizio: le confida di essersi innamorato di lei trovando una sua foto strappata, e di essersi messo alla ricerca, fino a trovarla (il primo incontro proprio al negozio di dischi) e a “farla innamorare”. Antoine dice: “Ho finto di non provare nulla … ma il cuore mi batteva a cento all’ora …” e aggiunge: “La vita mi ha abituato a nascondere le emozioni, a non dire le cose in faccia”, Sabine allora afferma: “Perché non hai fiducia negli altri” e Antoine: “ma in te sì”. Si riconciliano con un bacio e con la passione che aveva fatto da apertura al film. Il loro affermare “Poi si vedrà” diventa un motto beneaugurante ed un inno all’età adulta, alla vita in tutte le sue sfumature e alla sua continuità.

  • Esperienze e relazioni familiari, affettive e sociali

Il materno. Antoine incarna probabilmente per Gilberte l’abbandono subìto dall’amante dell’epoca. Lo stile materno di attaccamento è distanziante, il rapporto che la lega al figlio è intriso di autoritarismo: lo rimprovera in maniera assillante e lo tratta da domestico più che da membro della famiglia, designandolo come “il ragazzo”. Quando si sfila le calze davanti a lui non tenta di sedurlo quanto di ignorarlo, non guardando alla sua sensibilità di adolescente. Quando Antoine scopre la sua infedeltà coniugale, Gilberte mostra una “preoccupazione materna primaria” fittizia e manipolatoria: nella scena del bagno, al ritorno dalla prima fuga notturna, la donna lava e asciuga Antoine, recitando il ruolo di una madre amorevole per comprare il suo silenzio, ma non è affatto convincente agli occhi del ragazzo, evidentemente imbarazzato per tanta regressiva ed inconsueta intimità. Antoine non si ribella mai apertamente alla madre, anzi adotta spesso un atteggiamento complice (quando il padre si rende conto che dorme senza coperte, sebbene abbia dato alla madre soldi per comprarne, Antoine va in soccorso della madre, affermando che gli va bene così, dormire nel sacco a pelo), ma la sua passività e la sua indifferenza dinanzi a negligenze ed aggressioni sono solo difensive, apparenti: il suo inconscio tiene in fresco l’odio per la madre con una rimozione possente, basti pensare alla scusa di Antoine, che si giustifica a scuola per la sua assenza rivelando al maestro che “la madre è morta”, esprimendo così in maniera forte ed eclatante i suoi sentimenti ostili, la sua rabbia, il suo rancore per il rifiuto materno. Scoperta la bugia, la madre domanderà al marito: “Perché ha fatto morire me e non te?”. E lui risponderà: “la mamma innanzitutto, no?”.

Una madre distante e inaccessibile. Toccante la scena in cui Antoine prende il posto della madre davanti allo specchio della toilette, tocca i suoi oggetti intimi e si passa la sua spazzola tra i capelli: potrebbe sembrare il bisogno di un contatto, ma condensa in sé anche la ricerca di verità, di risposte a domande che nutrono le esitazioni identitarie dell’adolescente: Chi è mia madre? Cos’è una donna? Ed io chi sono? In cosa somiglio a mia madre? In un film successivo, Baci rubati, Antoine giovane adulto, di fronte allo specchio si troverà a rivivere un momento simile: guarda la sua immagine ripetendo ad alta voce il nome di Fabienne (la donna sposata, ricca e “superiore”), quello di Christine (la dolce e pura ragazza della porta accanto) e, infine, il proprio: pronunciare, in modo ecoico e differenziato, il nome delle due donne che egli crede di amare e poi il proprio rappresenta un tentativo di far chiarezza in se stesso.

La scena della visita in riformatorio, in cui Gilberte colpevolizza il figlio e lo abbandona definitivamente, è l’ultima volta in cui Antoine vedrà sua madre. Sarà l’incontro speciale con il compagno di vita della donna, oramai morta, a portare l’adulto Antoine a perdonarla e a porgerle un saluto al cimitero.

Il paterno. “Where is the father?” è la domanda del professore di inglese. Il padre di Antoine strumentalizza il bambino per irritare o compiacere la moglie, a seconda delle circostanze, e non è certo una figura autorevole, ponendosi come benefattore che attende riconoscenza e punendo Antoine con la violenza e il tradimento pubblicamente inflitti (gli schiaffi che gli dà a scuola, dinanzi ai compagni e al maestro, per aver detto una bugia, corrispondente ad una verità inconscia – la morte della madre, e la denuncia per il furto della macchina da scrivere nell’ufficio paterno, il cui bersaglio inconscio era del resto proprio il narcisismo del genitore affettivamente indifferente). Quest’uomo non ha mai veramente riconosciuto Antoine come suo figlio, e non si sa nulla sulla sua stessa famiglia (non si allude minimamente ai nonni paterni).

La coppia genitoriale. Il legame di coppia si basa su un vero e proprio contratto che ha consentito a Gilberte di riconquistare la propria rispettabilità e a suo marito di “acquisire” una giovane e bella moglie. L’unica cosa che condividono è la mancanza di considerazione reciproca, rinforzata dall’aggressività della moglie e dal cinismo del marito.

Interazioni patologiche fra genitori e adolescente. Ladame (1978)[3] scrive: “Quello che abbiamo potuto osservare in forma ripetitiva nelle famiglie dei nostri adolescenti “con disturbi” è l’estrema importanza dell’identificazione proiettiva e la sua utilizzazione da parte dei genitori degli adolescenti. Fintantoché questo meccanismo resta all’opera in modo preponderante, e che i bisogni difensivi dei genitori sono particolarmente intensi, le possibilità, per l’adolescente, di una vera e propria separazione-individuazione sono bloccate”. Queste identificazioni proiettive, che rendono confusi i confini del Sé dell’adolescente, rinforzano, in associazione con altri meccanismi di difesa arcaici, le credenze che alimentano il romanzo familiare. Un aspetto che ritroviamo nella storia di Antoine.

La parte degli avi. Dell’ambiente primario e dell’attaccamento primario di Antoine sappiamo ben poco, se non che la nonna materna ha salvato il nipote, impedendo alla figlia di abortire e si è occupata di lui sino a che ha potuto. Antoine è consapevole di questo, il rapporto con la nonna è fatto di tenerezza e amore nonostante il furto di cui il ragazzo si rende colpevole ai suoi occhi (“ero certo che non se ne accorgeva … e la prova è che non se n’è accorta” – con queste parole l’adolescente ci dice che non credeva di farle del male, o perlomeno che non era quella la sua intenzione). Nel tema scolastico prenderà poi a prestito anche un eroe balzacchiano per inventare e raccontare la morte del nonno, personaggio che in un certo senso sembrerebbe incarnare il rappresentante della stirpe sconosciuta e l’interdetto che pesa sulle sue origini.

L’amicizia libera. René, compagno di banco e di sventure, unico amico di Antoine, non è mai triste, almeno apparentemente; nonostante sia l’istigatore delle stupidaggini e dei comportamenti antisociali che mettono in atto, è portatore di una vitalità sana. A differenza di René, Antoine è più riservato, introverso, ma i due amici hanno molto in comune: sono entrambi figli unici, trascurati dai genitori, abbandonati a se stessi, adolescenti soli e solitari, che insieme alimentano la capacità di resistere alle avversità e il piacere della ricerca della libertà.

Christine, moglie e madre. “Non ho mai amato una donna in particolare. Sono amante della famiglia, padre madre …, e finalmente non sono più solo”, racconta Antoine a proposito del suo matrimonio con Christine. Quest’ultima, con il suo essere dolce e rassicurante, è l’opposto di Gilberte, la madre di Antoine: è stata da lui scelta per il suo poter essere una brava moglie e madre. Gli darà un figlio, Alphonse. Antoine e Christine si separeranno poco dopo.

I rapporti sentimentali ed extraconiugali in cui prevale la componente del desiderio sessuale testimoniano l’accesso difettoso di Antoine all’ambivalenza. In questi incontri provvisori Antoine sente di potersi abbandonare completamente (ad esempio con la signora Fabienne). Christine, in quanto proiezione dell’oggetto buono, che Antoine ha designato come “definitivo”, perché sicuro, viene protetto dalla fusionalità e dall’aggressività che Antoine ha bisogno di esperire ed esprimere e che potrebbero, secondo lui, mettere in pericolo quel legame di attaccamento. Dopo un tradimento, in un incontro ambiguo e contraddittorio, in cui sembra volersi riavvicinare alla moglie, Antoine le dice: “Sei la mia sorellina, sei mia figlia, sei mia madre”, Christine risponde: “avrei preferito essere la tua donna”.

