Commentario1 di Irene Battaglini* e Andrea Galgano** a L’ESSENZIALE CURVATURA DEL CIELO RACCOLTA DI POESIE DI ADRIANA GLORIA MARIGO

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Il Commentario sul sito della casa editrice La Vita Felice

L’ EQUAZIONE ESSENZIALE DI ADRIANA GLORIA MARIGO
di Irene Battaglini  29 novembre 2014

La poesia di Adriana Gloria Marigo è un fiume che sgorga e nel contempo include. Mentre s-gorga dal suo cuore immaginale, in-clude attraverso una catena di membrane linguistiche il materiale psichico e relazionale che ella ritiene necessario e utile al compito generativo, che assomiglia molto all’espressione di un gene dello stupore, quasi che si attivasse una catena epifenomenica dell’Esser-ci. Il verso: «[…] nell’ora più confusa / sciolti e ricomposti / i miei nervi issarono vele alla carne / incisero il canto bruno dell’abbraccio […]»2, sembra quasi snodare questo stampo originario.

Il processo creativo di Adriana Gloria Marigo – già in Un biancore lontano ma in modo ancora più marcato in L’essenziale curvatura del cielo – è di fatto ricerca di una Lichtung della parole nitida tra gli ingarbugliati sentieri della memoria delle cose: un discernimento di dritto e rovescio nel suburbe disorganizzato delle parole scomposte e vacue, occultate nell’ambiente protolinguistico delle emozioni. In questo gioco serio la sua scrittura arretra, in alcuni casi, nell’extrema ratio della sofferenza d’amore, quando scrive: «Di questo sogno tocco le sponde mobili / l’acqua che non si fa golfo e / ogni erba declinante il verde // il riverbero dell’ora dentro la / pupilla che sazia il mondo di ogni / tuo mondo, semplice e assente. (A Francesco M.)»3, a mitigare quel che altrimenti sarebbe un intarsio di filigrane in guerra con la perfezione apollinea di un inchiostro di Animus, come nei versi potenti e fieri di “3 febbraio 2012”: «Benedico la sottile luce / levantina / il graffio di gelo / l’eterna aria dissimile / la stirpe dei Reti che / mi arde d’intelletto, / di non fragile cuore»4.

Versi scolpiti e sottili, stagliati, intagliati, decisivi. Parole che decidono il destino di un universo di alberi, bruma, vento, orti conchiusi in un vaso che conserva immortali pianure di fiori incolti, che aspettano una luce che benedice, nomina, assegna identità. Vi è come una scheggia che vien fuori da questi versi, una scheggia che ferisce perché non chiede eco, ma una risposta fresca e chiara, come in una radura che si apre alla Lichtung ma che non consegna al vuoto, se mai raccoglie un seme in un palmo di mano per farvi germogliare mondi intrisi di mito, come qui: «[…] – memoria tenue di universi – / mentre io sgranavo giorni nei miei occhi di ninfa / mi feci vertigine d’ala / intesi l’ammanco originale / la tua nascita sotto un graffio di vento»5.

Potrebbe essere paragonata alla scultura di Giacometti, alla pittura di Morandi, se non fosse per quella delicatezza delle immagini che si svincolano dal cuore e che aprono all’orizzonte di una lettura mercuriale quando non dionisiaca. S-gorgare come a voler uscire dall’ingorgo, vincendone l’inganno di forma con l’astuzia del segreto di Anima. Ci si senti liberati e offerti alla vita, come in questi versi: «Precipita la luce nel mattino. / Impallidisce l’ombra nel mare delle rifrazioni. Emerge una filigrana eretica d’amore»6.

Una poesia che ti mette spalle al muro perché non ha paura, non ha bisogno di nascondersi dietro alla tecnica di assemblaggio delle parole. I segni, i suoni, restano lì scarniti, elementari, magri e sostenuti da un tratto deciso, che afferma anche senza dire dell’oltre, senza raccontare. Con l’ausilio di una punteggiatura che fa emergere le idee come il chiaro-scuro le divergenze tra due petali di uno stesso fiore. Una tensione grafica che possedeva lo stesso Morandi, un ritmo del quotidiano che si appropria a pieno titolo del metafisico, come nelle acqueforti, minime e meditate, ma distese nell’ovvio potente di un quadrilatero di carta.
Una poesia che non sa il tradimento dell’arte, ma che conosce il dolore dell’attesa, il fuoco argenteo di un parto che fa i conti con l’illusione. Scrive Cristina Campo a Maria Zambrano: «In nessun modo Maria, e da nessuna circostanza, tu devi lasciarti indurre a tornare a Roma se prima non hai finito il tuo libro. Hai freddo, sei triste, sogni poco, non hai la forza. Non importa. Tutto questo fa parte del tuo libro, mentre la vita di Roma non ne fa parte, e ti dividerebbe da esso ancora una volta – e questa volta forse per sempre. Che tu scriva o non scriva, che tu sia triste o allegra, non tornare. Aspetta il tuo libro là dove gli hai dato appuntamento. Non lo tradire»7.

Per questo occorre soffermarsi sulla genesi di quest’opera, perché anche Adriana Gloria Marigo ha aspettato, ha scritto e ha dovuto assentare la sua voce dalle cose di ogni giorno per esplorare il cielo di questa sua “essenziale curvatura”. La bellezza di questa poesia non sta tanto nel suo equilibrio tra forme, colori, immagini, spessore, sapienza compositiva – tutte qualità inequivocabilmente espresse al massimo grado della poesia contemporanea – quanto nel sapersi astenere dalla seduzione della parola data. La parola in Gloria Marigo non è data. È pesata e pensata. Vi sono studio e ricerca; il biancore non è candore, il cielo è incurvato ma non curvo sotto il peso del suo azzurro di sperdimento. Ella conosce la trappola del talento, e non vi indulge. Sa che la poesia, quando è scritta, acquista una sua precipua soggettività e di conseguenza sa ben misurare il potere che ha la facoltà, per mezzo del talento e della passione di poeta, di conferire all’espressione arricchitasi di senso compiuto.
Pensiamo, per esempio, alla pienezza di: «Qui cadono tutti i vaticini / […] / Impera solo l’essenziale curvatura del cielo»8. Il rimando è a immagini che oscillano tra il desiderio di elevarsi nella sintesi e la ricaduta del rosso del cuore che precipita dentro se stesso, che ama. Nuvole in movimento che rifondono ogni giorno la volta celeste, ma pur sempre fatte di ossigeno e di idrogeno. Si scalda l’aria al passo di donna, come quando dice: «Io fui lontana / non per mio volere […]», e dunque si avvicina ancheggiando prima di decidere: «[…] un potere / retrogrado indusse la scelta – / distanza che unì l’ammaliante differenza»9.
Adriana Gloria Marigo ha imparato la lezione dei Maestri nel dosare e nel fare, sa spendere e sa confinare le sue creature in una saggia spartitura di note, lasciando come in una jam-session al lettore la libertà di improvvisazione emozionale. La sua poesia è quindi adatta ai gusti di un pubblico colto, ma vivamente raccomandata per i palati più esigenti, perché è una poesia autentica e consapevole. Come dire: so di piacervi, ma mi interessa che sappiate che qualora decidessi, potrei tornare a me stessa, alla mia meditazione sulle cose più grandi, senza tema di solitudine. Come in “Impermanenza”, ai versi: «Mi stanca il volo d’ape / […] / Tra fiore e ape sarebbe / l’estate, se non fosse / la corolla votata al suo destino»10, in cui vi è alternanza di giorno e di notte, di assertività per il proprio compito e di perdono per il proprio destino, ed in misura più sottile e implicita di amore che non esclude, ma determina con il peso di chi sa il proprio valore nella relazione.
Infine, Adriana Gloria Marigo – poeta, ha compreso la differenza tra equilibrio ed equazione, sapendo calibrare i suoi gesti in questa ultima dimensione, alimentando la danza tra significato e segno, tra quantità e numero, e approfittando della sospensione per farne un vuoto che conosce il suo contrario: «Tutto si consuma nell’autunno, / anche quest’alba che disincarna / il mattino devoto al richiamo dei tigli / nel frammento di brina, […]»11, dove tutto diventa frammento, il mattino si trasforma nell’autunno, che è la sera consumata dell’anno, l’alba disincarna al pari della brina, come se una molecola di ghiaccio – con la sua articolazione originale – avesse la stessa qualità categoriale di un movimento di luce come l’alba nel cielo. L’equazione di una curva che invade il cielo di accensioni ancora da realizzarsi.

L’ESSENZIALE CURVATURA DI ADRIANA GLORIA MARIGO
di Andrea Galgano

La poesia di Adriana Gloria Marigo si confronta con la stoffa del tessuto amoroso, non come slancio intellettuale o sintassi concettosa, bensì come forza e spasmo.
La sua posa non ama la frenesia spasmodica, per quanto brillante e sfuggente di un attimo conclamato, ma si appropria del richiamo della realtà, della salmodia del tempo e dello spazio e non cede al ricatto di una energia fine a se stessa, ma comunica al mondo il ritmo del suo divenire esistenziale e metafisico.
La brillantezza dell’essenziale, se da un lato si offre come possibilità di tempo liberato e non ricattato, dall’altro percepisce la “lentezza” della libertà, e quindi, l’apertura del pensiero.
La stagione poetica di Gloria Marigo ha la fecondità-primizia di uno spazio esplorato, di un cosmo raccolto e infine dell’incisione del contatto.
Poiché il contatto con la stoffa della realtà è il suo ornato, il rigore esatto e lucente di una obbedienza: «Precipita la luce nel mattino. / Impallidisce l’ombra / nel mare delle rifrazioni. / Emerge una filigrana eretica d’amore».
L’io che si dona, si pone in ascolto, celebra il barlume della quotidianità vivente e condivisa, è disposto a perdere il proprio fondo, per restituire il mistero, il cuore disvelato, la domanda di se stessi e la sproporzione: «Per felice intuizione compitai / la sintassi del tuo cuore / gli ossimori del tuo volto quando / nell’ora più confusa / sciolti e ricomposti / i miei nervi issarono vele alla carne / incisero il canto bruno dell’abbraccio / da palpito a palpito / per la mistica della rosa».
Scrive Eros Olivotto nella postfazione: «[…] il linguaggio assume una profonda valenza simbolica, si carica cioè di una tale riferibilità da divenire evocativo e, quindi, rivelativo; nel senso che come caratteristica specifica trova in sé la possibilità di evidenziare gli angusti limiti di un modo di sentire che tende ad escludere l’accettazione di quel rischio che rappresenta la vera sfida dell’amore, tutta la sua forza più autenticamente rivoluzionaria. Solo se siamo disposti a perdere, a perderci, l’amore si trasforma in quel qualcosa che ci permette di cambiare […] ed è ancora l’amore che, misteriosamente, ci rende presenti alla vita e agli altri, restituendoci di conseguenza a noi stessi».
L’essenziale di Gloria Marigo diviene, pertanto, il territorio del respiro, o meglio, diventa compito del respiro conoscerlo e riconoscerlo.
È nell’amore, con la sua misteriosa linea dura e vivente, che il dispiegarsi del “Tu” rivela e disvela il colore profumato della grazia e della gioia, la sofferenza solitaria, la mancata declinazione e il dono proteso, come indagine di metamorfosi: «Mi metterò nel silenzio / bianco dei meli ora che / (assassinato dalle tue stesse mani) / tu vivi nella morte del mare / dove le tempeste flagellano / il tuo sorriso / pallido più dell’ombra dell’inverno» o ancora «Quando la stagione si alzò in canti / fin dentro la notte e / l’aria fu mutamento / mi scheggiai come selce: / lame al limine / di ogni mia fattezza».
La materia creativa della realtà invoca l’attraversamento della libertà, che si lascia penetrare dall’intimità essenziale e immediata dell’essere, e, attraverso tocchi ripidi e rapidi, restituisce un’emergenza, una conoscenza di sguardo: «Vedo la terra nella mano del sole / Ogni profumo è incandescenza d’aria».
Ma questa curvatura e questo spasmo non si limitano a dire il limine d’amore e il suo ritmo, ma anzi tentano di riavvolgere le mappe e il piegarsi della terra, per la promessa di un eterno principio: «Riavvolgo le mappe. / Riconosco la terra dal piegarsi / dei rami, dal gioco del vento – / viene la primavera a darci / l’eterno principio».
La sorpresa dello sguardo, lo stupore di quel che rimane quando tutto sembra crollare, il desiderio oltre-limite e il sapore del giorno celebrano l’orizzonte ventaglio dei viaggi, il punto che si curva per restare, l’epifania che conosce prossimità e avvenimento: «M’assesto i pensieri / come un cappello di fiori/ così che per un’aria bizzarra / s’involino petali fino ai segni / del tuo viaggio di vela / fino alla lamina dell’orizzonte / prossimo al tuo sguardo / che addensa le rose».
Questa poesia che conosce e sconfina, morde la grazia per vivere, si affianca al dato dell’esistenza per celebrarne il sofferto e lucente accadimento e verso cui farsi «libellula di parola / per la fuggevole tua presenza / il nominare all’infinito futuro / e il vocativo che non / sapesti declinare».
È con l’avvenimento della realtà che la poesia di Gloria Marigo fa i conti. Ed è con la sua trama misteriosa e la sua lingua duttile che l’amore, che in essa proclama tutto il suo bagliore, sogna e tocca «le sponde mobili / l’acqua che non si fa golfo e / ogni erba declinante al verde / il riverbero dell’ora dentro la / pupilla che sazia il mondo di ogni / tuo modo, semplice o assente».
Il prezzo della parola è la libertà di qualcosa che cerca la vita, come perla d’aria e memoria tenue: «S’inclusero le tue parole / in una perla d’aria / – memoria tenue di universi – / mentre io sgranavo giorni / nei miei occhi di ninfa / mi feci vertigine d’ala / intesi l’ammanco originale / la tua nascita sotto un graffio di vento».
La capacità di decifrazione del segreto del mondo e l’ulteriorità della parola testimoniano una vertigine metafisica in cui lavora il silenzio, la sua geografia, il fraseggio del suo bagliore (o biancore, per usare un termine caro alla poetessa).
I toni di cui si impossessa l’intimità poetica di Gloria Marigo trascina in profondità, ed è nella proprietà della rarefazione che essa puntella il verso, lo scalfisce, lo modella per conoscere la gemmazione «dalle oscure radici, / il contrasto apparente del rigore / verde scioglie nel cristallo che / magnifica le linfe».
Le lamine dell’orizzonte poetico hanno rimbalzi specchiati, domanda continua e addensata. Ed è proprio l’addensarsi, l’oscura e vibrante parola che sconfina nella sua poesia, forse la traccia immemore che si ricompone naufraga: «così io resto immemore / impigliata dove s’addensa / l’alga nata tra la roccia e / l’acqua» (Il corsivo è mio).
La lotta, allora, tra inclusione ed esclusione non ha vincitori. Anzi, semmai, queste due forme umane sembrano fondersi sia nei paesaggi di luce sia nelle barene dell’oscurità.
È il contrasto umano che si abbandona per vivere, che incontra «il grumo incandescente / della tua corta follia», per rivelare poi «il vento / l’altezza della notte abbandonata / sulle rapide del giorno / nel duplice destino / di corolla e spina».
È l’approdo lucido e remoto alla pienezza dell’essere che intaglia la terra, cesellandola e ornandola, che nulla esclude o censura, spingendosi in un abbandono ricolmo e in una umida trafittura di pianure.
Il paesaggio della sua poesia non si misura con il vuoto, anzi, nella sua percezione sensoriale, avviene l’attesa del prodigio, «l’orbita rovesciata / nella gravità dei corpi, l’urto / scomposto della letizia».
Scrive Rita Pacilio: «Lo spazio-tempo in cui l’autrice errante diventa peregrina intellettuale è destinato a diventare uno spazio cosmico-riaccolto, mai immaginato, bensì definito dall’analisi degli elementi conoscitivi fisici e mentali sempre in tensione. L’attesa, l’incontro, l’illusione, l’incanto, il ricordo, il disincanto, l’ostinatezza costituiscono la colonna vertebrale di questa raccolta poetica che sorprende per le dinamiche metaforiche descritte, originali e possibili come unica via di scampo alla fuggevole e insoddisfatta sensibilità del mondo».
Ciò che accade, quindi, scontorna l’incontro di cielo e terra ed è per questo che il posarsi dell’amore si fa coltre radicale e matura e orizzonte di gioia precisa.
Il germoglio della natura (e le sue stratificazioni), che si spinge fino al «delta del vibratile verde», rappresenta la preda e l’intuizione dell’io («Della stagione prediligo / il sortilegio terra-cielo / i cantori delle fronde / l’aria di vela azzurro Tintoretto / l’arancia della notte / tra l’albero e il tetto»), il dato vivente, il gioco oltre-tempo («Fuori dai tuoi occhi cadono / tutte le nebbie del mondo») e la dismisura sbrecciata, per farsi, agostinianamente, carnale fino allo spirito e spirituale fino alla carne: «Qui cadono tutti i vaticini. / La tua voce di oracolo soave / s’infrange contro l’alloro. / Impera solo l’essenziale curvatura del cielo».

