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#Nuova Poesia Americana 4

di Andrea Galgano 27 febbraio 2023

Nel quarto volume di Nuova poesia americana[1], edito da Black Coffee, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, gli autori «recitano le loro poesie in modo intimo, con delicatezza, come se gli avessimo poggiato la testa in grembo. Altre volte declamano urlando, come qualcuno che ci parli in un locale affollato[2]».

 

Michael Collier (1953), Poeta Laureato del Maryland, autore di diverse raccolte poetiche e fellowship presso la Guggenheim Foundation e il National Endowment for the Arts, concentra la densità creaturale dello sguardo umano. L’assurdo e il dettaglio, l’inquietudine straordinaria che penetra l’ordinarietà del quotidiano. È come se venisse scompaginata la monotonia dell’esistenza da gesti, dettagli, presenze animali, dal chihuaua Bum Bum, alla capra su una catasta di legname di scarto, dove gli occhi «sono bisecati da un orizzonte di luce gialla», all’albero alla finestra, spogliato e vivido, fino agli eventi minimi, come un tacchino caracollante o alla dolce gentilezza di un controllore di un treno Bucarest-Mosca, che unisce il percorso della storia a uno sguardo che si impara.

La sua poesia innesta una descrizione percettiva, che oscilla nei contrasti lirici e nelle assenze, nelle tragedie e nelle cifre di gioia, nell’amore domato e nella inquietudine selvaggia del tempo: «Ma adesso che il sole se n’è andato, il crepuscolo blu dell’estate / tinto di timo e d’argento sotto le foglie di ulivo / placido nei solchi scavati, che rabbuia i frammenti bianchi / di calcare riesumati dall’aratura, l’apicoltore nei suoi paramenti / spreme il mantice dell’affumicatore, soffia una sottile corrente azzurra / in una fessura, sgancia il piano superiore, come il coperchio / di una scatola, e ne diffonde altro».

Carolyn Forchè (1950), poetessa di pregio e attivista per i diritti umani, originaria di Detroit, Michigan, docente alla Georgetown University, oggi dirige il Lannan Center for Poetry and Social Practice, ispessisce il forte sapore quasi giornalistico, come scrive John Freeman, alle sue opere.

Vi è il potere lirico della scena, come la bellezza screziata e violenta de Il guardiano del faro:

«Notte senza navi. Corni da nebbia risuonano nel muro di nube, e tu / ancora vivo, attratto dalla luce come fosse fiamma curata da monaci, / buio una volta incrostato di stelle, ma ora buio-morte mentre veleggi verso terra. / Attraverso ginestre e relitti, attraverso erica e lana lacera / hai corso, tirandomi per mano, perché lo potessi vedere una volta nella vita: / l’arcolaio, l’arcolaio di luce, il suo roteare, luce in cerca di chi si è perso, / lì già dall’era del fuoco, delle candele, delle cave lampade a olio, / olio di balena e lucignolo, colza e lardo, cherosene e carburo, / i fuochi-segnale accesi su questa costa pericolosa nella torre di Hook».

La tragedia delle traversate, l’esilio esile, il ricordo invisibile dell’ultimo ponte, le città in assedio, le guerre e le isole sono le sue poesie perdute: compassione vigile e traiettoria umana, lucentezza oltre-fine che supera morte e dolore, attraverso la tensione dell’avvento di ciò che viene.

Ted Kooser (1939), premio Pulitzer nel 2005 per Delights & Shadows e Poeta Laureato nel 2004, originario di Ames, Iowa, ricorda e intaglia la sperdutezza dell’infanzia trascorsa sulle pianure dell’Iowa, che ospitavano registri di sogni, meraviglia e stupore, laddove il ricordo e la bellezza dell’estate slacciata, la perdita, ciò che trapela dalle fessure del tempo, come la concimatrice nei campi, ritornano al respiro della polvere e del mais.

Sembrano raccontare il mondo, il quadro e la vertigine della vita, la linea-madre e la finestra aperta di un mattino d’inverno e, nel silenzio immobile, solo il sussurro del bollitore e «contro il gelo stellato un piccolo anello azzurro di fiamma».