Paternità. In clinica, quando prende il braccio per la prima volta il figlio Antoine afferma: “È il più bel bambino del mondo anche perché è mio figlio … crescerà più forte e intelligente del padre e sarà un uomo importante, più importante di Victor Hugo. Tutte le cose che ho sognato e non ho fatto tu le realizzerai”. Lo chiamerà Alphonse, a dispetto del parere di Christine, che avrebbe voluto dargli un altro nome. Si tratta di una paternità narcisistica, in cui si fatica a riconoscere il figlio come altro da sé; del resto Antoine non ha avuto un padre. Dimostra una vicinanza quasi imbarazzata alla moglie, focalizzandosi sulla propria difficoltà nel provare e gestire emozioni nuove e tanto intense. Si sentirà anche trascurato da Christine, neomamma alle prese con il piccolo Alphonse. Dopo il divorzio da Christine, il figlio vivrà con la madre, pur continuando Antoine, forse meglio di prima, ad essere per lui un padre presente (seppur distratto).

Il vero amore, Sabine. Con lei Antoine vive l’amore maturo, incondizionato, trovato più che scelto, indipendentemente da fattori terzi. È vero amore in quanto contempla e integra buono e cattivo, bene e male, dando la possibilità a ciascuno di essere se stesso e di condividere con l’altro una vita autentica.

Il terapeutico Lucien. “L’amante numero 1” (così lo definisce Antoine in una lettera a Sabine) della madre Gilberte: l’incontro con lui rappresenta per Antoine Doinel l’occasione di ri-conoscere la madre, descritta da Lucien come una donna “anarchica” e dolce, che amava suo figlio, e, in un certo senso, di trovare in questo signore, più o meno sconosciuto, tanto “normale”, una figura integrata, che incarna l’uomo capace di quell’amore libero ed incondizionato che può durare in eterno, o perlomeno una vita intera (Lucien ha assistito fino ai suoi ultimi giorni di vita la madre Gilberte).

Sfera sociale e lavorativa. La storia che i film raccontano vede il ragazzino scontroso e provocatorio lasciare il posto ad un giovane senza famiglia che, congedato dal militare, ben si adatta alla società: lavora e vive da solo, ha pochi (ma buoni) amici e sentimentalmente è alle prese con sperimentazioni se vogliamo “tipiche” della sua età, per quanto condizionate nel profondo da un modello di attaccamento insicuro. Quest’ultimo è alla base di quella insoddisfazione di fondo (tesa alla ricerca incessante del pezzo mancante!) che inciderà anche sulle scelte sentimentali future (matrimonio, rapporti e relazioni extraconiugali), e non meno in ambito lavorativo, con il continuo abbandono del vecchio lavoro in favore di uno nuovo.

Risorse

Va pur detto che il temperamento di Antoine, la sua brama di vita e la sua determinazione a riscattarsi costituiscono elementi che mettono il soggetto sulla retta via. È sorprendente come Antoine serbi in sé, nonostante le deprivazioni dell’infanzia, valori positivi di famiglia (le cui radici possono forse essere identificate nel legame di attaccamento con la nonna materna): lo vediamo prima alla ricerca di una famiglia sostitutiva (è determinante nel primo innamoramento e nella scelta di Christine come moglie), poi costruire una propria famigliola come tante altre (madre-padre-figlio), una normalità di cui non ha mai potuto fare esperienza in qualità di figlio.

La gioia di vivere che Antoine esprime in età adulta attesta la presenza di un’altra risorsa fondamentale nel suo faticato processo di auto-realizzazione, la speranza. Quest’ultima nutre l’apertura mentale e sociale di Antoine, alimentando esperienze e relazioni buone, salvifiche. Lo spettatore si meraviglierà, guardando gli ultimi film, delle interazioni e dei buoni rapporti di Antoine con vicinato, colleghi, amici: se ci fossimo fermati al primo film, Les 400 coups, non avremmo scommesso su queste competenze sociali.

  • La personalità in divenire di Antoine

L’Antoine che incontriamo per la prima volta è un dodicenne irrequieto. L’adolescenza, è risaputo, è una fase, estremamente delicata, di rinnovamento e cambiamento, portatrice di per sé di conflitti e problematiche. Se poi sei un ragazzo ‘difficile’ con un vissuto ‘difficile’ le cose si complicano ulteriormente. In “Les 400 coups”, con piccoli tocchi, lo svolgersi del film fornisce elementi della sua storia infantile, segnata da attaccamento e relazioni primarie claudicanti, la cui sintesi viene fatta, dallo stesso protagonista, durante il colloquio con la psicologa del centro di detenzione per minori.

L’Antoine che veniamo a conoscere in questo periodo della sua vita è apparentemente ‘mansueto’, obbediente e passivo in famiglia, ma ribelle e provocatorio fuori, dove rivendica attenzione, affetto, ma soprattutto identità e libertà. Frutto di una relazione prematrimoniale, è stato “riconosciuto”, formalmente, dal marito della madre, mentre per quest’ultima è solo “il ragazzo” (così lo chiama), figlio di padre ignoto, “colpevole” a sua insaputa e indegno persino di un nome proprio e di un proprio spazio vitale, tant’é che dorme nell’ingresso in un sacco a pelo. È un figlio non desiderato e non amato, manipolato all’occorrenza, e lo sa.

L’esame di realtà è conservato e le funzioni psichiche sono nel complesso buone, ma l’affettività di Antoine pare essere coartata, è ciò incide sulla sua impulsività: le sue azioni prevalgono sulla riflessione.

Alberga in lui un vissuto di abbandono e di ingiustizia che gli permette di non tenere conto della colpa e di nutrire il desiderio di vendetta. Pensiamo a quando il maestro lo priva della ricreazione dopo averlo sorpreso a far passare tra i banchi una rivista con in copertina una foto eccitante e Antoine scrive, in risposta, un poema sul muro della classe: “qui fu punito il povero Antoine Doinel per una pin up caduta dal cielo ma non è giusto e avrà la sua vendetta”; e alle spropositate minacce di Antoine (ben oltre la legge del taglione che esigerebbe un castigo commisurato al torto causato!) al compagno di classe, che ha fatto scoprire le sue iscrizioni murali (“carogna, traditore, hai i giorni contati, Morrissette!”).

Nei vagabondaggi con René, Antoine ricerca esperienze eccitanti (la scena del Luna Park). Egli condivide con l’amico la passione per il cinema, dove, marinata la scuola, vanno spesso, ma si rifugia anche nella lettura, essendo più riservato ed introverso di René.

Al quanto egocentrico, a volte sembrerebbe addirittura egoista, Antoine adulto è riservato, ed ha ancora qualche difficoltà ad esprimere e gestire le emozioni e a provare empatia; conserverà per molto tempo la tendenza a mentire e tradire. D’altra parte, però, controlla maggiormente la propria impulsività e mostra una maggiore tolleranza alla frustrazione. Il funzionamento globale della sua personalità può dirsi buono. Intelligente, brillante, a volte un po’ ingenuo ma comunque piuttosto realistico, Antoine è un treno in corsa, iperattivo e testardo; se la cava in tutte le occasioni, mostrando buone capacità di problem solving. Gioioso e ironico, apprezza l’ilarità e i momenti di svago e aggregazione (si pensi alla comicità dei momenti di scherzo con Christine o Sabine e delle interazioni con vicini e colleghi).

Insomma, Antoine appare ben adattato, non è radicalmente anticonformista e non disdegna i rapporti e le situazioni sociali, per quanto arrivi ad esprimere il sentirsi come “un pesce fuor d’acqua” rispetto alla borghesia di cui è entrato a far parte (attraverso il matrimonio con Christine), società alla quale muove per la prima volta un’aperta critica in Domicile coniugale, penultimo film del ciclo. Preferisce pur sempre i ritagli di intimità domestica in cui si dedica alle proprie passioni, lettura e scrittura.

Aspetti psicopatologici

In un contesto familiare e sociale che sovverte logiche, relazioni, ruoli e regole, destinatario di messaggi ambigui e anaffettivi, Antoine rivendica attenzione, ricerca disperatamente amore, uno sguardo che lo com-prenda, ma forse ancor di più va a caccia di senso e verità, che gli adulti non sono capaci e disposti a concedergli, mostrando essi una formalità rigida e coatta, che innalza un muro di indifferenza e insensibilità.