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«Colui che il gran commento feo» è l’appellativo con cui Dante Alighieri chiama Averroè nella Divina Commedia (Inferno, IV, 144).
– In età ellenistica e successivamente medioevale, il termine commentario passò a designare anche un lungo ed erudito commento riguardante un’opera di particolare importanza, specialmente dell’antichità: esso consisteva quindi in un’interpretazione o esegesi dell’opera trattata per renderla accessibile ai contemporanei. Ad esempio il filosofo arabo Averroè compose un poderoso Commentario ai libri di Aristotele, che lo rese noto nell’Europa cristiana.
– Commentari sono anche chiamate le memorie dello scultore fiorentino Lorenzo Ghiberti, una delle fonti primarie più antiche sul Rinascimento.
– Si chiamano Commentari le memorie di papa Pio II.

* Pittrice, Docente di Psicologia dell’Arte e Coordinatrice della Formazione alla Scuola Quadriennale di Specializzazione Post Laurea in Psicoterapia Erich Fromm di Prato, riconosciuta dal MIUR.
** Poeta, Scrittore e Critico Letterario, Docente di Letteratura alla Scuola Quadriennale di Specializzazione Post Laurea in Psicoterapia Erich Fromm di Prato.

2 A.G. Marigo, L’essenziale curvatura del cielo, La Vita Felice. Milano: 2012, “Per felice intuizione”, p. 46.
3 Ivi, “Di questo sogno”, p. 32.
4 Ivi, “3 febbraio 2012”, p. 18.                                                                                       5 Ivi, “Senza titolo”, p. 53.
6 Ivi, “Giorno”, p. 26.
7 Cristina Campo, dalla lettera a Maria Zambrano del 25 luglio 1962, in Se tu fossi qui. Lettere a Maria Zambrano 1961-1975, p. 27.                     8 Ivi, “Senza titolo”, p. 59.
9 Ivi, “Io ti fui lontana”, p. 58.
10 Ivi, “Impermanenza”, p. 42.                                                                                      11 Ivi, “Tutto si consuma nell’autunno”, p. 9

L’insufficienza nitida di Giovanni Giudici

di Andrea Galgano 13 novembre 2014

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giudici-giovanni-447x387Il laboratorio poetico di Giovanni Giudici (1924-2011) ha l’esito fertile di una biografia mirata, di uno scoperchiamento che tende alla pienezza della metafora, come corpo e della lingua e materia testuale: «Farsi di te non ci fu dato mia parola / Scrittura di scrittura e vanità».
Il dato biologico e biografico condensa la frammentarietà di uno spazio autentico che, come scrive Silvio Ramat su «Poesia» del gennaio 2001:

radicalizza, cioè sospinge verso le radici, l’autobiografia: senza contraddirla ma integrandovi elementi più oscuri e profondi, ed elaborando un mito inesauribile: quello che in Giudici nasce dalla, e nella, sua più acuta lacuna, l’assenza della madre, perduta nel novembre del ’27 e tuttavia nella costruzione del ricordo, accreditata dalla capacità di fornire al figlio i fondamenti di quella “educazione cattolica” di cui recan traccia più o meno visibile tante poesie. […] Il “sublime, venga salutato con un “Ciao” confidenziale o misurato nel suo “prezzo” è storicamente ingrato e ambiguo: comportando di necessità, a secolo così inoltrato, la coscienza di quanto sia arduo spenderlo pubblicamente. Non a caso, di qui in avanti, Giudici s’imporrà come il massimo parodista del nostro Novecento, in poesia […].

L’elezione dell’istante secerne il suo rito quotidiano, il gesto della sommessa esperienza che si impone di colorare il fulcro impiegatizio, come un lampo o un avvenuta partecipazione di anni affluenti: «Eppure sempre a ricominciare / frugare un minimo vero / Al di qua della fine individuale / sempre / consumati a vigilie lente / noi sempre a non osare / promettere paradisi – ma / Un vedere per enigma / nella insidiata convivenza -» (Da un tempo di nessuno).
Esiste pertanto nella sua poesia, come sostiene Raboni, «una svolta, una scoperta che ne segna il vero principio» e «consiste nell’abbandono dell’io lirico-autobiografico a favore di un io-personaggio, un intellettuale di estrazione e destino emblematicamente piccolo-borghesi che assume su di sé – ma deformandole, distanziandole, ironizzandole – vicende, aspirazione e amarezze dell’autore» laddove «lo scambio delle parti arriva a punte di quasi inafferrabile e ineffabile (e poeticamente assai produttiva) ambiguità».
È sulla materia del sublime che il suo fulcro poetico tocca il fulcro della perplessità e della contraddizione, verso cui giustificare la sponda della sua insufficienza che «è fuori, o fuoriesce, si oggettiva, nel mascheramento, in un eletto apparato di ritmi e metri, timbri e, ovviamente, toni, insomma un sistema variabile, ma sempre impetuoso e cogente, da cui trapelano a un tempo il sublime […] e la consapevolezza che lo si può esporre (o montalianamente “contrabbandare”?) solo per travestimenti e parodie» (Silvio Ramat): «Non io che per mancanza di eroismo ti deludo / Mia umiliata via al sublime / Ma almeno voglio dirti che lo sapevo / Quel che dovevo – mentre guardavo al fondo della fine» (Noi).
Scrive Goffredo Fofi:

C’era in lui una forma di narcisismo sottile, che cercava complicità e condivisione, e la sua capacità di auto-ironia lo portava fin quasi all’auto-denigrazione su quelli che riteneva suoi difetti (da confessione cattolica e però pubblica, di chi tollera e si tollera nella comune coscienza dei limiti dell’umano, dell’imperfezione di tutti). Questa era una caratteristica del tutto insolita nell’ambiente culturale del tempo, che lo faceva resistere assai bene all’austerità fortiniana e che mi servì forse di modello per resistervi anch’io.

Il trapasso liturgico alla litania diviene occasione per raccogliere la possibilità di un reperto lucente di quotidianità, un saluto, appunto, che si allunga sull’illimitatezza e sulla reversibilità del tempo, sull’avvenimento della parola e sulla totalità della deposta insufficienza della propria fragilità: «Tu, cosa della cosa / o Sublime. / Al di là della fine / e senza fine. / Senza principio» o ancora «Ciao, Sublime. / Ciao, Sublime. / Sublime che non si volta. / Sublime che non si ascolta. / Sublime senza prima / né ultima volta», «Io no – che sempre aspetto / il cominciare, l’apertura. / Io no – per poca fede. / Per poca paura. / Io – senza occhi per contemplarti. / Io che non ho ginocchi per adorarti».
In O beatrice, il raggiungimento autobiologico del sublime convoglia verso una pacata sicurezza e una desinenza linguistica e temporale, destinate a un prezzo decisivo: «Mi domandi se potrai, / Mi domando se potrò. / Io sarò – non sarai. / Tu sarai – non sarò. / Per noi sarà quello che non potremo. / Quello che non saremo su noi potrà. / Non-tu non-io noi -remo. / Ma contro la specie che siamo orgoglio estremo / verbi avvento al cliname[n] / che ci rotola a previste tane / umanamente inumane / persone del futuro seconde e prime. / Io -rò. / Tu -rai. / Il niente / è il prezzo del sublime».
Commenta Giulio Ferroni: «Nel confronto col sublime appare insomma in atto la paradossalità dell’esperienza, viene come a scavarsi la dimensione interna, oscura e contraddittoria del reale, della grammatica che tenta di fissare il tempo in una misura umana, che, nell’atto stesso di quel proiettarsi nel tempo, rotola verso il niente».
L’intreccio sabotato di vita e morte, il proprio essere concreto divenie slancio oltre il dicibile, immediatezza esistente, imprevedibilità sfuggente che squaderna le prigionie del sé per riappropriarsi in una fragilità senza riparo.
Il limbo «delle intermedie balaustre» richiama un’ulteriorità che è corporea e metafisica, e allo stesso tempo, aspirazione e furtiva umanità.
La consequenzialità e la prossimità del suo dettato poetico certifica l’istanza e l’ironia chiaroscurale come purità pulviscolare, come apertura dell’esistenza e biologia smarrita, in cui l’ironia e l’integralità del suo limite si trasferiscono e tendono a una chiarità inattingibile e sperduta.
È la coltre della sua onirica teatralità, il barlume di una sincronia che espone il suo umano travestimento al suo umido chiaroscuro, alla liturgia spezzata che misura i limiti del suo laboratorio cittadino (Milano, Roma) e il crepuscolarismo della sua vertigine.
Laddove la gestione dell’universo privato affolla la scena in cui la scrittura vive, Giudici descrive i volti, le maschere, l’atomo urbanizzato degli anni Sessanta, la cupezza del decennio successivo, le contraddizioni della sinistra «vivendo questa dialettica storica da una specola di morale cattolica e comunista, intesa in senso tutto cittadino, entro un esercizio di valori, turbamenti, colpe, illusioni e contraddizioni maturati per le strade della città, nei luoghi di ritrovo pubblici o negli interni casalinghi» (Giulio Ferroni).
Aggiunge ancora Ferroni:

Nei suoi esiti ultimi […] la poesia di Giudici dà voce per vie indirette, per appassionate tangenze, attraverso i suoi scatti esistenziali, teatrali e linguistici, a questa ansia per la situazione del mondo e il suo destino: ma questa ansia sembra spesso provvisoriamente sospendersi in un severo incauto musicale, in misteriose e ambigue percezioni di luce che si proiettano sulla storia individuale: sempre in un affidarsi al ritmo, a un impulso ritmico che sembra quasi portare i versi a farsi da sé, con una possibilità di esiti direttamente colloquiali e di diversioni verso un’oscurità come sospesa, in bilico tra lo svelare e il nascondere.

La sua perpetua riduzione, se da un lato si impadronisce della scena nella minima disposizione quotidiana, dall’altro conosce gli spigoli ebbri dell’esperienza sociale, in attesa di una epifania salvifica e attraverso la modestia salutare della pura grammaticalità biografica.
È l’esito di un rapporto semplice, di una autenticità che disarma e propende al segno della storia: «Nomino i nomi – / Quanto di storia mi è transitato addosso / a me che non sono un privato / uno che incontri puoi anche capirlo / Chi è – non quel che è per diventare».
La scena onirica, la passione sotterranea, la presenza e l’occorrenza casalinga, la suggestione elitaria e la proficuità di massa, lo squarcio dell’essere e la sfida al sublime, rappresentano l’esito di una ascensione che, dapprima, si impossessa dell’invocazione per poi cercare il punto di fuga e lotta con il dio del foglio per un ultimo e infinito scarto di senso: «Poi non scorgo che via d’uscita / Nel lume di questa vita / In te rifugio il triste orgoglio / Spessore di questo foglio / E nella mente mi assottiglio / Microbo figlio di figlia d’un figlio / Specchio del nostro doppio io / Ti do del tu ti chiamo dio».
La liturgia cadenzata e il recitativo battente culmineranno poi in Lume dei tuoi misteri (1984) e in Salutz (1986), dove l’inaudita parodia e il profumo medievale contribuiranno allo scatto ironico e ossimorico del limite, come accensione ed eccesso, formulazione ed espansione amorosa.
L’io che tenta (invano?) di possedere il suo universo calcolato, ingarbugliato nelle colpe, nelle speranze, nei segreti, che cerca di proteggersi nelle sue abitudini quotidiane, dopo la guerra nefasta, non coincide propriamente con l’autore, bensì, come annota Giulio Ferroni: «è piuttosto una recitazione di sé, non priva di suggestioni letterarie, che convoca intorno a sé altre maschere recitanti, tra gioco e disagio, tra divertimento e malessere, come nell’impossibilità a uscire da sé, pur nell’aspirazione a un’altra vita di cui, da quello spazio, non si può nemmeno figurare l’immagine»: «Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura / che dice: domani, domani… pur sapendo / che il nostro domani era già ieri da sempre. / La verità chiedeva assai più semplici tempre. / Ride il tranquillo despota che lo sa: / mi numera fra i suoi lungo la strada che scendo. / C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà» (Una sera come tante).
L’associazione di cadenze e suoni traspongono il tempo dell’attesa in una prigionia- aspettativa che invoca l’altrove, come una gioia rattrappita e negata.
È un “oltre” proclamato ed escluso, visitato nei reperti onirici e in un altro da sé trasognato e immaginato: «Parlo di me, dal cuore del miracolo: / la mia colpa sociale è di non ridere, / di non commuovermi al momento giusto. / E intanto muoio, per aspettare a vivere. / Il rancore è di chi non ha speranza: / dunque è pietà di me che mi fa credere / essere altrove una vita più vera? / Già piegato, presumo di non cedere» (Dal cuore del miracolo).
L’immaginazione di trasformarsi, per sfuggire all’imminenza burocratica della morte, è l’esito di un’immersione inafferrabile e di un rilievo intangibile, come strana resurrezione di abiti: «Abiti che sopravvivrete / Al niente dell’eterna quiete […] Abiti – e non già corpi / Di quel resurgere, o risorti / ai quali estremo soprassalto / lasciò ogni vita un po’ di caldo: / Che vani e stretti in Giosafàt / su voi di noi respirerà».
Scrive Daniele Piccini: «Ecco, da Autobiologia a O beatrice e oltre, il poeta immagina e sbozza figure ed emblemi di una compiutezza e integrità vitale che non può ch esprimersi in forma allusiva, cifrata, quasi onirica, con un senso di inadempienza ormai sollevato sul piano dell’esistenza».
Ma è una improvvida insufficienza. La poesia di Giudici fa i conti con la irreperibile sceneggiatura del testo. La cura dell’essere, invece, con l’impalpabilità linguistica e con la carta sottratta: «Lei che ha potuto accedere ai più gelosi manoscritti / Non darà troppo peso a ogni variante del testo / Altro è filologia altro è la vita né mai / Presume la propria maestria il maestro / Che faticò e stentò sulle carte sottratte / da una fatua speranza familiare / Alla sorte del fuoco che abolisce e perdona / Stipate nell’angustia di quella casa sul mare / Egli che spesso si era basato sul parere / Di frastornati parenti di passaggio / Vocante uxore ad cenam e di un fautore / Troppo devoto all’incerto messaggio / Però al di sopra del corrivo consenso / se stesso infine vagliando allo specchio / se non avesse inteso la sua parola / Coprire di vano suono uno spazio vuoto / O dubitando nel declinante intelletto / Se il partito più saggio non fosse lasciare la cosa / Così com’era venuta d’emblèe / Essendo nostra scienza l’esatto del press’a poco».
Il convenuto richiamo ai fantasmi, le soste inerti, l’orizzonte approssimato (Quanto spera di campare Giovanni) figurano il procedimento e la retrocessione di un ritmo che fonde lingua e dispiegamento dell’esperienza, come implacabile nudità.
È la maternità della lingua che ritorna alla poesia e si offre, vitale e spontanea, abbracciando il vivente e il molteplice, come illusione e durezza, come umiltà lucente e calore, che levigano la vita presente e la casa che abitano in una estremità assoluta: «Mia lingua – mia vita / dolcezza flatus vocis che m’hai tradito / tuo servo che t’ho servito / anch’io perduto per poco / di calda madre / in letto con noi per gioco / Mia lingua – italiana / variante umile tosco-genovese / lingua del mio bel paese / guastata nei futili suoni / di vacue clausole / e perfide commozioni».
Commenta Giulio Ferroni: «Per lui la vera poesia è quella che fa della lingua, anche di quella più intimamente conosciuta e praticata, qualcosa di strano: cattura tracce di possibilità sconosciute, segni di un prima o di un oltre rispetto alla normalità del linguaggio e dell’esperienza».
La distillazione forgiata dai millimetri dell’esistenza, il dizionario che richiama e raschia il fondo delle cose, come «morse di voci nel freddo», nel «Chiuso idioma e apertissimo / Dei due veglianti nel quale / carpisco nitido il suono / E perdo il significare».
Il silenzio roco, il balbettìo di una lingua più che muta («Balbetto il parlare di un altro / Io fatto di persona non vera / Mi riascolto compitando / pensieri di lingua straniera»), che unisce idiomi e assedia lo spazio onirico, conosce il vero che sovrasta, la sua voce difficile da comprendere e, ancora una volta, l’insufficienza di proiezione, il limite degli inizi, la contraddittorietà delle stagioni.
Commenta ancora Ferroni:

Il fuggire del tempo suscita inoltre una tensione a concentrarne e superarne la fuga nella percezione di un punto definitivo, nella fissazione di un attimo in cui si risolva tutta l’insufficienza dell’esistere. Il personaggio sognato e immaginato, le molteplici maschere e dislocazioni teatrali che si danno in questa poesia, tendono sempre a collocarsi in un “altro” tempo, sospeso tra cominciare e finire e in continua investigazione dell’attimo-punto in cui si afferma lo sfuggente senso della realtà, l’inafferrabile essenza dell’io, con tutte le sue passioni, i suoi desideri, le sue colpe.