John Freeman scrive: «Kooser è poeta dalle immense capacità pittoriche, ma non le usa per sovrastare il lettore. Anzi, lo invita ad afferrare l’effimero, ad ammettere, in altre parole, i limiti dell’essere umano, ad apprezzare ciò che può essere osservato[3]».

Ada Limón (1976), Poeta Laureata degli Stati Uniti, rappresenta l’urgenza di contatto con il mondo[4], il suo respiro e il suo limite assieme, attraverso lo stretto rapporto di natura e poesia. La libertà, come il rimando, selvaggio e puro, alla bellezza dei cavalli, apre all’amore infinito, alla gioia implume, e, infine, alla grazia sopravvissuta delle creature che compongono il suo dolce assedio alla vita, la sua crepa trafitta e il suo cuore in fiamme: «io sono un essere umano, basta sono solo e disperato, / basta animale che mi salva, basta aria e il sollievo che dà, / io ti chiedo di toccarmi».

Gary Snyder (1930), nato a San Francisco e Professore Emerito presso l’Università della California-Davis, sulla linea epica e vertiginosa della beat generation, pone la sua asciuttezza al mondo come atto devoto alla quotidianità, al suo mistero, alla grazia cromatica ed elementare. È una esplosione di luce e prospettiva che attraverso patchwork espressivi insegue i luoghi, i dettagli e le piccole trame che cercano di non scomparire. Il mondo che si porge è in tutto il suo orizzonte.

Paul Tran, partendo dal recupero del mito Icaro, nel quadro di Pieter Bruegel, come afferma John Freeman, «celebra la rigenerazione, facendo attenzione a non edulcorare la sofferenza. Nelle sue poesie l’adattamento non è mai separato dalla sua fonte, dalla sua motivazione. Nel linguaggio preciso e potente di Tran il pesce bioluminescente, o perfino Icaro, con le sue raffazzonate ali, sono esseri viventi che si adattano all’ambiente circostante» (p.21).

Tale rinascita, dunque, è un respiro che si solleva, in cui gli esiti della possibilità, del dolore, del sacrificio dell’essere tornano sulla pagina come valico e tenebra, lacerazione e bellezza.

[1] (a cura di) Freeman J.-Abeni D., Nuova poesia americana, IV, Black Coffee, Mombaroccio (PU) 2022.

[2] Freeman J., Introduzione, cit., p.16.

[3] Id., cit., 19.

[4] Bruna M., Ada Limón. Vedo nei cavalli la mia libertà, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 4 dicembre 2022.

La sorgente della Nuova poesia americana

di Andrea Galgano  8 dicembre 2020

leggi in pdf 181.NUOVA POESIA AMERICANA VOL.2

Il secondo volume della Nuova poesia americana[1], edito da Black Coffee, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, restituisce l’abbandono, il giaciglio solitario del tempo, la forza del mistero, il grido roco e lucente del contatto e del desiderio e, come afferma Alberto Fraccacreta:

«un corpo solido, un’efflorescenza timbrica così chiara e stentorea che la si può riconoscere immediatamente anche da pochi grafemi, simboli, figure retoriche […], anafore, ripetizioni tratte dal blues e dalla tradizione folk, mistura di linguaggio alto e locuzioni non soltanto pop ma persino punk, tono colloquiale, tendenza a far prevalere frasi gnomiche e a effetto per colpire il lettore, scardinamento metrico, utilizzo di slang giovanile che riflette una visione cinica e disillusa del mondo, risemantizzazione di espressioni idiomatiche e volgarismi».[2]

Efflorescenza, scardinamento e risemantizzazione, dunque, che plasmano l’io in modo minuzioso e isolato, per così dire, come afferma John Freeman nell’introduzione, ma che riesce a strappare e consegnare la creativa giacenza del desiderio, della rabbia e del dolore attraverso la rapidità dell’epifania, l’affilamento contratto della lingua, e l’orlo dei paesaggi con la loro brutalità lucente.

