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Hans Sahl e l’esilio-rigattiere

di Andrea Galgano 31 gennaio 2015

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l’articolo sul sito di Del Vecchio editore

hans-sahlLa poesia di Hans Sahl (1902-1993) si appropria della rada percossa dell’esilio, come stato di coscienza, come pulviscolo estraneo e come biografia limpida.
Come ebreo e come oppositore di Hitler, Sahl lasciò la Germania, passando per Praga, Zurigo, Parigi, dove visse fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Rimase poi in due campi di internamento francesi, dai quali riuscì a fuggire, (condividendo la drammatica esperienza con Walter Benjamin), patendo «sulla sua carne la labilità dell’esistenza, l’orrore della guerra e la minaccia incalzante della deportazione, prima di raggiungere il porto di Marsiglia, dal quale riuscì infine a salpare in direzione degli Stati Uniti, dove rimase anche dopo la conclusione della guerra (in patria l’esule ritornò solo nel 1989). L’esilio, pertanto, dà l’abbrivo all’apprendistato letterario dell’autore, segnalandosi come autentico Leitmotiv della sua produzione poetica e narrativa, non perdendo mai lo smalto dell’attualità anche nella produzione più tarda, quando assurgerà a conditio umana per eccellenza» (Nadia Centorbi).
L’estemporaneità fugace del tempo che varia l’esilio, lo modella, lo istoria in una scena spoglia e vivente, raccoglie immediatezza e deriva, soggette alla dilazione del tempo, condensandosi «nell’assertività ontologica dell’ «io accado», «io sono un evento» («Scrivere poesie – ovvero quel che ancora ne è rimasto»), onde una poetica fondata sull’assunto morale dell’hic et nunc, al quale si abbarbica l’esule disorientato, sopravvissuto a eventi epocali, che ne hanno minato, ma non annientato, la fede nel futuro della sua specie» (Nadia Centorbi).
La disorientata sonorità del tempo e la sfiancata rabbia sospendono identità e dispersione, attestano il problema-esilio in una spirale estranea che permane limpida, che intarsia il potere enunciabile della testimonianza come avvento e ricordo, e travagliata materia vissuta.
Comprendere Sahl, pertanto, significa fare i conti con un dramma lacerato e condiviso, in una memorialità precaria, e altresì, scompaginare l’uomo per riappropriarsene, articolando la promessa identitaria che guarda gli scenari in cui ha vissuto: dalle città europee fino alla New York notturna e all’accorata Marsiglia, come sospesa invasione di sguardo: « Alberi nel porto / navi in sosta, / uomini addormentati / sotto gli alberi delle navi, / passaggio di gabbiani, / vele sospese, / nebbia mattutina / sopra il porto. / Svanirono le stelle / al nostro incontro, / tra gli alberi delle navi / impallidì la luna» (Marsiglia II)».
L’isolamento non solo celebra l’altrove ma compone la trama dell’ “esilio nell’esilio”, finendo per coincidere con il limite delle utopie e delle ideologie e capace di connotare la tormentata visione del mondo, caricandola di forte tensione simbolica. Il coraggio di far fronte a una dura compiutezza e ad una magmatica contraddittorietà:

«La storia della mia generazione è la storia dell’ascesa e della caduta di un’idea che si rivelò utopica. Il sogno di una società senza classi, che animò il pensiero e l’azione di noi giovani, si tramutò in incubo non appena la realtà del comunismo entrò in disaccordo con la sua idea. La storia dell’esilio fu anche e soprattutto la storia di una questione di coscienza, che ciascuno dovette risolvere per suo conto e che implicava la domanda se si potesse ancora trovare un principio di identificazione o anche solo collaborare con un partito che era pronto a denunciare ogni autocritica come tradimento della lotta comune contro il nemico politico Adolf Hitler. Quanto coraggio ci voleva, quanto dominio di sé, per prendere le distanze da uomini con i quali insieme si lottava, si divideva la fame, si lavorava, si amava, si soffriva, e per dire loro che non si approvava più la loro politica, e col rischio di essere da loro evitato o addirittura perseguitato, dire no e farlo in esilio».

L’annotazione fugace si rinviene nella sua prima raccolta Le chiare notti. Poesie dalla Francia (1942), pubblicato in America, laddove, le liriche vengono sillabate e cadenzate da una memoria di diario, in cui ogni verso pare svelarsi nell’assoluta immediatezza, come reale strumento di conoscenza umana e poetica, e come annota Ottavio Rossani, «con una ricerca stilistica e ritmica legata alla tradizione tedesca. L’uso di rime, e spesso anche del sonetto, dimostra che la sua tensione esistenziale contingente entrava dentro la necessità di dare un ordine al caos in cui la realtà l’aveva gettato. Le raccolte successive […] abbandonano questo controllo estetico, per cui Sahl si lancia in una totale libertà espressiva. I versi non sono più controllati, ma in compenso sono più asciutti, più essenziali, spesso anche scabri e in qualche misura sbrigativi. I temi sono in fondo sempre gli stessi: l’estraneità che diventa una forma di vita; il poeta confessa che non può sentirsi in patria ormai da nessuna parte, ma che si sente estraneo dovunque si trovi. La scelta dell’esilio è ponderata e avventurosa nello stesso tempo».
La piena corrispondenza della sua geografia biografica combacia perfettamente con l’immagine poetica, attraverso il profumo della ricerca della verità, attraverso la piena descrizione diretta che non ammette cesure o cancellazioni, e in cui la pienezza del dramma esule (e degli esuli) compie la sua vertigine «in scomparti di treni […] / oceani solcando e in sale d’attesa»: «S’è pur così fugace come noi siamo stati, / noi scacciati ovunque di Paese in Paese, / per lui però, che è privo d’altri certificati, / la sua sola carta fino ad oggi rimase».
Scrive Giuseppe Moscati:

«Sahl veste piuttosto agevolmente i panni dell’esili(at)o, respira e inspira profondamente l’esilio fino a fare della sua condizione forzosa di sfrattato dalla propria terra una libera e piena scelta esistenziale. Una scelta di crescita, indubbiamente. Tanto che proverei a definire quello di Hans Sahl come un «esilio evolutivo». Certo, non si può negare che sia stata per lui un’esperienza drammatica, dolorosa, lacerante anzi come testimonia ogni sua pagina, e tuttavia è anche vero che la sua estetica, la maturazione della sua coscienza politica e culturale (un unicum), la sua concezione del mondo, il suo stesso grado di conoscenza degli uomini e delle donne hanno trovato proprio nell’esilio la loro prima energia propulsiva. Attraverso il filtro dell’esilio Sahl rivede e risente gli orrori di cui è stato diretto testimone; ripercorre le strade accidentate della sua esistenza offesa, non da ultimo dagli stenti patiti da vittima di due campi di prigionia in Francia, portando avanti una sorta di “gioco serio” con la memoria; rilegge il rapporto con amici e intellettuali e si confronta con la realtà politica e culturale del suo Novecento, sempre da esule volontario facendo ritorno nella sua Germania solo nel 1989».

Ogni verso sembra scampato e strappato. Ogni prolusione umana scorre in una sismografia di immagini diverse, «riflessioni e ammonimenti che il poeta rivolge a se stesso quasi per prendere atto di un destino sempre più oscuro nelle sue manifestazioni» (N. Centorbi).
La consistenza esistenziale raccoglie sentenze dilacerate, disorientamenti di sguardo e dimenticanze notturne in cui la nostalgia precaria delucida lo scampo della parola effimera: «Il cuore non legare a quel che è già perduto, / non merita l’amore quel che a fuggir costrinse, / delle immagini scorda il notturno assalto, / dimentica la mano che nel vuoto ti spinse, / e a quella falsa eco non prestare ascolto, / che dal mondo di ieri fino a te rintocca. / Il cuore non legare a quel che è già perduto. / Proteggiti finchè la tua ora non scocca» (Sentenza).
Il paesaggio ricco e fastoso si accompagna alla scia della chiarità, alla consumazione, all’apocalisse rilasciata, all’uomo che «porterà le tue cose alla stazione» che «è già sulla porta e aspetta».
È il tempo che ruba forma al caos e la rima alle rime, che raggiunge il suo apice di sovvertimento, e che «scandisce in sillabe la danza della morte a cuor sereno», laddove però la parola si scarnifica, appropriandosi della sua chiarezza pulita: «Dal tempo e dalla sua rima mi sono estraniato, / il tempo la mia rima mi ha rubato. / Dove i mondi crollano e s’annientano popolazioni, / per addensarsi in rima la parola non ha più occasioni. / Mettere in canto l’orrore non è forse azzardato / strappare a ciò che non ha rima qualcosa di rimato, / per chi ancora le parole possiede nella parola cacciar di frodo / per illustrare la carie ossea della lingua trovare il modo, / e dove tutte le parole vengono meno, / scandire in sillabe la danza della morte a cuor sereno» (De profundis) o ancora: «In questo posto più non dovresti stare, / nell’erba l’ultima cicca s’è già spenta, / tra le baracche notturne il ratto s’avventa, / la guerra è già prossima – via dobbiamo andare» (Poesia dal campo).
La chiarità (delle notti di luna, del paesaggio che erompe) diviene il manifesto della fuga che individua città e irrompe brutalmente come massacro: «Perché senza le chiare notti in fondo / non ci sarebbe alcun finimondo / e vicino alla casa cadrebbero le bombe / e la pioggia spegnerebbe le vampe. / perciò abbi paura delle chiari notti a maggio, / quando spuntano i lillà e la luna col suo raggio, / e con la moglie e figli altrove andate / finchè le chiare notti non siano passate».
Le associazioni di Sahl salvano il magma poetico dal suo rotto grido, dal pianto ineluttabile, dal divampo di guerra e devastazione, ma implorano, allo stesso tempo, la meta salva dell’io, la vittoria sulla morte, dove la precarietà disagiata dell’istante registra la sorte e ripiegandosi si dilata in immagini febbrili e vorticose, come nature stravolte di oggetti sparsi: «No, devi riconoscere / che non ci si è dimenticati di te. / Ieri sono arrivate per te due lettere d’oltreoceano / e la paglia, sulla quale sei sdraiato, / è stata cambiata ed è pulita. / Molti pensano a te. / Questa settimana, così si dice, / la commissione esaminerà / il tuo caso. / Si dimostrerà / che sei un amico di questo Paese».
Scrive Nadia Centorbi:

«la centralità dell’io sembra dissolversi nella coralità di un soggetto lirico polimorfo, in quel noi che scandisce ossessivamente la sequenza lirica. Attraverso il noi il destino individuale del poeta si identifica con il destino di molti altri esuli incontrati, incrociati o semplicemente presenti nella schiera di quanti furono segnati dall’esperienza della fuga dalla patria. Con ciò, il poeta suggerisce che nell’esperienza dell’esilio, che egli ha condiviso con migliaia di altri profughi, non esiste un destino d’eccezione che possa valere su tutti gli altri come modello emblematico: tutti gli esuli, al di là delle diverse peculiarità che ne scandirono le rotte, costituiscono un unico coro, condividendo omogeneamente le stesse difficoltà, lo stesso martirio della persecuzione, della fuga nonché del disorientamento derivato da un’esistenza irreparabilmente stravolta. A differenza delle poesie del primo ciclo poetico, nei componimenti più tardi Sahl non cede alla malia di centralizzare la sua personale esperienza di esule e perseguitato. All’estemporaneità dei versi della fuga subentra la responsabilità morale di preservare una “memoria dell’esilio” che attecchisce, appunto, nella coralità del noi […]».

Come egli stesso scrive, dalla luce improvvisa e radente di Marsiglia: «Noi non viviamo, noi non moriamo, noi attendiamo, / noi facciamo a gara con la morte a chi arriva per primo, / noi tutti sappiamo che dobbiamo aspettare, / noi siamo già morti, ma ancora non lo sappiamo, / e giochiamo coi sentimenti come si gioca a palla, / noi ci facciamo derubare dal primo cretino / e prenotiamo posti su navi che non esistono, / noi abbiamo compreso già da tempo il nostro destino / e non moriamo».
È la lingua che porge il fianco alla testimonianza ma non si imbarbarisce, non proclama avversione o rabbia («il tuo cuore sentirà di nuovo, / un sole riscalderà te e un volto conosciuto»), ma celebra la propria dignità («Dal sangue scorso in tempi passati / qui è sbocciata rarissima vite»), il proprio resoconto oggettuale e il proprio sguardo, la propria speranza e il proprio spasmo d’attesa: «nell’hotel in cui alloggio / è già passato qualche grande spirito, / uomini ubriachi fanno chiasso sulle scale, / la polizia arriva di solito verso le sette, / e la vecchia sta china sui suoi libri / verifica i conti ed enumera le macchie sulle lenzuola / qui nell’hotel in cui crepo».
Le sue successive raccolte Noi siamo gli ultimi (1976) e Noi siamo gli ultimi. La talpa (1991) la nota dell’esilio abbraccia la Storia, incontra nuovamente i volti di un tempo spezzato, riflette l’oscillamento di uno sbigottimento estraneo, come aveva già scritto in Le croci di legno, «sbigottito dal senso di colpa / d’esistere ancora e strepitando, chiacchierando, masticando / vivere la proroga».
La rotta di Sahl permane nel suo taccuino non bruciato, proclama dispersione e smarrimento perseguitato, insegue similitudini di lontananze («Noi più lontani delle innumeri stelle / ci estendemmo fino a orbite planetarie […]» Forse da qualche parte / in un luogo inaccessibile / un’orma ancora, uno strato d’erba / testimonia le tracce di chi passò da qui / e i vostri canti intonò), invita all’interrogazione ultima e reduce: «Noi siamo gli ultimi. / Interrogateci. / Noi siamo competenti. / Noi portiamo in giro lo schedario / con le cartelle segnaletiche dei nostri amici / appeso al collo come la cassetta degli ambulanti. / Istituti di ricerca fanno domanda / per ottenere degli scomparsi gli scontrini della tintoria, / musei custodiscono le parole della nostra agonia
come reliquie sottovetro. / Noi, che sprecammo il nostro tempo / per motivi comprensibili, siamo diventati i rigattieri dell’incomprensibile. / Il nostro destino è un monumento sotto tutela. Il nostro cliente migliore / è la cattiva coscienza della posterità. / Prendete, servitevi. / Noi siamo gli ultimi. / Interrogateci. / Noi siamo competenti. (1973)» e infine si confronta con la signature precisa e logora delle tracce come stimmate e ritardo di baveri: «Così compariamo davanti a voi, / con il sorriso che da noi / vi aspettate, col basco disinvolto / sull’orecchio o la yarmulke, / incidendo con il pollice / le stazioni dell’esilio / sull’ormai logora carta geografica, / unendo precisione a poesia, / infondendo vita ai resti / prima che essi ci sfuggano via nella corrente / della risciacquatura del ricordo, / senza lasciar traccia e arrivederci per sempre».
Il valore dialogico e umanistico di ogni atto di scrittura è il memorandum per attestarsi nella profonda dignità umana, per consegnarsi a un tempo vasto e irriducibile, al respiro dell’ essere uomini contro ogni devastazione e rimozione, pur sopraffatto dalla sproporzione e dalla povertà di essere vivi, per lasciare il campo cantando: «Un uomo, che alcuni ritenevano / saggio, dichiarò che dopo Auschwitz / non fosse più possibile alcuna poesia. / Sembra che delle poesie / l’uomo saggio non abbia avuto / alta considerazione – / quasi che queste servissero a consolare / l’anima di sensibili contabili / o fossero vetri intarsiati / attraverso i quali si guarda il mondo. Noi crediamo che le poesie / siano ridiventate possibili / ora più che mai, per la semplice ragione che / solo in poesia si può esprimere / ciò che altrimenti sarebbe superiore a ogni descrizione».
L’esito di una nitidezza spoglia è effimerità profuga («La lirica nella nostra epoca / può essere solo effimera. / Comunicazione con la condizionale»), volto, città amata, patria-sorella, amore vissuto e rivissuto e ricordo purificato.
Essere cristallo nella lavina, sottrarsi alla fugacità feroce del tempo, partecipare al dramma dell’umano, significa, per Sahl, germinare nel suolo sottaciuto e «nella conchiglia dell’albero, / sui rami del sogno», racchiudere la linfa della lingua nell’«abbacinante / chiarore / del non ancora» e vivere un passaggio «dal regno del divenire / in quello del divenuto».
Ma non canta la fine né l’oscurità forte dell’oblio. Lo testimoniano le magnetiche poesie americane, dove New York appare fulgida e splendente in tutte le sue meravigliose contraddizioni.
Nella sua feritoia ferita, Sahl pone il suo rifiuto, come impossibile riducibilità dell’uomo e rimozione, come miseria di odio e di peccato. Lentamente egli esce dal mondo in silenzio, «verso un paesaggio al di là di ogni lontananza / e ciò che fui e sono e ciò che resto / se ne va con me senza impazienza e senza fretta / verso un Paese non ancora battuto. / Lentamente esco dal tempo / verso un futuro al di là di ogni stella, / e ciò che fui e sono e sempre resterò, / se ne va con me senza impazienza e senza fretta / come se mai fossi stato o quasi» e dinanzi alla catastrofe, rimane un ultimo e infinito grido: «Mi rifiuto di scrivere un necrologio / per l’uomo come se fosse / un incidente biologico / tra due epoche glaciali».