Contro la cancellazione del tempo, l’avvicinamento come negazione, la costruzione che implode, sembra schiudersi lo sguardo della domanda e il futuro, pertanto, rischia di apparire incerto e sconcertato: «Noi guardiamo / E si chiude / Il volto a lungo a noi negato. / Come sarà – ci domandammo. / Ci domandiamo – com’è stato / E tutto l’amore che amiamo. / Tutto l’odore che odoriamo, / Tutto il patire che patiamo: / Sei tu che ami e odori e patisci, / O Futuro che ti demolisci. / O Futuro che entri / dentro le nostre porte. / O Futuro che ci costruisci. / O Futuro che Sali a noi / Tua morte».
La convergenza delle immagini si sofferma sulla franta quotidianità, in cui ripararsi, ed ecco la fortezza che allontana la brevità consumata e la risposta tardiva dell’io alla realtà.
Forse il nuovo inizio è dimensione e sovrapposizione di un rivelamento di oggetti e vertigini che sottentrano a una perdita inguaribile: «E dunque ho amato l’inizio / La voglia di essere accolto / nei bei luoghi diversi invidiati / Nell’aldiquà del gelido cristallo quotidiano / La balbettata lingua silenziosa / Plaghe remote le mie mani brancolando / Oggetti fuor della vista / A ogni scoperta tu sai / ride e fa festa l’infante rassicurato / passo a passo movendo al suo adempiersi – / Si distrugge così nel costruire / L’animale adulto / Che mai più ricomincia: / Io invento questo inizio al mio finire».
Scrive Maurizio Cucchi:

Ciò che appare evidente, in Giudici, è la consapevolezza dell’inevitabilità di una condizione. Una condizione di esibita mediocrità, espressa nell’adeguarsi dei gesti e delle parole a tale realtà, nell’assumere un atteggiamento e un gestire conseguente che è quello di una commedia spesso grottesca, condotta per episodi narrati e momenti di acuta sintesi definitoria. Un collocarsi prudenziale del personaggio, dell’io narrante-lirico, dietro una maschera remissiva (ma, appunto, una maschera), di accettazione del grigiore quotidiano, inteso come l’autentica dimensione, o quanto meno l’unica dimensione possibile concessagli, di cui il fare poetico diviene in fondo la forma più alta di smentita e di riscatto. Anche perché un atteggiamento, proprio in quanto tale, suppone o sottende un diverso sentire, magari persino opposto, magari intimamente inteso come liberatorio, come possibile via di fuga.

Empie stelle (1996) e Eresia della sera (1999) ripercorrono l’esistenza dell’io, affermano la lotta dell’inizio e della fine e la loro «vanificazione», come afferma Giulio Ferroni.
La notte sul «cuscino sempre asciutto» è come l’orma della fuga inabitata della quotidianità minima e del nido senza piume, «di quel bar luminare io appena uno / Separato persisto se tu mai / A frugarti infinita / In me ti posi e sposi e vieni e vai».
Il perenne transito mostra non l’ignavia ma, ancora una volta, il segmento della vita imperfetta, la mancanza di coraggio che non ha armato gli aerei corpi di letizia, il caro prezzo dell’apparenza, il tardo amore, sospeso nel silenzio, che fu «nella diversa lingua / E non mai forse accaduto».
Ora il nostro avvento che permane nell’ «essere chi non siamo stati / Essere un tempo che non siamo», ricerca ancora il balzo della sosta perduta, al cospetto dell’eterno, per essere dove non viviamo e forse proclama il taciuto addio all’infanzia, come consueta sovrapposizione di memoria: «Addio, addio giuochi dorati / Da voi di nuovo incominciare / Alla palla a nascondino / Quasi fossimo oggi nati / Cullati da una lenta storia / Nel cuore di un sonno bambino», o ancora come l’inerme esiguo volo dell’amica Grazia Cherchi che non allinea più distanze ma dice: «Vivo per essere vivo / Quando che sia raggiunto / dal fine del mio nascere / dal fine del mio nascere / Dove remoto scrivo – / il Vero il Nulla il Punto».
Il «dormiveglia di spine» di Eresia della sera (1999) confluisce ne Frammenti dal comunismo e nel suo reiterato profumo illuso, finisce per arretrare e lasciare la scena.
Il repertorio di Giudici si apparta nella remota condizione del tempo affiorato dal disordine memoriale, come un ritaglio o un approdo che dilaga sui lindi smalti e sulle sbilenche figure dei ricordi di guerra.
La solida e sghemba scena, descritta dal poeta, si accompagna alla sensazione della precipitazione del tempo della vita «nell’attimo risolutivo in cui si fissa la fine, sulla spinta del fulmineo invito a sentire la temperatura del latte con il dito, per evitare che nel bollire vada fuori: irrisoria e insieme stupita risoluzione di ogni esperienza nel punto del suo dissolversi» (Giulio Ferroni).
L’aria raggrinzita accompagna l’esistenza tracimata: «Come in quest’aria si raggrinza / Il tempo della vita che tracima / Ciò che fu immenso preso stretto in una pinza – / Un passo ed è finito: / Senti il latte se è caldo / Mettici il dito».
Il tempo confluisce ancora nell’amore-non amore dei ventiquattro frammenti del Primo amore che impongono la vertigine della nostalgica coltre lontana e conclusiva. Però, di contro, racchiudono l’indizio di una storia personale che si risolve e si chiude nel tempo disfatto e irraggiungibile, come sigillo iniziatico e come ironia di una giusta gloria: «Uno che in versi a un suo deschetto invano / Di te scriva serale eppure c’è / Nella disfatta pancia di milano / AI margini del sonno e sembra me / Se nel remoto cuor e il dubbio insista / Non altri esser che te della mia storia / Di non amore la protagonista / credi che è vero e ti dà giusta gloria».

GIUDICI G., Tutte le poesie, con introduzione di Maurizio Cucchi, Mondadori, Milano 2014.
CORTELLESSA A., Qualcosa che c’è. Giudici e Zanzotto, in Due poeti, due amici, due uomini comuni: Giudici e Zanzotto, Atti della giornata di studi di Roma, 16 dicembre 2011, sezione monografica a cura di Giulio Ferroni de «l’immaginazione», XXVIII, 268, marzo-aprile 2012.
FERRONI G., Gli ultimi Poeti. Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto, Il Saggiatore, Milano 2013.
FOFI G., Ricordo di Giovanni Giudici, in «Lo Straniero», 2011.
PICCINI D., La vita mancata in versi, in «Poesia», settembre 2004.
RABONI G., Poesia degli anni Sessanta, Editori Riuniti, Roma 1976.
RAMAT S., Giovanni Giudici / I versi della vita, in «Poesia», gennaio 2001.

LA PSICOLOGIA DEL GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO  

di Serena Baroncelli

Allieva Scuola di Psicoterapia Erich Fromm

Introduzione

Il giocare d’azzardo può essere definito come “qualsiasi puntata o scommessa […] il cui risultato sia imprevedibile, ovvero dipenda dal caso o dall’abilità”; è “lo scommettere su ogni tipo di gioco o di evento ad esito incerto dove il caso, in grado variabile, determina tale esito” (Lavanco, 2001; Filippi & Breveglieri, 2010 ).

Quando l’attività ludica varca le soglie del “gioco d’azzardo” il confine tra normalità e patologia si fa estremamente labile (Lavanco & Varveri, 2006).

La maggior parte di coloro che si dedicano al gioco d’azzardo lo pratica come forma di passatempo e di divertimento. Si tratta di un fenomeno sociale e culturale che come tale quindi non può essere certo demonizzato. Tuttavia, in certi casi, alcuni individui sviluppano un’ossessione e un atteggiamento morbosi verso il gioco, arrivando a instaurare con esso una vera e propria forma di dipendenza (Lavanco & Varveri, 2006).

Il  gioco  d’azzardo patologico (GAP)  viene  definito nel  Manuale Diagnostico  e  Statistico  dei Disturbi Psichiatrici (DSM-IV-TR, 2000) come un “comportamento persistente, ricorrente e mal adattivo di gioco che compromette le attività personali, familiari o lavorative” (APA, 1994; trad. it.

1996, p. 674). E’ una malattia neuropsicobiologica, spesso cronica e recidivante, associata a gravi conseguenze  fisiche,  psichiche  e  sociali  per  l’individuo;  è  comunque  prevenibile,  curabile  e guaribile ma necessita di una diagnosi precoce, cure specialistiche e supporti psicologici e sociali. L’Arizona Council on Compulsive Gambling (1999), definisce il gioco d’azzardo patologico come un disturbo progressivo, caratterizzato dalla continua perdita di controllo in situazioni di gioco, dal pensiero fisso di giocare e di reperire denaro per continuare a farlo, dal pensiero irrazionale e dalla reiterazione del comportamento, nonostante le conseguenze negative che provocano sul soggetto. In una ricerca svolta con il National Comorbidity Survey-Replication, si rileva che la durata media del gioco d’azzardo è di 9,4 anni, sebbene l’intervallo medio tra l’età d’esordio e i problemi di gioco sia notevolmente più ampio, di 16,2 anni (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010).

1.1 IL GIOCO: UNA PROSPETTIVA EVOLUTIVA

Il gioco rappresenta una forma di attività peculiare degli uomini, è un elemento della natura umana. E’ altresì da considerarsi una tappa fondamentale dell’infanzia, attraverso cui il bambino può soddisfare determinati bisogni, necessari per un armonioso e positivo sviluppo, e acquisire nuove abilità e competenze. Il gioco, infatti, svolge un ruolo di capitale importanza nello sviluppo del senso di auto-efficacia, di autoaffermazione e nella formazione del carattere del bambino (Lavanco & Varveri, 2010). Egli si misura con i propri limiti, prende coscienza delle proprie qualità e potenzialità, perfeziona capacità quali la creatività, l’imitazione e lo scambio di ruoli. Tuttavia il gioco non è soltanto una prerogativa infantile, esso continua a mantenere anche in età adulta un importante ruolo compensatorio, di scarico delle tensioni e dell’aggressività. In quest’ottica prevale quindi l’aspetto divertente e gratificante attraverso cui il soggetto interrompe la routine quotidiana. La dimensione del gioco diventa una componente talmente rilevante nell’esistenza dell’uomo, che diventa legittimo parlare di homo ludens, l’uomo che gioca, oltre che di homo faber, l’uomo produttore, che dimostra nella vita l’essenza del suo essere sapiens e la dimensione essenziale del fare (Huizinga, 1938).

Se con il termine “gioco” si fa riferimento ad ogni attività che abbia come scopo la ricreazione e lo svago, quando si parla di “gioco d’azzardo” si intendono attività in cui non rientra più l’abilità del giocatore ma soltanto la sorte, il fato e lo scopo di lucro. Questa distinzione può essere espressa da i due termini inglesi play, in cui spiccano la capacità e l’abilità del soggetto, e gambling, in cui prevalgono l’azzardo e il fine di lucro. Il gioco degli adulti è considerato nei suoi aspetti positivi come un elemento distraente dal lavoro, in cui ci si rifugia per non soccombere ai ritmi frenetici e stressanti delle vicissitudini quotidiane. Talvolta però l’esperienza ludica può diventare talmente coinvolgente e pervasiva da costituire tutt’altro che un’oasi di felicità e perfezione: il gioco da magico può diventare demoniaco, con preoccupanti costi individuali e sociali. Il gioco non è più divertimento perché si viene sopraffatti da una dimensione tanto attraente quanto instabile e si corre il rischio di venire assorbiti in un clima infuocato, subdolo, ambiguo quale quello del gioco d’azzardo, un gioco che rapisce, stordisce e schiavizza l’individuo, irrompe nella quotidianità, invadendo la sfera del benessere personale, familiare, lavorativo e sociale. E’ un coinvolgimento totale, estremo, come emerge chiaramente dalle parole di Dostoevskij (1866): “Fui assalito da un desiderio spasmodico di rischiare; forse dopo aver provato così tante sensazioni, l’animo non si sente sazio ma eccitato da esse, ne chiede sempre più altre, sempre più intense, fino alla totale estenuazione”.  Passione  e  dolore,  socialità  e  aggressività,  vita  e  morte,  sono  immagini  che convivono nella dimensione dell’azzardo (Lavanco & Varveri, 2010).

1.2 IL GIOCO D’AZZARDO COME RIFLESSO DELLA SOCIETA’ ATTUALE

Per comprendere il fenomeno del gioco d’azzardo patologico è necessario addentrarci nell’analisi della società attuale: l’edonismo rimpiazza il senso del dovere, la liberazione e la serenità personale passa anche attraverso l’acquisto, il possesso, l’esibizione (Croce, 2010). Stiamo vivendo in un mondo nel quale non esistono più confini. Dove non esistono più limiti, ma tutto è possibile.

Questa situazione può essere felicemente catturata attraverso l’immagine di Las Vegas: il luogo del divertimento per eccellenza, un luogo senza tempo, dove scompare la percezione del tempo cronologico e del tempo naturale.

Adottando questa prospettiva, anche la concettualizzazione della problematica delle dipendenze assume una nuova aurea: non ci troviamo più nello scenario del disagio della civiltà del tempo di Freud in cui la sofferenza era considerata la conseguenza necessaria per un soggetto inibito da un sistema sociale che imponeva la rinuncia al soddisfacimento pulsionale. Al contegno e al controllo si sostituisce adesso la necessità di consumare, di godere, di prendersi dei rischi. Le dipendenze si collocano in questo cambiamento: nuovi sono i valori, le richieste e gli imperativi della società odierna. Questi disturbi contrassegnati dalla tendenza agli agiti e all’azione esprimerebbero il malessere di una società in cui solo l’azione, rapida, efficace, sembra garantire alle persone la possibilità di vedere riconosciuto il proprio valore ed il proprio ruolo sociale. Le dipendenze svelano un aspetto di assenza del controllo, di ricerca del piacere immediato, di soddisfazione degli impulsi. Questi disturbi sono da considerarsi quindi una condizione patologica tipica del nostro tempo, espressione di profondi mutamenti sociali e dello stile di vita. Sono quasi uscite di scena le nevrosi classiche come l’isteria, legate ad un eccesso di controllo e inibizione, per passare a patologie come i disturbi narcisistici (Croce, 2010).

Osservando la realtà e le storie di molti giocatori ci rendiamo conto di come non ci troviamo più di fronte ad eroi scellerati, romantici o decadenti, che si giocano al famoso tavolo verde cifre da capogiro, ma più banalmente persone che al bar si giocano un modesto stipendio. Il giocatore del nuovo millennio sembra essere il simbolo dell’inettitudine umana, caratterizzata dalla consapevolezza del fallimento, dell’inadeguatezza dell’esistenza e dell’incapacità di prendere decisioni e affrontare problemi (Croce, 2010).

1.3 GAMBLING O GIOCO D’AZZARDO: UNA CLASSIFICAZIONE DEI GIOCHI E DEI GIOCATORI

A questo proposito, si ritiene necessario distinguere quali giochi sono considerati d’azzardo e quali, invece, non rientrano in tale categoria.  Sono giochi d’azzardo quelli in cui ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi  aleatoria (art.721 C.P.). Per stabilire se un gioco abbia o meno il carattere di azzardo, occorre fare riferimento a due parametri

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1) Elemento oggettivo: l’aleatorietà della vincita.

Sono aleatori quei giochi che normalmente e per la loro natura, in tutto o quasi, dipendono dal caso, escludendo            ogni            possibile            ruolo            dell’abilità            del            giocatore.

2) Elemento soggettivo: quando si rinviene nel gioco lo scopo di lucro, che sussiste quando i

giocatori si propongono di conseguire vantaggi economicamente valutabili. Il fine di lucro non va escluso anche se la posta è modesta o non si manifesta sotto forma di denaro ma in consumazioni come caffè, vivande ecc. (Cass. pen. sez. Ili – 26 febbraio 1983, n. 1738).

Callois (1958)  ritiene che tutti i  giochi possano essere suddivisi in  quattro tipologie distinte:

Mimicry, Ilinix, Agon e Alea.