Come già detto, fintantoché prevalgono i bisogni difensivi dei genitori (della madre nella fattispecie), ed è preponderante la loro utilizzazione di identificazioni proiettive, le possibilità, per l’adolescente, di una vera e propria separazione-individuazione sono bloccate. Queste identificazioni, che rendono confusi i confini del Sé dell’adolescente, si associano ad altri meccanismi di difesa arcaici, scissione e idealizzazione, con il rischio – rispettivamente – di una patologia borderline dominata dal manicheismo buono-cattivo e di una patologia narcisistica dominata da un Sé grandioso. In famiglie tanto fragili l’adolescente può considerare necessaria, per la risoluzione della crisi genitoriale, l’espulsione, “modalità di transazione patologica” che si può manifestare attraverso tentativi di suicidio, fuga o viaggio patologico (Marcelli, Braconnier, 1983).

Bugie, furti e fuga impulsiva sono tentativi di ribellarsi all’indifferenza e affermare se stesso, placando, seppur provvisoriamente, i suoi bisogni di essere visto e contenuto.

Ciò che gli è assolutamente necessario è liberarsi dai legami deleteri, rispetto ai quali è rassegnato e indignato, primo fra tutti dal legame, che dovrebbe essere sacro, primario e vitale, con la madre. Gli è necessario trovare limiti e confini che gli consentano di identificarsi come soggetto intero, in relazione con soggetti interi, capaci di guardare, ascoltare e contenere anche il suo lato oscuro fatto di sentimenti ostili. Confini e limiti che gli diano possibilità di essere, di costruire un percorso libero definibile e narrabile, laddove le sue origini sono “marchiate” dall’ irriconoscibile ed indicibile.

L’agito, mettere in atto tendenze antisociali, costituisce per lui l’unica difesa, in questo caso egosintonica e adattiva, rappresentando la sola possibilità di salvaguardare sopravvivenza e affermazione di sé; al contempo le sue provocazioni sembrano voler comunicare ai genitori, agli adulti insensibili, al mondo intero, che non ha bisogno della loro sufficienza, della loro assenza presente (o finta presenza), che può fare a meno di loro, preferendo addirittura la “galera”.

Con l’amico di sventure René, l’adolescente Antoine ricerca esperienze attraverso cui sperimentare eccitazione, che confonde con quel senso di vitalità mai provato. Molto toccante la scena del Luna Park, nella giostra in cui il ragazzo vive un momento di pura adrenalina e ha la faccia di colui che è “senza pensieri”.

Antoine adulto, nei momenti più emozionanti, difficili o tristi, è ancora spinto a rispondere ad un bisogno impellente di scarica dell’eccitamento ingestibile, basti pensare, ad esempio, alla sua frequentazione di prostitute in due circostanze: congedato dal militare e dopo il funerale del collega investigatore privato.

L’accesso parziale all’ambivalenza genera in lui una doppia tendenza, da un lato a preservare quanto ha assunto come rassicurante “base sicura” (ideale assoluto da non contaminare!), dall’altro a ricercare in un altrove, nuovo e provvisorio, ciò che gli manca. Questa spinta condiziona profondamente tanto la vita sentimentale quanto quella lavorativa di Antoine, costellate da alti e bassi.

Il cinema in età adulta viene superato di gran lunga dalla passione per la lettura, che gli consente anche di attuare un meccanismo di intellettualizzazione, volto a mantenere lontani dalla coscienza pensieri, immagini ed emozioni potenzialmente pericolosi. In tale direzione si può spiegare la sua dichiarata avversione per la “noia”: il suo voler riempire le giornate di “fare”, il suo non fermarsi mai, sembra essere una strategia per non pensare troppo.

Attaccamento insicuro

Alla ricerca di una figura di riferimento, Antoine adolescente trova il suo personale dio (costruisce persino una sorta di altarino con tanto di santino!), maestro che in un certo senso lo accompagnerà per la vita, in Balzac, il quale in “Le père Goriot” scrive: «La società, il mondo vertono sulla paternità, tutto crolla se i figli non amano i padri».

Le dinamiche della vita affettiva di Doinel, ancor prima che essere riferite all’assenza del padre e di una figura paterna, possono essere messe in relazione con lo stile materno di attaccamento, distanziante, che ha reso inaccessibile ad Antoine il mondo affettivo della madre, impedendogli di imparare a ri-conoscere e “digerire” le emozioni, proprie e altrui.

Rivendicando la sicurezza di cui è stato deprivato (ricordiamoci che deve la vita alla nonna materna, la quale ha rifiutato alla figlia il permesso di abortire e che ha avuto amorevolmente cura di lui finché ha potuto), Antoine difende come può la sua integrità precaria e l’amore di cui è capace, seppure con modalità inappropriate e disfunzionali: se in adolescenza ne sono espressione tendenze e comportamenti antisociali, nell’età adulta di Antoine troviamo ad esempio, costanti ed esemplificative, l’irresponsabilità nell’abbandonare sempre il lavoro vecchio per uno nuovo, la promiscuità sessuale (la frequentazione di prostitute), la tendenza a mentire e tradire (relazioni extraconiugali).

Queste modalità, che rimandano ad uno stile di attaccamento tipo A insicuro-evitante (Ainsworth et al., 1978), sono accomunate dallo schema di attaccamento dell’“evitamento angoscioso” (Bowlby, 1989)., in cui “l’individuo non possiede la fiducia che, quando ricercherà delle cure, gli si risponderà soccorrevolmente, ma, al contrario, si aspetta si essere rifiutato seccamente. Quando un tale individuo tenta, in grado marcato, di vivere la propria vita emotiva senza l’amore e il sostegno degli altri, egli cerca di divenire autosufficiente sul piano emotivo e può venire in seguito diagnosticato come narcisista o come persona con un falso sé, del tipo descritto da Winnicott (1960). Questo schema, in cui il conflitto è più nascosto, è il risultato di una madre che respingeva recisamente e costantemente il figlio” (Bowlby, 1989, p. 120).

Potremmo affermare che un tale modello di attaccamento insicuro, attraverso il consolidarsi di modelli operativi interni, può segnare l’orientamento caratteriale del soggetto in senso improduttivo (Fromm, 1947), ostacolando l’autentica espressione e realizzazione di sé. Ma va tenuto conto del fatto che l’esito psicopatologico non è l’unico possibile, così come non sono da escludere successive modificazioni e trasformazioni dei modelli disfunzionali. Più recenti studi sull’attaccamento, evidenziando aspetti quali la bidirezionalità e transgenerazionalità, sembrano porre il focus dell’attenzione su una dimensione interpersonale nella quale può giocarsi un “potenziale continuo di cambiamento” (Bowlby, 1989, p. 131), che Antoine saprà cogliere e dispiegare.

Orientamento produttivo

Nell’ultimo film del ciclo, L’amour en fuite, il cambiamento di Antoine, iniziato già nel precedente, Domicile coniugale, mostra anche la possibilità di una trasformazione caratteriale, laddove intervengano fattori (principalmente interpersonali) che favoriscono una presa di coscienza e un comportamento proattivo.

Il cambiamento di Antoine trova spinte forti sia nei nuovi legami di attaccamento (in primo luogo quello con la rassicurante, sicura, Christine, per lui “sorellina, figlia e madre”) sia nelle esperienze che contrassegnano l’età adulta di Antoine (come quella della paternità). Ma momento cruciale sarà l’incontro con Lucien, amante della madre, oramai morta, il quale fungerà da figura terapeutica, consentendogli di ri-conoscere e riscrivere la sua storia. Potrà allora essere e amare in modo autentico, nell’hic et nunc, sentire e relazionarsi in modo autentico, rispetto a se stesso e agli altri. La relazione con Sabine nasce e si sviluppa come risorsa fondamentale, spazio fecondo del cambiamento in atto, in quanto imperniata su un amore incondizionato, che implica il riconoscimento dei reciproci limiti e la condivisione di un progetto comune in cui le potenzialità di ciascuno trovano espressione e il coraggio di realizzarsi.

  • Bisogni di attaccamento, vita affettiva e realizzazione di sé

Attachment Theory e Psicoanalisi Umanistica Frommiana

Intendo proporre, in questa sede, una ipotesi di raffronto che coinvolge ed integra la teoria dell’attaccamento di Bowlby e la psicoanalisi umanistica di Fromm.

Secondo me il punto essenziale di congiunzione, che mi accingo ad approfondire, risiede nei concetti di amore e sicurezza affettiva, di cambiamento e di autenticità che, seppur in maniera diversa, sono stati elaborati dai contributi a cui si fa riferimento.