SAHL H., Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo, a cura di Nadia Centorbi, Del Vecchio Editore, Bracciano (Rm) 2014.
ID., Das Exil im Exil, Luchterhand, Frankfurt am Main 1990.
CENTORBI N., «Ich bin ein lebendes Memorial». Lethe e Mnemosyne nella poesia di Hans Sahl, in COTTONE M. – DOLEI G. – PERRONE CAPANO L. (a cura di), Dalla rimozione alla memoria ritrovata. La letteratura tedesca del Novecento tra esilio e migrazioni, Artemide Ed., Roma 2013, pp. 95-116.
ID., I volti dell’esilio, in «Poesia», luglio-agosto 2014.
DOLFI G., Il poeta-testimone che smentì Adorno, in “Il Manifesto”, 23 marzo 2014.
MOSCATI G., Hans Sahl. Fogli sparsi di un rigattiere dell’incomprensibile, in «Nuova Antologia» 2014.
ROSSANI O., Giornata della memoria: le poesie di Hans Sahl “Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo”, in “Corriere della sera on-line, 27 gennaio 2015 (http://poesia.corriere.it/2014/01/27/per-la-giornata-della-memoria-leggere-le-poesie-di-hans-sahl mi-rifiuto-di-scrivere-un-necrologio-per-luomo/)

L’elemento oggettivo del reato

images41YDDY8Xdi Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

                                                                                                               30 gennaio 2015

In questa pubblicazione affronteremo l’elemento oggettivo del reato.
Cos’è l’elemento oggettivo del reato? La definizione che viene data è la seguente: l’elemento oggettivo del reato è costituito dalla condotta umana, dall’evento naturale in rapporto di causalità che lega la condotta all’evento.
La condotta umana è l’azione o omissione posta in essere dal soggetto agente.
Per azione si intende qualsiasi movimento dell’uomo che determini la modifica della realtà esterna mentre per omissione il non porre in essere una determinata azione che per legge si aveva l’obbligo di compiere.
Per la sussistenza del reato occorre inoltre la sussistenza del nesso psichico intercorrente tra il soggetto attivo e l’evento lesivo. Il verificarsi di un singolo atto deve quindi necessariamente imputarsi alla volontà del soggetto agente.1
In dottrina sono state sviluppate varie teorie relative all’individuazione, certa, delle cause che hanno portato alla realizzazione della fattispecie lesiva. L’interpretazione di queste teorie hanno portato a concludere che non tutte le condizioni e gli antecedenti comportamentali che hanno preceduto l’evento possono essere considerati nesso causale tra atto e reato, solo quelle in mancanza delle quali il reato non sarebbe stato compiuto.
La teoria della conditio sine qua non, assume, infatti, che è condizione dell’evento solo quella che si può considerare necessaria e sufficiente al prodursi dell’ accadimento lesivo. In passato, gli interpreti del diritto prendevano in considerazione anche la teoria della “causalità adeguata”, asserendo che, per esserci un nesso causale, era necessario che l’azione fosse genericamente idonea a produrre l’effetto antigiuridico.2
Una recente sentenza della Corte di cassazione che ha deciso sulla calunia, ha ritenuto che ” la pacifica linea interpretativa dettata da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 17992 del 02/04/2007, dep. 10/05/2007, Rv. 236448), è necessario, perché si realizzi il dolo di calunnia, che colui che falsamente accusa un’altra persona di un reato abbia la certezza dell’innocenza dell’incolpato, in quanto l’erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata esclude l’elemento soggettivo, da ritenere integrato solo nel caso in cui sussista una esatta corrispondenza tra il momento rappresentativo (ossia, la sicura conoscenza della non colpevolezza dell’accusato) ed il momento volitivo (ossia, la intenzionalità dell’incolpazione). Si è inoltre precisato (Sez. 6, n. 29117 del 15/06/2012, dep. 18/07/2012, Rv. 253254) che la piena consapevolezza, da parte del denunciante, dell’innocenza della persona accusata è esclusa quando la supposta illiceità del fatto denunciato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi, connotati da un riconoscibile margine di serietà e tali da ingenerare concretamente la presenza di condivisibili dubbi da parte di una persona di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza (Sez. 6, n. 46205, del 06/11/2009, Rv. 245541; Sez. 6, n. 27846, del 10/06/2009, Rv. 244421; Sez. 6, n. 3964 del 06/11/2009, Rv. 245849).3

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1 Elementi del reato: elemento oggettivvo ed elemento soggettivo, in www.studiocataldi.com

2https://www.hoepli.it/editore/hoepli_file/materiali_libri/Il_reato.pdf

3 C. Cass. Pen, Sez. VI, Sentenza 12 settembre 2014, n. 37654.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE VI
SENTENZA 12 settembre 2014, n. 37654

Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 26 giugno 2013 la Corte d’appello di Messina ha confermato la sentenza emessa il 30 maggio 2007 dal Tribunale di Messina, che dichiarava F.S.A. , B.S. , S.F. , V.F. e T.P. (nelle rispettive qualità di Sindaco del Comune di (omissis) , il primo, e di Assessori comunali, tutti gli altri) responsabili del reato di calunnia in danno del responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune, I.C. , e, previa concessione delle attenuanti generiche, li condannava alla pena sospesa di anni due e mesi due di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
1.1. Secondo la ricostruzione operata dai Giudici di merito, con la delibera della Giunta municipale n. 34 del 22 gennaio 1996, trasmessa per conoscenza alla locale Procura della Repubblica, il Sindaco ed i componenti la Giunta comunale avevano accusato il geometra I. – quale responsabile dell’Ufficio tecnico comunale – del reato di omissione di atti d’ufficio rispetto agli obblighi derivanti dall’ordinanza n. 225 del 19 dicembre 1995, emessa dal Sindaco F. per fronteggiare l’emergenza dei rifiuti, sebbene essi fossero a conoscenza delle obiettive motivazioni per cui quell’Ufficio si trovava nell’assoluta impossibilità di osservare il provvedimento sindacale. L’I. , in particolare, aveva posto in essere alcune attività in esecuzione dell’ordinanza, la cui menzione era stata dolosamente omessa nella delibera trasmessa alla Procura della Repubblica, con la precisa intenzione di incolparlo del reato di cui all’art. 328 c.p..
2. Avverso la su indicata sentenza della Corte d’appello hanno proposto ricorso per cassazione i difensori di fiducia degli imputati, rispettivamente deducendo, con separati atti, i motivi di doglianza qui di seguito partitamente illustrati.
3. Nell’interesse di F.S.A. e B.S. i difensori di fiducia hanno dedotto tre motivi di ricorso, il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
3.1. Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione agli artt. 368 c.p., 192 e 530 c.p.p., 12 del D.P.R. n. 915/1982, non avendo la Corte di merito considerato che il Sindaco aveva emesso un’ordinanza contingibile ed urgente, la n. 225 del 19 dicembre 1995, avente ad oggetto la realizzazione in territorio comunale di una discarica provvisoria ai sensi dell’art. 12 del D.P.R. n. 915/1982, tenuto conto dell’imminente scadenza della proroga per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani nella discarica sita nel Comune di Malvagna, nonché dei reiterati solleciti rivolti al Comune di Giardini Naxos dalla Provincia di Messina, per la realizzazione di una discarica propria. A fronte di una situazione emergenziale sul piano della tutela della salute e dell’igiene pubblica, anche per l’oggettiva impossibilità di risolvere il problema con il ricorso alle procedure ordinarie, è risultato comprovato che l’ordinanza sindacale non costituì oggetto di puntuale esecuzione da parte dell’I. , cui era stato ordinato di provvedere, previa acquisizione del relativo preventivo di spesa, all’affidamento diretto dei lavori di realizzazione. Dagli stessi allegati alla delibera n. 34/1996, del resto, si evinceva perfettamente la netta distinzione tra lavori pubblici e servizi pubblici – tra i quali rientra lo smaltimento di r.s.u. – sì da rendere errata la giustificazione addotta dall’I. , di non poter procedere a trattativa privata per l’affidamento diretto di lavori pubblici, a fronte di un preventivo di spesa di L. 462 milioni, in quanto non prevista dall’art. 12 della L.R. n. 4/1996 in materia di opere pubbliche.
L’atipicità della situazione escludeva il ricorso alle procedure ordinarie di formazione degli atti amministrativi, in ciò risiedendo la sostanza del potere sindacale extra ordinem previsto dalla legge, con la conseguenza che la persona offesa si era posta in una condizione tale da ostacolare, in mancanza di qualsiasi giustificazione giuridica, l’operato del Sindaco e della sua Giunta, avuto altresì riguardo al contenuto della relazione a firma dell’Ufficiale sanitario, dott. Si.Ga. , che aveva individuato un sito idoneo per la realizzazione della discarica provvisoria, indicando in modo preciso i lavori da eseguire.
3.2. Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione agli artt. 368 e 42 c.p., 192 e 530 c.p.p., nonché all’art.12 del D.P.R. n. 915/1982, avendo la Corte di merito errato nel qualificare come vera e propria denuncia ai fini del reato di calunnia il contenuto della deliberazione n. 34/1996 della Giunta Municipale: deve escludersi, infatti, la presenza di una diretta incolpazione dell’I. per il reato di omissione di atti d’ufficio, atteso che il Sindaco ed i componenti della Giunta non hanno fatto altro che prendere atto della mancata attuazione dell’ordinanza sindacale n. 225/95, disponendo la trasmissione degli atti all’A.G. in merito all’eventuale ravvisabilità di ipotesi di reato a suo carico. Il pieno convincimento della legittimità dell’operato del Sindaco, inoltre, esclude che quest’ultimo ed i componenti della Giunta possano essersi psicologicamente rappresentati in termini di assoluta certezza la piena innocenza dell’I. .
3.3. Violazioni di legge ex art. 606, lett. b), c.p.p., in relazione all’art. 538 c.p.p., per quel che attiene alla conferma delle statuizioni civili della sentenza di primo grado.
4. Nell’interesse di S.F. e T.P. il difensore di fiducia ha dedotto tre motivi di ricorso, il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
4.1. Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione all’art. 368 c.p., in punto di accertamento dell’elemento oggettivo del reato di calunnia, per difetto del presupposto tipico relativo alla falsità dell’incolpazione. La delibera n. 34/1996 muoveva infatti dall’assunto che l’I. , quale responsabile dell’UTC, non aveva adempiuto all’ordinanza sindacale n. 225/1995 – emessa facendo uso dei poteri straordinari concessi dall’art. 12 del D.P.R. n. 915/82 – e, comunque, non aveva risposto all’amministrazione comunale entro il termine di giorni trenta per esporre le ragioni del ritardo, decidendo, tra l’altro, di andare in congedo ordinario dal lavoro nel periodo ivi previsto per adempiere, tenuto conto del clima di assoluta emergenza causato dalla mancata raccolta dei rifiuti e da un serio pericolo per la sanità pubblica, in mancanza di un sito ove effettuare il relativo smaltimento. Dal raffronto oggettivo delle attività poste in essere dall’I. con quanto richiesto nell’ordinanza n. 225 risulta chiaramente che egli non eseguì le prescrizioni sindacali – relative all’individuazione del sito, alla predisposizione di un preventivo di spesa, all’incarico in favore di una ditta di sua fiducia, alla predisposizione di un consuntivo e alla realizzazione della discarica provvisoria – e di tanto il Sindaco e la Giunta, preso atto dei termini già scaduti e della mancata esecuzione dell’ordinanza, vollero informare l’autorità giudiziaria.
4.2. Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione all’art. 368 c.p., in punto di accertamento dell’elemento soggettivo del reato di calunnia, poiché la Corte d’appello avrebbe dovuto tener conto del contesto di assoluta emergenza e dell’atteggiamento non collaborativo da parte dell’I. . Al riguardo, in particolare, la delibera n. 34/96 non esprimeva alcuna certezza sulla sua colpevolezza, ma si limitava ad informare l’A.G. della mancata esecuzione della precedente ordinanza affinché venissero eventualmente riscontrate ipotesi di reato, mentre le attività poste in essere dall’I. furono omesse perché ritenute irrilevanti rispetto alle prescrizioni contenute nell’ordinanza sindacale, e non per accusarlo falsamente.
4.3. Violazioni di legge in relazione agli art. 368 e 47, comma 3, c.p., non avendo la Corte d’appello correttamente considerato il rilievo difensivo secondo cui gli imputati, in ragione della qualifica da essi rivestita al momento del fatto e della situazione di emergenza nella quale operavano, hanno ritenuto di portare a conoscenza della Procura ciò che per loro era stato certamente interpretato come un illecito rifiuto in relazione all’utilizzo di uno strumento previsto dall’art. 12 del D.P.R. sopra citato, e quindi come il compimento di un reato per il quale vigeva l’obbligo d’informare l’A.G..
5. Nell’interesse di V.F. i difensori di fiducia hanno integralmente richiamato i due motivi formulati a sostegno del gravame avverso la sentenza di primo grado (ossia, la carenza dell’elemento psicologico dovuta ad errore scusabile ex art. 47, comma 3, c.p. e l’obbligo di denuncia del reato all’A.G. ai sensi dell’art. 361 c.p., data la qualifica di pubblici ufficiali rivestita dagli imputati) ed hanno altresì dedotto vizi di violazione di legge e carenze motivazionali in relazione agli artt. 368, 47, comma 3, c.p. e 12 del D.P.R. n. 915/1982, il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
La Corte d’appello, in particolare, ha erroneamente ritenuto non applicabile la disposizione di cui all’art. 12 del su citato D.P.R., laddove i tempi necessari per lo svolgimento di tutti gli adempimenti da porre in essere per indire una gara ad evidenza pubblica sarebbero stati del tutto incompatibili con l’urgenza di provvedere e non avrebbero fatto altro che aggravare ulteriormente la situazione di grave pericolo per l’igiene e la pubblica incolumità, tanto che la stessa Provincia regionale di Messina aveva più volte sollecitato l’adozione di un provvedimento contingibile ed urgente, minacciando anche una denuncia per omissione.
Nonostante l’applicabilità dell’ordinanza ex art. 12 cit. apparisse inconfutabile nel caso di specie, entrambi i Giudici di merito hanno erroneamente escluso la configurabilità dell’errore scusabile ai sensi dell’art. 47 c.p..
Si afferma in sentenza, inoltre, che l’I. avrebbe richiesto all’Intendenza di Finanza di Messina l’autorizzazione ad occupare in via provvisoria l’area di proprietà demaniale individuata per la realizzazione della discarica, ma il relativo sito era stato già individuato dall’Ufficiale sanitario, che ne aveva espressamente attestato l’idoneità ai fini dell’art. 12 del D.P.R. sopra citato.
Erronea deve ritenersi anche l’ulteriore affermazione secondo cui egli aveva predisposto una delibera di acquisizione di relazione geologica che il 29 dicembre 1995 non venne approvata dalla Giunta presieduta dal Sindaco, poiché con la delibera in questione (n. 646/95) la G.M. non ritenne necessario approvare la proposta sul rilievo che l’U.T.C. già disponeva di una relazione geologica inerente l’intero territorio.
Erroneamente valutata dai Giudici di merito, infine, risulta la questione relativa alla predisposizione del preventivo di spesa necessario per la discarica provvisoria, poiché lo stesso fu redatto solo in data 16 gennaio 1996, ossia dopo 27 giorni dalla notifica dell’ordinanza, e pervenne all’Ufficio tecnico nel pomeriggio del medesimo giorno, allorquando il Dirigente aveva già ultimato il suo servizio ed aveva lasciato l’ufficio senza prenderne visione, facendovi rientro, dopo un periodo in cui rimase assente per congedo e malattia, solo il (omissis) . Errata, dunque, deve ritenersi la ricostruzione dei fatti da parte dell’I. , quando afferma di aver comunicato all’amministrazione le sue perplessità circa l’impossibilità di procedere a trattativa privata, poiché l’importo presumibile della relativa spesa venne consegnato solo il 16 gennaio, quando egli era già andato via dall’ufficio, rimanendo assente per altri 15 giorni.
Considerato in diritto
6. I ricorsi sono fondati e vanno accolti per le ragioni di seguito esposte e precisate.
7. Emerge dalla lettura delle decisioni dei Giudici di merito che l’ordinanza sindacale n. 225/1995, notificata all’I. il 20 dicembre 1995 e trasmessa per conoscenza alle autorità amministrative competenti, oltre che alla Procura di Messina, aveva stabilito che il dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune: a) individuasse in via provvisoria l’area adiacente al depuratore consortile lato mare come il sito ove effettuare la discarica dei rifiuti solidi urbani, secondo quanto già suggerito nell’apposita relazione redatta dall’Ufficiale sanitario in data 11 novembre 1995; b) predisponesse un preventivo di spesa concernente sia l’occupazione temporanea di tale area, sia la realizzazione della discarica, alle condizioni indicate dalla Provincia di Messina e dall’Ufficiale sanitario; c) incaricasse una ditta di sua fiducia in grado di provvedere a tale realizzazione, predisponendo a consuntivo l’esatto ammontare delle spese; d) desse attuazione alla discarica in tempi brevi.
L’ordinanza, richiamata nella motivazione della successiva delibera di Giunta municipale n. 34 del 22 gennaio 1996, aveva ad oggetto la individuazione e la realizzazione di una discarica temporanea, ex art. 12 del d.P.R. n. 915/1982, per i rifiuti solidi urbani nel territorio comunale, stante l’imminente scadenza – il 17 gennaio 1996 – della proroga dell’autorizzazione rilasciata dalla Provincia regionale di Messina al conferimento dei predetti rifiuti presso la discarica di un altro Comune.
Vi si precisava, altresì, che il mancato rispetto dell’ordinanza e dei relativi tempi e modi di attuazione avrebbe comportato l’eventuale adozione di provvedimenti di natura amministrativa, disciplinare, penale ed erariale nei confronti dei funzionari incaricati, in considerazione della ‘somma urgenza’, legata anche al carattere igienico-sanitario del provvedimento.
Nell’articolato assetto motivazionale della su citata delibera n. 34/1996, avente ad oggetto proprio il mancato rispetto ed attuazione del contenuto della precedente ordinanza sindacale n. 225/1995, la Giunta municipale rilevava che ‘nessuna comunicazione, relazione o atti’ erano pervenuti all’Amministrazione comunale da parte del dirigente dell’Ufficio tecnico in merito a quanto disposto per effetto del su menzionato provvedimento, emanato dal Sindaco nella sua qualità di Ufficiale di Governo e Autorità sanitaria, creando così ‘notevoli disagi’ alla predetta Amministrazione ed alla cittadinanza, con le conseguenti determinazioni legate all’avvio di un procedimento disciplinare nei confronti del dipendente, per l’inosservanza della sopra citata ordinanza, e all’invio di copia della delibera alla Procura di Messina ‘per tutti quei reati riscontrabili dall’omissione, non rispetto e non attuazione della citata ordinanza sindacale n. 225/1995, nei confronti del dipendente I.C. ‘, nonché al Prefetto e ad altre autorità amministrative per opportuna conoscenza.
Dalle decisioni dei Giudici di merito risulta, peraltro, che l’I. si era adoperato, a seguito dell’emissione dell’ordinanza n. 225/95, nei termini appresso indicati: a) richiedendo all’Intendenza di Finanza di Messina l’autorizzazione ad occupare in via provvisoria l’area individuata per la discarica; b) predisponendo una proposta di delibera di acquisizione di relazione geologica, che in data 29 dicembre 1995 non fu approvata dalla Giunta municipale; c) richiedendo al capo del settore dei lavori in economia del Comune, il 27 dicembre 1995, il preventivo di spesa concernente la realizzazione della discarica. Tale preventivo di spesa, trasmesso in data 16 gennaio 1996 dal tecnico che lo aveva redatto, risulta essere pervenuto alle ore 18.10 di quello stesso giorno, quando il dirigente dell’Ufficio tecnico aveva già ultimato il servizio ed era andato via, rimanendo successivamente assente dal servizio, per congedo e malattia, sino al (omissis) .
8. La formulazione del tema d’accusa poggia proprio sull’omessa menzione di tali attività amministrative nel corpo della su citata delibera n. 34/1996, attività che, invece, erano state poste in essere dal funzionario a tal fine incaricato, prospettandosi in tal guisa un suo comportamento assolutamente inerte a seguito dell’emissione dell’ordinanza sindacale n. 225/1995.
Al riguardo, tuttavia, occorre inquadrare i contorni della complessa vicenda storico-fattuale in esame, così come ricostruita dagli stessi Giudici di merito, nel contesto di obiettiva urgenza legata alla necessaria realizzazione della discarica nel territorio comunale ed alla ricorrenza di una situazione di emergenza nella tutela della salute e dell’igiene pubblica, situazione ripetutamente segnalata dalla Provincia di Messina ed ampiamente rappresentata nel su menzionato provvedimento sindacale, alle cui precise e dettagliate statuizioni, pertanto, occorreva dare piena e puntuale attuazione, anche in ragione della particolare ristrettezza dell’arco temporale entro cui l’Amministrazione comunale era stata chiamata ad intervenire.
La trasmissione di copia della delibera assunta dalla Giunta municipale alla locale Procura della Repubblica è avvenuta per informare l’Autorità giudiziaria del verificarsi di una situazione in cui il Sindaco ed i membri della Giunta, lungi dal manifestare alcuna personale convinzione riguardo alla colpevolezza della persona offesa, mostravano di ritenere irrilevanti le attività sino ad allora poste in essere dal funzionario comunale rispetto all’articolato quadro di prescrizioni contenute nell’ordinanza sindacale poco prima adottata, ritenendo, pertanto, che si fosse palesato un comportamento omissivo di atti urgenti.
Fondavano essenzialmente tale rappresentazione circa la mancata esecuzione della delibera non solo gli elementi di valutazione complessivamente derivanti dal raffronto oggettivo tra il preciso contenuto dei diversi adempimenti amministrativi richiesti e la natura essenzialmente prodromica o interlocutoria delle attività effettivamente realizzate, che di certo non ne evidenziavano una precisa e completa attuazione (tanto che il preventivo di spesa non fu predisposto, ma se ne diede incarico ad altro funzionario, che procedette alla sua trasmissione all’Ufficio tecnico solo il giorno prima della data di scadenza della proroga dell’autorizzazione rilasciata dalla Provincia di Messina, mentre la proposta di delibera acquisitiva di una relazione geologica, non contemplata nell’ordinanza sindacale n. 225/1995, non fu approvata dalla Giunta municipale), ma anche le ulteriori circostanze, parimenti poste in rilievo, o comunque emergenti dalla motivazione della delibera di Giunta n. 34/1996, indicative del fatto che gli imputati ritenevano di aver correttamente agito nel peculiare ambito dell’intervento extra ordinem previsto dal su citato art. 12 (con la conseguente tutela offerta dalle previsioni sanzionatorie dettate nell’art. 29 del citato d.P.R. n. 915/82) e che l’Ufficiale sanitario, sotto altro ma connesso profilo, aveva già provveduto ad individuare un sito ritenuto idoneo per la realizzazione della discarica ai sensi dell’art. 12 del d.P.R. n. 915/82, che era stato in effetti puntualmente indicato nella sua relazione del 13 novembre 1995 in quello adiacente all’area che ospitava il depuratore consortile.
9. Al riguardo, secondo la pacifica linea interpretativa dettata da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 17992 del 02/04/2007, dep. 10/05/2007, Rv. 236448), è necessario, perché si realizzi il dolo di calunnia, che colui che falsamente accusa un’altra persona di un reato abbia la certezza dell’innocenza dell’incolpato, in quanto l’erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata esclude l’elemento soggettivo, da ritenere integrato solo nel caso in cui sussista una esatta corrispondenza tra il momento rappresentativo (ossia, la sicura conoscenza della non colpevolezza dell’accusato) ed il momento volitivo (ossia, la intenzionalità dell’incolpazione).
Si è inoltre precisato (Sez. 6, n. 29117 del 15/06/2012, dep. 18/07/2012, Rv. 253254) che la piena consapevolezza, da parte del denunciante, dell’innocenza della persona accusata è esclusa quando la supposta illiceità del fatto denunciato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi, connotati da un riconoscibile margine di serietà e tali da ingenerare concretamente la presenza di condivisibili dubbi da parte di una persona di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza (Sez. 6, n. 46205, del 06/11/2009, Rv. 245541; Sez. 6, n. 27846, del 10/06/2009, Rv. 244421; Sez. 6, n. 3964 del 06/11/2009, Rv. 245849).
Nel caso in esame, in effetti, non vi è stata una compiuta rappresentazione di tutti gli elementi di conoscenza nella predisposizione dell’atto inviato all’Autorità giudiziaria, ma ciò è avvenuto perché gli imputati avevano maturato la convinzione – dandone, peraltro, ampia giustificazione nella stessa motivazione della delibera di Giunta municipale – che il responsabile dell’Ufficio tecnico, a fronte di una situazione di obiettiva urgenza, non avesse fatto nulla di realmente significativo rispetto al quadro degli adempimenti e delle prescrizioni precisamente delineato nel precedente provvedimento.
Né, del resto, si esprimevano certezze riguardo alla colpevolezza del funzionario comunale, ma si adottavano provvedimenti di vario tipo nei suoi confronti, informando l’Autorità giudiziaria della situazione che in quel momento si era venuta a determinare, affinché venisse eventualmente ravvisata la presenza di ipotesi di reato legate alla mancata esecuzione dell’ordinanza sindacale.
Al riguardo, si è già tracciata in questa Sede (Sez. 6, n. 22922 del 23/05/2013, dep. 27/05/2013, Rv. 256628) una precisa linea di discrimine, allorquando si è affermato che solo l’ingiustificata attribuzione come fatto vero di un fatto di cui non si è accertata la realtà presuppone la certezza della sua non attribuibilità sic et simpliciter all’incolpato.
Quando invece l’erroneo convincimento riguardi, come avvenuto nel caso in esame, profili essenzialmente valutativi o interpretativi della condotta oggetto di addebito, l’attribuzione dell’illiceità è dominata da una pregnante inferenza soggettiva, che, nella misura in cui non risulti fraudolenta o consapevolmente forzata, è inidonea ad integrare il dolo tipico della calunnia.
Sulla base delle su esposte considerazioni s’impone, conseguentemente, l’annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza, secondo la formula in dispositivo meglio enunciata.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non costituisce reato.