I giochi di Mimicry (mimetismo) sono quelli in cui prevale la simulazione, l’immaginario e l’illusione, sono i giochi di travestimento e di fantasia in cui il soggetto gioca a credere o a far credere agli altri di essere un altro.

I giochi di Ilinix (vertigine) sono quelli che si basano sulla ricerca della vertigine. Consistono nel distruggere per un attimo la stabilità della percezione e far subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico. Si tratta di accedere ad una specie di spasmo, di trance o smarrimento che annulla la realtà.

I giochi di Agon (competizione) sono quelli che si basano sulla competizione e la sfida di un avversario, essi presuppongono un certo livello di attenzione, esercizio e impegno per essere affrontati adeguatamente.

I giochi di Alea (termine latino usato per indicare il gioco dei dadi) non si fondano su qualità, doti e predisposizioni individuali ma solo sulla sfida del destino. Alea, a differenza di Agon, nega ed esclude l’importanza del lavoro, della fatica e dell’impegno: il giocatore è totalmente passivo e il fato è l’unico artefice della vittoria. Il gioco d’azzardo rientra proprio all’interno di quest’ultima categoria, in quanto, anche nei giochi dove è comunque necessaria una forma di abilità, è sempre il Fato a decidere la sorte del giocatore (Callois, 1958).

Recentemente è stata proposta una classificazione dei giochi d’azzardo più diffusi in Italia, tra i quali è possibile distinguere: i giochi numerici a quota fissa, i giochi numerici a totalizzatore, gli apparecchi da intrattenimento, le lotterie e le lotterie istantanee, i giochi a base sportiva, i giochi a base ippica, il bingo, i giochi di abilità a distanza e i casinò (Filippi & Breveglieri, 2010).

I giochi numerici a quota fissa sono quei giochi basati sui numeri, per cui la vincita dell’utente è definita, di volta in volta, in base all’importo delle giocate, come ad esempio il Lotto.

Sono considerati giochi numerici a totalizzatore nazionale, quei giochi di sorte basati sulla scelta di numeri, da parte dei consumatori, nell’atto della scommessa. In questo caso, l’ammontare della vincita  non  è  nota  al  momento  della  giocata  ma  è  definita  solo  a  posteriori,  sulla  base dell’ammontare complessivo del montepremi raccolto e del numero di giocate vincenti.

Gli apparecchi da intrattenimento sono quei giochi in cui vi è interazione con una macchina, come le New Slots e le Videolotteries, che restituiscono vincite in denaro. Si trovano spesso nelle tabaccherie, nei bar e negli alberghi, rappresentando un’attività aggiuntiva a quella principale; esistono anche sale giochi e ricevitorie, che fanno dei giochi da intrattenimento la loro attività esclusiva.

Nelle lotterie, l’utente partecipa all’estrazione di premi, tramite l’acquisto di un biglietto. Esse possono essere “differite”, nel caso in cui l’estrazione dei premi sia collegata ad alcuni eventi storici o artistici (ad esempio la Lotteria Italia) o “istantanee”, poiché la verifica della combinazione vincente è immediata, come nel caso del Gratta&Vinci.

I giochi a base sportiva sono giochi in cui si vince grazie all’abilità di prevedere l’esito di alcuni eventi sportivi, come il Totocalcio e il Totogol.

I giochi a base ippica sono, invece, i giochi per cui il giocatore vince grazie alla capacità di prevedere l’esito di corse ippiche. Il gioco si svolge presso le agenzie ippiche, gli ippodromi, i negozi ed i corner ippici e sportivi.

Il bingo ha un  carattere di intrattenimento, socializzazione e impiego piacevole del tempo libero, differenziandosi in maniera sostanziale da altri giochi, come le Slot machines e il poker, basati prevalentemente su comportamenti individuali.

I giochi di abilità a distanza, meglio conosciuti come skill games (fra i quali spicca il poker online ma anche il bridge e gli scacchi), sono giochi che prevedono una vincita in denaro e il cui esito dipende dall’abilità, dall’arguzia e dalla perspicacia del giocatore nel condurre la partita, ma rilevanti sono anche gli elementi di carattere casuale.

I casinò sono edifici in cui è possibile giocare alle roulettes, al blackjack, al poker, alle slot machines e ad altri giochi ancora. Attualmente sono presenti sul territorio italiano solo quattro casinò autorizzati come il Casinò Municipale di Venezia, Casinò Municipale di Campione d’Italia, Casinò Municipale di Sanremo e il Casinò De La Vallée di Saint-Vincent in Valle d’Aosta.

Come evidenziato dall’elenco sopra citato, l’offerta dei giochi d’azzardo è ampia e diversificata: ai giochi tradizionali, come le scommesse sui cavalli (presenti già al tempo della Regina Elisabetta I, in Inghilterra, nel XVI secolo), le lotterie, le roulettes o, più recentemente il SuperEnalotto, se ne sono aggiunti di nuovi, sempre più tecnologici e allettanti, tipici dell’era multimediale: Casinò, videopoker, gambling on-line e Gratta&Vinci (Lavanco & Varveri, 2006). Inoltre, si può giocare in qualsiasi  luogo,  anche  per  la  strada,  con  l’ausilio  di  moderni  telefoni  cellulari  e  tablets. L’opportunità, quindi, di entrare in contatto con il mondo del gioco sono cresciute, negli ultimi anni, in modo esponenziale, tanto da costituire un fattore di rischio per lo sviluppo della malattia stessa (Filippi & Breveglieri, 2010).

Parlare di gioco e di giocatori d’azzardo comporta la necessità di discutere dei diversi livelli di gioco, in termini di intensità e gravità dello stesso (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010). Sono stati avanzati, per questo, alcuni esempi di classificazione dei giocatori d’azzardo. Tali tipologie, lungi da rappresentare categorie a sé stanti, sono piuttosto punti di un unico continuum a tappe “non obbligate” (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010).

Una prima distinzione, utile per un inquadramento descrittivo e clinico del fenomeno del gioco d’azzardo, è quella che vede suddivisi i giocatori in tre categorie, in base alle caratteristiche comportamentali e motivazionali che questi presentano: i giocatori sociali, i giocatori problematici e i giocatori patologici (Lavanco & Varveri, 2006, 2010; Serpelloni, 2013).

I giocatori sociali

Tutti almeno una volta hanno giocato d’azzardo; ciò non significa che chi gioca d’azzardo sia o diventerà un giocatore d’azzardo problematico, o addirittura patologico. Il giocatore sociale, per quanto sia una persona soggetta alle lusinghe dell’Alea, al fascino di guadagnare tutto in una volta, senza fatica, intuisce, senza oltrepassarlo, il labile confine tra semplice distensione, passatempo e morboso accanimento. Le perdite al gioco, pur essendo vissute con ragionevole rammarico, non diventano motivo di affanno o disperazione: esse, infatti, non sono mai troppo elevate, né superano o compromettono la disponibilità economica del giocatore.

Elevato è il numero di giocatori sociali, categoria questa che comprende sia i giocatori occasionali che quelli abituali: l’80% degli italiani infatti può essere considerato un giocatore occasionale, perché almeno una volta nella vita ha giocato d’azzardo, mentre il 20% scommette in maniera abituale, con assiduità, spinto dal desiderio di compiere un “salto” economico (Lavanco & Varveri,

2010). Si tratta di una tipologia di giocatori che può interrompere il gioco quando lo desidera e fa maggiore affidamento sui dati di realtà piuttosto che su un irragionevole senso di onnipotenza, elemento, questo, che gli consente di capire lucidamente quando è il momento di smettere. Tale gruppo di giocatori è spinto verso il gioco da un semplice desiderio di rilassarsi, dall’incentivo del guadagno facile e senza fatica, dall’attrazione per il rischio. Per queste persone, comunque, il gioco non interferisce con la vita quotidiana e, per tale motivo, rappresenta la ricerca momentanea di un’esperienza appagante all’interno della routine quotidiana. Essi riescono a limitare le perdite e a fermarsi quando stanno vincendo; non mettono in gioco tutti loro stessi e si lasciano coinvolgere emotivamente solo in parte. Quando si parla di gioco abituale, quindi, non si discute ancora di gioco problematico. Tuttavia, la presenza di fattori di rischio concomitanti può condurre il giocatore a sviluppare forme di disagio legate al gioco, che lo conducono verso la problematicità (Lavanco & Varveri, 2006, 2010; Serpelloni 2013; La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010 ).

I giocatori problematici

Se il giocatore sociale, nella maggioranza dei casi, non imbocca la strada della dipendenza patologica, diversa è la situazione del giocatore problematico.

Questo  tipo  di  giocatore  non  riesce  ad  avere  un  pieno  controllo  sul  gioco  e  con  il  suo comportamento sconsiderato, inizia a danneggiare la sfera personale, familiare e sociale; egli va

pertanto alla ricerca di quel piacere che solo il gioco gli assicura. La persona inizia a dedicare sempre più tempo al gioco, la frequenza delle giocate si fa più alta, la quantità di denaro scommesso aumenta, il gioco comincia ad avere un ruolo di primo piano nella vita quotidiana. La possibilità di sviluppare un comportamento patologico e sempre più severo, che lo spinge a giocare compulsivamente, senza fermarsi, fino a quando non si perde tutto, si fa  molto probabile (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010; Lavanco & Varveri, 2006, 2010; Serpelloni, 2013).

I giocatori patologici

I giocatori patologici sono, invece, quei soggetti che hanno perso completamente il controllo del proprio comportamento, tanto da non riuscire a smettere di giocare, finché non hanno perso tutto. Spesso sono frequenti anche attività illegali per risanare i debiti accumulati o per reperire nuove risorse da investire.

Il gioco si configura, in questo caso, come una vera e propria dipendenza, con preoccupanti costi individuali  e  sociali,  che  compromette  in  modo  significativo  l’adeguato  funzionamento  della persona nel suo contesto di vita, tanto che diventa assolutamente necessario un intervento di cura.

È difficile stabilire una netta demarcazione tra giocatore sociale, problematico e patologico. Come già detto, si tratta di un continuum, di un processo che può condurre, anche se non necessariamente, un giocatore sociale (occasionale o abituale), a sviluppare una vera e propria forma di addiction (dipendenza) dal gioco d’azzardo (Lavanco & Varveri, 2006). Su questa linea di pensiero si inserisce il pensiero di Custer, che considera il gioco patologico la tappa finale di un lungo percorso, durante il quale entrano in gioco innumerevoli fattori in grado di cambiare o modificare la traiettoria del comportamento di gioco assunta dall’individuo (Lavanco & Varveri, 2006).

L’atteggiamento nei confronti del livello di gravità delle forme di gioco trova, tra la popolazione, posizioni e giudizi differenti: se il gioco d’azzardo, come forma sociale, sembra essere esaltato ed incentivato, quello problematico viene tenuto in scarsa considerazione e, addirittura, quello patologico, sembra essere demonizzato e percepito come un fenomeno raro e lontano dalla propria esperienza. Negli ultimi anni, però, a seguito di un incremento esponenziale di persone che hanno sviluppato una vera e propria patologia di gioco, si sta assistendo ad un incremento nel grado di interesse e di  attenzione con cui la società e i vari professionisti del settore guardano e si occupano di tale problematica (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010; Lavanco & Varveri, 2006).

Un’altra classificazione efficace viene proposta da Guerreschi (2000), che individua sei categorie in cui collocare i giocatori d’azzardo: i giocatori d’azione con sindrome da dipendenza, sono soggetti compulsivi, per i quali il gioco d’azzardo rappresenta la cosa più importante della vita, a scapito di famiglia, amici e lavoro. Si dedicano maggiormente a giochi più “dinamici”, come quelli legati alle scommesse  o  al  poker.  I  giocatori  per  fuga  con  sindrome  da  dipendenza  sono,  invece,

particolarmente dediti alle slot machines e giocano per alleviare sensazioni di ansia, noia, depressione e solitudine, utilizzando il gioco come analgesico. In questa tipologia ritroviamo tipicamente le donne, le quali tentano di sgattaiolare da una realtà deprimente e mortificante. I giocatori sociali costanti, per i quali il gioco d’azzardo è, invece, la fonte principale di relax e divertimento. Mettono il gioco in secondo piano rispetto alla famiglia e al lavoro; in più, nonostante l’assiduità delle giocate, continuano a mantenere un lucido controllo del loro gioco. I giocatori sociali adeguati giocano per passatempo, per socializzare e per divertirsi. Il gioco d’azzardo è percepito come una distrazione, uno svago e pertanto non interferisce con i compiti della vita, famiglia, amicizie e lavoro. I giocatori antisociali si servono del gioco d’azzardo per ottenere un guadagno in maniera illegale e i giocatori professionisti non patologici sono quelli che si mantengono proprio giocando d’azzardo.

Blaszczynski  propone  una  classificazione  dei  giocatori  che,  al  contrario  delle  precedenti,  si concentra solo su quelli patologici. Questi vengono suddivisi in tre sottogruppi, caratterizzati da un livello crescente di problematicità: i giocatori problematici-normali (Normal problem gamblers), i giocatori disturbati emotivamente (Emotionally disturbed gamblers) e il gruppo dei giocatori con correlati biologici (Biological correlates of gambling) (Blaszczynski, 2000; Blaszczynski & Nower,

2001). I giocatori problematici-normali sono quelli per i quali il comportamento di gioco eccessivo non è imputabile alla presenza di disturbi psichici primari, bensì a schemi cognitivi distorti e a carenza di giudizio. Le caratteristiche tipiche associate al gioco d’azzardo patologico, come la rincorsa alle perdite, il craving, la preoccupazione eccessiva e la dipendenza da sostanze, sono pertanto  la  conseguenza  della  pratica  del  gioco  d’azzardo  e  la  risposta  finale  alle  pressioni finanziarie causate dalle continue perdite. I giocatori  disturbati emozionalmente sono quelli per cui il gioco d’azzardo rappresenta una forma di fuga emozionale in grado di modulare l’umore e soddisfare specifici bisogni psicologici. Questo sottogruppo manifesta alti livelli di psicopatologia pregressa, come depressione, ansia, dipendenza da sostanze e strategie di coping disadattive, oltre che esperienze di sviluppo negative, eventi di vita avversi e familiarità con il gioco d’azzardo. Il sottogruppo dei giocatori d’azzardo con correlati biologici è definito dalla presenza di disfunzioni neurobiologiche, compromissioni a danno del lobo frontale e alterazioni a livello genetico. Essi mostrano evidenti tratti di impulsività nel comportamento, che spesso precedono il gioco e sono rilevabili già dall’infanzia. Il tipico giocatore d’azzardo appartenente a questa categoria viene denominato, infatti, “impulsivo-antisociale”: è cioè impulsivo, mostra un ampio spettro di problemi comportamentali, come irritabilità e comportamenti criminali, non è in grado di ritardare la gratificazione e manifesta una marcata propensione a cercare attività gratificanti. Il gioco d’azzardo inizia in tenera età e si intensifica rapidamente per intensità e gravità (Blaszczynski, 2000; Blaszczynski & Nower, 2001).

Il modello di Blaszczynski mette in luce l’importanza di considerare i giocatori patologici come un insieme eterogeneo e variegato, con caratteristiche, percorsi di vita e fattori di vulnerabilità differenti. Per questo, da un punto di vista clinico, emerge la necessità di rilevare tali peculiarità, per sviluppare metodi di intervento e di cura altrettanto differenziati: i giocatori patologici “normali” richiedono, infatti, interventi minimi di consulenza e strategie di sostegno, come quelle offerte dai gruppi di auto-aiuto (ad esempio, i Giocatori Anonimi); quelli emotivamente vulnerabili e con correlati biologici richiedono, invece, più ampi interventi psicoterapeutici, volti all’incremento delle abilità di problem solving, della capacità di gestire lo stress, di controllare gli impulsi, oltre a procedure per migliorare l’autostima e l’immagine di sé (Blaszczynski & Nower, 2001).

Anche Moran (1970) propone una classificazione dei giocatori patologici in relazione  all’intreccio tra fattori ambientali e costituzionali, considerati fondamentali nella genesi e nel decorso del gioco patologico. Le cinque categorie cliniche che egli identifica sono: il gioco sub culturale, connesso al contesto familiare e sociale dell’individuo: la persona gioca d’azzardo per sentirsi adatta al gruppo dei pari; il gioco nevrotico, quando il comportamento di gioco patologico è una risposta a situazioni stressanti o a problemi emozionali: è un’occasione di sollievo dalle tensioni; il gioco psicopatico, che costituisce un aspetto del comportamento antisociale; il gioco impulsivo, caratterizzato dalla perdita del controllo e, infine, il gioco sintomatico, che è considerato secondario ad altri disturbi mentali, quali, ad esempio, la depressione (Moran, 1970).