Il contributo di John Bowlby è fondamentalmente legato alla nozione di attaccamento, approfondita nei tre volumi di Attaccamento e perdita (1969, 1970, 1980). Per Bowlby come per Freud la psicoanalisi ha profonde radici nella teoria di Darwin, ma quello di Bowlby è un darwinismo del XX secolo: per l’autore l’attaccamento è istintivo e primario, indipendente dalla mera soddisfazione dei bisogni fisici, il bambino è individuo attivo e biologicamente preadattato, che ricerca la maggiore prossimità alla madre mediante schemi di comportamento propri della specie volti allo stabilirsi di un “legame affettivo intimo e costante” tra madre e bambino; il sistema di attaccamento ha l’obiettivo esterno di garantire la vicinanza con il caregiver (per assolvere la funzione biologica che B. individua nella “protezione dai predatori”) e quello interno di motivare il bambino alla ricerca di una sicurezza interna. Due sono quindi le ipotesi centrali, ampiamente convalidate dalle ricerche empiriche, nella costruzione teorica di Bowlby: 1) lo stile di attaccamento che il bambino sviluppa dipende strettamente dalla “qualità” delle cure materne ricevute; 2) lo stile dei primi rapporti di attaccamento influenza in misura considerevole l’organizzazione precoce della personalità e soprattutto il concetto che il bambino avrà di sé e degli altri, quindi le future relazioni. Bowlby considera il comportamento di attaccamento come “caratteristico della natura umana in tutto il corso della vita – dalla culla alla bara”, e parla di un “potenziale continuo di cambiamento” (1989).

Nel concetto frommiano di situazione umana “possiamo vedere un intreccio di esistenzialismo e di evoluzionismo, anche se solo il secondo è dichiarato. Le posizioni evoluzionistiche diventano più esplicite nel corso delle opere di Fromm, anche con riferimenti a Bowlby” (Biancoli, 2000). Fromm, rivedendo la teoria freudiana della sessualità, sostiene che, pur esistendo una sessualità infantile, l’attaccamento del bambino alla madre non è di natura essenzialmente sessuale, piuttosto la dipendenza dalla figura materna esprime principalmente il desiderio di protezione e sicurezza, l’aspirazione ad una situazione paradisiaca di soddisfacimento e amore (Biancoli, 1986). L’autore, pur essendosi tanto occupato della società e della sua influenza sull’individuo, accentua, rispetto a Freud, l’importanza del dato costituzionale, il ché gli consente di dare un più solido fondamento teorico alla possibilità di trasformazioni caratteriali: Fromm sostiene che nella personalità entri la natura col temperamento e la società col carattere, quest’ultimo, pertanto, “può fare perno sul lato naturale delle potenzialità e assumere un orientamento diverso, relativo a un altro ambiente o anche, come dovrebbe accadere con una esperienza terapeutica, più autonomo da ogni ambiente, se la produttività che è propria della natura umana si libera e si esprime” (ibidem, p. 21).

Tutto ciò rinvia al concetto di “persistente potenziale di cambiamento” e al “modello dei percorsi di sviluppo” di Bowlby (1989): “Quei bambini che hanno dei genitori insensibili, lenti a rispondere, tendenti a trascurarli, o che li respingono, si svilupperanno con ogni probabilità seguendo un percorso deviante che è in certo grado incompatibile con la buona salute mentale e che li rende vulnerabili a un crollo, qualora si imbattessero in esperienze gravemente negative. Anche in tal caso, dato che il corso dello sviluppo successivo non è fissato, cambiamenti nel modo in cui un bambino viene trattato possono far deviare il suo percorso in una direzione più favorevole o in una più sfavorevole (…) in nessuna età della vita una persona è invulnerabile di fronte alle possibili avversità e anche (…) impermeabile a un’influenza favorevole” (ibidem, p. 131).

Difatti, pur essendo stato dimostrato come l’attaccamento insicuro sia associato significativamente a successivi problemi comportamentali, a problemi nel controllo degli impulsi, a scarsa autostima, a scarsa regolazione emozionale e a difficili relazioni con i pari (Sroufe, 1983; Turner, 1991; Zimmermann, Grossmann, 1994) , i modelli insicuri (evitante e ambivalente) non costituiscono di per sé un indice di patologia, rappresentando in alcuni casi strategie adattive impiegate in relazione a caratteristiche dell’accudimento non ottimali.

Lo stile di attaccamento insicuro-evitante viene comunque a configurare, in ogni caso, anche se in misura e qualità differenti, una situazione umana di inautenticità, determinata in primo luogo dalla messa in atto di un processo di esclusione difensiva dei propri bisogni affettivi e di protezione, che impedisce lo sviluppo di una adeguata consapevolezza ed intelligenza emotiva: “Quando un tale individuo tenta, in grado marcato, di vivere la propria vita emotiva senza l’amore e il sostegno degli altri, egli cerca di divenire autosufficiente sul piano emotivo e può venire in seguito diagnosticato come narcisista o come persona con un falso sé, del tipo descritto da Winnicott (1960)”, scrive Bowlby (1989).

Ciò richiama il concetto di “alienazione” elaborato in Escape from freedom (1941) da Fromm, il quale descrive il falso sé come struttura di carattere improduttiva (Bacciagaluppi, 2000), risultante da rapporti alienati che soffocano la coscienza umanistica, cioè “la voce del nostro vero Sé che ci richiama a noi stessi” (ibidem).

  • Una lettura interpersonale umanistica

La “fuga dalla libertà” del vero Sé

Secondo Fromm l’uomo moderno è alienato, estraniato da se stesso, in fuga dalla parte più autentica di sé. C’è infatti una bella differenza tra “libertà da” e “libertà di”: sono tanti coloro che si autodefiniscono liberi, ma in realtà non sono poi così tanti gli uomini che lo sono davvero, che scelgono la libertà di essere umani.

Sotto la pressione di una evoluzione culturale distorta la specie umana fugge dalla propria natura, fatta di infinite potenzialità, preferendo l’immagine ipertrofica di un falso sé che fa da altarino ad una nicchia di isolamento e impotenza. Non a caso Fromm parla, riferendosi ad autoritarismo, distruttività e conformismo da automi, di meccanismi “di fuga”, intesi come modi in cui i caratteri non produttivi si rapportano socialmente.

La fuga impulsiva, lo abbiamo visto, è la tendenza difensiva privilegiata da Antoine. Memorabile la scena finale di Les 400 coups, in cui l’adolescente corre verso il mare, si spinge sino alla battigia e si volta, dopo essere entrato con le scarpe in acqua: lo sguardo di Doinel verso lo spettatore è uno sguardo di dolore, ma privo di retorica, carico di speranza e di desiderio di libertà. Mi viene in mente a tal proposito anche un’altra scena dello stesso film, quella del Luna Park, nella quale appare evidente come il ragazzo ricerchi nelle esperienze eccitanti un senso di vitalità che non ha mai provato. E l’impulsività, come scarica dell’eccitamento, diviene per lui il modo per aggirare il riconoscimento e l’elaborazione delle emozioni.

Seguendo la storia attraverso i film, e quindi lo sviluppo del personaggio, possiamo però osservare il passaggio di Antoine dalla ribellione provocatoria e liberatoria dell’adolescenza ad un rassicurante conformismo, difensivo, che gradualmente si sgretola. Esso lascia posto ad una presa di coscienza e ad una scelta attiva che rendono possibili il cambiamento.

Ciò è stato possibile in quanto il temperamento di Antoine, la sua parte “naturale”, incontaminata nella sua essenza, ha incontrato relazioni buone nell’ambito delle quali fare esperienze correttive e trasformative. I valori e la gioia di vivere che Antoine esprime, nonostante tutto, in età adulta attestano la presenza di una risorsa fondamentale che egli riesce gradualmente e faticosamente ad attivare, la speranza. Secondo Fromm “Alberga nel carattere produttivo un’attiva speranza, che non si aliena nell’attesa del tempo futuro e non forza il presente ma lo vive come stato di gestazione” (Biancoli, 1986).

In Antoine, il passaggio dalla lettura alla scrittura autobiografica è emblematico, dando espressione a quel produttivo atteggiamento di apertura e attivazione che tende ad un cambiamento costruttivo, personale e al contempo socialmente condivisibile. L’uomo che egli diventa si dispiega nel progredire dalla compiacenza ad una sempre maggiore autenticità.

L’incontro con Lucien: “arte” della psicoanalisi e attivazione psicoterapeutica

La vita è fatta di paradossi nei quali, talvolta, si nasconde la verità. Chi l’avrebbe detto che proprio Lucien, che conosciamo per la prima volta in Les 400 coups come l’amante di Gilberte, sarebbe stato il volano del cambiamento di Antoine? Quest’ultimo lo definisce “L’amante numero 1” della madre, d’altronde quell’uomo aveva rappresentato proprio un nemico numero 1 per Doinel adolescente, bambino trascurato e arrabbiato, alle prese con il rifiuto materno e con l’assenza paterna.