 

Gli Argini di Andrea Galgano

di Adriana Gloria Marigo 23 dicembre 2014

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431671_10151170974264484_749205361_nAssunto che la parola nel suo aspetto di segno suono significanza riconduce a complessità psichica che governa piani affettivi etici relazionali culturali sia personali sia collettivi, Argini, titolo della raccolta poetica di Andrea Galgano – Lepisma, 2012 -, ci consegna nella immediatezza grafica del lemma l’assunto di cui dicevo: ci troviamo davanti alla demarcazione di un ampio paesaggio interiore ed esteriore e al contempo alla progettualità ad oltrepassare il territorio d’appartenenza per inoltrarsi in uno nuovo, che non nega il precedente ma tiene in conto e amplifica, rimodellando confini orizzonti e tutto quanto si muove entro quelle provenienze prossimità strutture rassicuranti al tempo stesso necessarie di rivisitazione, poiché è chiaro che il percorso verso i luoghi alti della Bellezza – che non si dà senza l’appercezione del suo emergere nella/dalla forma anche vaga – si fonda sulla conoscenza e su un anelito desiderante, sulla tensione leopardiana all’incontro con il piacere “La Natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità è infelice come chi non ha di che cibarsi, patisce la fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo” (Zibaldone) o come in Schopenhauer sulla distonia tra bisogno e appagamento di esso “Ogni volere proviene da un bisogno, cioè da una privazione, cioè da una sofferenza. La sofferenza vi mette un temine; ma per un desiderio che tiene soddisfatto, ce ne sono dieci almeno che debbono essere contrariati; per di più, ogni forma di desiderio sembra non aver mai fine, e le esigenze tendono all’infinito, la soddisfazione è breve e amaramente misurata. Ma l’appagamento finale non è poi che apparente: ogni desiderio soddisfatto cede subito il posto ad un nuovo desiderio: il primo è una disillusione riconosciuta, il secondo una disillusione non ancora riconosciuta” (Il mondo come volontà e rappresentazione) .

Il mettere schopenhauriano “un termine” corrisponde agli “argini” di Andrea Galgano: necessaria misura per contenere il grande flusso della conoscenza socio-affettiva, accompagnarne il percorso limitando il danno di possibile esondare o alluvionare, limite imposto dalla disillusione che rimanda all’infinito fluire desiderante in cui il Tempo – vexata quaestio – apporta i suoi indicibili vestimenti, il suo apparato essenziale all’essersi e all’oggettivarsi, allo sprofondare nella memoria e risalire verso probabili e provvisorie chiarìe: “E di un tempo rimase il tempo / di un tempo di tempo / secondo spogliato di piani // tempi soggioganti / furiosi come cieche fiere / mercati di sale le ore / cavalli sulla rena // quel che rimase / fu affresco d’abito // tempi bambini / giochi indecisi di riviera // tempi d’amore / carichi di voci oranti // vivemmo il tempo / ridotto a saluti sghembi / a una vela che spanna / nuvole improvvise / e questo tempo evanescente scorre / tra i sipari d’adolescenza / lentamente indossato / come il mare scheggia i fiumi.”(pag.13).

Se nella struttura della parola è implicita – come archetipo – la frontiera quale passaggio, superamento di confine che allerta i sensi, provoca il riconoscimento di ciò che resta indietro, destinato all’usura temporale affettiva lessicale e di ciò che è in avanti, all’attesa, pronto alla prossimità, la parola che Galgano sceglie e incide per quell’allerta sensoriale e culturale è parola che arriva da lontano – da un territorio prometeico e per contrasto, quasi a compensare come polarità necessaria al divenire, fluido – e ci consegna termini colmi di materiale immaginale e linguistico: se da una parte convoglia l’ustione della poesia, perché il poeta sente in poesia la sua stessa presenza nell’affaccendarsi del mondo, dall’altra reca la ricerca colta e raffinata del termine che incarni esattamente le immagini che avanzano ed emergono nella struttura dei versi, perché il conto finale è il “nome” che riesca ancora a nominare dichiarare attribuire : “Il respiro dei fortunali / avvolge il giorno annoso / il nettare sparso del petto /apre finisterresco / i pioppi e i salici / e il tuo crinale aureo incide / il lampo delle epoche // Le mani orientano / di avvento la sera / e l’architettura crèmisi / increspa i tuoi narcisi / nell’anatomia teatrale / del tuo madrigale // rinchiudi il sorriso / sul suolo creso / quando ti muovi atlantica / che sparisce lo scenario / ma poi ritorna frequente”(pag.18)

La versificazione di Argini distende dunque nella creazione del paesaggio lirico una topografia e un campo architettonico poetici in cui confluisce – come ramificazioni d’acque e centuriazioni – una misura semantica di alta frequentazione e uso che discende da percorsi tra la grecità classica e la classicità contemporanea attraverso la purezza lirica del petrarchismo così da attribuire al reale connotati di sacre visioni o semplicemente elevarlo dalla densità immanente che mai lo degrada, ma gli conferisce il “ferimento naufrago”, ovvero l’angoscia esistenziale in cui è bene “non rinchiudere la mia pena / in un’abitudine irosa / o nella tempesta ariosa e impudica / di un tremore di solitudini.” poiché “le fronde stormite oranti / come iniziali impastate di nuvole / nei perimetri delle gocce / diseganano il tempo della tua figura // è come il cuore il tuo nome / temporale sonoro di passaggio / ha braccia il tuo nome / dentro la tua nudità semplice / come il sangue / che percorre l’eterno cielo / e nel raccolto delle comete / vortica sigillando.”(pagg. 22-23) e ci portano in presenza di un “tu” femminile idealizzato pur in una identità terrestre che tuttavia elude l’ombra, la materica consistenza della carne, poiché ciò che importa è riconoscere la materia ultima, generativa la forma e che può darsi solo nella “metafisica di pianori”(pag. 67).

Scrive Davide Rondoni nella prefazione ad Argini: “[…] Ci sono – ne ho segnato davvero tanti – i passi, i momenti in cui la voce di Galgano si fa irrefutabile, sua, vivissima.” , talmente irrefutabile che in Kallias trovano testimonianza e l’invenzione immaginale del poeta e gli elementi costitutivi il suo essere poeta, le frequentazioni e ascendenze colte, le elaborazioni dei miti così da attribuire alla costituzione della sua poesia il marchio di parola metafisica, mai però bordeggiando certa maestosità e petrosità liriche, poiché la sua parola è percorsa dalla solidificazione della luce nel colore, negli oggetti, nel paesaggio vegetale aereo terrestre: “ La pioggia genuflessa / lascia il sole al suo regno / sulle messi di nuvole rade // inondazioni di crisalide / litoranea di stelle / e notturno di veglie eretiche // la parusia di stille / esauste e dimenticate / sui lembi / l’apologo di un abbraccio / su erbe intrise / nelle lamelle rigogliose / come il mio liceo che si alligna / nel tuo sferisterio immobile / e richiama / la tua calma chioma / al ritardo della notte che freme.// (pag.28) porgendoci dunque un cosmo di simboli che, sciolti dalla loro frequenza immaginale, ci consegnano nello spessore poetico ed etico della poesia di Andrea Galgano la cifra del suo ascoltare il mondo, crearlo mediante la parola che tramite lavoro di vera Poiesis progetta ontologia.

La violenza sessuale si configura anche con il compimento di atti sessuali repentini

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di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

4 dicembre 2014

Recentemente la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta stabilendo che “il principio in base al quale, in tema di violenza sessuale, l’elemento oggettivo, oltre a consistere nella violenza fisica in senso stretto o nella intimidazione psicologica in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, si configura anche nel compimento di atti sessuali repentini, compiuti  improvvisamente all’insaputa della persona destinataria, in modo da poterne prevenire anche la manifestazione di dissenso e comunque prescindendo, nel caso di minori infraquattordicenni, da un consenso, ancorche’ viziato, o dal dissenso comunque manifestabile.

Ed infatti deve ammettersi, in tema di reato sessuale commesso in danno di persona infraquattordicenne, punito dall’articolo 609 quater c.p., comma 1, il concorso materiale con il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p., comma 1, nel senso che, in presenza di condotte comportanti violenza, minaccia o abuso di autorita’, puo’ trovare applicazione anche la seconda fattispecie criminosa, che non e’ alternativa e neppure incompatibile con la prima” .

In allegato il testo della sentenza.

 

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 10 novembre 2014, n. 46170

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNINO Saverio F. – Presidente

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere

Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato ad (OMISSIS);

avverso la sentenza del 05/02/2014 della Corte di appello di Trento sez. dist. di Bolzano;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Vito Di Nicola;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. D’Ambrosio Vito, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la pronuncia resa dal Tribunale presso medesima città che aveva condannato, a seguito di giudizio abbreviato, (OMISSIS) alla pena di anni sette e mesi quattro di reclusione per il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p., (3 comma), articoli 609 ter, 609 quater e 609 septies c.p., articolo 61 c.p., n. 11 e articolo 81 c.p., per avere, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, costretto con violenza e minaccia la minore (OMISSIS), nata il (OMISSIS), figlia della convivente (OMISSIS), a subire atti sessuali o comunque per avere compiuto atti sessuali con la stessa; in particolare (OMISSIS), nel periodo immediatamente successivo all’ingresso della minore (OMISSIS) nel territorio italiano, quando la stessa frequentava la quarta elementare e risiedeva con lui in (OMISSIS), frequentemente ne palpeggiava in maniera repentina e comunque contro la sua volontà la vagina e le natiche, approfittando degli attimi di momentanea assenza della madre; lo (OMISSIS) reiterava quindi tale condotta di palpeggiamento repentino delle zone erogene della minore (OMISSIS) nel periodo in cui gli stessi, unitamente alla madre della minore, si erano trasferiti da (OMISSIS), in un appartamento sito in (OMISSIS); successivamente all’ulteriore trasferimento del medesimo nucleo familiare in un appartamento sito in (OMISSIS), lo (OMISSIS) instaurava con la minore (OMISSIS) una relazione sentimentale, caratterizzata dalla consumazione consensuale, con cadenza settimanale ed in alcuni casi anche quotidiana, di rapporti sessuali completi sia di tipo orale, sia di tipo vaginale, approfittando dei momenti in cui la madre della minore era assente da casa per motivi lavorativi e non desistendo nemmeno nel periodo del ciclo mestruale della ragazza, in cui si faceva praticare sesso orale; con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di relazioni domestiche, avendo approfittato del rapporto di stabile coabitazione intercorrente con la persona offesa, figlia della propria convivente more uxorio (OMISSIS).

In (OMISSIS).

  1. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza, l’imputato ha proposto, tramite il proprio difensore, ricorso per cassazione affidando il gravame a cinque motivi.

2.1. Con il primo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 597 c.p.p. (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), per inosservanza del divieto di reformatio in peius della sentenza di appello, non impugnata dal pubblico ministero, relativamente alla qualificazione giuridica del fatto.

Si assume come la Corte di appello, nel rigettare la doglianza relativa alla formulata eccezione circa l’indeterminatezza e la contraddittorietà del capo di imputazione, sia giunta a ritenere non configurabile, in assenza di impugnazione del pubblico ministero, il fatto di minore gravità in relazione all’articolo 609 bis c.p. nonostante la diminuente sia stata ritenuta nel capo di imputazione ed in sentenza, contravvenendo quindi al divieto di reformatio in peius che non riguarda solo l’entità della pena complessiva ma tutti gli elementi che concorrono alla sua determinazione.

2.2. Con il secondo motivo di gravame lamenta violazione e falsa applicazione dell’articolo 81 c.p. (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), per errata individuazione del reato di maggiore gravità.

Si sostiene che anche in ordine all’individuazione del reato considerato più grave ai fini della pena la Corte di appello sia incorsa in un grave errore in quanto il primo giudice ha dichiarato più grave il reato di cui all’articolo 609 quater c.p. e ciò sul presupposto che il reato di cui all’articolo 609 bis c.p. fosse attenuato dalla minore gravità.

La questione avrebbe dei rilievi pratici considerato che il reato punito dall’articolo 609 bis c.p. presuppone l’uso della violenza e/o della minaccia mentre il reato previsto dall’articolo 609 quater c.p. presuppone il consenso, per quanto giuridicamente inefficace, della persona offesa.

2.3. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 609 bis c.p. nonchè illogicità e contraddittorietà manifesta della motivazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), ed e) risultante dalla deposizione della stessa parte offesa come riportata nella sentenza di primo grado.

Si deduce che erroneamente la Corte di appello ha convalidato l’approdo cui è giunto il Tribunale di ritenere configurato il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p., seppure qualificato dalla minore gravità, sul presupposto che l’imputato avesse toccato le parti intime della vittima con atti repentini ed improvvisi, ravvisando in ciò gli estremi della violenza, laddove l’azione si sarebbe caratterizzata, tenuto anche conto delle dichiarazioni della persona offesa, per essere stata progressiva e non già repentina, suadente e non sorprendente, essendovi già un rapporto di convivenza tra agente e persona offesa, con la conseguenza che, nel caso di specie, difetterebbe l’elemento costitutivo della violenza richiesto dall’articolo 609 bis c.p. per la configurabilità del reato in quanto, secondo la logica e l’esperienza, il contatto in zone verdi è preceduto da contatto in zone lecite e confinanti, per migrare poi gradualmente verso la zona rossa, sempre che non intervenga una reazione contraria. Nessuna violenza dunque vi sarebbe stata, ma la ricerca di un consenso almeno passivo.