1.4 EPIDEMIOLOGIA DEL GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO

Il mercato del gioco d’azzardo è un settore in costante evoluzione ed espansione, tanto che la quantità e l’offerta risultano sempre più ampie e diversificate. I nuovi giochi d’azzardo tecnologici definiscono un nuovo modo di giocare: solitario, asociale (non implicano, quindi, né interazione né comunicazione tra i soggetti), decontestualizzato (ad ogni ora e in ogni luogo), con regole semplici e ad alta soglia di accesso (Filippi & Breveglieri, 2010). Si è rilevato, pertanto, negli ultimi anni, a seguito della crescita nella disponibilità e nella facile accessibilità delle offerte di gioco, ma anche in relazione a una situazione economica sempre più precaria, un aumento nelle richieste di aiuto e di assistenza, sia nel pubblico che nel privato, da parte dei giocatori o delle loro famiglie (Bastiani, Gori, Colasante, Siciliano, Capitanucci, Jarre et al., 2011).

1.4.1 Il fenomeno dell’azzardo in Italia: cifre da capogiro e in costante aumento

L’Italia è il primo paese al mondo per il denaro speso nelle scommesse (secondo solo agli Stati

Uniti per denaro effettivamente investito, ma primo se si considera il rapporto spesa/abitanti)

(Lavanco & Varveri, 2006). Secondo i dati dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (2011), il gioco è una delle industrie più fiorenti nel nostro paese: nel 2008 sono stati raccolti 47,4 milioni di euro, nel 2009 54,4 milioni, fino ad arrivare nel 2010 a 61,4 milioni. Il Nord-Ovest è l’area che registra, in termini assoluti, il maggior volume di gioco (12 miliardi di euro annui). Tuttavia, se si considera l’incidenza della spesa per il gioco sul Pil, il primato spetta a Sud e Isole.

La Lombardia è la regione italiana dove si gioca di più (quasi 8,4 miliardi di euro) seguita dal Lazio con 4,6 miliardi di euro. Tuttavia, la regione in cui il peso del volume del gioco sull’economia locale è più elevato è la Campania (4,4 %), seguita da Abruzzo, Puglia, Molise e Sicilia. La Liguria e l’Abruzzo riportano una percentuale molto alta di soggetti che hanno sviluppato o sono a rischio di sviluppare una dipendenza nel gioco (Bastiani, Gori, Colasante, Siciliano, Capitanucci, Jarre et al., 2011). Il settore di gioco che ha conosciuto una massiccia diffusione è quello degli apparecchi da intrattenimento, tanto che le dimensioni del mercato delle Slot machines sono cresciute di quasi

70 volte dal 2003 al 2010, passando da 367 milioni a 25,5 miliardi di euro (Aams 2010; Eurispes

2008). Anche il mercato del gioco on line sta crescendo a un ritmo decisamente elevato, con un incremento del 58,5% rispetto dal 2009 al 2010 ed una raccolta complessiva pari a 3,7 miliardi di euro. La raccolta dei giochi numerici a totalizzatore si è incrementata addirittura del 50% dal 2008 al 2009, mentre il Lotto, il Bingo e l’Ippica mostrano un calo significativo. In generale la maggior parte delle quote in entrata dei giochi d’azzardo riguarda le slot machines, secondariamente le lotterie e quindi i giochi a distanza (Serpelloni & Rimondo, 2012).

Secondo il Ministero della Salute (2011), in Italia il 54% della popolazione è costituita da giocatori d’azzardo. La stima di quelli problematici varia dall’1,4 % al 3,8% mentre la stima di quelli patologici oscilla tra lo 0,5% al 2,2 % (Serpelloni & Rimondo, 2012).

1.4.2 Il fenomeno dell’azzardo in Europa

Anche in Europa l’azzardo assicura allo Stato ingenti introiti: la Germania nel 2007 ha incassato circa  12  miliardi  di  euro,  distinguendosi  da  tutti  gli  altri  Paesi  europei,  seguita  dal  mercato britannico e da quello francese. La tipologia delle offerte è piuttosto eterogenea tra i diversi paesi dell’Unione: in Germania e in Italia si impongono in modo piuttosto netto le lotterie, mentre nel settore delle slot machines è la Spagna a detenere il primato, con introiti che sfiorano i 4 miliardi di euro all’anno e un numero di macchine installate pari a 340 mila. Per quanto riguarda i casinò, invece, il mercato più importante è quello francese, con 197 sale all’attivo (Commissione Europea

2006; Eurispes 2009; Euromat 2008, in Filippi & Breveglieri, 2010).

C’è da tener presente che gli Stati differiscono per legislazione, restrizioni, modalità di concessione delle licenze e questo incide sulle tipologie di gioco che vengono offerte e quindi maggiormente fruite dai cittadini: in quasi tutti gli Stati Uniti ad  esempio sono vietate le scommesse  sportive e

quelle a distanza, attraverso siti internet o telefono cellulare (Filippi & Breveglieri, 2010).

1.5 GAP: CARATTERISTICHE CLINICHE E INQUADRAMENTO NOSOGRAFICO

Il riconoscimento di una vera e propria patologia legata al gioco d’azzardo è piuttosto recente. Viene inserito come un  disturbo psichiatrico a sé stante solo nel 1980,  all’interno della terza edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi psichiatrici (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, DSM). È stato mantenuto anche nelle edizioni successive del DSM-IV e del DSM-IV-TR ed è collocato nella sezione relativa ai “Disturbi del controllo degli impulsi non classificati altrove”, insieme alla Piromania, la Cleptomania, la Tricotillomania e il Disturbo esplosivo intermittente. Il gioco d’azzardo patologico viene definito dall’American Psychiatric Association (APA) come un “comportamento persistente, ricorrente e mal adattivo di gioco, che compromette le attività personali, familiari o lavorative” (APA, 1994; trad. it. 1996, p. 674). Viene posta una diagnosi di gioco patologico quando il soggetto riporta cinque (o più) dei 10 sintomi indicati dal DSM (Criterio A):

  1. E’ eccessivamente coinvolto nel gioco d’azzardo (ad esempio il soggetto è continuamente intento a rivivere esperienze trascorse di gioco, a valutare o pianificare la prossima impresa di gioco, ad escogitare i modi per procurarsi il denaro con cui giocare).
  2. Ha bisogno di giocare somme di denaro sempre maggiori per raggiungere lo stato di eccitazione desiderato.
  3. Tenta ripetutamente e senza successo di controllare, ridurre o interrompere il gioco d’azzardo.
  1. Nel tentativo di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo, il soggetto risulta molto irrequieto e irritabile.
  2. Il soggetto ricorre al gioco come fuga da problemi o come conforto all’umore disforico (ad esempio senso di disperazione, di colpa, ansia, depressione).
  3. Quando perde, il soggetto ritorna spesso a giocare per rifarsi (“inseguimento” delle perdite).
  1. Mente in famiglia e con gli altri per nascondere il grado di coinvolgimento nel gioco d’azzardo.
  1. Ha commesso azioni illegali come falsificazione, frode, furto o appropriazione indebita per finanziare il gioco d’azzardo.
  2. Mette a rischio o perde una relazione importante, un lavoro, un’opportunità di formazione o di carriera a causa del gioco.
  3. Confida negli altri perché gli forniscano il denaro necessario a far fronte a una situazione economica disperata, causata dal gioco.

Il comportamento di gioco d’azzardo patologico non deve essere, pertanto, attribuibile a un episodio maniacale (Criterio B).

Sebbene non siano inseriti nel DSM, si tende a includere in tale categoria anche il Disturbo da

shopping compulsivo, la Dipendenza da internet e la Dipendenza sessuale (Dell’Osso, Altamura, Allen, Marazziti & Hollander, 2006).

I  Disturbi  del  controllo  degli  impulsi  (DCI)  sono  caratterizzati dall’incapacità del  soggetto  a resistere ad un impulso o ad una tentazione impellente. Tale spinta è preceduta da una sensazione di crescente tensione ed eccitazione, che induce il soggetto a compiere un’azione pericolosa per sé stesso e/o per gli altri e a cui fanno seguito gratificazione, piacere e sollievo (DSM-IV, 1994). L’analogia tra i disturbi del controllo degli impulsi e l’attitudine al gioco d’azzardo è evidente: come la Cleptomania è caratterizzata dalla ricorrente incapacità di resistere all’impulso di rubare oggetti, la Piromania dal desiderio di appiccare il fuoco e la Tricotillomania dall’impulso di strapparsi i capelli, così il gioco d’azzardo patologico è caratterizzato dall’incapacità di resistere all’impulso di scommettere e giocare d’azzardo (Lavanco & Varveri, 2006). A questo proposito, è esemplificativo litem numero 3 del DSM, che fa esplicitamente riferimento alla perdita del controllo ( loss of control) e all’incapacità di ridurre o interrompere la pratica del gioco d’azzardo.

A supporto dell’inclusione del gioco d’azzardo patologico all’interno della categoria dei Disturbi del controllo degli impulsi, vi sono anche alcune ricerche internazionali che testimoniano e riportano un’elevata  comorbilità  tra  gambling  e  DCI  (Black  &  Moyer,  1998;  Specker,  Carlsons  & Christenson, 1995): i disturbi più comunemente associati sembrano essere il Disturbo da shopping compulsivo e la Dipendenza sessuale (Black & Moyer, 1998; Specker, Carlsons & Christenson,

1995).

Da un punto di vista neurobiologico, si riscontrano in letteratura alcune evidenze che provano il coinvolgimento, nel gioco d’azzardo patologico, di aree deputate al controllo degli impulsi, come la corteccia prefrontale (Potenza, 2006). Durante la presentazione di stimoli visivi riguardanti il gioco, infatti, i giocatori patologici mostrano una diminuzione nell’attivazione della corteccia prefrontale (Potenza, 2006), così come avviene, analogamente, nei soggetti che presentano una tendenza impulsiva a commettere gesti aggressivi (Potenza, 2006). Un ruolo di primo piano nella regolazione di queste aree è svolto dalla serotonina, considerata una componente di sostanziale importanza nel controllo degli impulsi e delle funzioni inibitorie (Potenza, 2008). I suoi circuiti risultano spesso alterati nei giocatori patologici (alterazioni, ad esempio, a carico dei geni trasportatori della serotonina 5HTT1 e CHTT2). Nei giocatori d’azzardo si rilevano anche un aumento dei livelli di noradrenalina e alterazioni nei livelli di dopamina (Clark, 2010). I giocatori patologici, così come i soggetti con Disturbo del controllo degli impulsi, riportano, infatti, più frequentemente l’allele D2A1 del gene recettore della dopamina D2, una variante associata a vari comportamenti di tipo impulsivo e compulsivo (Blaszczynski & Nower, 2001; Shah et al., 2004).

Recentemente la diagnosi di “Gioco d’azzardo patologico” è andata incontro a sostanziali cambiamenti (Petry, Blanco, Stinchfield & Volberg, 2012). Negli ultimi anni si è discusso, infatti, riguardo alla sua esatta collocazione e se, tale disturbo, debba essere considerato effettivamente un Disturbo del controllo degli impulsi, così come classificato nel DSM-IV (Canuzzi, 2012).

Nella primavera del 2013, è stata pubblicata la nuova versione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi psichiatrici, il DSM-5, che apporta delle novità per la comprensione e la concettualizzazione del gioco d’azzardo patologico.

Il cambiamento più vistoso si osserva per quanto riguarda la collocazione del disturbo, che viene, infatti, inserito all’interno del capitolo denominato “Addiction and related disorders, accanto alla dipendenza e all’abuso di alcool e droghe. In questa nuova categoria, il gioco d’azzardo rappresenta l’unica dipendenza comportamentale, senza sostanza (Denis, Fatseas & Auriacombe, 2011). “Addiction and related disorders” rimpiazza, pertanto, la precedente terminologia “Substance and related disorders”, utilizzata dal DSM-IV in riferimento alle dipendenze.

“Addiction” deriva dal latino “addicere” e significa “schiavo di”. Se il termine in origine non veniva utilizzato in riferimento all’uso di sostanze, ha iniziato prepotentemente ad essere associato all’atteggiamento di perdita del controllo, tipico dei dipendenti da sostanze, solo molti secoli dopo (Potenza, 2006) e, ad oggi, ha sostituito definitivamente il termine “dependence” utilizzato dal DSM-IV. Il cambiamento di terminologia è dovuto all’esigenza di ridurre le difficoltà e le ambiguità insite nella definizione di dipendenza: si può avere, infatti, una dipendenza fisica e chimica quando l’organismo richiede una certa sostanza per funzionare, ma non si evidenziano effetti negativi sul funzionamento del soggetto, oppure si può riscontrare una forma di dipendenza in cui si crea una condizione di ricerca attiva dell’oggetto, senza il quale la vita appare priva di significato, e che conduce a numerose conseguenze negative sulle diverse aree del funzionamento di vita (Lipari, Picone & Scardina, 2010; Potenza, 2006).

I motivi che hanno indotto gli esperti a includere il gioco patologico all’interno della categoria dei comportamenti di addiction è data, principalmente, oltre che dall’efficacia di alcuni trattamenti in entrambi i disturbi (Reilly, 2010; Upfold, 2009), anche dall’elevata percentuale di comorbilità riscontrata tra essi (Hodgins, Peden & Cassidy, 2005; Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010) e dalla simile manifestazione e categorizzazione di alcuni sintomi (Petry, Blanco, Stinchfield & Volberg, 2012; Upfold, 2009).

Il GAP e i disturbi da uso di sostanze condividono, infatti, molte caratteristiche, tanto che i criteri utilizzati per diagnosticarli sono del tutto simili. Due di questi riguardano la tolleranza e l’astinenza. La tolleranza, ovvero il bisogno di ingerire quantità crescenti di sostanze per raggiunge l’apice degli effetti desiderati, si manifesta anche nel giocatore quando aumenta continuamente l’importo di

denaro da spendere per raggiungere un certo grado di soddisfazione (item 2). Analogamente, l’astinenza, cioè lo sviluppo di sintomi fisici causati dalla cessazione o dalla riduzione prolungata dell’uso della sostanza, si riscontra anche nel giocatore d’azzardo, nella misura in cui questo sperimenta sensazioni  di  irritabilità e  di  irrequietezza quando  tenta  di  ridurre  o  interrompere l’attività di gioco (item 4). Un altro criterio diagnostico per la dipendenza da sostanze che incontra uno speculare per la diagnosi di gioco patologico, riguarda il persistente desiderio o i ricorrenti sforzi per smettere o controllare l’uso delle sostanze senza però riuscirci, a cui si collega l’item numero 3 per il gioco d’azzardo. Altre somiglianze tra i due disturbi, che si riflettono nei criteri utilizzati per la diagnosi, includono la presenza di preoccupazioni (item 1) e la compromissione delle normali attività di vita (item 9). Un criterio per definire la dipendenza da sostanze che diverge e non trova un corrispettivo in quelli utilizzati per il gioco patologico, riguarda la consapevolezza del soggetto rispetto ai problemi fisici e psicologici determinati dall’uso smodato della sostanza. (Upfold, 2009). Gli item caratterizzanti il gioco d’azzardo patologico sono, invece, i numeri 5, 7, 8 e

10, relativi, rispettivamente, alla motivazione sottesa al comportamento di gioco (come fuga da problemi   o   come   conforto   all’umore   disforico),   al   mentire   per   nascondere  il   grado   di coinvolgimento nel gioco, al commettere azioni illegali e al confidare in altri per reperire il denaro necessario per giocare o per far fronte ai debiti. Per diagnosticare la dipendenza da sostanze devono essere presenti almeno tre dei sette sintomi specificati dal DSM, mentre per il gioco patologico ne occorrono almeno cinque su dieci (nella nuova versione del DSM-5, quattro su nove). Il gioco patologico, però, viene riconosciuto, contrariamente alla dipendenza da sostanze, come un disturbo caratterizzato maggiormente in senso cognitivo: la maggior parte dei giocatori presenta, infatti, numerose  distorsioni  cognitive  nel  sistema  di  credenze  relative  all’attività  di  gioco  d’azzardo (Upfold, 2009).

I segni e i sintomi principali relativi alla dipendenza nel gioco d’azzardo sono il craving, ovvero il forte desiderio di giocare e l’impossibilità di resistervi, l’astinenza e la tolleranza (Serpelloni, 2013).