Partendo da Kim Addonizio, originaria di Washington D.C. ma che vive a San Francisco, la cadenza del battito sanguigno, l’estremità del corpo («Quando lo trovo, staccherò quell’indumento / dall’omino come stessi scegliendo un corpo / che mi porti in questo mondo, attraverso / le grida del parto e anche le grida dell’amore, / e lo indosserò come fosse ossa, come pelle, / e sarà lo stramaledetto vestito / in cui mi seppelliranno»), lanciato come limite, il cuore della carne è un incastro di memoria e dolore stupefatto (come la forte Generazioni, che unisce immigrazione oblio), fino alla tensione di istinto e desiderio, femminilità strappata e umbratile, durezza sofferta, blues violento, instabile e redento e, infine, amore che si squaderna, fino alla mappa stropicciata degli inferi («Per te mi spoglio fino alla guaina dei nervi. / Tolgo i gioielli e li appoggio al comodino. / Sgancio le costole, stendo i polmoni su una sedia. / Mi sciolgo come un farmaco nell’acqua, nel vino. / Sgoccio senza macchiare, me ne vado senza smuovere l’aria. / Lo faccio per amore. Per amore, io scompaio»):

«Mi piace toccare i tuoi tatuaggi nella più assoluta / oscurità, quando non posso vederli. So per / certo dove stanno, so a memoria la minuta linea del lampo che pulsa appena sopra / il capezzolo, so trovare, come d’istinto, le spire / azzurre d’acqua sulla tua pelle dove un serpente / s’attorce, affronta un drago. Quando ti tiro / a me, prendendoti fino a quando non resta niente / di noi silenziosi sui lenzuoli, adoro baciare / le figure nella tua pelle. Dureranno finché non verrai bruciato a cenere; qualsiasi cosa potrà durare / o mutarsi in dolore tra noi, loro saranno in te / ancora. Il pensiero di tale permanenza è spaventoso. / Così li tocco al buio; ma li tocco, ci provo».

Le correnti di Garrett Hongo, poeta delle Hawaii, sono un’ondulata e vibrata solitudine che ingloba il destino, il senso del tempo e dello spazio come un blues a bocca chiusa (si pensi a La leggenda), la storia e i suoi crogioli, il territorio dell’infanzia e delle figure care, le carte espatriate e l’esilio («La terra di lava fiammeggia di primule e bacche di rovo, / fuochi fragranti di rosa e azzurro / che sfrecciano nell’intrico del sottobosco. / Io sono fuori che do da mangiare ai polli, / spargendo rimasugli di semi e bucce di melone / sulle pietre sbeccate e il legno marcio del sentiero nella foresta»), il suo mosaico di cadmio e rimpianto, come splendore e rovina: «In California, a nord del Golden Gate, / il rampicante cresce quasi dappertutto, / erompe nei pascoli, / dall’ombra degli eucalipti / lungo la strada / sommergendo stamberghe fantasma e steccati in rovina / che si sbriciolano nel marciume / imbevuti dalle piogge recenti».

È un solco di paradiso perduto, l’istante cesellato dal nutrimento della terra, dove l’elegia solitaria vive di voci di soglie e di cielo, dell’immagine di Neruda, in un nome di lode e di litania, di polpe bagnate e felicità di aria tropicale.

Il grido rivelatorio di Lawrence Joseph, nato a Detroit ma ora a New York dove insegna legge alla St. John’s University School of Law, è una fusione dei dettagli e degli affreschi della temperie operaia e genesi libanese e americana. Queste luci rifratte di New York rappresenta la potenza dell’evento, la decifrazione delle cose sui taccuini e la ruvidezza delle distanze trasfigurate: «Prima dell’alba, di nuovo sulla strada, / sotto un cielo che mi inonda di ghiaccio, fumo e metallo. / Non voglio pensare / che il proiettile mi ha perforato la spalla, / che i denti marci del tossico / hanno sorriso, i capelli gialli gli si sono gelati. / […] Non sono io che urlo contro nessuno / a Cadillac Square: è Dio / che ruggisce dentro di me, con la paura / di essere solo».