La repentinità sarebbe invece tipica di contesti in cui anche il contatto in zone rosse è inopportuno (autobus, contesti lavorativi, luoghi affollati in genere) e ove l’agente ha pochissimo tempo a disposizione e non certo dei minuti o delle ore come nel caso di specie (sul divano o al momento di andare a dormire).

2.4. Con il quarto motivo di gravame lamenta illogicità manifesta della motivazione in relazione alla quantificazione del risarcimento del danno ed omessa motivazione su punti decisivi per il giudizio di quantificazione del danno (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e).

Si assume come il danno sia stato liquidato in maniera eccessiva e senza dare conto dei parametri utilizzati per pervenire alla sua quantificazione.

2.5. Con il quinto ed ultimo motivo, deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 133 c.p. e mancanza di motivazione in ordine alla pena base ed all’aumento per la continuazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), ed e).

Si sostiene come con i motivi di appello il ricorrente si sia doluto tanto della determinazione della pena base (otto anni di reclusione) quanto dell’aumento ritenuto per la continuazione (anni tre di reclusione) e come la Corte territoriale, nel rigettare le doglianze, abbia fatto leva sulla gravità del fatto in considerazione dell’abuso di fiducia e dell’abuso di relazione ex articolo 61 c.p., n. 11 valutando erroneamente entrambe le circostanze con riferimento ai medesimi profili ed avendo ciò determinato un aggravamento inammissibile del trattamento sanzionatorio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso è infondato.
  2. Il primo motivo è manifestamente infondato.

Nel respingere il primo motivo d’appello la Corte territoriale ha chiarito come i fatti materiali contestati – sia con riferimento alle condotte (dapprima palpeggiamenti poi rapporti sessuali completi) sia ai luoghi ((OMISSIS)) sia alla frequenza ed alle concrete modalità – fossero stati nella loro specificità storica ammessi dal ricorrente e come sia l’imputazione che la sentenza avessero scisso la sequenza dei fatti in due fasi: la prima fase di palpeggiamenti effettuati in maniera repentina ed insidiosa in momentanea assenza della madre (articolo 609 bis c.p.); la seconda fase di rapporti sessuali completi (vaginali ed orali) inseriti nel contesto di un distorto, almeno sotto il profilo dell’età (23 anni di differenza), rapporto sentimentale.

Sotto tali profili la Corte del merito ha confermato – e non ritenuto per la prima volta aggravando, come erroneamente ritenuto dal ricorrente, la posizione dell’imputato appellante in assenza di impugnazione del pubblico ministero – l’insussistenza della diminuente della minore gravità per entrambe le ipotesi, posto che sia i reiterati palpeggiamenti in zona genitale di una bambina di appena 10 anni alla ricerca, da poco tempo giunta dal (OMISSIS), di persone adulte di riferimento e ancor più i reiterati rapporti sessuali completi con una bambina non potessero rientrare in nessun caso della nozione di minore gravità .

E’ vero che nel capo di imputazione vi è l’indicazione (errata) del comma 3 con riferimento al reato punito dall’articolo 609 bis c.p. ed è anche vero che nella prima sentenza il Giudice, nel confermare la propria competenza territoriale dopo aver preso atto della rinuncia da parte del procuratore speciale e dell’imputato personalmente ad eccepire l’incompetenza territoriale del Tribunale di Bolzano in favore di quello di Milano luogo ove è stato commesso il primo fatto contestato, ha stimato più grave il reato previsto dall’articolo 609 quater c.p. affermando che quello di cui all’articolo 609 bis c.p. è stato configurato nell’ipotesi attenuata ai sensi del comma 3 e che a mente del disposto dell’articolo 4 c.p.p. nella determinazione della pena non si tiene conto delle circostanze del reato, se non ad effetto speciale .

Va tuttavia ricordato come, in fatto, non sia stata enunciata, nel capo di imputazione, la circostanza della minore gravità del reato di violenza sessuale, con la conseguenza che la mera indicazione nell’epigrafe del capo d’accusa del comma relativo all’articolo di legge violato non radica alcun diritto al riconoscimento dell’attenuante, che invece il Tribunale ha esplicitamente escluso nella sentenza di primo grado (pag. 13) quando ha affermato che tali fatti non possono certamente essere qualificati di minore gravità in considerazione della frequenza dei rapporti sessuali richiesti, delle modalità dell’azione, infilandosi l’imputato nel letto della bambina anche alle 4 del mattino e pretendendo di soddisfare le proprie esigenze prima che la minore sui preparasse per andare a scuola, nonché insegnandole diverse tipologie di rapporto, non desistendo neppure se la (OMISSIS) aveva le mestruazioni, ricorrendo in tal caso a pratiche orali, e tenuto conto dell’età della minore nata il (OMISSIS) .

Al cospetto di tale specifica motivazione circa l’esclusione delle diminuente, che infatti non è stata minimamente considerata nella determinazione della pena, e neppure specificamente censurata con i motivi d’appello, la censura secondo cui la Corte territoriale abbia violato il divieto di reformatio in peius  è destituita di ogni fondamento.

  1. Il secondo ed il terzo motivo di gravame, essendo tra loro collegati possono essere congiuntamente esaminati.

Il ricorrente, ribadendo che la violenza sessuale (articolo 609 bis c.p.) sia stata ritenuta di minore gravità (secondo motivo), assume, anche sul presupposto che sia stato configurato come reato più grave quello di cui all’articolo 609 quater c.p., che il reato di violenza sessuale fosse giuridicamente da escludere mancando il requisito della violenza (secondo e terzo motivo) non potendo ritenersi le condotte dell’imputato repentine ed a sorpresa quanto piuttosto progressive e dirette alla ricerca di un consenso, quantunque invalido ratione aetatis, della vittima.

I rilievi sono privi di fondamento.

I Giudici del merito hanno ritenuto, con logica ed adeguata motivazione, configurabile il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p. sul presupposto, ampiamente accertato in fatto e dunque insindacabile in sede di legittimità, che quando il ricorrente toccava la vittima direttamente nelle zone intime (pube e sedere) eseguiva le azioni in modo rapido e repentino ponendo in essere gli atti improvvisamente ed inaspettatamente, anche per non essere sorpreso dalla compagna mentre la minore non comprendeva quale fosse la reale intenzione dell’agente.

Ne deriva che le azioni vietate sono state eseguite anche quando il luogo di commissione del fatto era condiviso dalla madre della vittima (compagna dell’imputato) e dunque in frangenti nei quali il ricorrente aveva un lasso di tempo estremamente ridotto per eseguire la condotta illecita, che nonostante tutto poneva in essere con rapidità.

Va dunque affermato il principio in base al quale, in tema di violenza sessuale, l’elemento oggettivo, oltre a consistere nella violenza fisica in senso stretto o nella intimidazione psicologica in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, si configura anche nel compimento di atti sessuali repentini, compiuti improvvisamente all’insaputa della persona destinataria, in modo da poterne prevenire anche la manifestazione di dissenso e comunque prescindendo, nel caso di minori infraquattordicenni, da un consenso, ancorche’ viziato, o dal dissenso comunque manifestabile.

Ed infatti deve ammettersi, in tema di reato sessuale commesso in danno di persona infraquattordicenne, punito dall’articolo 609 quater c.p., comma 1, il concorso materiale con il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p., comma 1, nel senso che, in presenza di condotte comportanti violenza, minaccia o abuso di autorità, può trovare applicazione anche la seconda fattispecie criminosa, che non e’ alternativa e neppure incompatibile con la prima.

  1. Anche il quarto motivo è infondato.

4.1. Per rendersene conto occorre brevemente ripercorrere la ratio decidendi del giudice di primo grado pienamente confermata dal Giudice di secondo grado.

Nel quantificare in via equitativa il danno, il Tribunale è partito dalla premessa che la minore, (OMISSIS), è stata inserita in comunità dal (OMISSIS), per rientrarvi nuovamente dal (OMISSIS).

Ha poi registrato, sulla base del patrimonio dichiarativo della minore e delle relazioni dei servizi sociali oltre che degli accertamenti specialistici eseguiti dal tribunale per i minorenni, il difficile rapporto con la madre che, parzialmente ripreso con il ricongiungimento in Italia, si è nuovamente interrotto in conseguenza dei fatti del presente processo.

Ha evidenziato come la madre aspetti un bambino dall’imputato e che, allo stato, non sia in grado di aiutare nè sostenere la figlia. La minore non ha ancora elaborato i traumi vissuti e la conseguente separazione dalla madre, nutrendo nei confronti di questa, che peraltro la colpevolizza, sentimenti contrastanti tanto che il rapporto è apparso irrimediabilmente segnato.

Nella relazione del 23 gennaio 2013 dei servizi sociali di (OMISSIS) così si legge: E’ apparso evidente che la convivenza tra madre e figlia in questo momento è tanto dolorosa, quanto difficoltosa, in quanto la madre non dispone delle risorse adeguate a sostenere la figlia, che sente quindi rinforzato il suo senso di colpa nei confronti della madre .

Il difficile rapporto è stato ribadito nella relazione del 24 gennaio 2013, in cui è evidenziata incomunicabilità verbale ed emotiva tra madre e figlia.

(OMISSIS) è dunque apparsa una ragazza tormentata dai sensi di colpa come argomentato anche dalla richiamata relazione dei servizi sociali del 23 gennaio 2013.

Il Tribunale ha ricordato come, per due anni, la minore abbia subito i progressivi desideri sessuali dell’imputato, che hanno generato in lei lentamente uno stato di malessere, fino a quando il malessere è diventato vera e propria sofferenza.

Da ciò il Tribunale ha tratto il convincimento che (OMISSIS) è ora una ragazza sola, di appena 14 anni, nonostante possa contare sull’affetto e sul sostegno di assistenti sociali ed insegnanti, inserita in una comunità – (OMISSIS).

Come attestato dalla relazione dei servizi sociali, la minore è in carico all’ambulatorio di psichiatria e psicoterapia per l’infanzia.

Nel decreto interlocutorio n. 188/13 nel procedimento sub n. 63/13 V.G. del 13 marzo 2013, con il quale è stato confermato l’affidamento di (OMISSIS) al servizio sociale, il Tribunale per i Minori ha chiaramente descritto la difficile condizione della persona offesa ed è stato prescritto alla madre sostegno psicologico per recuperare il rapporto con la figlia, con la quale ha pochi contatti, fatica a considerarla vittima, ritenendo piuttosto se stessa vittima, concentrandosi quindi sullo propria persona, sul proprio lavoro, sullo stato di gravidanza, poco interessata alla vita di (OMISSIS).

Sulla base di ciò il Tribunale è pervenuto alla conclusione di ritenere ampiamente compromessa la vita della minore spezzata negli affetti e lesa nelle relazioni, nella serenità, nella spensieratezza, nello sviluppo, nella crescita e nella sessualità,  avendo (OMISSIS) sperimentato affetti distorti e conosciuto una sessualità deviata, quando ancora era una bambina di appena dieci anni, quando ancora non poteva ne’ doveva conoscere rapporti sessuali orali, vaginali e, prospettati, anche anali (che in sede di incidente probatorio ha dimostrato di non sapere neppure denominare).

Come ha espressamente dichiarato, non pensava certo che la prima volta sarebbe stato con un padre , avrebbe voluto che fosse con il suo ragazzo e dopo un poco di tempo.

In considerazione di tale devastante quadro, al Tribunale è apparso equo liquidare – per il danno biologico subito, in termini di compromissione della vita familiare ed affettiva, perdita dell’infanzia, pregiudizio di serena crescita e di progressivo sviluppo psicofisico – l’importo di 350.000,00 euro, importo comprensivo del danno morale, oltre interessi legali (tenuto conto che per una invalidità permanente del 70% su soggetto di anni 11 secondo le tabelle di Milano 2011 può essere riconosciuto un risarcimento del donno biologico, incluso il danno morale nel danno patrimoniale, di euro 706.509,00).

4.2. Il ricorrente a ciò obietta che la quantificazione sarebbe ictu oculi del tutto eccessiva; che la quantificazione sarebbe stata  apoditticamente individuata nel grado di invalidità permanente del 70% di un soggetto di 11 anni secondo le tabelle del tribunale di Milano; che sarebbe assente la motivazione su come il Giudice sia pervenuto a ritenere un tale grado di invalidità; che dunque il Tribunale sarebbe partito da una premessa illogica per giungere ad una conclusione illogica; che il giudice avrebbe dovuto liquidare esclusivamente il danno morale per poi rimettere la valutazione del danno patrimoniale al giudice civile innanzi al quale le conseguenze del reato andavano rigorosamente provate; che alla determinazione equitativa del danno il giudice sarebbe giunto in mancanza di qualsiasi accertamento scientifico, medico o psicologico sui danni concreti subiti dalla minore.

4.3. Siccome la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da reato contro la libertà sessuale segue, ai fini della risarcibilità, i medesimi criteri validi per la liquidazione del danno patrimoniale e non patrimoniale in generale (articolo 185 c.p.), va precisato che, in caso di determinazione equitativa del danno morale cagionato dalla commissione di reati sessuali nei confronti di minori d’età il giudice deve tener conto dell’intensità della violazione della libertà morale e fisica nella sfera sessuale, del turbamento psichico cagionato e delle conseguenze sul piano psicologico individuale e dei rapporti intersoggettivi, degli effetti proiettati nel tempo nonchè dell’incidenza del fatto criminoso sulla personalità della vittima (Cass. civ., Sez. 3, 09/03/2011, n. 13686).

Sempre in materia di risarcimento del danno da atti sessuali commessi nei confronti di minori, è stato anche affermato che il giudice deve procedere ad una valutazione ponderale analitica che tenga conto del diverso peso dei beni della vita compromessi, e segnatamente della libertà e della dignità umana, pregiudicati da atti di corruzione posti in essere da un adulto con dolo ed in circostanze di minorata difesa, nonchè della salute psichica, gravemente pregiudicata in una fase fondamentale della crescita umana e della formazione del carattere e della disponibilità a relazionarsi nella vita sociale, non potendo attribuirsi a priori un maggior rilievo al danno biologico rispetto al danno morale, il quale non si configura esclusivamente come pretium doloris , ma anche come risposta satisfattiva alla lesione della dignità umana (Cass. civ., sez. 3, sent. 11/06/2009 n. 13530).

A tale scrutinio non si sono affatto sottratti i Giudici del merito e, nella liquidazione della somma per il risarcimento del danno conseguente dal reato sub iudice, il danno biologico, come componente di quello morale, non è stato (nè deve necessariamente essere) valutato in base ai parametri tabellari utilizzati dalla giurisprudenza civile, proprio perchè la natura non patrimoniale di questo tipo di danno consente di ricorrere anche a criteri equitativi.

Se poi è vero che il danno biologico consegue, di regola, ad una valutazione di tipo medico legale, trasfusa in una perizia o in una consulenza tecnica indicativa anche della percentuale di invalidità, è altrettanto vero che, qualora una valutazione del genere, pur in assenza di precisi indicatori della percentuale di invalidità, sia comunque acquisita agli atti sulla base, come nella specie, di accertamenti medici e psicologici, richiamati espressamente dal Giudice di merito nella motivazione della sentenza e in alcun modo censurati (v. sub 4.1. del considerato in diritto), sia l’inquadramento giuridico nelle varie categorie risarcibili che il parametro utilizzato per determinare, in via equitativa, la posta risarcitoria rientrano nei compiti attribuiti al giudice di merito.

Il ricorrente, a torto, postula che il danno patrimoniale e non patrimoniale sia stato liquidato secondo una percentuale di invalidità parametrata sul 70% e ricavata dalle tabelle adottate dal tribunale di Milano, tabella e parametro citati in sentenza a titolo meramente esemplificativo, ma se l’esito della liquidazione fosse nel senso censurato dal ricorrente, il Giudice avrebbe  dovuto rispettare quel parametro di riferimento assestandosi sulla determinazione di una somma prossima a 706.509,00 euro, laddove la liquidazione (equitativa) si è assestata sull’importo, facidiato della età, nettamente inferiore di 350.000,00 euro.

Del resto la devastante compromissione delle aspettative di vita futura della persona offesa dal punto vista psicofisico non è neppure trascurata, anzi espressamente considerata, dal ricorrente sicchè la relativa valutazione del giudice, in quanto affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, costituisce valutazione di fatto sottratta al sindacato di legittimità perchè sorretta da congrua motivazione che, avuto riguardo all’età ed alla durata degli abusi, ha tenuto conto delle lesioni cagionate agli affetti, alle relazioni, alla serenità, allo sviluppo, alla crescita, alla sessualità della vittima.

E’ pacifico che la valutazione equitativa dei danni non patrimoniali e’ rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito e non e’ sindacabile in sede di legittimita’, qualora abbia soddisfatto l’esigenza di ragionevole correlazione tra gravita’ effettiva del danno e ammontare dell’indennizzo, correlazione motivata attraverso i concreti elementi che possono concorrere al processo di formazione del libero convincimento (Sez. 5, n. 38948 del 27/10/2006, Avenati ed altri, Rv. 235024).

Quanto poi al danno patrimoniale, e’ di tutta evidenza come al cospetto di una vittima dell’eta’ di 10 – 12 anni non sia possibile una determinazione di esso nel suo preciso ammontare, sicche’ trova applicazione, anche in siffatto caso, la valutazione equitativa del giudice (articoli 2056, 1223, 1226 c.c.) e tale valutazione si risolve in una quaestio facti, la quale non puo’ essere oggetto di censura in sede di controllo di legittimita’, a meno che non si contesti (ma non e’ questo il caso mancando qualsiasi specifica contestazione in proposito) la legittimita’ del ricorso al criterio equitativo.

Ne consegue l’infondatezza del motivo.

  1. E’ manifestamente infondato il quinto motivo di gravame.

Posto che e’ stata contestata un’unica circostanza aggravante (articolo 61 c.p., n. 11) elisa per effetto del giudizio di comparazione con le concesse attenuanti generiche, stimate equivalenti all’aggravante contestata, va precisato che l’approfitta mento della relazione domestica da parte dell’imputato radica indubbiamente la sussistenza dell’aggravante in considerazione della stabile presenza dell’agente nella dimora familiare, essendosi l’agente stesso avvantaggiato del rapporto di convivenza con la madre della minore abusata e ponendo in essere atti lesivi della sfera sessuale della minore stessa, configurando cio’ l’aggravante dell’abuso di relazioni domestiche.