Molte sono quindi le somiglianze e le analogie tra il gioco patologico e le dipendenze da sostanze, analogie che hanno indotto i ricercatori a ritenere più adeguata la nuova classificazione. Tuttavia non sono mancati pareri contrari, relativi al fatto che il gioco d’azzardo non comporta l’ingestione di una sostanza, che il fenomeno del chasing (la rincorsa alle perdite), l’aspetto più comune tra i giocatori, non trova un corrispettivo, un parallelo nei disturbi da uso di sostanze. Analogamente, anche l’impatto che il gioco patologico ha sull’ambito finanziario del soggetto non è così evidente e marcato nelle persone dipendenti da sostanze. Un’ulteriore differenza tra le due condizioni riguarda le ricadute che queste provocano sullo stato di salute del soggetto dipendente: l’effetto che le droghe esercitano sull’organismo non si riscontra nel caso dei giocatori d’azzardo patologici, nonostante questi presentino spesso problemi di salute (Petry, 2006).

Il DSM-5 ha apportato un’ulteriore modifica, non solo per ciò che riguarda la classificazione del disturbo, ma anche per quanto concerne la sua denominazione (Petry et al., 2012). Gli esperti hanno proposto, infatti, di modificare la nomenclatura “Pathological gambling” in “Gambling disorder”, con il preciso scopo di ridurre lo stigma associato al termine “patologico” (Petry et al., 2012).

Altri  cambiamenti  sostanziali  che  sono  avvenuti  con  il  passaggio  dal  DSM-IV  al  DSM-5, riguardano l’eliminazione dell’item relativo al “commettere atti illegali come falsificazione, frode, furto  o  appropriazione indebita  per  finanziare  il  gioco  d’azzardo”  (item  8)  e  la  conseguente riduzione del numero di criteri necessari per stabilire la diagnosi (Strong & Kahler, 2007; Petry et al., 2012; Toce-Gerstein, Gerstein & Volberg, 2003). La task force del DSM-5 ha optato per l’eliminazione del criterio 8, dal momento che non risulta significativo e determinante per l’individuazione della maggior parte dei soggetti con problemi di gioco d’azzardo (Petry et al., 2012; Reilly, 2010; Toce-Gerstein, et al., 2003) e sembra non contribuire molto all’accuratezza e alla precisione diagnostica per l’identificazione della maggior parte dei giocatori patologici (Petry et al., 2012; Strong & Kahler, 2007). Una delle evidenze a favore di questa decisione è emersa dallo studio  di  Strong  e  Kahler  (2007),  i  quali,  analizzando  i  dati  provenienti  dal  “ National Epidemiologic Survey on Alcohol and Related Conditions” (NESARC), dimostrano che tutti gli individui che commettono atti illegali per finanziare le attività di gioco d’azzardo, riportano cinque o più dei sintomi necessari per stabilire la diagnosi di gioco patologico, suggerendo, quindi, che questo item aggiunge poco alla capacità discriminativa dei giocatori patologici (Strong & Kahler, 2007). In più è stato dimostrato che i sintomi elencati dal DSM sono correlati a diversi livelli di gravità della patologia: il primo sintomo a comparire sarebbe quello relativo al fenomeno del chasing; l’essere eccessivamente coinvolto nel gioco d’azzardo (item 1) è utile per identificare i soggetti con il più basso grado di severità dei problemi di gioco (Strong & Kahler, 2007); il giocare per fuggire da stati emozionali negativi (item 5) e il mentire agli altri sulle proprie condizioni di gioco (item 7) sono frequentemente ricorrenti negli individui che riportano tre sintomi, che, quindi, non si configurano come patologici (Toce-Gerstein et al., 2003). I sintomi relativi all’astinenza (item 4), alla perdita del controllo (item 3) e alla tolleranza (item 2) risultano, invece, fortemente correlati con il gioco patologico (Toce-Gerstein et al., 2003). Anche il mettere a repentaglio delle relazioni significative è un tratto caratteristico dei giocatori patologici: tra questi, la percentuale dei divorziati rappresenta, infatti, quasi il doppio di quella dei controlli (Toce-Gerstein et al., 2003).

L’altro cambiamento avanzato nel DSM-5 è la diminuzione dei criteri per stabilire la diagnosi di patologia: da 5 su 10, ne sono adesso necessari 4 su 9 (Denis et al., 2012; Petry et al., 2012; Petry, Blanco, Auriacombie, Borges, Bucholz, Crowley et al., 2013). Denis e colleghi hanno dimostrato la validità di questa decisione, sottolineando che, diminuendo la soglia necessaria per stabilire la

diagnosi di gioco d’azzardo patologico, si ottengono dei risultati ugualmente validi: la correlazione tra il numero di sintomi presentati e la gravità del coinvolgimento nel gioco d’azzardo era, infatti, significativa (Petry et al., 2012).

Il gioco d’azzardo patologico presenta alcune affinità anche con i disturbi dello spettro ossessivo- compulsivo (Dell’Osso et al., 2006; Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010). Sia i soggetti affetti  da questo  disturbo  sia  i  gamblers,  nascondono  dietro  le  loro compulsioni,  un  intenso desiderio di mettere in atto un certo comportamento; ma, mentre nel gioco d’azzardo i pensieri ad esso relativi sono ego-sintonici, negli ossessivi-compulsivi, le ossessioni e le compulsioni sono ego- distoniche; mentre per questi le compulsioni sono caratterizzate da un senso di elusione del danno ed evitamento del rischio, nei giocatori patologici non si rinvengono queste caratteristiche. Al contrario è frequente la tendenza a ricercare forti sensazioni (Dell’Osso et al., 2006; Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010).

Un’ulteriore concettualizzazione alternativa è quella collegata allo spettro dei disturbi dell’umore, supportata dai tassi elevati di depressione cronica nelle persone con GAP. Sintomi di alterazione dell’umore, in verità, potrebbero anche costituire una reazione secondaria alle conseguenze negative del gioco d’azzardo (Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010).

Da questa breve rassegna, emerge la necessità di considerare il gioco d’azzardo patologico come un fenomeno, un disturbo eterogeneo e multi sfaccettato, che condivide alcune caratteristiche con altri disturbi psichiatrici. Dal momento che la concettualizzazione del GAP è probabile che influenzi i modelli di ricerca e di trattamento, è importante che vi sia una comprensione chiara dei dati che supportano ciascuna categorizzazione (Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010).

1.6 GAP E COMORBILITA’

Con il termine comorbilità intendiamo la presenza di più di un disordine psicologico diagnosticabile nello stesso individuo nello stesso momento; questa condizione rappresenta, pertanto, non solo un elemento di confusione nella diagnosi del disturbo principale, ma anche una fonte di complicazione per il decorso dello stesso (La Barbera & Matinella, 2010).

Possiamo distinguere una comorbilità attuale, se i disturbi psichiatrici sono presenti contemporaneamente, una comorbilità lifetime, se i disturbi si manifestano in diversi periodi della vita del soggetto e una  comorbilità familiare, se i familiari del paziente sono  affetti da altre patologie psichiatriche.

Nel caso del gioco d’azzardo patologico, la comorbilità si riscontra maggiormente con i disturbi dell’umore, il disturbo da deficit di attenzione con iperattività, i disturbi correlati all’utilizzo di sostanze e le condotte suicidarie.  Si evidenzia una comorbilità anche con il disturbo narcisistico di personalità, il disturbo antisociale, quello borderline e quello ossessivo-compulsivo (La Barbera &

Matinella 2010).

In uno studio condotto su un campione di pazienti ospedalizzati per GAP, si sono rilevati tassi di comorbilità lifetime pari al 76% con la depressione maggiore, del 38% con episodi ipomaniacali e dell’8% con episodi maniacali. Si è riscontrata, infine, una comorbilità pari al 20% con il disturbo ossessivo compulsivo e del 16% con il disturbo da attacchi di panico (La Barbera & Matinella, 2010).

Molto comuni risultano essere i sintomi depressivi: numerose ricerche hanno, infatti, documentato la relazione tra depressione e GAP, riportando una grande mole di risultati significativi (Kim, Grant, Eckert,  Faris  &  Hartman,  2006;    Poirier-Arbour,  Trudel,  Boyer,  Harvey  &  Goldfarb,  2012; Thomsen, Callesen, Linnet, Kringelbach & Moller, 2009). Dalla rassegna di Kim et al., (2006), che ha analizzato vari studi incentrati sulla correlazione tra disturbi dell’umore e gambling, si è trovata un’elevata incidenza di depressione e mania tra i giocatori patologici, nonostante spesso non sia possibile identificare se questi disturbi siano primari, secondari o co-occorenti (Kim, Grant, Eckert, Faris & Hartman, 2006). Nell’indagine di Thomsen e colleghi, (2009), i giocatori patologici dipendenti da slot machines che riportavano alti livelli di sintomi depressivi, erano quelli che mostravano una più intensa spinta e urgenza a giocare, maggiore eccitazione esperita nel gioco, numero di giochi effettuati e tempo trascorso a giocare (Thomsen, Callesen, Linnet, Kringelbach & Moller, 2009). Più recentemente Poirier-Arbour e colleghi., (2012) hanno mostrato che i giocatori patologici  presentavano  livelli  significativamente  maggiori  di  sintomi  depressivi  rispetto  ai controlli. Correlati alla gravità di questi sintomi si sono riscontrati anche elevati livelli di ansia (Poirier-Arbour, Trudel, Boyer, Harvey & Goldfarb, 2012).

La comorbilità tra GAP e disturbi da uso di sostanze risulta, invece, la più studiata in letteratura (Hodgins, Peden & Cassidy, 2005; Lorains, Cowlishaw & Thomas, 2010; Moreyra, Ibànez, Saiz- Ruiz & Blanco, 2010). I pazienti con doppia diagnosi presentano livelli maggiori di gravità sintomatologica iniziale ed hanno una prognosi peggiore sia in termini di risposta al trattamento che in termini di ricadute e di adesione alla terapia. Le stime di abuso di sostanze tra i giocatori patologici vanno dal 10 al 52% e all’85%, se viene inclusa la nicotina (Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010). Viceversa, chi abusa di sostanze mostra alti tassi di GAP, che vanno dal 9 al 33% (Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010). Dalla rassegna di Lorains et al., (2010), è emerso che tra i giocatori problematici e patologici si riscontrava un’elevata percentuale di soggetti con dipendenza da nicotina e uso di sostanze, seguiti dalla presenza di disturbi dell’umore (Lorains, Cowlishaw, & Thomas, 2010). Simili risultati sono stati riscontrati anche nella ricerca di Hodgins e colleghi, in cui il 73% dei giocatori patologici presentava una comorbilità lifetime con l’uso di alcool e il 48% con l’uso di droghe. Sembra anche che l’età d’esordio nell’abuso di sostanze preceda l’inizio dell’attività di gioco d’azzardo (Hodgins, Peden, & Cassidy, 2005).

La disperazione che assale il giocatore patologico quando inizia a perdere tutto, si può risolvere in un tentativo di intraprendere la strada della guarigione oppure altre vie più drammatiche di risoluzione del problema, come il suicidio. Gli studi di Hollander e Wong, di Specker, Carlson, Christenson e colleghi, risalenti al 1995, hanno sottolineato un legame tra GAP, pensieri suicidiari e suicidi.

La gravità del comportamento di gioco si correla positivamente anche con la presenza dei disturbi di personalità. Nella casistica di Blaszczynski, al 93% dei giocatori problematici veniva diagnosticato almeno un disturbo di asse II, con netta prevalenza dei tratti borderline, istrionico e narcisistico di personalità, tratti risultati correlati anche con alti livelli di impulsività e instabilità emotiva (Blaszczynski & Steel, 1998). Nello studio di Myrseth et al., (2009), i giocatori patologici riportavano punteggi significativamente più elevati nella scala di “Nevroticismo” e significativamente più bassi in quella di “Apertura” (dati rilevati con il BIG V) rispetto ai soggetti controlli (Myrseth, Pallesen, Molde, Johnsen & Meen Lorvick, 2009).

Alla luce di questi dati, possiamo distinguere diversi modi per interpretare la comorbilità tra il GAP e i disturbi psichiatrici sopra discussi. Essi possono essere, infatti, secondari al gioco ed esserne, quindi, la conseguenza, oppure il gioco stesso può configurarsi come un tentativo di far fronte ai disturbi dell’umore, ai disturbi di personalità o alle scarse capacità di coping e di problem solving (La Barbera & Matinella, 2010).

1.7 MODELLI TEORICO-INTERPRETATIVI  DEL GIOCO D’AZZARDO  PATOLOGICO

La letteratura del comportamento di gioco, delle motivazioni e dei meccanismi psicologici sottostanti,  delinea  un  quadro  eterogeneo  di  approcci  teorici  che  interpretano  il  fenomeno chiamando in causa spiegazioni diverse tra loro.

Tra le ipotesi eziopatologiche più ricche e consolidate nel tempo possiamo distinguere quella ad orientamento psicanalitico, comportamentista e cognitivista. A questi si aggiunge, infine, una lettura psicosociale del fenomeno.

1.7.1 Il modello psicanalitico

L’approccio psicanalitico raccoglie le riflessioni di vari autori che tendono a ricercare le cause del gioco nella sessualità, in termini di pulsioni sessuali e di masochismo.

Nel 1928, Sigmund Freud, il padre della Psicanalisi, scrisse “Dostoevskij e il parricidio”, un’opera che rappresenta il suo contributo più completo ed esplicito  al fenomeno del gioco d’azzardo. In questo saggio viene analizzata la personalità dello scrittore russo e la sua esperienza di giocatore compulsivo. Freud interpreta la coazione al gioco d’azzardo come una forma di autopunizione: è continuando a giocare, fino a perdere, che il giocatore può trarre la sua punizione, per espiare i sensi

di colpa innescati dal complesso edipico. Così, l’individuo trova una sorta di sollievo masochistico nel gioco, dimostrato dal fatto che egli tende a giocare soprattutto in fase di perdita. Il giocatore non aspira quindi ad una vincita, ma necessita di una sconfitta per vivere il carattere punitivo dell’esperienza. Alla base del senso di colpa esperito, si rintraccia l’ambivalente e conflittuale rapporto del bambino con il padre, tanto amato e tanto odiato. È la componente di aggressività e di odio verso il padre, il desiderio di eliminarlo per prendere il posto accanto alla madre, che scava nella mente del bambino quell’intollerabile senso di colpa, che egli cercherà per tutta la vita di placare. Spesso per placarlo servono delle sconfitte, dei fallimenti e delle perdite, che garantiscono una sorta di sollievo masochistico al senso di colpa. Qualche volta, invece, servono dei veri e propri crimini, commessi con lo specifico ed inconscio scopo di essere catturato. Il Fato, che viene sfidato dal giocatore, è quindi una proiezione del padre punitivo. Il gioco è un modo per sfidare la fortuna e la sorte con l’inconscia domanda: “Mio padre mi ama?”. Se mi ama vincerò, se non mi ama allora perderò.

Dopo Freud, un importante contributo sul tema del gioco d’azzardo è quello proposto dallo psicanalista Edmund Bergler, il quale riprende ed approfondisce alcune idee espresse dal suo predecessore nel saggio del 1928. Bergler considera il masochismo il meccanismo principale sotteso al fenomeno del gioco patologico adulto: il soggetto è dominato da un desiderio inconscio di perdere e di essere punito (nonostante possa riferire a tutti di voler vincere), per far fronte all’aggressività e al senso di colpa inconsapevoli nutriti verso le figure genitoriali, che hanno imposto regole e restrizioni durante l’infanzia. L’atto di giocare costituisce, quindi, una sorta di rinnegamento del Principio di Realtà a favore di quello del Piacere. L’aggressività, allora, non potendo essere sfogata sulle figure di autorità, viene rivolta verso se stessi, sotto forma  di desiderio di auto-punirsi. Il giocatore eccessivo è, quindi, un nevrotico compulsivo che, inconsciamente, crede,  proprio  come  fanno  i  bambini,  di  controllare  il  fato  in  modo  magico  e  onnipotente, utilizzando procedure superstiziose, magiche e ritualistiche (Bergler, 1957). Secondo la teoria di Rosenthal invece, i giocatori patologici soffrirebbero di un disturbo narcisistico di personalità: questi giocatori avrebbero bisogno di verificare costantemente la propria autostima attraverso l’attività di gioco. Tendono a controllare l’incontrollabile attraverso l’utilizzo di meccanismi di difesa quali la proiezione, la scissione e il bisogno di costruire continuamente l’illusione di onnipotenza (Rosenthal, 1987).

Per la mancanza di ricerche sistematiche l’approccio psicodinamico, nella realtà clinica, non ha avuto un grosso impatto sulla ricerca nel campo del gioco d’azzardo. Per questo motivo, si possono solo rintracciare delle direttive rispetto al trattamento, che, come per le nevrosi, si basano sulla risoluzione del conflitto, spesso di natura edipica, sul portare alla luce della coscienza il materiale rimosso, dissolvere le difese e i sensi di colpa del paziente (Zerbetto, 2010).