In L’amour en fuite ritroviamo questo personaggio, Antoine lo ritrova, guarda a lui con nuovi occhi. Questo incontro interviene in un cambiamento già parzialmente in atto, segnando un momento cruciale, di svolta esistenziale per il nostro protagonista, in quanto gli consente di ri-conoscere sua madre (e di perdonarla), di ricucire ferite e ricomporre fratture che fino ad allora, avendo generato una copertura difensiva, lo avevano reso scisso e alienato, impedendo l’autentica espressione e realizzazione di sé. Da questo momento, Antoine può ri-conoscere se stesso, scoprirsi integro e integrato, nonostante una storia da riscrivere; guardare in se stesso, superando i limiti di un narcisismo difensivo e patologico, gli consente di accettare la propria fragile umanità, e di prendersi cura della propria vita autentica, del proprio essere. “Il narcisismo pone la persona nella modalità dell’avere e la rende facilmente vulnerabile, poiché ciò che si ha si può perdere, suscettibile ed esposta a sentimenti di rancore. L’odio nasce dal narcisismo ferito. (…) Al contrario l’essere io, che è esercizio di vitalità e generatività, sottrae dal rischio di perdere l’identità, che non è alienata in cose ma persistente nella sua stessa esperienza” (Biancoli, 1986).

L’incontro tra Lucien e Antoine è un “confronto vivente” (ibidem), che, nel rispetto dell’interezza dell’altro essere, consente di fare propria la prospettiva altrui. Lucien com-prende il bisogno e desiderio di verità di Antoine, e quest’ultimo ha modo, a sua volta, di com-prendere, la madre e quell’uomo più o meno sconosciuto (che ha amata sua madre sino alla fine dei suoi giorni), come anche se stesso. L’empatia di cui Antoine si mostra, forse per la prima volta, capace, è il risultato e, al contempo, la chiave del suo cambiamento.

Proprio come accade in psicoterapia. Una vera e propria arte, volta non all’adattamento sociale, quanto alla cura dell’anima. Atto creativo. Nell’hic et nunc di questo confronto non mancano resistenze, regressione e transfert, ma è la restituzione che chiama in causa il protagonista nel ruolo attivo di chi prende in mano le redini della sua vita, cosicché la presa di coscienza possa accompagnarsi al salto nell’azione, al cambiamento nel modo pratico di vita.

Lucien, analogamente alla figura del terapeuta, non si limita a fungere da specchio, bensì si mette a disposizione offrendo un rapporto stabile e ponendosi come presenza empaticamente partecipante, come reale e vera figura di riferimento, che sostiene ma non si sostituisce né si impone (ad esempio con interpretazioni selvagge). Egli è un essere umano capace di dedizione e di “prendersi cura” (rimane fino alla fine accanto alla sua Gilberte, morta all’età di 47 anni), esempio di chi sa amare produttivamente. “Il paziente può cogliere la propria interezza quando vede l’esempio dell’interezza del terapeuta. (…) Non le parole del terapeuta infondono coraggio ma il suo proprio coraggio” (ibidem).

Secondo Fromm la conoscenza sperimentata in analisi trascende quella puramente intellettuale, in quanto nel processo psicoterapeutico è possibile il rinvenire di quel volto originario, base dell’identità della persona: il paziente può riconoscere elementi della sua identità e distinguerli da quelli di pseudoidentità, insomma riconoscere il vero sé, scoprendo in esso la libertà di essere umano.

Il cambiamento di Antoine, che trova una spinta decisiva nell’incontro “terapeutico” con Lucien, è analogo a quello a cui tende la psicoterapia, che “può condurre a una triangolazione interiore dei rapporti col padre e colla madre, dove l’autoritarismo e la fissazione incestuosa lascino il posto all’intimo dibattito tra coscienza paterna e coscienza materna della persona, che è divenuta padre e madre di se stessa. La contraddizione rimane, ma non più fissata a vecchie controversie familiari, bensì come permanente tensione insita nella natura umana tra senso del dovere derivante dalla propria socialità e senso di amorevole accettazione di sé proveniente dalla vita stessa e permanente in essa anche se il dovere non venga adempiuto” (Biancoli, 1986)[4].

  • Conclusioni

Il ciclo Antoine Doinel ben viene a rappresentare la “situazione umana” (Fromm, 1947), costellata di dicotomie esistenziali e potenzialmente pro-tesa. Il protagonista non è l’uomo “colpevole” freudiano, lacerato dal senso di colpa per desideri proibiti, bensì un uomo terreno, che soffre di alienazione e insoddisfazione cronica, ma, al contempo, si impegna in una ricerca attiva di senso e verità che sostanzia il suo percorso di autorealizzazione. Sceglie di superare il passato, pur senza aggirarlo (arriverà infatti a raccontarlo nel suo romanzo autobiografico), di ri-conoscere la propria storia per cambiarne il corso, Doinel, che vive l’hic et nunc gestativo (Fromm, 1976) come artefice del proprio destino.

Fromm scrive: “l’etica umanistica prende la posizione che se l’uomo è vivo, sa che cosa è permesso; ed essere vivi significa essere produttivi, non impiegare le proprie capacità per nessuna finalità che trascenda l’uomo, bensì per se stessi, dar senso alla propria esistenza, essere umani. Finché c’è chi ritiene che il suo ideale e la sua finalità sono posti al di fuori di lui, vale a dire al di sopra delle nuvole, nel passato o nel futuro, uscirà da se stesso e cercherà adempimento dove non lo potrà trovare. Cercherà soluzioni e risposte in qualsiasi punto salvo che dove potrebbe rinvenirle: in se stesso” (1947).

Alla fine scopriamo, con lo stesso Antoine, che quando troviamo noi stessi, riconoscendo e accettando la nostra parte più autentica, possiamo incontrare davvero gli altri: smettiamo allora di ricercare la chimera dell’assoluta felicità e possiamo ‘semplicemente’ essere, essere umani.

 

[1] All’epoca neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta, membro della Société Française de Thérapie Familiale Psychanalytique, redattore capo della Rivista Le divan familial, segretario generale e tesoriere dell’Association Internationale de Psychanalyse de Couple et de Famille.

[2] Jean Narboni e Serge Toubiana (a cura di) (1988). Il piacere degli occhi / François Truffaut. (Trad. It. Melania Biancat). Marsilio, Venezia.

[3] Citato in Marcelli D., Braconnier A. (1983). Adolescenza e psicopatologia. Masson, Milano, 2006 (sesta edizione italiana).

[4] Cita Fromm E. (1955). Psicoanalisi della società contemporanea.

La vergogna: breve storia d’un concetto

di Volfango Lusetti, 4 settembre 2016

leggi in pdf Breve storia della vergogna

Questo contributo è presente in Aa. Vv., Vergogna, un’emozione dimenticata, a cura di Maria Emanuela Novelli e Guglielmo Pallai, Edizioni Universitarie Romane, Roma 2016, e sulla rivista «Attualità e Psicologia».

vergogna-l-emozione-dimenticataLa vergogna è uno di quegli aspetti della psicologia umana che maggiormente si prestano ad essere fraintesi.

Essa infatti si situa a cavallo fra le dimensioni antropologico-religiosa e politico-ideologica da un lato, e quella psicopatologica dall’altro lato.

E’ proprio in ragione di questa sua “posizione di confine” fra antropologia e psicopatologia, che la vergogna viene molto spesso confusa con la colpa, ossia con un’altra categoria psicologica, ugualmente “di confine” fra antropologia e psicopatologia, da cui invece è strutturalmente diversissima e per certi versi opposta.

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Fra la colpa e la vergogna esistono, beninteso, delle indubbie analogie: esse, peraltro, a ben vedere si riducono ad una sola, però essenziale, che consiste nell’essere entrambe dei disturbi della relazione con gli altri, introiettati come percezione d’una propria esclusiva responsabilità circa un eventuale svolgimento negativo e/o distruttivo della relazione medesima.