Quanto alla doglianza in punto di commisurazione della pena, la Corte territoriale ha precisato come il G.U.P., nelle operazioni di calcolo, sia partito dalla pena di anni otto di reclusione (articolo 609 bis c.p.), aumentata ex articolo 81 cpv. c.p. di tre anni di reclusione e quindi ridotta per il rito ad anni sette mesi quattro di reclusione, evidenziandone la congruita’ sul rilievo che i palpeggiamenti sono avvenuti in ambito domestico-familiare e che i rapporti sessuali completi si sono verificati nel contesto di un distorto rapporto sentimentale tra una bambina di 10-11 anni ed un adulto di 34-35 anni per di piu’ compagno della madre della bambina e dalla bambina percepito anche quale figura potenzialmente paterna, con la conseguente pesante lesione del rapporto di fiducia avendo i fatti criminosi prodotto danni psichici incalcolabili ma comunque gravissimi sicche’, pur considerando la resipiscenza post delictum del ricorrente, tali circostanze hanno indotto la Corte del merito a ritenere congrua sia la pena base (otto anni) e sia l’aumento per la continuazione (tre anni).

Al cospetto di un apparato motivazionale logicamente ed adeguatamente motivato, la censura sulla dosimetria della pena sfugge al sindacato di legittimita’ avendo il giudice del merito fatto corretto uso del potere discrezionale conferitogli dagli articoli 132 e 133 c.p..

Consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge.

LA PSICOLOGIA DEL GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO  

di Serena Baroncelli

Allieva Scuola di Psicoterapia Erich Fromm

Introduzione

Il giocare d’azzardo può essere definito come “qualsiasi puntata o scommessa […] il cui risultato sia imprevedibile, ovvero dipenda dal caso o dall’abilità”; è “lo scommettere su ogni tipo di gioco o di evento ad esito incerto dove il caso, in grado variabile, determina tale esito” (Lavanco, 2001; Filippi & Breveglieri, 2010 ).

Quando l’attività ludica varca le soglie del “gioco d’azzardo” il confine tra normalità e patologia si fa estremamente labile (Lavanco & Varveri, 2006).

La maggior parte di coloro che si dedicano al gioco d’azzardo lo pratica come forma di passatempo e di divertimento. Si tratta di un fenomeno sociale e culturale che come tale quindi non può essere certo demonizzato. Tuttavia, in certi casi, alcuni individui sviluppano un’ossessione e un atteggiamento morbosi verso il gioco, arrivando a instaurare con esso una vera e propria forma di dipendenza (Lavanco & Varveri, 2006).

Il  gioco  d’azzardo patologico (GAP)  viene  definito nel  Manuale Diagnostico  e  Statistico  dei Disturbi Psichiatrici (DSM-IV-TR, 2000) come un “comportamento persistente, ricorrente e mal adattivo di gioco che compromette le attività personali, familiari o lavorative” (APA, 1994; trad. it.

1996, p. 674). E’ una malattia neuropsicobiologica, spesso cronica e recidivante, associata a gravi conseguenze  fisiche,  psichiche  e  sociali  per  l’individuo;  è  comunque  prevenibile,  curabile  e guaribile ma necessita di una diagnosi precoce, cure specialistiche e supporti psicologici e sociali. L’Arizona Council on Compulsive Gambling (1999), definisce il gioco d’azzardo patologico come un disturbo progressivo, caratterizzato dalla continua perdita di controllo in situazioni di gioco, dal pensiero fisso di giocare e di reperire denaro per continuare a farlo, dal pensiero irrazionale e dalla reiterazione del comportamento, nonostante le conseguenze negative che provocano sul soggetto. In una ricerca svolta con il National Comorbidity Survey-Replication, si rileva che la durata media del gioco d’azzardo è di 9,4 anni, sebbene l’intervallo medio tra l’età d’esordio e i problemi di gioco sia notevolmente più ampio, di 16,2 anni (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010).

1.1 IL GIOCO: UNA PROSPETTIVA EVOLUTIVA

Il gioco rappresenta una forma di attività peculiare degli uomini, è un elemento della natura umana. E’ altresì da considerarsi una tappa fondamentale dell’infanzia, attraverso cui il bambino può soddisfare determinati bisogni, necessari per un armonioso e positivo sviluppo, e acquisire nuove abilità e competenze. Il gioco, infatti, svolge un ruolo di capitale importanza nello sviluppo del senso di auto-efficacia, di autoaffermazione e nella formazione del carattere del bambino (Lavanco & Varveri, 2010). Egli si misura con i propri limiti, prende coscienza delle proprie qualità e potenzialità, perfeziona capacità quali la creatività, l’imitazione e lo scambio di ruoli. Tuttavia il gioco non è soltanto una prerogativa infantile, esso continua a mantenere anche in età adulta un importante ruolo compensatorio, di scarico delle tensioni e dell’aggressività. In quest’ottica prevale quindi l’aspetto divertente e gratificante attraverso cui il soggetto interrompe la routine quotidiana. La dimensione del gioco diventa una componente talmente rilevante nell’esistenza dell’uomo, che diventa legittimo parlare di homo ludens, l’uomo che gioca, oltre che di homo faber, l’uomo produttore, che dimostra nella vita l’essenza del suo essere sapiens e la dimensione essenziale del fare (Huizinga, 1938).

Se con il termine “gioco” si fa riferimento ad ogni attività che abbia come scopo la ricreazione e lo svago, quando si parla di “gioco d’azzardo” si intendono attività in cui non rientra più l’abilità del giocatore ma soltanto la sorte, il fato e lo scopo di lucro. Questa distinzione può essere espressa da i due termini inglesi play, in cui spiccano la capacità e l’abilità del soggetto, e gambling, in cui prevalgono l’azzardo e il fine di lucro. Il gioco degli adulti è considerato nei suoi aspetti positivi come un elemento distraente dal lavoro, in cui ci si rifugia per non soccombere ai ritmi frenetici e stressanti delle vicissitudini quotidiane. Talvolta però l’esperienza ludica può diventare talmente coinvolgente e pervasiva da costituire tutt’altro che un’oasi di felicità e perfezione: il gioco da magico può diventare demoniaco, con preoccupanti costi individuali e sociali. Il gioco non è più divertimento perché si viene sopraffatti da una dimensione tanto attraente quanto instabile e si corre il rischio di venire assorbiti in un clima infuocato, subdolo, ambiguo quale quello del gioco d’azzardo, un gioco che rapisce, stordisce e schiavizza l’individuo, irrompe nella quotidianità, invadendo la sfera del benessere personale, familiare, lavorativo e sociale. E’ un coinvolgimento totale, estremo, come emerge chiaramente dalle parole di Dostoevskij (1866): “Fui assalito da un desiderio spasmodico di rischiare; forse dopo aver provato così tante sensazioni, l’animo non si sente sazio ma eccitato da esse, ne chiede sempre più altre, sempre più intense, fino alla totale estenuazione”.  Passione  e  dolore,  socialità  e  aggressività,  vita  e  morte,  sono  immagini  che convivono nella dimensione dell’azzardo (Lavanco & Varveri, 2010).

1.2 IL GIOCO D’AZZARDO COME RIFLESSO DELLA SOCIETA’ ATTUALE

Per comprendere il fenomeno del gioco d’azzardo patologico è necessario addentrarci nell’analisi della società attuale: l’edonismo rimpiazza il senso del dovere, la liberazione e la serenità personale passa anche attraverso l’acquisto, il possesso, l’esibizione (Croce, 2010). Stiamo vivendo in un mondo nel quale non esistono più confini. Dove non esistono più limiti, ma tutto è possibile.

Questa situazione può essere felicemente catturata attraverso l’immagine di Las Vegas: il luogo del divertimento per eccellenza, un luogo senza tempo, dove scompare la percezione del tempo cronologico e del tempo naturale.

Adottando questa prospettiva, anche la concettualizzazione della problematica delle dipendenze assume una nuova aurea: non ci troviamo più nello scenario del disagio della civiltà del tempo di Freud in cui la sofferenza era considerata la conseguenza necessaria per un soggetto inibito da un sistema sociale che imponeva la rinuncia al soddisfacimento pulsionale. Al contegno e al controllo si sostituisce adesso la necessità di consumare, di godere, di prendersi dei rischi. Le dipendenze si collocano in questo cambiamento: nuovi sono i valori, le richieste e gli imperativi della società odierna. Questi disturbi contrassegnati dalla tendenza agli agiti e all’azione esprimerebbero il malessere di una società in cui solo l’azione, rapida, efficace, sembra garantire alle persone la possibilità di vedere riconosciuto il proprio valore ed il proprio ruolo sociale. Le dipendenze svelano un aspetto di assenza del controllo, di ricerca del piacere immediato, di soddisfazione degli impulsi. Questi disturbi sono da considerarsi quindi una condizione patologica tipica del nostro tempo, espressione di profondi mutamenti sociali e dello stile di vita. Sono quasi uscite di scena le nevrosi classiche come l’isteria, legate ad un eccesso di controllo e inibizione, per passare a patologie come i disturbi narcisistici (Croce, 2010).

Osservando la realtà e le storie di molti giocatori ci rendiamo conto di come non ci troviamo più di fronte ad eroi scellerati, romantici o decadenti, che si giocano al famoso tavolo verde cifre da capogiro, ma più banalmente persone che al bar si giocano un modesto stipendio. Il giocatore del nuovo millennio sembra essere il simbolo dell’inettitudine umana, caratterizzata dalla consapevolezza del fallimento, dell’inadeguatezza dell’esistenza e dell’incapacità di prendere decisioni e affrontare problemi (Croce, 2010).

1.3 GAMBLING O GIOCO D’AZZARDO: UNA CLASSIFICAZIONE DEI GIOCHI E DEI GIOCATORI

A questo proposito, si ritiene necessario distinguere quali giochi sono considerati d’azzardo e quali, invece, non rientrano in tale categoria.  Sono giochi d’azzardo quelli in cui ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi  aleatoria (art.721 C.P.). Per stabilire se un gioco abbia o meno il carattere di azzardo, occorre fare riferimento a due parametri

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1) Elemento oggettivo: l’aleatorietà della vincita.

Sono aleatori quei giochi che normalmente e per la loro natura, in tutto o quasi, dipendono dal caso, escludendo            ogni            possibile            ruolo            dell’abilità            del            giocatore.

2) Elemento soggettivo: quando si rinviene nel gioco lo scopo di lucro, che sussiste quando i

giocatori si propongono di conseguire vantaggi economicamente valutabili. Il fine di lucro non va escluso anche se la posta è modesta o non si manifesta sotto forma di denaro ma in consumazioni come caffè, vivande ecc. (Cass. pen. sez. Ili – 26 febbraio 1983, n. 1738).

Callois (1958)  ritiene che tutti i  giochi possano essere suddivisi in  quattro tipologie distinte:

Mimicry, Ilinix, Agon e Alea.

I giochi di Mimicry (mimetismo) sono quelli in cui prevale la simulazione, l’immaginario e l’illusione, sono i giochi di travestimento e di fantasia in cui il soggetto gioca a credere o a far credere agli altri di essere un altro.

I giochi di Ilinix (vertigine) sono quelli che si basano sulla ricerca della vertigine. Consistono nel distruggere per un attimo la stabilità della percezione e far subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico. Si tratta di accedere ad una specie di spasmo, di trance o smarrimento che annulla la realtà.

I giochi di Agon (competizione) sono quelli che si basano sulla competizione e la sfida di un avversario, essi presuppongono un certo livello di attenzione, esercizio e impegno per essere affrontati adeguatamente.

I giochi di Alea (termine latino usato per indicare il gioco dei dadi) non si fondano su qualità, doti e predisposizioni individuali ma solo sulla sfida del destino. Alea, a differenza di Agon, nega ed esclude l’importanza del lavoro, della fatica e dell’impegno: il giocatore è totalmente passivo e il fato è l’unico artefice della vittoria. Il gioco d’azzardo rientra proprio all’interno di quest’ultima categoria, in quanto, anche nei giochi dove è comunque necessaria una forma di abilità, è sempre il Fato a decidere la sorte del giocatore (Callois, 1958).

Recentemente è stata proposta una classificazione dei giochi d’azzardo più diffusi in Italia, tra i quali è possibile distinguere: i giochi numerici a quota fissa, i giochi numerici a totalizzatore, gli apparecchi da intrattenimento, le lotterie e le lotterie istantanee, i giochi a base sportiva, i giochi a base ippica, il bingo, i giochi di abilità a distanza e i casinò (Filippi & Breveglieri, 2010).

I giochi numerici a quota fissa sono quei giochi basati sui numeri, per cui la vincita dell’utente è definita, di volta in volta, in base all’importo delle giocate, come ad esempio il Lotto.

Sono considerati giochi numerici a totalizzatore nazionale, quei giochi di sorte basati sulla scelta di numeri, da parte dei consumatori, nell’atto della scommessa. In questo caso, l’ammontare della vincita  non  è  nota  al  momento  della  giocata  ma  è  definita  solo  a  posteriori,  sulla  base dell’ammontare complessivo del montepremi raccolto e del numero di giocate vincenti.

Gli apparecchi da intrattenimento sono quei giochi in cui vi è interazione con una macchina, come le New Slots e le Videolotteries, che restituiscono vincite in denaro. Si trovano spesso nelle tabaccherie, nei bar e negli alberghi, rappresentando un’attività aggiuntiva a quella principale; esistono anche sale giochi e ricevitorie, che fanno dei giochi da intrattenimento la loro attività esclusiva.

Nelle lotterie, l’utente partecipa all’estrazione di premi, tramite l’acquisto di un biglietto. Esse possono essere “differite”, nel caso in cui l’estrazione dei premi sia collegata ad alcuni eventi storici o artistici (ad esempio la Lotteria Italia) o “istantanee”, poiché la verifica della combinazione vincente è immediata, come nel caso del Gratta&Vinci.

I giochi a base sportiva sono giochi in cui si vince grazie all’abilità di prevedere l’esito di alcuni eventi sportivi, come il Totocalcio e il Totogol.

I giochi a base ippica sono, invece, i giochi per cui il giocatore vince grazie alla capacità di prevedere l’esito di corse ippiche. Il gioco si svolge presso le agenzie ippiche, gli ippodromi, i negozi ed i corner ippici e sportivi.

Il bingo ha un  carattere di intrattenimento, socializzazione e impiego piacevole del tempo libero, differenziandosi in maniera sostanziale da altri giochi, come le Slot machines e il poker, basati prevalentemente su comportamenti individuali.

I giochi di abilità a distanza, meglio conosciuti come skill games (fra i quali spicca il poker online ma anche il bridge e gli scacchi), sono giochi che prevedono una vincita in denaro e il cui esito dipende dall’abilità, dall’arguzia e dalla perspicacia del giocatore nel condurre la partita, ma rilevanti sono anche gli elementi di carattere casuale.

I casinò sono edifici in cui è possibile giocare alle roulettes, al blackjack, al poker, alle slot machines e ad altri giochi ancora. Attualmente sono presenti sul territorio italiano solo quattro casinò autorizzati come il Casinò Municipale di Venezia, Casinò Municipale di Campione d’Italia, Casinò Municipale di Sanremo e il Casinò De La Vallée di Saint-Vincent in Valle d’Aosta.

Come evidenziato dall’elenco sopra citato, l’offerta dei giochi d’azzardo è ampia e diversificata: ai giochi tradizionali, come le scommesse sui cavalli (presenti già al tempo della Regina Elisabetta I, in Inghilterra, nel XVI secolo), le lotterie, le roulettes o, più recentemente il SuperEnalotto, se ne sono aggiunti di nuovi, sempre più tecnologici e allettanti, tipici dell’era multimediale: Casinò, videopoker, gambling on-line e Gratta&Vinci (Lavanco & Varveri, 2006). Inoltre, si può giocare in qualsiasi  luogo,  anche  per  la  strada,  con  l’ausilio  di  moderni  telefoni  cellulari  e  tablets. L’opportunità, quindi, di entrare in contatto con il mondo del gioco sono cresciute, negli ultimi anni, in modo esponenziale, tanto da costituire un fattore di rischio per lo sviluppo della malattia stessa (Filippi & Breveglieri, 2010).

Parlare di gioco e di giocatori d’azzardo comporta la necessità di discutere dei diversi livelli di gioco, in termini di intensità e gravità dello stesso (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010). Sono stati avanzati, per questo, alcuni esempi di classificazione dei giocatori d’azzardo. Tali tipologie, lungi da rappresentare categorie a sé stanti, sono piuttosto punti di un unico continuum a tappe “non obbligate” (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010).

Una prima distinzione, utile per un inquadramento descrittivo e clinico del fenomeno del gioco d’azzardo, è quella che vede suddivisi i giocatori in tre categorie, in base alle caratteristiche comportamentali e motivazionali che questi presentano: i giocatori sociali, i giocatori problematici e i giocatori patologici (Lavanco & Varveri, 2006, 2010; Serpelloni, 2013).

I giocatori sociali

Tutti almeno una volta hanno giocato d’azzardo; ciò non significa che chi gioca d’azzardo sia o diventerà un giocatore d’azzardo problematico, o addirittura patologico. Il giocatore sociale, per quanto sia una persona soggetta alle lusinghe dell’Alea, al fascino di guadagnare tutto in una volta, senza fatica, intuisce, senza oltrepassarlo, il labile confine tra semplice distensione, passatempo e morboso accanimento. Le perdite al gioco, pur essendo vissute con ragionevole rammarico, non diventano motivo di affanno o disperazione: esse, infatti, non sono mai troppo elevate, né superano o compromettono la disponibilità economica del giocatore.

Elevato è il numero di giocatori sociali, categoria questa che comprende sia i giocatori occasionali che quelli abituali: l’80% degli italiani infatti può essere considerato un giocatore occasionale, perché almeno una volta nella vita ha giocato d’azzardo, mentre il 20% scommette in maniera abituale, con assiduità, spinto dal desiderio di compiere un “salto” economico (Lavanco & Varveri,

2010). Si tratta di una tipologia di giocatori che può interrompere il gioco quando lo desidera e fa maggiore affidamento sui dati di realtà piuttosto che su un irragionevole senso di onnipotenza, elemento, questo, che gli consente di capire lucidamente quando è il momento di smettere. Tale gruppo di giocatori è spinto verso il gioco da un semplice desiderio di rilassarsi, dall’incentivo del guadagno facile e senza fatica, dall’attrazione per il rischio. Per queste persone, comunque, il gioco non interferisce con la vita quotidiana e, per tale motivo, rappresenta la ricerca momentanea di un’esperienza appagante all’interno della routine quotidiana. Essi riescono a limitare le perdite e a fermarsi quando stanno vincendo; non mettono in gioco tutti loro stessi e si lasciano coinvolgere emotivamente solo in parte. Quando si parla di gioco abituale, quindi, non si discute ancora di gioco problematico. Tuttavia, la presenza di fattori di rischio concomitanti può condurre il giocatore a sviluppare forme di disagio legate al gioco, che lo conducono verso la problematicità (Lavanco & Varveri, 2006, 2010; Serpelloni 2013; La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010 ).

I giocatori problematici

Se il giocatore sociale, nella maggioranza dei casi, non imbocca la strada della dipendenza patologica, diversa è la situazione del giocatore problematico.