1.7.2 Il modello cognitivista

Secondo quest’approccio, il gioco d’azzardo sarebbe riconducibile a un ritardo nello sviluppo cognitivo, in particolare sarebbe dovuto a una fissazione del soggetto allo stadio delle operazioni concrete, che lo porterebbe a pensare ogni giocata come “quella buona”, a credersi imbattibile, esperto e potente. Diventa, quindi, necessario per il giocatore d’azzardo accedere allo stadio successivo delle operazioni formali, per maturare così un nuovo modo di pensare e di capire la vera natura  del  gioco,  nei  suoi  aspetti  di  aleatorietà  e  di  potenziale  danno  per  il  funzionamento individuale (Lavanco & Varveri, 2006).

Gli studi ad orientamento cognitivista si sono soffermati anche sulle distorsioni cognitive e sulle credenze erronee dei giocatori, che li inducono a credere di poter influenzare il risultato del gioco. Gli autori hanno sottolineato l’esistenza di varie forme di bias cognitivi, come ad esempio l’illusione di controllo e la fallacia di Montecarlo, che possono influenzare o mantenere la gravità dei problemi di gioco (Ladoceur, 2004; Myrseth, Brunborg & Eidem, 2010;  Toneatto, Blitz-Miller, Calderwood, Dragonetti & Tsanos, 1997 ).

Il progetto terapeutico si pone l’obiettivo di far prendere coscienza al paziente che alcuni suoi pensieri sono distorti, errati e che questi devono essere modificati, se si vuole ottenere un funzionamento adeguato nel contesto di vita. Si tratta di un terapia breve, di solito non supera i 15 incontri e, a differenza dell’approccio psicanalitico, non vengono né ricercate le cause profonde del problema del gioco, né vengono indagate le esperienze traumatiche infantili: il focus di interesse sono gli avvenimenti e i pensieri della vita quotidiana (Barrault & Varescon, 2012; Hodgins & Petry, 2004; Lopez-Viets & Miller, 1997).

1.7.3 Il modello comportamentista

Gli  psicologi  a  orientamento  comportamentista  ritengono  che  l’apprendimento  di  un comportamento di gioco disadattivo sia dovuto all’azione rinforzante di una serie di stimoli, come vincite rare, casuali, saltuarie, che spingerebbero il giocatore a ritentare la fortuna. Si forma quindi un legame tra lo stimolo incondizionato del “puntare” e la risposta della vincita, che, a sua volta, diventa l’elemento che rinforza il comportamento del gioco d’azzardo. Oltre al denaro, fungerebbero da rinforzi positivi anche i rinforzi sociali, come l’interazione e lo scambio con altri giocatori e gli stimoli ambientali, sotto forma di luci, colori e suoni allettanti che si trovano all’interno dei casinò e nella struttura stessa delle slot machines. Agiscono come rinforzo anche i fattori cognitivi: questi sarebbero legati in particolare al fenomeno della near miss, o “ quasi vincita”, fenomeno per cui anche in caso di perdita, si può avere la percezione di essere vicini alla vittoria (Grant & Potenza, 2004). Recentemente l’attenzione è rivolta anche a ciò che accade nel momento che separa la puntata da quello in cui giunge il risultato della scommessa. Infatti, non funge da rinforzo solo il denaro, ma anche l’eccitazione che il giocatore prova nei momenti di attesa del risultato, negli attimi in cui i dadi rotolano prima di trovare la loro staticità, quando lentamente una carta viene girata fino a mostrare la sua faccia o quando le ruote delle slot machines girano con frenesia. Molti giocatori scommettono su più tavoli, su più giochi contemporaneamente, per amplificare e intensificare proprio l’eccitazione che provano in quei momenti.

A partire dagli anni Sessanta, le terapie comportamentali sono diventate molto popolari e, ancora oggi, la maggioranza delle cure previste per il gioco eccessivo è di matrice comportamentale. Molte sono le tecniche utilizzate, come l’esposizione al gioco e la desensibilizzazione, ma tutte si pongono lo stesso obiettivo: da una parte, ridurre i comportamenti compulsivi del giocatore e, dall’altra, fargli raggiungere un maggior dominio sulle tensioni legate al gioco (Blaszczynski & Silove, 1995; Hodgins & Petry, 2004).

1.7.4 Il modello psicosociale

In quest’ottica, il gioco d’azzardo è considerato come un insieme di azioni messe in atto per evadere i momenti di noia, l’insoddisfazione della vita, la routine quotidiana, ma anche come un bisogno di pensiero magico, di comportamenti rituali e scaramantici, in contrapposizione a una quotidianità governata dalla razionalità e dal calcolo (Lavanco & Varveri, 2006). Similarmente, Eugen Fink considera il gioco come una sorta di “oasi di gioia”, dove l’individuo si rifugia per sfuggire all’ingranaggio della vita, al peso dell’esistenza: il gioco rapisce e il giocare fa apparire la vita lieta e più felice. Kusyzsyn (1984), invece, intende il gioco come un’attività ludica funzionale alla soddisfazione di alcuni bisogni basilari dell’uomo, come quello di confermare la propria esistenza e di affermare il proprio valore. Questi bisogni vengono soddisfatti nel momento in cui, durante l’esperienza di gioco, il soggetto esperisce determinate stimolazioni cognitive, fisiche ed emozionali e  nel momento in cui, nell’approcciarsi ad un compito difficile e rischioso, prova sentimenti di efficacia. Nel gioco d’azzardo sono, inoltre, ripetuti alcuni valori che svolgono un ruolo rilevante nella nostra società: i valori della competitività, dell’audacia, dell’intraprendenza, dell’assunzione di rischi. Inbucci (1997) avanza anche l’ipotesi che il gioco d’azzardo svolga la funzione simbolica di abolire le differenze e le ingiustizie sociali, a partire dalla constatazione che il volume del gioco è maggiormente diffuso nel Mezzogiorno d’Italia. Similarmente, Fiasco (2001) sostiene che il gioco rappresenta una risorsa per il popolo, nella misura in cui esso rappresenta la possibilità di sperare in un mondo migliore, quando lo Stato non lo garantisce: è, infatti, nei periodi storici di maggiore crisi che si assiste ad un aumento di persone che ricorrono al gioco per affrontare una situazione economica incerta (Lavanco & Varveri, 2010).

1.7.5 Il modello evolutivo di Custer

Custer, oltre ad essere noto per aver costituito la prima clinica per il trattamento del gioco d’azzardo patologico negli Stati Uniti, è famoso anche per aver proposto nel 1984 un modello di lettura del gioco d’azzardo veramente innovativo: per la prima volta il gioco viene considerato come un processo dinamico, invece che come un fenomeno statico, come un processo che si sviluppa attraverso una serie di passaggi progressivi. Il modello evolutivo di Custer offre anche degli indizi utili per comprendere il percorso che un giocatore d’azzardo può compiere: da una fase iniziale e innocua di gioco a una fase di perdita del controllo, fino al momento della ricostruzione e della crescita; offre inoltre una cornice più complessa e articolata rispetto a molti modelli teorici che “sclerotizzano”  il  giocatore  patologico  in  un  quadro  senza  passato  e  senza  futuro,  senza comprendere i peculiari significati, bisogni che concorrono all’evoluzione della sintomatologia da gioco. Il gioco d’azzardo può essere così inquadrato all’interno di un continuum che va da un grado inoffensivo per l’individuo, fino ad un comportamento di abuso, in cui il coinvolgimento del soggetto è tale da compromettere tutta la sua esistenza (Lavanco, 2001; Lavanco & Varveri, 2006; 2010).

Custer considera il gioco d’azzardo patologico come il punto di approdo di una carriera, di durata variabile, scandita dalle seguenti sei fasi (Custer, 1984).

1) Fase vincente: il gioco è occasionale. Esso è visto ancora come una forma di passatempo e divertimento e lo si pratica prevalentemente in compagnia di amici e familiari. La fase in questione dura generalmente dai tre ai cinque anni, periodo durante il quale ai giocatori capita molto spesso di vincere, fatto che rinforza nel giocatore l’idea di essere più abile degli altri. Le caratteristiche che accompagnano questa fase sono alti livelli di energia, concentrazione focalizzata e interesse nelle strategie di gioco d’azzardo; molti attribuiscono le loro vincite all’abilità piuttosto che alla fortuna. Le fantasie di vittoria, i rinforzi derivanti dalle vincite e il piacere connesso al gioco, condurranno il soggetto a investire, a spendere sempre più soldi nell’attività di gioco, entrando così nella cosiddetta fase perdente;

2) Fase perdente: dura oltre cinque anni, è segnata da varie perdite di gioco. Si innesca il meccanismo del chasing, ossia la rincorsa delle perdite, che spinge il soggetto a giocare sempre di più nel tentativo di recuperare il denaro perso. Le scommesse svuotano le tasche e il giocatore inizia a chiedere prestiti, cominciando a mentire ad amici e familiari.

3) Fase della disperazione: il bisogno di giocare si fa sempre più forte e il soggetto ha ormai perso completamente il controllo sul proprio comportamento; compaiono in questa fase anche attività illegali per ottenere i soldi da investire nel gioco. A questo punto, il soggetto o va incontro a suicidio, fuga, carcerazione o decide di intraprendere la strada della guarigione, articolata nelle seguenti e ultime tre fasi del modello di Custer.

4) Fase critica: inizia quando il giocatore patologico ammette di aver bisogno di aiuto e decide di rivolgersi a un professionista.

5) Fase della riedificazione (o ricostruzione): è segnata dai tentativi di riparare ai danni relazionali ed economici causati dal gioco patologico; si verifica un miglioramento dei rapporti familiari e il soggetto diventa più rilassato e fiducioso.

6) Fase della crescita: è l’ultimo stadio del percorso verso la guarigione, caratterizzato da una migliore introspezione e una maggiore lucidità nell’affrontare i problemi; contemporaneamente, diminuisce la preoccupazione per il gioco.

Al modello per fasi di Custer, Rosenthal (1987) ha aggiunto la cosiddetta fase senza speranza o resa, per sottolineare il percorso di quanti non riescono a proseguire verso le fasi che conducono al superamento della condotta di gioco patologico.

1.8 EZIOPATOGENESI DEL GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO

Dall’ingente mole di studi sui fattori predisponenti al gioco d’azzardo patologico, emerge la necessità di considerare le tante cause che possono contribuire allo sviluppo di un fenomeno tanto sfaccettato  quanto  complesso  quale  quello  del  gioco  patologico.  Siamo  di  fronte  a  processi dinamici, mutevoli, percorsi in continua evoluzione e trasformazione, che conducono verso un progressivo abbandono dell’ottica monodimensionale, una prospettiva che crede nella causalità lineare degli eventi. Il passaggio a un’eziologia di tipo multifattoriale implica lo studio di vari fattori di rischio, che lasciano presagire la possibilità di gioco problematico. In particolare, i ricercatori  parlano  di  tre  ordini  di  fattori  causali:  quelli  socio-ambientali,  neurobiologici  e individuali (Bastiani, et al., 2011; Canuzzi, 2012; Hodgins et al., 2011; Lavanco & Varveri, 2006,

2010; Shah, Potenza & Eisen, 2004).

1.8.1 Fattori socio-ambientali

All’interno di questo ambito individuiamo le caratteristiche del contesto familiare, le abitudini del gruppo dei pari, le reti, il sostegno sociale e il più vasto ambiente culturale in cui un individuo vive. Secondo i risultati di diverse ricerche, i fattori socio demografici hanno un’influenza determinante nell’insorgenza o meno del gioco problematico e/o patologico. Il GAP, infatti, sembra colpire prevalentemente, e più precocemente, le persone giovani, di sesso maschile, con un basso livello di istruzione, con un basso livello economico o disoccupati (Canuzzi, 2012). Un livello di istruzione medio-alto, in grado di fornire abilità analitiche e di ragionamento più raffinate, può agire come fattore di protezione contro la generazione di pensieri falsi e irrazionali.

La probabilità di avere un’attitudine problematica rispetto al gioco è tre volte maggiore nei maschi che nelle femmine, anche se negli ultimi anni si sta riscontrando un trend positivo che vede un cospicuo coinvolgimento delle donne nel gioco d’azzardo (Canuzzi, 2012). Maschi e femmine, tuttavia,  si  distinguerebbero  in  funzione  dell’età  in  cui  iniziano  a  giocare  (le  donne  più tardivamente) e delle motivazioni che sottendono il ricorso al gioco (le donne, infatti, tenderebbero più degli uomini, a rifugiarsi nel gioco per evadere dalla routine quotidiana e per fuggire alla noia). La  progressione  del  disturbo  risulta,  pertanto,  due  volte  più  veloce  nelle  donne.  Un’ultima differenza risiede nei tipi di gioco d’azzardo che uomini e donne preferiscono: le donne, infatti, diversamente dalla loro controparte maschile, prediligono giochi in cui sono minori l’interazione e la competizione, come le slot machines, i videopoker e i Gratta e Vinci (Guerreschi, 2007). Costituisce un fattore di rischio ambientale anche la presenza o meno in famiglia di giocatori problematici o patologici. Infatti, con ogni probabilità, gli individui i cui genitori hanno avuto problemi di gioco, possono andare incontro maggiormente all’acquisizione di un comportamento maladattivo di gioco. Appartenere a e frequentare un gruppo di giocatori innescherebbe, pertanto, un  circolo  vizioso  fatto  di  comprensione  reciproca,  di  aiuto  e  di  supporto,  che  creano  il convincimento di essere parte integrante di un mondo magico, costituito da pochi eletti e in cui è possibile rifugiarsi per trovare protezione dalla propria fragilità. Anche il valore attribuito al denaro all’interno del nucleo familiare, quindi il modo in cui sono vissuti gli aspetti materiali e finanziari della vita, è una condizione predisponente al gioco d’azzardo patologico. Modelli educativi che enfatizzano la possibilità di guadagnare soldi in modo facile e veloce, che considerano il denaro una preziosissima possibilità di felicità, portano a concepire il gioco d’azzardo come l’unica soluzione disponibile per raggiungere tali obiettivi o per fronteggiare una situazione economica difficile.

Si  individuano,  tra  le  variabili  socio  demografiche,  anche  la  morte  di  un  genitore,  la  loro separazione o il loro divorzio e l’iniziazione al gioco in età adolescenziale. A questi, si aggiungono variabili come la frequenza delle giocate, il tempo dedicato all’attività di gioco, la scelta di scommettere da soli o in compagnia e la somma di denaro investita nelle scommesse (Lavanco, 2006; La Barbera & Matinella, 2010).

Un altro fattore di notevole importanza riguarda l’estrema facilità con la quale è oggi possibile accedere alle svariate occasioni di gioco: non è richiesto il pagamento di alcun biglietto di ingresso, né la presentazione di un documento di identità e, addirittura, per i casinò on-line si può disporre di un bonus iniziale con il quale iniziare a giocare.

Questi  dati  riguardanti i  fattori  di  rischio  sono  sostenuti  anche  da  numerosi  importanti  studi (Bastiani et al., 2011; Black, Shaw, McCormick & Allen, 2012; Hodgins et al., 2012). Da quello recente di Hodgins e colleghi (2012), emerge che gli individui più intelligenti, più vecchi e più religiosi sono meno a rischio di diventare giocatori patologici, mentre è più probabile che individui

maschi, single, che hanno iniziato a giocare in giovane età e che sono inseriti in un ambiente dove si pratica il gioco d’azzardo, tendono più frequentemente a diventare dei giocatori problematici (Hodgins, Schopflocher, Martin, El-Guebaly, Casey, Currie, et al. (2012). Simili risultati sono stati ottenuti dallo studio di Bastiani e colleghi (2011), che dimostra come la categoria più a rischio sia rappresentata da coloro che hanno un’istruzione minore, sono dipendenti da sostanze o nicotina e approvano la pratica del gioco d’azzardo (Bastiani et al., 2011). Sono, inoltre, più a rischio coloro che hanno avuto comportamenti sessuali pericolosi per la salute o chi ha avuto esperienze di risse o problemi legali. Infatti, nonostante sia complicata da descrivere, esiste un’associazione tra gioco d’azzardo, crimine e reati legati al gioco, quali assegni scoperti, furto e appropriazione indebita (Canuzzi, 2012).

Anche la qualità dell’ambiente familiare è importante: come evidenzia lo studio di Black e collaboratori (2012), è più probabile che i giocatori patologici siano divorziati, vivano da soli e abbiano subito esperienze di maltrattamento nell’infanzia. Essi riportano, inoltre, una disfunzione a livello di coesione, organizzazione e di conflitto familiare significativamente maggiore rispetto ai controlli (Black, Shaw, McCormick & Allen, 2012). In un altro studio è stata trovata anche una correlazione tra livelli di GAP e stress quotidiano (Elman, Tschibelu & Borsook, 2010). Anche la società può esercitare un fondamentale condizionamento sul soggetto, sia attraverso la scarsità di regole, di leggi di controllo e di deterrenza, sia attraverso un’alta pressione pubblicitaria che enfatizza e incentiva il gioco d’azzardo, rendendolo, così, un fenomeno altamente accettato e tollerato.