La californiana Kay Ryan, cresciuta nella valle di San Joaquin e nel Mojiave, premio Pulitzer e National Humanities Medal, esplora il ritmo combinatorio delle rime interne, attraverso la morbida e scarna nudità di una infinita creaturalità, dalla teatrale bellezza dei fenicotteri, alla lieve pazienza della tartaruga, ai corvi sghembi, fino alla catarsi della rugiada e delle sue perline e alle oasi-miraggio.

È una epifania nascosta, il germoglio e lo scrutinio delle cose («Debolezza e dubbio / sono simbionti / celebri in tutti / gli ordini fungini»), gli orli del tempo e le nuove stanze: «La mente deve / riadattarsi / ovunque va / e sarebbe / comodissimo / imporre le sue / vecchie stanze – basterebbe / picchettarle / come una tenda / interiore. Oh, ma / i nuovi fori / non stanno dove / prima c’erano le finestre».

Aracelis Girmay, di Sant’Ana in California, che ora vive a New York e insegna all’Hampshire College, vincitrice del Whiting Award per la Poesia, consegna il dono vivido dell’intimità come purezza e dialogo, scheggia dolorosa di storia (si pensi a coloro che attraversarono il mare dal Nord Africa all’Europa, molti eritrei come i suoi avi), agone di vita che pulsa («Cantiamo così, per giorni & giorni, / allineate in file & file & file, rivolte al mare»), la vita e il dolore come in The Black Maria e il tocco, come conoscenza ultima e percettiva. Il suo ritmo è un soggiorno di grazia e purezza:

«Che fare con la consapevolezza / che il nostro vivere non è garantito? / Forse un giorno toccherai il giocane ramo / di qualcosa di splendido. & crescerà & crescerà / nonostante i tuoi compleanni & il certificato di morte, / & un giorno darà ombra alle teste di qualcosa di splendido / o renderà se stesso utile al nido. Esci / da casa tua, dunque, credendoci. / Niente altro importa. / Ovunque sopra di noi è il toccarsi / di estranei & parrocchetti. / alcuni tra loro umani, / alcuni tra loro non umani. / Dammi retta. Ti dico / una cosa vera. Questo è l’unico regno. / Il regno del toccare; / i tocchi del disapparire, delle cose che scompaiono».

Chiude l’antologia Kevin Young, originario di Lincoln, Nebraska, ma che vive in New Jersey, Chancellor of the Academy of American Poets, canta la danza estatica della realtà, come avviene in Lettere dalla Stella Polare: «Cara, le luci qui non chiedono / niente, il bianco cade / attorno alle mie lettere muto, / inarrestabile. Ti scrivo / dalla pancia vuota del sonno / dove niente tranne il freddo / si chiede dove vai; / nessuno qui scuoia teste aspre / e da poco come limoni, e solo / l’auto canta AM tutta / notte. In città / ho visto bimbi mezzo- / morsi dal vento. Perfino i treni / arrivano senza un’anima / che li accolga; le cose qui / non hanno bisogno di me, questo mondo / balla da solo».

Il blues racconta di volti e fantasmi, come quelli di Langston Hughes o Lucille Clifton, l’evenienza dell’evento, le serenate delle stelle lacere e del fulgore in frantumi e la cara oscurità: «Essere scomparsi, presi, / è quello che vuol dire paradiso – // È pieno di – ali – // Musica di ciò / che manca».

Aa.Vv., Nuova poesia americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020, pp. 192, Euro 13.

Aa.Vv., Nuova Poesia Americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020.

Fraccacreta A., D’avanguardia e feconda: la poesia americana oggi, in “Avvenire”, 8 dicembre 2020.

[1] Aa.Vv., Nuova Poesia Americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020.

[2] Fraccacreta A., D’avanguardia e feconda: la poesia americana oggi, in “Avvenire”, 8 dicembre 2020.