Questo  tipo  di  giocatore  non  riesce  ad  avere  un  pieno  controllo  sul  gioco  e  con  il  suo comportamento sconsiderato, inizia a danneggiare la sfera personale, familiare e sociale; egli va

pertanto alla ricerca di quel piacere che solo il gioco gli assicura. La persona inizia a dedicare sempre più tempo al gioco, la frequenza delle giocate si fa più alta, la quantità di denaro scommesso aumenta, il gioco comincia ad avere un ruolo di primo piano nella vita quotidiana. La possibilità di sviluppare un comportamento patologico e sempre più severo, che lo spinge a giocare compulsivamente, senza fermarsi, fino a quando non si perde tutto, si fa  molto probabile (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010; Lavanco & Varveri, 2006, 2010; Serpelloni, 2013).

I giocatori patologici

I giocatori patologici sono, invece, quei soggetti che hanno perso completamente il controllo del proprio comportamento, tanto da non riuscire a smettere di giocare, finché non hanno perso tutto. Spesso sono frequenti anche attività illegali per risanare i debiti accumulati o per reperire nuove risorse da investire.

Il gioco si configura, in questo caso, come una vera e propria dipendenza, con preoccupanti costi individuali  e  sociali,  che  compromette  in  modo  significativo  l’adeguato  funzionamento  della persona nel suo contesto di vita, tanto che diventa assolutamente necessario un intervento di cura.

È difficile stabilire una netta demarcazione tra giocatore sociale, problematico e patologico. Come già detto, si tratta di un continuum, di un processo che può condurre, anche se non necessariamente, un giocatore sociale (occasionale o abituale), a sviluppare una vera e propria forma di addiction (dipendenza) dal gioco d’azzardo (Lavanco & Varveri, 2006). Su questa linea di pensiero si inserisce il pensiero di Custer, che considera il gioco patologico la tappa finale di un lungo percorso, durante il quale entrano in gioco innumerevoli fattori in grado di cambiare o modificare la traiettoria del comportamento di gioco assunta dall’individuo (Lavanco & Varveri, 2006).

L’atteggiamento nei confronti del livello di gravità delle forme di gioco trova, tra la popolazione, posizioni e giudizi differenti: se il gioco d’azzardo, come forma sociale, sembra essere esaltato ed incentivato, quello problematico viene tenuto in scarsa considerazione e, addirittura, quello patologico, sembra essere demonizzato e percepito come un fenomeno raro e lontano dalla propria esperienza. Negli ultimi anni, però, a seguito di un incremento esponenziale di persone che hanno sviluppato una vera e propria patologia di gioco, si sta assistendo ad un incremento nel grado di interesse e di  attenzione con cui la società e i vari professionisti del settore guardano e si occupano di tale problematica (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010; Lavanco & Varveri, 2006).

Un’altra classificazione efficace viene proposta da Guerreschi (2000), che individua sei categorie in cui collocare i giocatori d’azzardo: i giocatori d’azione con sindrome da dipendenza, sono soggetti compulsivi, per i quali il gioco d’azzardo rappresenta la cosa più importante della vita, a scapito di famiglia, amici e lavoro. Si dedicano maggiormente a giochi più “dinamici”, come quelli legati alle scommesse  o  al  poker.  I  giocatori  per  fuga  con  sindrome  da  dipendenza  sono,  invece,

particolarmente dediti alle slot machines e giocano per alleviare sensazioni di ansia, noia, depressione e solitudine, utilizzando il gioco come analgesico. In questa tipologia ritroviamo tipicamente le donne, le quali tentano di sgattaiolare da una realtà deprimente e mortificante. I giocatori sociali costanti, per i quali il gioco d’azzardo è, invece, la fonte principale di relax e divertimento. Mettono il gioco in secondo piano rispetto alla famiglia e al lavoro; in più, nonostante l’assiduità delle giocate, continuano a mantenere un lucido controllo del loro gioco. I giocatori sociali adeguati giocano per passatempo, per socializzare e per divertirsi. Il gioco d’azzardo è percepito come una distrazione, uno svago e pertanto non interferisce con i compiti della vita, famiglia, amicizie e lavoro. I giocatori antisociali si servono del gioco d’azzardo per ottenere un guadagno in maniera illegale e i giocatori professionisti non patologici sono quelli che si mantengono proprio giocando d’azzardo.

Blaszczynski  propone  una  classificazione  dei  giocatori  che,  al  contrario  delle  precedenti,  si concentra solo su quelli patologici. Questi vengono suddivisi in tre sottogruppi, caratterizzati da un livello crescente di problematicità: i giocatori problematici-normali (Normal problem gamblers), i giocatori disturbati emotivamente (Emotionally disturbed gamblers) e il gruppo dei giocatori con correlati biologici (Biological correlates of gambling) (Blaszczynski, 2000; Blaszczynski & Nower,

2001). I giocatori problematici-normali sono quelli per i quali il comportamento di gioco eccessivo non è imputabile alla presenza di disturbi psichici primari, bensì a schemi cognitivi distorti e a carenza di giudizio. Le caratteristiche tipiche associate al gioco d’azzardo patologico, come la rincorsa alle perdite, il craving, la preoccupazione eccessiva e la dipendenza da sostanze, sono pertanto  la  conseguenza  della  pratica  del  gioco  d’azzardo  e  la  risposta  finale  alle  pressioni finanziarie causate dalle continue perdite. I giocatori  disturbati emozionalmente sono quelli per cui il gioco d’azzardo rappresenta una forma di fuga emozionale in grado di modulare l’umore e soddisfare specifici bisogni psicologici. Questo sottogruppo manifesta alti livelli di psicopatologia pregressa, come depressione, ansia, dipendenza da sostanze e strategie di coping disadattive, oltre che esperienze di sviluppo negative, eventi di vita avversi e familiarità con il gioco d’azzardo. Il sottogruppo dei giocatori d’azzardo con correlati biologici è definito dalla presenza di disfunzioni neurobiologiche, compromissioni a danno del lobo frontale e alterazioni a livello genetico. Essi mostrano evidenti tratti di impulsività nel comportamento, che spesso precedono il gioco e sono rilevabili già dall’infanzia. Il tipico giocatore d’azzardo appartenente a questa categoria viene denominato, infatti, “impulsivo-antisociale”: è cioè impulsivo, mostra un ampio spettro di problemi comportamentali, come irritabilità e comportamenti criminali, non è in grado di ritardare la gratificazione e manifesta una marcata propensione a cercare attività gratificanti. Il gioco d’azzardo inizia in tenera età e si intensifica rapidamente per intensità e gravità (Blaszczynski, 2000; Blaszczynski & Nower, 2001).

Il modello di Blaszczynski mette in luce l’importanza di considerare i giocatori patologici come un insieme eterogeneo e variegato, con caratteristiche, percorsi di vita e fattori di vulnerabilità differenti. Per questo, da un punto di vista clinico, emerge la necessità di rilevare tali peculiarità, per sviluppare metodi di intervento e di cura altrettanto differenziati: i giocatori patologici “normali” richiedono, infatti, interventi minimi di consulenza e strategie di sostegno, come quelle offerte dai gruppi di auto-aiuto (ad esempio, i Giocatori Anonimi); quelli emotivamente vulnerabili e con correlati biologici richiedono, invece, più ampi interventi psicoterapeutici, volti all’incremento delle abilità di problem solving, della capacità di gestire lo stress, di controllare gli impulsi, oltre a procedure per migliorare l’autostima e l’immagine di sé (Blaszczynski & Nower, 2001).

Anche Moran (1970) propone una classificazione dei giocatori patologici in relazione  all’intreccio tra fattori ambientali e costituzionali, considerati fondamentali nella genesi e nel decorso del gioco patologico. Le cinque categorie cliniche che egli identifica sono: il gioco sub culturale, connesso al contesto familiare e sociale dell’individuo: la persona gioca d’azzardo per sentirsi adatta al gruppo dei pari; il gioco nevrotico, quando il comportamento di gioco patologico è una risposta a situazioni stressanti o a problemi emozionali: è un’occasione di sollievo dalle tensioni; il gioco psicopatico, che costituisce un aspetto del comportamento antisociale; il gioco impulsivo, caratterizzato dalla perdita del controllo e, infine, il gioco sintomatico, che è considerato secondario ad altri disturbi mentali, quali, ad esempio, la depressione (Moran, 1970).

1.4 EPIDEMIOLOGIA DEL GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO

Il mercato del gioco d’azzardo è un settore in costante evoluzione ed espansione, tanto che la quantità e l’offerta risultano sempre più ampie e diversificate. I nuovi giochi d’azzardo tecnologici definiscono un nuovo modo di giocare: solitario, asociale (non implicano, quindi, né interazione né comunicazione tra i soggetti), decontestualizzato (ad ogni ora e in ogni luogo), con regole semplici e ad alta soglia di accesso (Filippi & Breveglieri, 2010). Si è rilevato, pertanto, negli ultimi anni, a seguito della crescita nella disponibilità e nella facile accessibilità delle offerte di gioco, ma anche in relazione a una situazione economica sempre più precaria, un aumento nelle richieste di aiuto e di assistenza, sia nel pubblico che nel privato, da parte dei giocatori o delle loro famiglie (Bastiani, Gori, Colasante, Siciliano, Capitanucci, Jarre et al., 2011).

1.4.1 Il fenomeno dell’azzardo in Italia: cifre da capogiro e in costante aumento

L’Italia è il primo paese al mondo per il denaro speso nelle scommesse (secondo solo agli Stati

Uniti per denaro effettivamente investito, ma primo se si considera il rapporto spesa/abitanti)

(Lavanco & Varveri, 2006). Secondo i dati dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (2011), il gioco è una delle industrie più fiorenti nel nostro paese: nel 2008 sono stati raccolti 47,4 milioni di euro, nel 2009 54,4 milioni, fino ad arrivare nel 2010 a 61,4 milioni. Il Nord-Ovest è l’area che registra, in termini assoluti, il maggior volume di gioco (12 miliardi di euro annui). Tuttavia, se si considera l’incidenza della spesa per il gioco sul Pil, il primato spetta a Sud e Isole.

La Lombardia è la regione italiana dove si gioca di più (quasi 8,4 miliardi di euro) seguita dal Lazio con 4,6 miliardi di euro. Tuttavia, la regione in cui il peso del volume del gioco sull’economia locale è più elevato è la Campania (4,4 %), seguita da Abruzzo, Puglia, Molise e Sicilia. La Liguria e l’Abruzzo riportano una percentuale molto alta di soggetti che hanno sviluppato o sono a rischio di sviluppare una dipendenza nel gioco (Bastiani, Gori, Colasante, Siciliano, Capitanucci, Jarre et al., 2011). Il settore di gioco che ha conosciuto una massiccia diffusione è quello degli apparecchi da intrattenimento, tanto che le dimensioni del mercato delle Slot machines sono cresciute di quasi

70 volte dal 2003 al 2010, passando da 367 milioni a 25,5 miliardi di euro (Aams 2010; Eurispes

2008). Anche il mercato del gioco on line sta crescendo a un ritmo decisamente elevato, con un incremento del 58,5% rispetto dal 2009 al 2010 ed una raccolta complessiva pari a 3,7 miliardi di euro. La raccolta dei giochi numerici a totalizzatore si è incrementata addirittura del 50% dal 2008 al 2009, mentre il Lotto, il Bingo e l’Ippica mostrano un calo significativo. In generale la maggior parte delle quote in entrata dei giochi d’azzardo riguarda le slot machines, secondariamente le lotterie e quindi i giochi a distanza (Serpelloni & Rimondo, 2012).

Secondo il Ministero della Salute (2011), in Italia il 54% della popolazione è costituita da giocatori d’azzardo. La stima di quelli problematici varia dall’1,4 % al 3,8% mentre la stima di quelli patologici oscilla tra lo 0,5% al 2,2 % (Serpelloni & Rimondo, 2012).

1.4.2 Il fenomeno dell’azzardo in Europa

Anche in Europa l’azzardo assicura allo Stato ingenti introiti: la Germania nel 2007 ha incassato circa  12  miliardi  di  euro,  distinguendosi  da  tutti  gli  altri  Paesi  europei,  seguita  dal  mercato britannico e da quello francese. La tipologia delle offerte è piuttosto eterogenea tra i diversi paesi dell’Unione: in Germania e in Italia si impongono in modo piuttosto netto le lotterie, mentre nel settore delle slot machines è la Spagna a detenere il primato, con introiti che sfiorano i 4 miliardi di euro all’anno e un numero di macchine installate pari a 340 mila. Per quanto riguarda i casinò, invece, il mercato più importante è quello francese, con 197 sale all’attivo (Commissione Europea

2006; Eurispes 2009; Euromat 2008, in Filippi & Breveglieri, 2010).

C’è da tener presente che gli Stati differiscono per legislazione, restrizioni, modalità di concessione delle licenze e questo incide sulle tipologie di gioco che vengono offerte e quindi maggiormente fruite dai cittadini: in quasi tutti gli Stati Uniti ad  esempio sono vietate le scommesse  sportive e

quelle a distanza, attraverso siti internet o telefono cellulare (Filippi & Breveglieri, 2010).

1.5 GAP: CARATTERISTICHE CLINICHE E INQUADRAMENTO NOSOGRAFICO

Il riconoscimento di una vera e propria patologia legata al gioco d’azzardo è piuttosto recente. Viene inserito come un  disturbo psichiatrico a sé stante solo nel 1980,  all’interno della terza edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi psichiatrici (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, DSM). È stato mantenuto anche nelle edizioni successive del DSM-IV e del DSM-IV-TR ed è collocato nella sezione relativa ai “Disturbi del controllo degli impulsi non classificati altrove”, insieme alla Piromania, la Cleptomania, la Tricotillomania e il Disturbo esplosivo intermittente. Il gioco d’azzardo patologico viene definito dall’American Psychiatric Association (APA) come un “comportamento persistente, ricorrente e mal adattivo di gioco, che compromette le attività personali, familiari o lavorative” (APA, 1994; trad. it. 1996, p. 674). Viene posta una diagnosi di gioco patologico quando il soggetto riporta cinque (o più) dei 10 sintomi indicati dal DSM (Criterio A):

  1. E’ eccessivamente coinvolto nel gioco d’azzardo (ad esempio il soggetto è continuamente intento a rivivere esperienze trascorse di gioco, a valutare o pianificare la prossima impresa di gioco, ad escogitare i modi per procurarsi il denaro con cui giocare).
  2. Ha bisogno di giocare somme di denaro sempre maggiori per raggiungere lo stato di eccitazione desiderato.
  3. Tenta ripetutamente e senza successo di controllare, ridurre o interrompere il gioco d’azzardo.
  1. Nel tentativo di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo, il soggetto risulta molto irrequieto e irritabile.
  2. Il soggetto ricorre al gioco come fuga da problemi o come conforto all’umore disforico (ad esempio senso di disperazione, di colpa, ansia, depressione).
  3. Quando perde, il soggetto ritorna spesso a giocare per rifarsi (“inseguimento” delle perdite).
  1. Mente in famiglia e con gli altri per nascondere il grado di coinvolgimento nel gioco d’azzardo.
  1. Ha commesso azioni illegali come falsificazione, frode, furto o appropriazione indebita per finanziare il gioco d’azzardo.
  2. Mette a rischio o perde una relazione importante, un lavoro, un’opportunità di formazione o di carriera a causa del gioco.
  3. Confida negli altri perché gli forniscano il denaro necessario a far fronte a una situazione economica disperata, causata dal gioco.

Il comportamento di gioco d’azzardo patologico non deve essere, pertanto, attribuibile a un episodio maniacale (Criterio B).

Sebbene non siano inseriti nel DSM, si tende a includere in tale categoria anche il Disturbo da

shopping compulsivo, la Dipendenza da internet e la Dipendenza sessuale (Dell’Osso, Altamura, Allen, Marazziti & Hollander, 2006).

I  Disturbi  del  controllo  degli  impulsi  (DCI)  sono  caratterizzati dall’incapacità del  soggetto  a resistere ad un impulso o ad una tentazione impellente. Tale spinta è preceduta da una sensazione di crescente tensione ed eccitazione, che induce il soggetto a compiere un’azione pericolosa per sé stesso e/o per gli altri e a cui fanno seguito gratificazione, piacere e sollievo (DSM-IV, 1994). L’analogia tra i disturbi del controllo degli impulsi e l’attitudine al gioco d’azzardo è evidente: come la Cleptomania è caratterizzata dalla ricorrente incapacità di resistere all’impulso di rubare oggetti, la Piromania dal desiderio di appiccare il fuoco e la Tricotillomania dall’impulso di strapparsi i capelli, così il gioco d’azzardo patologico è caratterizzato dall’incapacità di resistere all’impulso di scommettere e giocare d’azzardo (Lavanco & Varveri, 2006). A questo proposito, è esemplificativo litem numero 3 del DSM, che fa esplicitamente riferimento alla perdita del controllo ( loss of control) e all’incapacità di ridurre o interrompere la pratica del gioco d’azzardo.

A supporto dell’inclusione del gioco d’azzardo patologico all’interno della categoria dei Disturbi del controllo degli impulsi, vi sono anche alcune ricerche internazionali che testimoniano e riportano un’elevata  comorbilità  tra  gambling  e  DCI  (Black  &  Moyer,  1998;  Specker,  Carlsons  & Christenson, 1995): i disturbi più comunemente associati sembrano essere il Disturbo da shopping compulsivo e la Dipendenza sessuale (Black & Moyer, 1998; Specker, Carlsons & Christenson,

1995).

Da un punto di vista neurobiologico, si riscontrano in letteratura alcune evidenze che provano il coinvolgimento, nel gioco d’azzardo patologico, di aree deputate al controllo degli impulsi, come la corteccia prefrontale (Potenza, 2006). Durante la presentazione di stimoli visivi riguardanti il gioco, infatti, i giocatori patologici mostrano una diminuzione nell’attivazione della corteccia prefrontale (Potenza, 2006), così come avviene, analogamente, nei soggetti che presentano una tendenza impulsiva a commettere gesti aggressivi (Potenza, 2006). Un ruolo di primo piano nella regolazione di queste aree è svolto dalla serotonina, considerata una componente di sostanziale importanza nel controllo degli impulsi e delle funzioni inibitorie (Potenza, 2008). I suoi circuiti risultano spesso alterati nei giocatori patologici (alterazioni, ad esempio, a carico dei geni trasportatori della serotonina 5HTT1 e CHTT2). Nei giocatori d’azzardo si rilevano anche un aumento dei livelli di noradrenalina e alterazioni nei livelli di dopamina (Clark, 2010). I giocatori patologici, così come i soggetti con Disturbo del controllo degli impulsi, riportano, infatti, più frequentemente l’allele D2A1 del gene recettore della dopamina D2, una variante associata a vari comportamenti di tipo impulsivo e compulsivo (Blaszczynski & Nower, 2001; Shah et al., 2004).

Recentemente la diagnosi di “Gioco d’azzardo patologico” è andata incontro a sostanziali cambiamenti (Petry, Blanco, Stinchfield & Volberg, 2012). Negli ultimi anni si è discusso, infatti, riguardo alla sua esatta collocazione e se, tale disturbo, debba essere considerato effettivamente un Disturbo del controllo degli impulsi, così come classificato nel DSM-IV (Canuzzi, 2012).