1.8.2 Fattori neurobiologici

Il   comportamento   di   gioco   d’azzardo   patologico   sarebbe   riconducibile   anche   a   fattori neurobiologici. In particolare, le disfunzioni coinvolgerebbero i sistemi di produzione, alterazione e rilascio di neurotrasmettitori come la serotonina, la dopamina e la noradrenalina (Serpelloni & Rimondo, 2012).

La serotonina, che ha un ruolo fondamentale nell’iniziazione e nella disinibizione comportamentale, se presente in quantità troppo basse, risulta correlata a livelli elevati di impulsività, alla ricerca di sensazioni forti e ai Disturbi del controllo degli impulsi (Shah, Potenza & Eisen, 2004).

Si ritiene che anche il sistema di produzione, alterazione e rilascio della noradrenalina, considerato alla base della sollecitazione, dell’eccitazione e della ricerca di sensazioni forti, possa essere implicato nel gioco d’azzardo patologico. Si è registrata, infatti, una maggiore concentrazione di noradrenalina nelle urine e nel sangue dei giocatori patologici, nonché un aumento della frequenza cardiaca rispetto ai soggetti di controllo (Brunori, Cippitelli, Serpelloni & Ciccocioppo, 2012; Shah, Potenza & Eisen, 2004).

Il sistema di alterazione, produzione e rilascio di dopamina, considerato alla base dei meccanismi di ricompensa e rinforzo, è implicato nella patologia del gioco d’azzardo patologico. Esso è coinvolto anche nei livelli di attivazione, di attenzione e di arousal. Koepp e colleghi (1998) hanno registrato un aumentato rilascio di dopamina nel nucleo striato di soggetti maschi che stavano giocando per denaro al video gioco Tank. Il gioco d’azzardo è inoltre in grado di stimolare il rilascio di dopamina e, ripetute esperienze di gioco, possono sensibilizzare i neuroni, facilitandone l’attivazione anche di fronte a stimoli connessi solo in maniera indiretta al gioco d’azzardo, come la vista di oggetti o luoghi associati ad esso (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010). Studi in ambito neurologico hanno trovato, poi, un’alterazione nei meccanismi di regolazione del rilascio di dopamina nel nucleo accumbens: nei soggetti con disturbo da dipendenza l’incremento dopaminergico determinato dalle sostanze è più rapido e consistente rispetto a stimoli fisiologici come il cibo o il denaro. Questo spiegherebbe perché gli stimoli naturali non sono sufficienti a elargire piacere e soddisfazione, determinando una condizione di disforia tale da ricorrere a sostanze o comportamenti in grado di attivare questi circuiti in maniera più intensa (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010). I sistemi dopaminergici (nucleo accumbens e area ventrotegmentale) fanno parte del cosiddetto sistema di reward (ricompensa). Nel caso del gioco d’azzardo il funzionamento anomalo del sistema di neurotrasmissione relativo al “processo di gratificazione” si manifesta con un’alterata sensibilità alla ricompensa da vincita e alla perdita.

I soggetti dipendenti dal gioco d’azzardo percepiscono e apprezzano maggiormente, in termini di gratificazione prodotta, gli stimoli derivanti dal gioco d’azzardo rispetto alla popolazione normale; in questi giocatori vi è inoltre, una più rapida risoluzione della soddisfazione da ricompensa e, contemporaneamente, un’elevata riduzione della durata della soddisfazione stessa: questo spiegherebbe la successiva ricerca di nuovi e ripetuti stimoli nei giocatori d’azzardo. In più, è stato visto che i giocatori patologici mostrano livelli di dopamina maggiori già durante l’anticipazione e l’attesa della ricompensa, ma questa gratificazione è minore in caso di vincita. La perdita al gioco produce inoltre un minor abbassamento dei livelli di ricompensa rispetto ai soggetti normali che, in caso di perdita, vengono disincentivati dal gioco (Serpelloni & Rimondo, 2012). La presenza dell’allele D2A1 del gene recettore della dopamina D2 nei giocatori patologici è stato associato, pertanto, alla riduzione della densità dei recettori della dopamina e alla disfunzionalità del sistema dopaminergico  della  ricompensa,  che  porterebbe  il  soggetto  a  ricercare  attività  sempre  più stimolanti, per raggiungere il piacere desiderato (Blaszczynski & Nower, 2001; Brunori, Cippitelli, Serpelloni & Ciccocioppo, 2012 ).

Da uno studio condotto con imaging a risonanza magnetica (MRI), è emerso che, mentre giocano, i soggetti dipendenti dal gioco d’azzardo mostrano una diminuzione dell’attività della corteccia prefrontale, un’area cerebrale coinvolta nei processi decisionali e nel controllo degli impulsi: questo

sbilanciamento è la ragione per cui i giocatori problematici continuerebbero il gioco in maniera compulsiva (Brunori, Cippitelli, Serpelloni & Ciccocioppo, 2012; Shah, Potenza & Eisen, 2004). Molteplici studi,  inoltre,  hanno  registrato aumenti  della  pressione sanguigna e  incrementi nel rilascio di cortisolo durante la pratica del gioco d’azzardo (Shah, Potenza & Eisen, 2004). Altre ricerche hanno altresì evidenziato che la specializzazione emisferica nei giocatori d’azzardo è più bassa rispetto ai non giocatori e vi è anche la possibilità che il gioco d’azzardo possa essere determinato da compromissioni neurologiche prevalentemente a danno del lobo frontale (Lavanco & Varveri, 2006).

1.8.3 Fattori di rischio insiti nella struttura dei giochi

Ulteriori fattori di rischio per l’insorgenza di forme di GAP possono trascendere il soggetto e risiedere in alcuni elementi strutturali dei giochi stessi che li rendono potenzialmente pericolosi, date  le  loro  caratteristiche  di  maggiore  additività,  come  la  velocità  di  gioco,  la  velocità  di pagamento, luci, suoni e colori (Filippi & Breveglieri, 2010).

Velocità di gioco: certi giochi, come le slot machines, offrono la possibilità di giocare nel qui ed ora e non è presente un intervallo di tempo che deve necessariamente trascorrere tra una giocata e quella successiva. A ciò, si aggiunge l’immediatezza dell’esito della sessione di gioco, dato che non bisogna aspettare il giorno dell’estrazione, come nel caso del Lotto, o la fine della partita sulla quale si è scommesso. Al contrario, si conosce immediatamente il risultato della propria giocata e il momento in cui si esperisce la vincita o la perdita è tanto breve da non lasciare al giocatore il tempo di riflettere e di percepire la dimensione delle perdite che si stanno subendo: egli cerca di rimuovere l’evento negativo tramite una nuova giocata o, nel caso di vincita, decide di reinvestire il denaro in un’altra sessione di gioco. Giochi molto rapidi, dove il soggetto è sollecitato a rigiocare nell’immediato, aumentano quindi il rischio di creare dipendenza.

Velocità di pagamento: istantaneamente è possibile avere a disposizione la potenziale vincita in denaro, che viene poi spesso reinvestita in una nuova sessione. Questo processo favorisce il fenomeno della rincorsa alle perdite, che rappresenta uno degli elementi di maggior rischio per lo sviluppo di una dipendenza patologica e per lo sviluppo di conseguenze più severe legate al gioco. La rincorsa alle perdite può essere, infatti, la causa di maggiore dispendio di denaro o di furti per reperire i soldi necessari per giocare di nuovo (Lavanco, 2001).

Luci, colori e suoni: sono appositamente studiati per rilassare ed eccitare il soggetto, per invogliarlo a giocare, oltre che per creare familiarità con la slot machine. La presenza insistente delle luci e la loro rapida intermittenza, insieme a combinazioni di colori diversi, sempre molto brillanti (tra i quali prevale il rosso), fungono da seducenti attrattori. Inoltre, in tema di attrattività, è necessario sottolineare l’importanza della dimensione tattile: toccare la slot machine e schiacciarne i tasti,

sembra creare nel giocatore una familiarità con l’apparecchio, promuovendo un rapporto quasi di confidenza,   fiducia   e   di   abitudinarietà.  Prove   dell’importanza  delle   peculiarità  strutturali provengono da uno studio di Linnet svolto nel 2010: cambiamenti nelle caratteristiche riguardanti la velocità di gioco, producevano altrettanti cambiamenti nel desiderio di giocare ancora e nel tempo trascorso a giocare alle slot machines (Linnet, Thomsen, Moller & Callesen, 2010). In generale, tutti i dispositivi elettronici vengono chiamati il crack e la cocaina del mondo del gioco d’azzardo, proprio per questo loro maggiore potenziale additivo. La dipendenza dalle slot machines ha, infatti, un decorso estremamente rapido (meno di 3 anni) rispetto alla dipendenza da altri tipi di giochi (10/15 anni). Tale dipendenza non è determinata dall’entità della scommessa, quanto dall’automatismo gioco-rinforzo immediato che si crea a causa delle caratteristiche strutturali precedentemente esplorate (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010). E’ interessante notare come nei locali il volume degli effetti sonori emessi dagli apparecchi è decisamente basso: non a caso, solo i momenti delle vincite risultano facilmente udibili. Anche la struttura dei casinò e delle sale giochi contribuiscono allo sviluppo della dipendenza: essi sono ambienti chiusi, bui, senza finestre né orologi alle pareti; luoghi senza tempo, dove, attraverso l’abolizione di ogni riferimento esterno, scompare la percezione del tempo cronologico e del tempo naturale. Questo, insieme alla presenza di enormi spazi architettonici, conduce alla perdita di contatto con la realtà, produce un effetto di disorientamento che rende le persone più vulnerabili, deboli e maggiormente disinibite nel consumo e nel gioco (Zerbetto, 2010).

1.8.4 Fattori individuali

Le cause dell’abitudine al gioco d’azzardo riguardano non solo la storia personale del soggetto, le sue esperienze di vita ma anche le sue caratteristiche di personalità. Tra quelle più esplorate in letteratura si riscontrano la sensation seeking, il risk taking, la brama di successo, l’autostima e il locus of control (Lavanco & Varveri, 2006, 2010; Lavanco, 2001).

Con  il  termine  sensation  seeking  si  intende  la  ricerca  di  sensazioni  forti,  del  brivido, dell’eccitazione estrema: i giocatori, spinti dall’amore e dall’insaziabile desiderio di provare esperienze nuove ed eccitanti, ricorrerebbero al gioco per soddisfare queste loro esigenze. In particolare, secondo Zuckerman (1983), ciò che produce in loro forti eccitazioni, sia durante l’attesa del risultato, sia in seguito alla stimolazione della vincita, sarebbe proprio il rischio di perdere. Tuttavia, come l’autore stesso suggerisce, non tutti i giocatori d’azzardo ricercano sensazioni forti e non tutti i giochi forniscono lo stesso tipo di sensazioni. Sembra, infatti, che giochi come il Bingo o le slot machines non diano lo stesso livello di eccitazione di giochi come il poker o le corse di cavalli, che vengono scelti, adottando i criteri di classificazione di Guerreschi, dai cosiddetti “giocatori d’azione”.

Dallo studio di McDaniel e Zuckerman, risulta che la caratteristica della sensation seeking varia a seconda dei giochi considerati, confermando quanto detto sopra; sembra essere, inoltre, più accentuata nei maschi rispetto alle femmine e declina significativamente con l’aumento dell’età, raggiungendo comunque un picco intorno ai vent’anni. La sensation seeking risulta correlata anche con alti livelli di impulsività; in più, sempre in questo studio, alti livelli di sensation seeking sono correlati con il maggior interesse e con la maggiore partecipazione nelle attività di gioco d’azzardo (McDaniel & Zuckerman, 2003). Coloro che riportano punteggi elevati nell’Impulsive Sensation Seeking Scale continuano a giocare di più rispetto agli altri, nonostante l’aumento delle perdite (Zuckerman, 2005). Anche nello studio di Bonnaire et al., (2007), i giocatori patologici che scommettono agli ippodromi, si differenziano da quelli sociali in base ai livelli di sensation seeking. Tuttavia  questa  non  correla  con  il  numero  di  giochi  cui  sono  dediti  (Bonnaire, Varescon  & Bungener, 2007).

Un altro processo psicologico implicato nei meccanismi del gioco d’azzardo è l’atteggiamento verso il rischio, il cosiddetto risk taking, letteralmente “assunzione di rischio”, che si evidenzia maggiormente se c’è familiarità dell’individuo con il gioco (Mishra, Lalumière & Williams, 2010). Da  alcuni  studi,  emerge  che  i  comportamenti  di  sensation  seeking  e  risk  taking  riescono  a discriminare i giocatori problematici/patologici da quelli sociali, suddivisi in funzione dei risultati del SOGS. In modo del tutto speculare, l’evitamento del pericolo (harm avoidance), che può essere definito come la tendenza a fuggire dagli stimoli eversivi, è risultato significativamente più basso nei giocatori patologici (Lavanco & Varveri, 2006). Il gioco d’azzardo patologico è da considerarsi, secondo   alcuni   autori,   l’espressione  di   una   più   generale  propensione  al   risk   taking:   il comportamento di gambling sembra, infatti, essere associato alla propensione e una certa attitudine al rischio (Mishra, Lalumière & Williams, 2010).

Un  altro  costrutto  utile  per  spiegare il  comportamento dei  giocatori è  quello  della  brama  di successo, costrutto che trae origine dalla teoria della personalità di Murray (1938). Sembra che i soggetti con un forte bisogno di successo preferiscano scommesse dall’esito più incerto o forme di gioco d’azzardo che coinvolgano il fattore abilità (Lavanco, 2001). Il gioco d’azzardo viene a configurarsi con questi presupposti, come un’attività ludica funzionale alla soddisfazione di alcuni basilari bisogni umani (Kusyzsyn,1984).

Il livello di autostima sembrerebbe avere un ruolo determinante sul comportamento di gioco. Tuttavia, non è stato ancora chiarito se la bassa autostima sia causa della dipendenza dal gioco o sia invece una conseguenza delle ingenti perdite in campo economico, personale e sociale. La depressione e gli stati ansiosi associati al gioco problematico o patologico sembrano contribuire a impoverire proprio la stima in se stessi, oltre che danneggiare la capacità di mettere in atto strategie di coping funzionali (Lavanco & Varveri, 2006) .

Il costrutto di locus of control, introdotto nel 1960 da Rotter, si riferisce al sistema di aspettative e credenze di una persona circa il controllo della propria vita, cioè il grado in cui gli individui credono  di  poter  esercitare  un  controllo  sulle  azioni  e  sugli  eventi  della  vita  (Meyer  de Standelhofen, Aufrère, Besson, & Rossier, 2008).

I risultati derivanti dagli studi sul locus of control dei giocatori patologici, tuttavia, non sono unanimi: a fronte di studi che rilevano una correlazione con un locus of control interno, ce ne sono altri in letteratura che documentano, al contrario, un’associazione con quello esterno (Lavanco,

2001; Zhou, Tang, Sun, Huang, Rao, Liang et al., 2012). Questi risultati indicano che, né il locus of control interno né quello esterno, possono interamente spiegare il comportamento disfunzionale di gioco (Zhou, Tang, Sun, Huang, Rao, Liang et al., 2012). Una spiegazione a queste conclusioni divergenti, chiamerebbe in causa le diverse tipologie di gioco d’azzardo: i giochi di fortuna attirerebbero gli esterni, mentre i giochi di abilità sembrerebbero aver maggior successo tra gli interni. Tuttavia, sia gli “esterni” che gli “interni” cercano di controllare la situazione di gioco, ma questa percezione illusoria è maggiore tra gli interni, dal momento che il soggetto con questa tendenza attribuzionale preferisce credere che l’esito del gioco sia governato dalla sua abilità, anche quando, invece, è governato dal caso (Lavanco, 2001). Le strategie utilizzate dai due gruppi per esercitare il controllo sono sostanzialmente diverse: mentre gli esterni mostrano un approccio attivo alla situazione, gli interni attuano una modalità di controllo di tipo passivo. I primi, infatti, credono che loro stessi sono in grado di scegliere dei numeri che con maggiore probabilità usciranno in una lotteria; negli interni, invece, l’illusione di controllo si manifesta nel ritenere che il biglietto che è stato loro assegnato ha più probabilità di essere estratto (Cowley, Farrell & Edwardson, 2006).

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