Abbiamo però anche alcune differenze, che sono altrettanto capitali:

  • mentre la colpa, dal punto di vista antropologico-culturale e religioso, ha una matrice soprattutto giudaico-cristiana, la vergogna è assai più arcaica, universale e conosciuta in tutte le epoche, religioni e culture;
  • mentre la colpa, dal punto di vista psico-dinamico, ha una connotazione essenzialmente attiva (poiché trae origine soprattutto da un presunto comportamento volontario del soggetto, che si ritiene possa essere ricaduto, per l’appunto “colposamente”, su altri), la vergogna ha una connotazione nettamente più passiva, poiché riguarda all’inverso comportamenti e/o atteggiamenti altrui che si teme di dover subire, contro la propria volontà, in ragione di proprie insufficienze e caratteristiche negative, vere o presunte. Sono proprio questi comportamenti e/o atteggiamenti altrui, dunque, quelli che dall’esterno potrebbero ricadere su un soggetto il quale, entro una certa misura, ne è del tutto “incolpevole”, anche se se ne sente per qualche motivo come il destinatario “obbligato” e quasi la vittima designata.
  • mentre la colpa, dal punto di vista psico-patologico, riguarda un vissuto inerente azioni o atteggiamenti che sono state commessi o assunti dal soggetto (o quanto meno da lui desiderati e/o fantasticati) in forma pienamente consapevole, e che quindi sono non solo perfettamente conosciuti ma addirittura “rivendicati”, seppure per pentirsene, la vergogna, oltre che “ricadere in capo al soggetto” senza un’apparente colpa di quest’ultimo, appartiene in gran parte al regno dell’immotivato e dell’inconsapevolezza delle sue cause ultime, e dunque, almeno in parte, a qualcosa di sotterraneo, d’indefinito nei suoi contorni reali e di tendenzialmente inspiegabile.
  • mentre la colpa, usando categorie freudiane, riguarda soprattutto l’Io, quindi la sfera delle decisioni operative assunte da un determinato soggetto sia verso se stesso che verso l’ambiente esterno, la vergogna riguarda essenzialmente la sua modalità percettiva, e più precisamente la sua auto-percezione in rapporto al giudizio che su di lui può ricadere più o meno arbitrariamente dall’ambiente esterno, nonché il senso stesso del proprio valore e della propria identità personale (ovvero, ciò che in ambito psicoanalitico è stato denotato con il concetto di “Sé”). Inoltre la vergogna riguarda spesso ciò che a partire dall’ambiente investe direttamente e senza mediazioni razionali la corporeità del soggetto, ed insomma una sfera dell’interazione profonda fra il Sé e gli altri che per definizione non è, almeno nella maggior parte dei casi, sotto il controllo cosciente del soggetto.
  • Mentre la colpa si accompagna ad un preciso “potere” che il soggetto detiene sia sugli altri che su se stesso (su se stesso nel senso dell’auto-inibizione e dell’auto-padroneggiamento, sugli altri nel senso del loro “rabbonimento” ed anche della loro colpevolizzazione di risulta, con il potere di ricatto che da ciò consegue), la vergogna si accompagna ad un’impotenza pressoché assoluta: chi si vergogna si trova, letteralmente, “in balìa degli altri” e non possiede nessun arma da “brandire” nei loro confronti, cosa che non avviene affatto a chi è “preda dei sensi di colpa”.

In definitiva, le coordinate attraverso cui si declinano le cinque principali differenze fra colpa e vergogna che abbiamo elencato, corrispondono alle seguenti quattro dicotomie, delle quali solo la prima è d’ordine antropologico-religioso, mentre le altre tre sono prettamente psicopatologiche:

  1. a) la particolarità giudaico-cristiana della colpa, di contro all’universalità culturale della vergogna
  2. b) la connotazione volontaria, paradossalmente “potente” ed attiva della colpa, di contro alla passività ed impotenza della vergogna
  3. c) la consapevolezza della colpa, di contro alla frequente inconsapevolezza della vergogna (o meglio, di contro all’inconsapevolezza delle sue fonti)
  4. d) l’operatività etero-diretta della colpa, di contro alla percezione auto-riferita della vergogna.

Queste quattro differenze, come si vede, sono accomunate dall’essere la vergogna qualcosa che investe il soggetto e ne muta l’auto-percezione provenendo dal di fuori, anziché partire da lui stesso come avviene nel caso della colpa.

Dalle ultime tre di esse deriva poi la conseguenza che il “senso di colpa”, ovvero un vissuto nel quale il soggetto sceglie attivamente di auto-esporsi al giudizio altrui, è solo in pochissimi casi collegato, sul piano psicopatologico, con vissuti di riferimento, ovvero di tipo psicotico e delirante e/o di trasformazione corporea: per la precisione, un tale collegamento si ha solo nei “deliri di colpa”, ovvero in una tipologia della colpa in cui l’aspetto dell’esposizione passiva agli altri ed alla strapotenza del mondo acquista una particolare rilevanza, ma in compenso appare completamente mascherato da una formazione reattiva di tipo maniacale, iper-attiva ed etero-diretta la quale parte ancora una volta dall’Io, come avviene ad esempio in quei “deliri di rovina o di negazione del corpo e del mondo” nei quali si sviluppa una chiara, seppur paradossale, “ipertrofia” del senso d’una propria personale “potenza” che annulla il mondo).

La vergogna, invece, essendo in base a quanto sopra collegata ad un’esposizione puramente passiva, e senza tracce di reazione para-maniacale, al giudizio altrui, contiene sempre in se stessa un embrione d’ideazione di auto-riferimento e/o persecutoria di tipo centripeto, quindi “delirante” nel senso più classico del termine: ciò al punto che alcuni psicopatologi (ad esempio Arnaldo Ballerini) la hanno addirittura collocata nell’ambito d’un unico “continuum” con il delirio in sé (seppure attraverso gli anelli intermedi rappresentati dalle idee ossessive cosiddette “prevalenti” e dal delirio auto-riferito di tipo “sensitivo”), cosa che per quanto riguarda la colpa, almeno se presa nel suo insieme, non è assolutamente possibile fare.

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Ora, il fatto stesso che una tale confusione fra colpa e vergogna possa essersi prodotta ed abbia completamente oscurato le cospicue differenze psicopatologiche ed antropologiche (peraltro universalmente note agli studiosi) che abbiamo elencato, è a prima vista sorprendente.

Tuttavia, a ben guardare, questa situazione possiede delle ragioni storiche precise: esse risiedono nell’essersi la cultura giudaico-cristiana (tutta imperniata sulla colpa) appropriata, in questo come in molti altri casi, di concetti ad essa in parte (ma solo in parte!) affini, come appunto la vergogna, i quali appartenevano a culture e religioni anche di molto antecedenti, deformandoli e successivamente piegandoli ai propri fini ideologico-religiosi.

Pe tutti questi motivi, della vergogna, almeno nel mondo occidentale, a tutt’oggi ha preso a prevalere un’accezione molto superficiale, di tipo “politically correct” e banalmente moralistica, la quale è divenuta a poco a poco assai popolare e si è ormai radicata, sia nei mass media che in buona parte dell’opinione pubblica.

In base a quest’idea, ormai da gran tempo dilagata non solo nel “senso comune” ma anche in gran parte degli intellettuali, e persino in alcuni degli “addetti ai lavori” o “operatori della psiche” meno avvertiti, la vergogna sarebbe solamente una versione superficializzata ed esteriorizzata della colpa, e come tale essa da gran tempo, in specie con l’attenuarsi dei codici morali cristiani e del senso di colpa che era ad essi connaturato, sarebbe “deperita”, anzi addirittura “non ci sarebbe più”: insomma oggi, a differenza di quanto accadeva in un non meglio precisato “buon tempo antico” (e lo si dice con un misto di compiacimento e di rammarico), “non ci si vergognerebbe più” di alcunché.

Tutto ciò viene in tutta serietà affermato in quanto la vergogna, secondo una tale “vulgata”, anziché quel fenomeno psicopatologico molto profondo che abbiamo visto, ossia collegato ad un senso ancestrale di esposizione al pericolo nonché d’invasione psichica e corporea al limite della persecuzione e del delirio, andrebbe intesa come una “categoria morale” o addirittura politico-ideologica, da collegarsi, piuttosto che con i vissuti persecutori, con il dovere morale del “vergognarsi” (un dovere, secondo i più, oggi sempre più disatteso).

Insomma la vergogna, lungi dall’essere riconosciuta per quel fenomeno psicopatologico ancestrale e sommamente enigmatico che è nella realtà (un fenomeno lontanissimo dalle categorie “morali” perché, lo ripetiamo, assai più primitivo del senso di colpa ed imperniato, anziché sulla “volontà” e sull’attività, sulla passività, sull’inconsapevolezza, sull’auto-percezione e sull’auto-riferimento), si è trasformata in una sorta di “dovere civico”: qualcosa che di per sé sarebbe strettamente affine al “senso di colpa” ma ancora più superficiale di esso, per cui ad esempio a livello di costume, nell’attuale cosiddetta “crisi di valori”, “i meno onesti” (i quali sono per definizione carenti di “sensi di colpa” ed anche, ahimè, almeno secondo i luoghi comuni correnti, “sempre più numerosi”), non avrebbero ovviamente alcuna difficoltà psicologica a sottrarvisi.

Inutile dire come una tale visione caricaturale della vergogna, oltre a non renderle minimamente giustizia, sia del tutto inadeguata, semplicemente, a descriverla.