Nella primavera del 2013, è stata pubblicata la nuova versione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi psichiatrici, il DSM-5, che apporta delle novità per la comprensione e la concettualizzazione del gioco d’azzardo patologico.

Il cambiamento più vistoso si osserva per quanto riguarda la collocazione del disturbo, che viene, infatti, inserito all’interno del capitolo denominato “Addiction and related disorders, accanto alla dipendenza e all’abuso di alcool e droghe. In questa nuova categoria, il gioco d’azzardo rappresenta l’unica dipendenza comportamentale, senza sostanza (Denis, Fatseas & Auriacombe, 2011). “Addiction and related disorders” rimpiazza, pertanto, la precedente terminologia “Substance and related disorders”, utilizzata dal DSM-IV in riferimento alle dipendenze.

“Addiction” deriva dal latino “addicere” e significa “schiavo di”. Se il termine in origine non veniva utilizzato in riferimento all’uso di sostanze, ha iniziato prepotentemente ad essere associato all’atteggiamento di perdita del controllo, tipico dei dipendenti da sostanze, solo molti secoli dopo (Potenza, 2006) e, ad oggi, ha sostituito definitivamente il termine “dependence” utilizzato dal DSM-IV. Il cambiamento di terminologia è dovuto all’esigenza di ridurre le difficoltà e le ambiguità insite nella definizione di dipendenza: si può avere, infatti, una dipendenza fisica e chimica quando l’organismo richiede una certa sostanza per funzionare, ma non si evidenziano effetti negativi sul funzionamento del soggetto, oppure si può riscontrare una forma di dipendenza in cui si crea una condizione di ricerca attiva dell’oggetto, senza il quale la vita appare priva di significato, e che conduce a numerose conseguenze negative sulle diverse aree del funzionamento di vita (Lipari, Picone & Scardina, 2010; Potenza, 2006).

I motivi che hanno indotto gli esperti a includere il gioco patologico all’interno della categoria dei comportamenti di addiction è data, principalmente, oltre che dall’efficacia di alcuni trattamenti in entrambi i disturbi (Reilly, 2010; Upfold, 2009), anche dall’elevata percentuale di comorbilità riscontrata tra essi (Hodgins, Peden & Cassidy, 2005; Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010) e dalla simile manifestazione e categorizzazione di alcuni sintomi (Petry, Blanco, Stinchfield & Volberg, 2012; Upfold, 2009).

Il GAP e i disturbi da uso di sostanze condividono, infatti, molte caratteristiche, tanto che i criteri utilizzati per diagnosticarli sono del tutto simili. Due di questi riguardano la tolleranza e l’astinenza. La tolleranza, ovvero il bisogno di ingerire quantità crescenti di sostanze per raggiunge l’apice degli effetti desiderati, si manifesta anche nel giocatore quando aumenta continuamente l’importo di

denaro da spendere per raggiungere un certo grado di soddisfazione (item 2). Analogamente, l’astinenza, cioè lo sviluppo di sintomi fisici causati dalla cessazione o dalla riduzione prolungata dell’uso della sostanza, si riscontra anche nel giocatore d’azzardo, nella misura in cui questo sperimenta sensazioni  di  irritabilità e  di  irrequietezza quando  tenta  di  ridurre  o  interrompere l’attività di gioco (item 4). Un altro criterio diagnostico per la dipendenza da sostanze che incontra uno speculare per la diagnosi di gioco patologico, riguarda il persistente desiderio o i ricorrenti sforzi per smettere o controllare l’uso delle sostanze senza però riuscirci, a cui si collega l’item numero 3 per il gioco d’azzardo. Altre somiglianze tra i due disturbi, che si riflettono nei criteri utilizzati per la diagnosi, includono la presenza di preoccupazioni (item 1) e la compromissione delle normali attività di vita (item 9). Un criterio per definire la dipendenza da sostanze che diverge e non trova un corrispettivo in quelli utilizzati per il gioco patologico, riguarda la consapevolezza del soggetto rispetto ai problemi fisici e psicologici determinati dall’uso smodato della sostanza. (Upfold, 2009). Gli item caratterizzanti il gioco d’azzardo patologico sono, invece, i numeri 5, 7, 8 e

10, relativi, rispettivamente, alla motivazione sottesa al comportamento di gioco (come fuga da problemi   o   come   conforto   all’umore   disforico),   al   mentire   per   nascondere  il   grado   di coinvolgimento nel gioco, al commettere azioni illegali e al confidare in altri per reperire il denaro necessario per giocare o per far fronte ai debiti. Per diagnosticare la dipendenza da sostanze devono essere presenti almeno tre dei sette sintomi specificati dal DSM, mentre per il gioco patologico ne occorrono almeno cinque su dieci (nella nuova versione del DSM-5, quattro su nove). Il gioco patologico, però, viene riconosciuto, contrariamente alla dipendenza da sostanze, come un disturbo caratterizzato maggiormente in senso cognitivo: la maggior parte dei giocatori presenta, infatti, numerose  distorsioni  cognitive  nel  sistema  di  credenze  relative  all’attività  di  gioco  d’azzardo (Upfold, 2009).

I segni e i sintomi principali relativi alla dipendenza nel gioco d’azzardo sono il craving, ovvero il forte desiderio di giocare e l’impossibilità di resistervi, l’astinenza e la tolleranza (Serpelloni, 2013).

Molte sono quindi le somiglianze e le analogie tra il gioco patologico e le dipendenze da sostanze, analogie che hanno indotto i ricercatori a ritenere più adeguata la nuova classificazione. Tuttavia non sono mancati pareri contrari, relativi al fatto che il gioco d’azzardo non comporta l’ingestione di una sostanza, che il fenomeno del chasing (la rincorsa alle perdite), l’aspetto più comune tra i giocatori, non trova un corrispettivo, un parallelo nei disturbi da uso di sostanze. Analogamente, anche l’impatto che il gioco patologico ha sull’ambito finanziario del soggetto non è così evidente e marcato nelle persone dipendenti da sostanze. Un’ulteriore differenza tra le due condizioni riguarda le ricadute che queste provocano sullo stato di salute del soggetto dipendente: l’effetto che le droghe esercitano sull’organismo non si riscontra nel caso dei giocatori d’azzardo patologici, nonostante questi presentino spesso problemi di salute (Petry, 2006).

Il DSM-5 ha apportato un’ulteriore modifica, non solo per ciò che riguarda la classificazione del disturbo, ma anche per quanto concerne la sua denominazione (Petry et al., 2012). Gli esperti hanno proposto, infatti, di modificare la nomenclatura “Pathological gambling” in “Gambling disorder”, con il preciso scopo di ridurre lo stigma associato al termine “patologico” (Petry et al., 2012).

Altri  cambiamenti  sostanziali  che  sono  avvenuti  con  il  passaggio  dal  DSM-IV  al  DSM-5, riguardano l’eliminazione dell’item relativo al “commettere atti illegali come falsificazione, frode, furto  o  appropriazione indebita  per  finanziare  il  gioco  d’azzardo”  (item  8)  e  la  conseguente riduzione del numero di criteri necessari per stabilire la diagnosi (Strong & Kahler, 2007; Petry et al., 2012; Toce-Gerstein, Gerstein & Volberg, 2003). La task force del DSM-5 ha optato per l’eliminazione del criterio 8, dal momento che non risulta significativo e determinante per l’individuazione della maggior parte dei soggetti con problemi di gioco d’azzardo (Petry et al., 2012; Reilly, 2010; Toce-Gerstein, et al., 2003) e sembra non contribuire molto all’accuratezza e alla precisione diagnostica per l’identificazione della maggior parte dei giocatori patologici (Petry et al., 2012; Strong & Kahler, 2007). Una delle evidenze a favore di questa decisione è emersa dallo studio  di  Strong  e  Kahler  (2007),  i  quali,  analizzando  i  dati  provenienti  dal  “ National Epidemiologic Survey on Alcohol and Related Conditions” (NESARC), dimostrano che tutti gli individui che commettono atti illegali per finanziare le attività di gioco d’azzardo, riportano cinque o più dei sintomi necessari per stabilire la diagnosi di gioco patologico, suggerendo, quindi, che questo item aggiunge poco alla capacità discriminativa dei giocatori patologici (Strong & Kahler, 2007). In più è stato dimostrato che i sintomi elencati dal DSM sono correlati a diversi livelli di gravità della patologia: il primo sintomo a comparire sarebbe quello relativo al fenomeno del chasing; l’essere eccessivamente coinvolto nel gioco d’azzardo (item 1) è utile per identificare i soggetti con il più basso grado di severità dei problemi di gioco (Strong & Kahler, 2007); il giocare per fuggire da stati emozionali negativi (item 5) e il mentire agli altri sulle proprie condizioni di gioco (item 7) sono frequentemente ricorrenti negli individui che riportano tre sintomi, che, quindi, non si configurano come patologici (Toce-Gerstein et al., 2003). I sintomi relativi all’astinenza (item 4), alla perdita del controllo (item 3) e alla tolleranza (item 2) risultano, invece, fortemente correlati con il gioco patologico (Toce-Gerstein et al., 2003). Anche il mettere a repentaglio delle relazioni significative è un tratto caratteristico dei giocatori patologici: tra questi, la percentuale dei divorziati rappresenta, infatti, quasi il doppio di quella dei controlli (Toce-Gerstein et al., 2003).

L’altro cambiamento avanzato nel DSM-5 è la diminuzione dei criteri per stabilire la diagnosi di patologia: da 5 su 10, ne sono adesso necessari 4 su 9 (Denis et al., 2012; Petry et al., 2012; Petry, Blanco, Auriacombie, Borges, Bucholz, Crowley et al., 2013). Denis e colleghi hanno dimostrato la validità di questa decisione, sottolineando che, diminuendo la soglia necessaria per stabilire la

diagnosi di gioco d’azzardo patologico, si ottengono dei risultati ugualmente validi: la correlazione tra il numero di sintomi presentati e la gravità del coinvolgimento nel gioco d’azzardo era, infatti, significativa (Petry et al., 2012).

Il gioco d’azzardo patologico presenta alcune affinità anche con i disturbi dello spettro ossessivo- compulsivo (Dell’Osso et al., 2006; Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010). Sia i soggetti affetti  da questo  disturbo  sia  i  gamblers,  nascondono  dietro  le  loro compulsioni,  un  intenso desiderio di mettere in atto un certo comportamento; ma, mentre nel gioco d’azzardo i pensieri ad esso relativi sono ego-sintonici, negli ossessivi-compulsivi, le ossessioni e le compulsioni sono ego- distoniche; mentre per questi le compulsioni sono caratterizzate da un senso di elusione del danno ed evitamento del rischio, nei giocatori patologici non si rinvengono queste caratteristiche. Al contrario è frequente la tendenza a ricercare forti sensazioni (Dell’Osso et al., 2006; Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010).

Un’ulteriore concettualizzazione alternativa è quella collegata allo spettro dei disturbi dell’umore, supportata dai tassi elevati di depressione cronica nelle persone con GAP. Sintomi di alterazione dell’umore, in verità, potrebbero anche costituire una reazione secondaria alle conseguenze negative del gioco d’azzardo (Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010).

Da questa breve rassegna, emerge la necessità di considerare il gioco d’azzardo patologico come un fenomeno, un disturbo eterogeneo e multi sfaccettato, che condivide alcune caratteristiche con altri disturbi psichiatrici. Dal momento che la concettualizzazione del GAP è probabile che influenzi i modelli di ricerca e di trattamento, è importante che vi sia una comprensione chiara dei dati che supportano ciascuna categorizzazione (Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010).

1.6 GAP E COMORBILITA’

Con il termine comorbilità intendiamo la presenza di più di un disordine psicologico diagnosticabile nello stesso individuo nello stesso momento; questa condizione rappresenta, pertanto, non solo un elemento di confusione nella diagnosi del disturbo principale, ma anche una fonte di complicazione per il decorso dello stesso (La Barbera & Matinella, 2010).

Possiamo distinguere una comorbilità attuale, se i disturbi psichiatrici sono presenti contemporaneamente, una comorbilità lifetime, se i disturbi si manifestano in diversi periodi della vita del soggetto e una  comorbilità familiare, se i familiari del paziente sono  affetti da altre patologie psichiatriche.

Nel caso del gioco d’azzardo patologico, la comorbilità si riscontra maggiormente con i disturbi dell’umore, il disturbo da deficit di attenzione con iperattività, i disturbi correlati all’utilizzo di sostanze e le condotte suicidarie.  Si evidenzia una comorbilità anche con il disturbo narcisistico di personalità, il disturbo antisociale, quello borderline e quello ossessivo-compulsivo (La Barbera &

Matinella 2010).

In uno studio condotto su un campione di pazienti ospedalizzati per GAP, si sono rilevati tassi di comorbilità lifetime pari al 76% con la depressione maggiore, del 38% con episodi ipomaniacali e dell’8% con episodi maniacali. Si è riscontrata, infine, una comorbilità pari al 20% con il disturbo ossessivo compulsivo e del 16% con il disturbo da attacchi di panico (La Barbera & Matinella, 2010).

Molto comuni risultano essere i sintomi depressivi: numerose ricerche hanno, infatti, documentato la relazione tra depressione e GAP, riportando una grande mole di risultati significativi (Kim, Grant, Eckert,  Faris  &  Hartman,  2006;    Poirier-Arbour,  Trudel,  Boyer,  Harvey  &  Goldfarb,  2012; Thomsen, Callesen, Linnet, Kringelbach & Moller, 2009). Dalla rassegna di Kim et al., (2006), che ha analizzato vari studi incentrati sulla correlazione tra disturbi dell’umore e gambling, si è trovata un’elevata incidenza di depressione e mania tra i giocatori patologici, nonostante spesso non sia possibile identificare se questi disturbi siano primari, secondari o co-occorenti (Kim, Grant, Eckert, Faris & Hartman, 2006). Nell’indagine di Thomsen e colleghi, (2009), i giocatori patologici dipendenti da slot machines che riportavano alti livelli di sintomi depressivi, erano quelli che mostravano una più intensa spinta e urgenza a giocare, maggiore eccitazione esperita nel gioco, numero di giochi effettuati e tempo trascorso a giocare (Thomsen, Callesen, Linnet, Kringelbach & Moller, 2009). Più recentemente Poirier-Arbour e colleghi., (2012) hanno mostrato che i giocatori patologici  presentavano  livelli  significativamente  maggiori  di  sintomi  depressivi  rispetto  ai controlli. Correlati alla gravità di questi sintomi si sono riscontrati anche elevati livelli di ansia (Poirier-Arbour, Trudel, Boyer, Harvey & Goldfarb, 2012).

La comorbilità tra GAP e disturbi da uso di sostanze risulta, invece, la più studiata in letteratura (Hodgins, Peden & Cassidy, 2005; Lorains, Cowlishaw & Thomas, 2010; Moreyra, Ibànez, Saiz- Ruiz & Blanco, 2010). I pazienti con doppia diagnosi presentano livelli maggiori di gravità sintomatologica iniziale ed hanno una prognosi peggiore sia in termini di risposta al trattamento che in termini di ricadute e di adesione alla terapia. Le stime di abuso di sostanze tra i giocatori patologici vanno dal 10 al 52% e all’85%, se viene inclusa la nicotina (Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010). Viceversa, chi abusa di sostanze mostra alti tassi di GAP, che vanno dal 9 al 33% (Moreyra, Ibànez, Saiz-Ruiz & Blanco, 2010). Dalla rassegna di Lorains et al., (2010), è emerso che tra i giocatori problematici e patologici si riscontrava un’elevata percentuale di soggetti con dipendenza da nicotina e uso di sostanze, seguiti dalla presenza di disturbi dell’umore (Lorains, Cowlishaw, & Thomas, 2010). Simili risultati sono stati riscontrati anche nella ricerca di Hodgins e colleghi, in cui il 73% dei giocatori patologici presentava una comorbilità lifetime con l’uso di alcool e il 48% con l’uso di droghe. Sembra anche che l’età d’esordio nell’abuso di sostanze preceda l’inizio dell’attività di gioco d’azzardo (Hodgins, Peden, & Cassidy, 2005).

La disperazione che assale il giocatore patologico quando inizia a perdere tutto, si può risolvere in un tentativo di intraprendere la strada della guarigione oppure altre vie più drammatiche di risoluzione del problema, come il suicidio. Gli studi di Hollander e Wong, di Specker, Carlson, Christenson e colleghi, risalenti al 1995, hanno sottolineato un legame tra GAP, pensieri suicidiari e suicidi.

La gravità del comportamento di gioco si correla positivamente anche con la presenza dei disturbi di personalità. Nella casistica di Blaszczynski, al 93% dei giocatori problematici veniva diagnosticato almeno un disturbo di asse II, con netta prevalenza dei tratti borderline, istrionico e narcisistico di personalità, tratti risultati correlati anche con alti livelli di impulsività e instabilità emotiva (Blaszczynski & Steel, 1998). Nello studio di Myrseth et al., (2009), i giocatori patologici riportavano punteggi significativamente più elevati nella scala di “Nevroticismo” e significativamente più bassi in quella di “Apertura” (dati rilevati con il BIG V) rispetto ai soggetti controlli (Myrseth, Pallesen, Molde, Johnsen & Meen Lorvick, 2009).

Alla luce di questi dati, possiamo distinguere diversi modi per interpretare la comorbilità tra il GAP e i disturbi psichiatrici sopra discussi. Essi possono essere, infatti, secondari al gioco ed esserne, quindi, la conseguenza, oppure il gioco stesso può configurarsi come un tentativo di far fronte ai disturbi dell’umore, ai disturbi di personalità o alle scarse capacità di coping e di problem solving (La Barbera & Matinella, 2010).

1.7 MODELLI TEORICO-INTERPRETATIVI  DEL GIOCO D’AZZARDO  PATOLOGICO

La letteratura del comportamento di gioco, delle motivazioni e dei meccanismi psicologici sottostanti,  delinea  un  quadro  eterogeneo  di  approcci  teorici  che  interpretano  il  fenomeno chiamando in causa spiegazioni diverse tra loro.

Tra le ipotesi eziopatologiche più ricche e consolidate nel tempo possiamo distinguere quella ad orientamento psicanalitico, comportamentista e cognitivista. A questi si aggiunge, infine, una lettura psicosociale del fenomeno.

1.7.1 Il modello psicanalitico

L’approccio psicanalitico raccoglie le riflessioni di vari autori che tendono a ricercare le cause del gioco nella sessualità, in termini di pulsioni sessuali e di masochismo.