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Ma accanto a queste considerazioni generali, esistono anche indizi potenti, sia a livello clinico-psicopatologico che di costume, del fatto che la vergogna, lungi dall’essere “deperita” o addirittura scomparsa dalla cultura attuale, come si pretende, è al contrario ben presente ed operante, specie nell’ambito dei fenomeni sessuali.

In realtà, almeno a prima vista, nulla appare più lontano dalla vergogna della fortissima liberazione della sessualità e dell’affermarsi di quella vera e propria concezione consumistica ed “usa e getta” che ha investito il comportamento sessuale medesimo da alcuni decenni a questa parte (per l’esattezza a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso).

In particolare, la suddetta “liberazione della sessualità” ha fortemente investito il comportamento delle donne, ed in subordine dei giovani e degli adolescenti.

Questo fenomeno ha sicuramente molto a che fare con l’introduzione massiccia degli anti-concezionali e con la conseguente divaricazione fra le categorie della sessualità/piacere e della riproduzione/dovere (quindi anche con una parziale liberazione delle donne dalla schiavitù dell’accudimento d’una famiglia che in passato, nell’ambito d’una coppia che era essenzialmente finalizzata alla riproduzione, contava nel suo seno un alto numero di figli).

Esso peraltro è suggestivamente parallelo ad un ulteriore fenomeno: lo svuotamento repentino delle Chiese nel mondo occidentale, detto anche “secolarizzazione religiosa”, ovvero un altro misterioso e repentino evento che è stato osservato proprio a partire dagli anni Sessanta del Novecento, e che denota un crescente venir meno della “presa culturale” d’un ente spirituale molto prestigioso e potente, fino ad allora dispensatore incontrastato di obblighi e di codici morali soprattutto in campo sessuale.

Questi tre fenomeni, poi (“liberalizzazione dei costumi sessuali”, “introduzione degli anticoncezionali” e “secolarizzazione religiosa”), possono a loro volta essere messi in relazione con un quarto, che possiamo complessivamente definire, in termini riassuntivi, la “crisi del modello culturale patriarcale”: si tratta in questo caso d’un fenomeno che investe assetti culturali pluri-secolari e forse millenari, e che probabilmente sta alla base degli altri.

La “crisi del modello culturale patriarcale” è caratterizzata, nell’ordine:

  • da una forte crisi dell’identità maschile, sia sul piano lavorativo che sessuale
  • dal crescente corrispettivo affermarsi del potere femminile, sia a livello socio-culturale che economico-politico
  • dal calo vertiginoso della natalità, ed insieme della mortalità infantile
  • dalla crisi del vincolo coniugale di tipo monogamico, e più in generale della “famiglia tradizionale”, e dal conseguente dilagare di famiglie, etero ed omo-sessuali, cosiddette “a geometria variabile”, ovvero con giustapposizioni varie di figli, di genitori e di “compagni” appartenenti a più matrimoni ed unioni, ecc.
  • dal venir meno crescente, in parallelo con il crescere dell’individualismo collegato al dissolvimento della famiglia tradizionale, del concetto di “dovere morale” (e conseguentemente, di quello di “colpa”), e dal corrispettivo crescere di quello di “diritto”, sia in campo sessuale e lavorativo che in tutti gli altri
  • dal diffondersi di comportamenti maschili sempre più violenti e efferati sulle donne, presumibilmente “reattivi” al crescere del potere femminile e al calo di quello maschile
  • dal diffondersi di problemi erettivi nel maschio, anche se molto giovane (un fenomeno che qualcuno ha addirittura calcolato, nella percentuale del 52% dei maschi occidentali); di tali problemi erettivi, presumibilmente anch’essi collegati con la crisi d’identità maschile, è indizio il diffondersi dell’uso del Viagra fra i giovani.

Ora, per tornare al tema della vergogna, questi fenomeni di mutamento culturale apparentemente assai eterogenei e disparati (anche se sul piano antropologico tutti riconducibili, come si è detto, alla crisi del “modello culturale patriarcale”), a ben vedere possono essere unificati, da un punto di vista psico-dinamico, sotto il comun denominatore d’una “maggiore esposizione sia delle donne che degli uomini a stimolazioni sessuali aggressive ed invasive, un tempo arginate e represse dalla cultura patriarcale e dalla sua ossessione monogamica (o quanto meno, dall’ossessione del controllo maschile sulla sessualità femminile)”.

Del cambiamento inerente la vergogna che si è accompagnato a tali mutamenti dell’antropologia e della psico-dinamica delle relazioni fra i sessi, portiamo quattro esempi, tutti particolarmente significativi.

Un primo esempio è prettamente psicopatologico:

  1. da un lato è deperita fino a sparire quasi del tutto una forma psicopatologica tradizionalmente femminile, ma non del tutto assente fra gli uomini, che imperava in epoche precedenti e che fu al centro dell’interesse di Sigmund Freud, ovvero l’isteria;
  2. dall’altro lato è cresciuta in termini esponenziali, anzi è addirittura esplosa, un’altra forma psicopatologica ugualmente prevalente fra le donne (ma che si diffonde sempre di più anche nel sesso maschile!), ovvero l’anoressia.

Ora, è lecito sospettare, sulla scia di Freud, che l’isteria fosse il sintomo (ed allo stesso tempo, il tentativo mascherato d’aggiramento) d’una repressione culturale, di chiara matrice patriarcale, di tutti quei comportamenti e “pulsioni” sessuali, anzitutto femminili, che potevano dar luogo non solo a comportamenti “trasgressivi”, ma anche ad un vissuto di esposizione diretta agli stimoli sessuali stessi (ovvero ad una forma di sessualità più o meno invasiva ed aggressiva, non filtrata da codici culturali repressivi e/o protettivi), e conseguentemente, ad un vissuto di “vergogna”.

Insomma l’egemonia culturale “patriarcale” si collocava non solo su un piano di repressione della sessualità, ma operava anche in un altro senso, finora per lo più trascurato dagli osservatori e dagli psicopatologi: essa si ergeva anche, per così dire, “a filtro e protezione” dall’esposizione sessuale medesima, e dunque dal senso della vergogna che ne conseguiva, rendendo così possibile una parziale e “mascherata” espressione di sessualità “libera” proprio attraverso la sintomatologia isterica, che in talune sue forme chiaramente la mimava. Ma come si può intuire, in un clima di “sessualità completamente liberata” dal venir meno dei codici patriarcali, come quello attuale, un tale meccanismo protettivo non è stato più necessario e nemmeno possibile, donde il declinare dell’isteria.

Analogamente si può sospettare, in maniera ugualmente legittima, che anche il crescere attuale dell’anoressia, e più in generale dei “disturbi dell’alimentazione” (fenomeno suggestivamente parallelo e inversamente proporzionale al declino dell’isteria!) rappresenti il risultato dell’odierno venir meno degli argini culturali patriarcali all’esposizione sessuale.

In altre parole, forse il venir meno del modello culturale patriarcale, nel suo “liberare” la sessualità (ed in primo luogo, la sessualità delle donne!), ha nello stesso tempo implementato la sua esposizione diretta (ovvero non più filtrata da codici culturali repressivi) alle possibili invasioni e/o predazioni  altrui, e di conseguenza il vissuto di “vergogna sessuale”.

Ciò, da un lato, potrebbe aver reso inutile ogni espressione della sessualità che fosse “mascherata” in forma isterica, e dunque ”protetta” rispetto ad un’esposizione sessuale diretta e potenzialmente aggressiva.

Dall’altro lato potrebbe aver reso necessaria, per compenso, una difesa “estrema” contro una vergogna e contro un’esposizione sessuale, ormai dilagante, da cui non ci si poteva più difendere in altri modi: ora, questa “difesa estrema” potrebbe essere stata rappresentata proprio da quel tentativo di “cancellazione del corpo e della sessualità” (ossia della fonte stessa dell’esposizione sessuale a possibili “invasioni”) di cui l’anoressia è un’evidente espressione: si pensi solo, a mo’ d’esempio, al repentino e frequentissimo cessare delle mestruazioni nella donna anoressica, ossia al venir meno, nell’anoressia, del cuore stesso dell’esposizione sessuale femminile al maschio, che coincide evidentemente con l’aspetto riproduttivo.

Un secondo esempio è di natura antropologica, ed è il seguente:

una difesa dalle invasioni predatorie per via sessuale, probabilmente, è stata rappresentata dalla riscoperta di forme di repressione religiosa che si credevano definitivamente superate o in via di superamento, per lo meno in Occidente.

Da questo punto di vista è singolare la “riscoperta” del velo, presumibilmente anche in qualità di antidoto alla vergogna, non solo da parte di donne islamiche sempre più “contaminate” dai costumi occidentali ma anche da parte delle donne occidentali stesse (seppure ancora in minima percentuale), talché si è assistito con stupore al trapasso più o meno repentino, a cavallo fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo scorso, da costumi sessuali sempre più occidentalizzati e “liberi” come quelli che si erano affermati nello stesso mondo islamico fino agli anni Settanta, ad un rinnovato fondamentalismo etico, peraltro accolto con favore in buona parte dei casi (ed è proprio questa la sorpresa!), dal sesso femminile stesso: quest’ultimo, infatti, spesso dichiara esplicitamente, anche in un contesto culturale occidentale, di sentirsi, del tutto a prescindere da presunte “pressioni maschili”, molto “più protetto” da un codice morale repressivo di tipo patriarcale (e quindi anche dal velo che lo rappresenta), che non dalla “libertà” completamente de-ritualizzata che l’Occidente propugna.

Un terzo esempio, anch’esso antropologico, può essere rappresentato dal crescere nell’opinione pubblica, talora in forma giustificata ma talaltra spinta fino all’isteria ed alla caccia alle streghe, della preoccupazione per la pedofilia quale tipica fonte di invasione sessuale di tipo predatorio, e conseguentemente fonte di passività e di vergogna: ciò a fronte dell’assenza assoluta di dati statistici che dimostrino un reale aumento del fenomeno.

In altre parole, la pedofilia sembra costituire non solo l’ultimo tabù sessuale rimasto in vigore (insieme all’incesto, che però spesso viene stranamente vissuto come un pericolo “minore”), a fronte della caduta di tutti gli altri, ma una specie di “argine estremo” il quale ad un certo punto ha riassunto su di sé il senso generale e più riposto dei tabù sessuali in quanto tali (quello, appunto, d’essere un argine ai tentativi d’invasione predatoria che attraverso la sessualità assai spesso si esplicano). La pedofilia infatti, specie se praticata da figure genitoriali o para-genitoriali (ad esempio dal clero), è un comportamento perverso che, a differenza degli altri, investe direttamente ed alimenta, in una maniera assai evidente e difficile da occultare, proprio quei vissuti d’invasione predatoria strutturalmente collegati alla sessualità (“liberata” o meno che sia) di cui abbiamo fatto cenno e che la cultura attuale tende invece a negare, praticamente in tutte le forme di perversione tranne che nella pedofilia, così come nel comportamento sessuale in generale.

Saremmo insomma di fronte, in questo caso, ad una riscossa paradossale, almeno in un clima imperante di sessualità “liberata”,  dei tabù sessuali in generale, attraverso la riscossa dell’ultimo tabù inerente il sesso, la pedofilia appunto, rimasto miracolosamente in piedi (e rimastovi proprio grazie al suo stretto collegamento, allo stesso tempo, con tematiche d’”invasione predatoria” d’origine sessuale, nonché incestuosa e vagamente “genitoriale”, e con i vissuti di “vergogna”.

Un quarto esempio, ugualmente antropologico ma allo stesso tempo psicopatologico, è il crescere, nella parte meno “avvertita” dell’opinione pubblica ed in alcune fasce del radicalismo religioso, di forme anche violente di omofobia, le quali si sono recentemente tradotte addirittura in attentati terroristici e stragi di massa a danno di omosessuali “militanti”, o comunque riuniti in attività ricreative di carattere “pubblico” e/o politiche. Questo fenomeno, a fronte d’una diffusione dell’omosessualità da sempre relativamente ampia, seppure in forma sotterranea, anche nelle società e culture apparentemente più “omofobiche”, sembra indicare ancora una volta un’emersione persecutoria del vissuto di “vergogna” (intesa nella sua forma più tipica della “esposizione” ad invasioni sessuali predatorie), che l’affermarsi di un’omosessualità “vissuta in pubblico” ha evidentemente slatentizzato, in Occidente ma non solo, all’interno d’una certa fascia “retriva” di soggetti maschili.

A tale proposito si può ricordare come l’omosessualità maschile, in particolare, implichi per molti soggetti il sentirsi posti, anzi talora il porsi loro stessi in maniera volontaria ed ostentata, in una posizione potenzialmente passiva, quindi “esposta” e “soggetta”, nei confronti di invasioni sessuali predatorie d’origine maschile: ora, ciò è più che sufficiente a determinare in coloro fra tali soggetti che si sentono involontariamente esposti alla predazione sessuale (e che si presume siano particolarmente predisposti ai vissuti persecutori d’invasione predatoria), un senso di “vergogna”, con il conseguente scatenarsi di reazioni più o meno violente e paranoicali all’esposizione maschile medesima: è arcinoto ed universalmente riscontrabile nella clinica, a partire dal caso Schreber citato da Freud, il legame strettissimo che unisce “paranoia” ed “omosessualità” (un legame che per Freud era rappresentato dall’essere la paranoia la “copertura di un’omosessualità di cui ci si vergogna”, mentre secondo noi consiste ancor prima di ciò nell’essere l’omosessualità, accanto alla vergogna, un potente contrappeso ed uno strumento di neutralizzazione, in questo caso tramite il “piacere”, di invasioni predatorie); ed è altresì risaputo l’odio ed il comportamento omicida che gli omosessuali suscitano in taluni soggetti psicopatici, i quali li avvertono come “invasivi” e “minacciosi per la loro “identità sessuale maschile”, oppure per l’integrità stessa del loro Sé.

Una suggestiva conferma del possibile legame fra omosessualità e “vergogna” intuito da Freud, del resto, ci viene da un curioso fenomeno, inerente l’omosessualità, che chiama in causa proprio quel legame fra anoressia e “vergogna sessuale” cui abbiamo fatto cenno nel primo esempio da noi portato. Il fenomeno è il seguente: quegli stilisti che “vergano” i dettami della moda cui si ispirano in maniera crescente i soggetti anoressici (donne ed uomini!), sono per lo più dei maschi omosessuali di tipo “estroverso”, ovvero dei soggetti che propugnano al massimo grado, per lo meno nell’ambito della cultura attuale, l’esposizione sessuale alla predazione, ovvero la sua esplicita rivendicazione, e che talora addirittura la “provocano” (si veda, a controprova dell’oggettiva esistenza d’una tale “esposizione omosessuale” ai pericoli predatori, il sopracitato odio di moltissimi psicopatici verso l’omosessualità). Insomma, è come se quelli, fra gli omosessuali, che si sentono non solo sensibili ma anche particolarmente “reattivi” alle tematiche d’invasione predatoria per via sessuale, per un verso “sfidassero” quest’ultima “esibendo” costantemente agli altri la propria omosessualità e quasi “rivendicandola” (forse in quanto posizione “passiva” che aspira a divenire “attiva”), e per un altro verso “insegnassero” a chi non ha la loro stessa capacità reattiva come difendersene, per l’appunto, tramite comportamenti anoressici, ovvero fatti di auto-sottrazione e di “rifiuto”, insieme al cibo, del sesso.

In definitiva, è come se tali stilisti tentassero in qualche modo di codificare ad uso di “tutti gli altri”, attraverso la moda “anoressica” stessa, uno strumento efficace di “arginamento degli stimoli esterni” al fine di riparare la propria omosessualità dai pericoli dell’invasione predatoria nel momento stesso in cui la provocano.

 

In definitiva, si può affermare che la vergogna, espulsa a furor di popolo, al pari della colpa, dall’ambito del discorso pubblico e privato corrente, alla stregua d’un vero e proprio novello “tabù”, ad opera del paradigma “obbligatoriamente liberato” che sessualità e comportamenti “trasgressivi” hanno sempre più assunto nelle società occidentali (nelle quali non a caso il codice culturale patriarcale è ufficialmente in via di dissolvimento!), sembra paradossalmente essersi “rifugiata” nei recessi più profondi ed inattaccabili della Psicopatologia e dell’Antropologia Culturale: ma che da lì, poi, sia partita, per così dire, “al contrattacco”.

E la vergogna, in un tale “contrattacco” si è mostrata, a dispetto dall’apparenza, assai più dura a morire della colpa, anzi praticamente invincibile, per lo meno ad opera di codici culturali deboli, di superficie ed “alla moda” quali quelli correnti.

 

Concludendo, l’unica cosa utile che si può fare, rispetto ai luoghi comuni, alle confusioni ed alle banalizzazioni che investono attualmente il tema oggettivamente profondo e difficilmente sondabile della “vergogna”, è ritornare alle fonti della Psicopatologia e dell’Antropologia Culturale e riscoprire, con il loro aiuto (ed anche liberandoci per un attimo dalla lente deformante del Cristianesimo, nonché del suo retaggio culturale “illuminista”), il vero profilo della vergogna insieme con le sue tracce materiali, che sono tuttora profonde e consistenti sia nella mente che nella cultura umana.

Volfango Lusetti, Roma, 11 6 16