Nel 1928, Sigmund Freud, il padre della Psicanalisi, scrisse “Dostoevskij e il parricidio”, un’opera che rappresenta il suo contributo più completo ed esplicito  al fenomeno del gioco d’azzardo. In questo saggio viene analizzata la personalità dello scrittore russo e la sua esperienza di giocatore compulsivo. Freud interpreta la coazione al gioco d’azzardo come una forma di autopunizione: è continuando a giocare, fino a perdere, che il giocatore può trarre la sua punizione, per espiare i sensi

di colpa innescati dal complesso edipico. Così, l’individuo trova una sorta di sollievo masochistico nel gioco, dimostrato dal fatto che egli tende a giocare soprattutto in fase di perdita. Il giocatore non aspira quindi ad una vincita, ma necessita di una sconfitta per vivere il carattere punitivo dell’esperienza. Alla base del senso di colpa esperito, si rintraccia l’ambivalente e conflittuale rapporto del bambino con il padre, tanto amato e tanto odiato. È la componente di aggressività e di odio verso il padre, il desiderio di eliminarlo per prendere il posto accanto alla madre, che scava nella mente del bambino quell’intollerabile senso di colpa, che egli cercherà per tutta la vita di placare. Spesso per placarlo servono delle sconfitte, dei fallimenti e delle perdite, che garantiscono una sorta di sollievo masochistico al senso di colpa. Qualche volta, invece, servono dei veri e propri crimini, commessi con lo specifico ed inconscio scopo di essere catturato. Il Fato, che viene sfidato dal giocatore, è quindi una proiezione del padre punitivo. Il gioco è un modo per sfidare la fortuna e la sorte con l’inconscia domanda: “Mio padre mi ama?”. Se mi ama vincerò, se non mi ama allora perderò.

Dopo Freud, un importante contributo sul tema del gioco d’azzardo è quello proposto dallo psicanalista Edmund Bergler, il quale riprende ed approfondisce alcune idee espresse dal suo predecessore nel saggio del 1928. Bergler considera il masochismo il meccanismo principale sotteso al fenomeno del gioco patologico adulto: il soggetto è dominato da un desiderio inconscio di perdere e di essere punito (nonostante possa riferire a tutti di voler vincere), per far fronte all’aggressività e al senso di colpa inconsapevoli nutriti verso le figure genitoriali, che hanno imposto regole e restrizioni durante l’infanzia. L’atto di giocare costituisce, quindi, una sorta di rinnegamento del Principio di Realtà a favore di quello del Piacere. L’aggressività, allora, non potendo essere sfogata sulle figure di autorità, viene rivolta verso se stessi, sotto forma  di desiderio di auto-punirsi. Il giocatore eccessivo è, quindi, un nevrotico compulsivo che, inconsciamente, crede,  proprio  come  fanno  i  bambini,  di  controllare  il  fato  in  modo  magico  e  onnipotente, utilizzando procedure superstiziose, magiche e ritualistiche (Bergler, 1957). Secondo la teoria di Rosenthal invece, i giocatori patologici soffrirebbero di un disturbo narcisistico di personalità: questi giocatori avrebbero bisogno di verificare costantemente la propria autostima attraverso l’attività di gioco. Tendono a controllare l’incontrollabile attraverso l’utilizzo di meccanismi di difesa quali la proiezione, la scissione e il bisogno di costruire continuamente l’illusione di onnipotenza (Rosenthal, 1987).

Per la mancanza di ricerche sistematiche l’approccio psicodinamico, nella realtà clinica, non ha avuto un grosso impatto sulla ricerca nel campo del gioco d’azzardo. Per questo motivo, si possono solo rintracciare delle direttive rispetto al trattamento, che, come per le nevrosi, si basano sulla risoluzione del conflitto, spesso di natura edipica, sul portare alla luce della coscienza il materiale rimosso, dissolvere le difese e i sensi di colpa del paziente (Zerbetto, 2010).

1.7.2 Il modello cognitivista

Secondo quest’approccio, il gioco d’azzardo sarebbe riconducibile a un ritardo nello sviluppo cognitivo, in particolare sarebbe dovuto a una fissazione del soggetto allo stadio delle operazioni concrete, che lo porterebbe a pensare ogni giocata come “quella buona”, a credersi imbattibile, esperto e potente. Diventa, quindi, necessario per il giocatore d’azzardo accedere allo stadio successivo delle operazioni formali, per maturare così un nuovo modo di pensare e di capire la vera natura  del  gioco,  nei  suoi  aspetti  di  aleatorietà  e  di  potenziale  danno  per  il  funzionamento individuale (Lavanco & Varveri, 2006).

Gli studi ad orientamento cognitivista si sono soffermati anche sulle distorsioni cognitive e sulle credenze erronee dei giocatori, che li inducono a credere di poter influenzare il risultato del gioco. Gli autori hanno sottolineato l’esistenza di varie forme di bias cognitivi, come ad esempio l’illusione di controllo e la fallacia di Montecarlo, che possono influenzare o mantenere la gravità dei problemi di gioco (Ladoceur, 2004; Myrseth, Brunborg & Eidem, 2010;  Toneatto, Blitz-Miller, Calderwood, Dragonetti & Tsanos, 1997 ).

Il progetto terapeutico si pone l’obiettivo di far prendere coscienza al paziente che alcuni suoi pensieri sono distorti, errati e che questi devono essere modificati, se si vuole ottenere un funzionamento adeguato nel contesto di vita. Si tratta di un terapia breve, di solito non supera i 15 incontri e, a differenza dell’approccio psicanalitico, non vengono né ricercate le cause profonde del problema del gioco, né vengono indagate le esperienze traumatiche infantili: il focus di interesse sono gli avvenimenti e i pensieri della vita quotidiana (Barrault & Varescon, 2012; Hodgins & Petry, 2004; Lopez-Viets & Miller, 1997).

1.7.3 Il modello comportamentista

Gli  psicologi  a  orientamento  comportamentista  ritengono  che  l’apprendimento  di  un comportamento di gioco disadattivo sia dovuto all’azione rinforzante di una serie di stimoli, come vincite rare, casuali, saltuarie, che spingerebbero il giocatore a ritentare la fortuna. Si forma quindi un legame tra lo stimolo incondizionato del “puntare” e la risposta della vincita, che, a sua volta, diventa l’elemento che rinforza il comportamento del gioco d’azzardo. Oltre al denaro, fungerebbero da rinforzi positivi anche i rinforzi sociali, come l’interazione e lo scambio con altri giocatori e gli stimoli ambientali, sotto forma di luci, colori e suoni allettanti che si trovano all’interno dei casinò e nella struttura stessa delle slot machines. Agiscono come rinforzo anche i fattori cognitivi: questi sarebbero legati in particolare al fenomeno della near miss, o “ quasi vincita”, fenomeno per cui anche in caso di perdita, si può avere la percezione di essere vicini alla vittoria (Grant & Potenza, 2004). Recentemente l’attenzione è rivolta anche a ciò che accade nel momento che separa la puntata da quello in cui giunge il risultato della scommessa. Infatti, non funge da rinforzo solo il denaro, ma anche l’eccitazione che il giocatore prova nei momenti di attesa del risultato, negli attimi in cui i dadi rotolano prima di trovare la loro staticità, quando lentamente una carta viene girata fino a mostrare la sua faccia o quando le ruote delle slot machines girano con frenesia. Molti giocatori scommettono su più tavoli, su più giochi contemporaneamente, per amplificare e intensificare proprio l’eccitazione che provano in quei momenti.

A partire dagli anni Sessanta, le terapie comportamentali sono diventate molto popolari e, ancora oggi, la maggioranza delle cure previste per il gioco eccessivo è di matrice comportamentale. Molte sono le tecniche utilizzate, come l’esposizione al gioco e la desensibilizzazione, ma tutte si pongono lo stesso obiettivo: da una parte, ridurre i comportamenti compulsivi del giocatore e, dall’altra, fargli raggiungere un maggior dominio sulle tensioni legate al gioco (Blaszczynski & Silove, 1995; Hodgins & Petry, 2004).

1.7.4 Il modello psicosociale

In quest’ottica, il gioco d’azzardo è considerato come un insieme di azioni messe in atto per evadere i momenti di noia, l’insoddisfazione della vita, la routine quotidiana, ma anche come un bisogno di pensiero magico, di comportamenti rituali e scaramantici, in contrapposizione a una quotidianità governata dalla razionalità e dal calcolo (Lavanco & Varveri, 2006). Similarmente, Eugen Fink considera il gioco come una sorta di “oasi di gioia”, dove l’individuo si rifugia per sfuggire all’ingranaggio della vita, al peso dell’esistenza: il gioco rapisce e il giocare fa apparire la vita lieta e più felice. Kusyzsyn (1984), invece, intende il gioco come un’attività ludica funzionale alla soddisfazione di alcuni bisogni basilari dell’uomo, come quello di confermare la propria esistenza e di affermare il proprio valore. Questi bisogni vengono soddisfatti nel momento in cui, durante l’esperienza di gioco, il soggetto esperisce determinate stimolazioni cognitive, fisiche ed emozionali e  nel momento in cui, nell’approcciarsi ad un compito difficile e rischioso, prova sentimenti di efficacia. Nel gioco d’azzardo sono, inoltre, ripetuti alcuni valori che svolgono un ruolo rilevante nella nostra società: i valori della competitività, dell’audacia, dell’intraprendenza, dell’assunzione di rischi. Inbucci (1997) avanza anche l’ipotesi che il gioco d’azzardo svolga la funzione simbolica di abolire le differenze e le ingiustizie sociali, a partire dalla constatazione che il volume del gioco è maggiormente diffuso nel Mezzogiorno d’Italia. Similarmente, Fiasco (2001) sostiene che il gioco rappresenta una risorsa per il popolo, nella misura in cui esso rappresenta la possibilità di sperare in un mondo migliore, quando lo Stato non lo garantisce: è, infatti, nei periodi storici di maggiore crisi che si assiste ad un aumento di persone che ricorrono al gioco per affrontare una situazione economica incerta (Lavanco & Varveri, 2010).

1.7.5 Il modello evolutivo di Custer

Custer, oltre ad essere noto per aver costituito la prima clinica per il trattamento del gioco d’azzardo patologico negli Stati Uniti, è famoso anche per aver proposto nel 1984 un modello di lettura del gioco d’azzardo veramente innovativo: per la prima volta il gioco viene considerato come un processo dinamico, invece che come un fenomeno statico, come un processo che si sviluppa attraverso una serie di passaggi progressivi. Il modello evolutivo di Custer offre anche degli indizi utili per comprendere il percorso che un giocatore d’azzardo può compiere: da una fase iniziale e innocua di gioco a una fase di perdita del controllo, fino al momento della ricostruzione e della crescita; offre inoltre una cornice più complessa e articolata rispetto a molti modelli teorici che “sclerotizzano”  il  giocatore  patologico  in  un  quadro  senza  passato  e  senza  futuro,  senza comprendere i peculiari significati, bisogni che concorrono all’evoluzione della sintomatologia da gioco. Il gioco d’azzardo può essere così inquadrato all’interno di un continuum che va da un grado inoffensivo per l’individuo, fino ad un comportamento di abuso, in cui il coinvolgimento del soggetto è tale da compromettere tutta la sua esistenza (Lavanco, 2001; Lavanco & Varveri, 2006; 2010).

Custer considera il gioco d’azzardo patologico come il punto di approdo di una carriera, di durata variabile, scandita dalle seguenti sei fasi (Custer, 1984).

1) Fase vincente: il gioco è occasionale. Esso è visto ancora come una forma di passatempo e divertimento e lo si pratica prevalentemente in compagnia di amici e familiari. La fase in questione dura generalmente dai tre ai cinque anni, periodo durante il quale ai giocatori capita molto spesso di vincere, fatto che rinforza nel giocatore l’idea di essere più abile degli altri. Le caratteristiche che accompagnano questa fase sono alti livelli di energia, concentrazione focalizzata e interesse nelle strategie di gioco d’azzardo; molti attribuiscono le loro vincite all’abilità piuttosto che alla fortuna. Le fantasie di vittoria, i rinforzi derivanti dalle vincite e il piacere connesso al gioco, condurranno il soggetto a investire, a spendere sempre più soldi nell’attività di gioco, entrando così nella cosiddetta fase perdente;

2) Fase perdente: dura oltre cinque anni, è segnata da varie perdite di gioco. Si innesca il meccanismo del chasing, ossia la rincorsa delle perdite, che spinge il soggetto a giocare sempre di più nel tentativo di recuperare il denaro perso. Le scommesse svuotano le tasche e il giocatore inizia a chiedere prestiti, cominciando a mentire ad amici e familiari.

3) Fase della disperazione: il bisogno di giocare si fa sempre più forte e il soggetto ha ormai perso completamente il controllo sul proprio comportamento; compaiono in questa fase anche attività illegali per ottenere i soldi da investire nel gioco. A questo punto, il soggetto o va incontro a suicidio, fuga, carcerazione o decide di intraprendere la strada della guarigione, articolata nelle seguenti e ultime tre fasi del modello di Custer.

4) Fase critica: inizia quando il giocatore patologico ammette di aver bisogno di aiuto e decide di rivolgersi a un professionista.

5) Fase della riedificazione (o ricostruzione): è segnata dai tentativi di riparare ai danni relazionali ed economici causati dal gioco patologico; si verifica un miglioramento dei rapporti familiari e il soggetto diventa più rilassato e fiducioso.

6) Fase della crescita: è l’ultimo stadio del percorso verso la guarigione, caratterizzato da una migliore introspezione e una maggiore lucidità nell’affrontare i problemi; contemporaneamente, diminuisce la preoccupazione per il gioco.

Al modello per fasi di Custer, Rosenthal (1987) ha aggiunto la cosiddetta fase senza speranza o resa, per sottolineare il percorso di quanti non riescono a proseguire verso le fasi che conducono al superamento della condotta di gioco patologico.

1.8 EZIOPATOGENESI DEL GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO

Dall’ingente mole di studi sui fattori predisponenti al gioco d’azzardo patologico, emerge la necessità di considerare le tante cause che possono contribuire allo sviluppo di un fenomeno tanto sfaccettato  quanto  complesso  quale  quello  del  gioco  patologico.  Siamo  di  fronte  a  processi dinamici, mutevoli, percorsi in continua evoluzione e trasformazione, che conducono verso un progressivo abbandono dell’ottica monodimensionale, una prospettiva che crede nella causalità lineare degli eventi. Il passaggio a un’eziologia di tipo multifattoriale implica lo studio di vari fattori di rischio, che lasciano presagire la possibilità di gioco problematico. In particolare, i ricercatori  parlano  di  tre  ordini  di  fattori  causali:  quelli  socio-ambientali,  neurobiologici  e individuali (Bastiani, et al., 2011; Canuzzi, 2012; Hodgins et al., 2011; Lavanco & Varveri, 2006,

2010; Shah, Potenza & Eisen, 2004).

1.8.1 Fattori socio-ambientali

All’interno di questo ambito individuiamo le caratteristiche del contesto familiare, le abitudini del gruppo dei pari, le reti, il sostegno sociale e il più vasto ambiente culturale in cui un individuo vive. Secondo i risultati di diverse ricerche, i fattori socio demografici hanno un’influenza determinante nell’insorgenza o meno del gioco problematico e/o patologico. Il GAP, infatti, sembra colpire prevalentemente, e più precocemente, le persone giovani, di sesso maschile, con un basso livello di istruzione, con un basso livello economico o disoccupati (Canuzzi, 2012). Un livello di istruzione medio-alto, in grado di fornire abilità analitiche e di ragionamento più raffinate, può agire come fattore di protezione contro la generazione di pensieri falsi e irrazionali.

La probabilità di avere un’attitudine problematica rispetto al gioco è tre volte maggiore nei maschi che nelle femmine, anche se negli ultimi anni si sta riscontrando un trend positivo che vede un cospicuo coinvolgimento delle donne nel gioco d’azzardo (Canuzzi, 2012). Maschi e femmine, tuttavia,  si  distinguerebbero  in  funzione  dell’età  in  cui  iniziano  a  giocare  (le  donne  più tardivamente) e delle motivazioni che sottendono il ricorso al gioco (le donne, infatti, tenderebbero più degli uomini, a rifugiarsi nel gioco per evadere dalla routine quotidiana e per fuggire alla noia). La  progressione  del  disturbo  risulta,  pertanto,  due  volte  più  veloce  nelle  donne.  Un’ultima differenza risiede nei tipi di gioco d’azzardo che uomini e donne preferiscono: le donne, infatti, diversamente dalla loro controparte maschile, prediligono giochi in cui sono minori l’interazione e la competizione, come le slot machines, i videopoker e i Gratta e Vinci (Guerreschi, 2007). Costituisce un fattore di rischio ambientale anche la presenza o meno in famiglia di giocatori problematici o patologici. Infatti, con ogni probabilità, gli individui i cui genitori hanno avuto problemi di gioco, possono andare incontro maggiormente all’acquisizione di un comportamento maladattivo di gioco. Appartenere a e frequentare un gruppo di giocatori innescherebbe, pertanto, un  circolo  vizioso  fatto  di  comprensione  reciproca,  di  aiuto  e  di  supporto,  che  creano  il convincimento di essere parte integrante di un mondo magico, costituito da pochi eletti e in cui è possibile rifugiarsi per trovare protezione dalla propria fragilità. Anche il valore attribuito al denaro all’interno del nucleo familiare, quindi il modo in cui sono vissuti gli aspetti materiali e finanziari della vita, è una condizione predisponente al gioco d’azzardo patologico. Modelli educativi che enfatizzano la possibilità di guadagnare soldi in modo facile e veloce, che considerano il denaro una preziosissima possibilità di felicità, portano a concepire il gioco d’azzardo come l’unica soluzione disponibile per raggiungere tali obiettivi o per fronteggiare una situazione economica difficile.

Si  individuano,  tra  le  variabili  socio  demografiche,  anche  la  morte  di  un  genitore,  la  loro separazione o il loro divorzio e l’iniziazione al gioco in età adolescenziale. A questi, si aggiungono variabili come la frequenza delle giocate, il tempo dedicato all’attività di gioco, la scelta di scommettere da soli o in compagnia e la somma di denaro investita nelle scommesse (Lavanco, 2006; La Barbera & Matinella, 2010).

Un altro fattore di notevole importanza riguarda l’estrema facilità con la quale è oggi possibile accedere alle svariate occasioni di gioco: non è richiesto il pagamento di alcun biglietto di ingresso, né la presentazione di un documento di identità e, addirittura, per i casinò on-line si può disporre di un bonus iniziale con il quale iniziare a giocare.

Questi  dati  riguardanti i  fattori  di  rischio  sono  sostenuti  anche  da  numerosi  importanti  studi (Bastiani et al., 2011; Black, Shaw, McCormick & Allen, 2012; Hodgins et al., 2012). Da quello recente di Hodgins e colleghi (2012), emerge che gli individui più intelligenti, più vecchi e più religiosi sono meno a rischio di diventare giocatori patologici, mentre è più probabile che individui

maschi, single, che hanno iniziato a giocare in giovane età e che sono inseriti in un ambiente dove si pratica il gioco d’azzardo, tendono più frequentemente a diventare dei giocatori problematici (Hodgins, Schopflocher, Martin, El-Guebaly, Casey, Currie, et al. (2012). Simili risultati sono stati ottenuti dallo studio di Bastiani e colleghi (2011), che dimostra come la categoria più a rischio sia rappresentata da coloro che hanno un’istruzione minore, sono dipendenti da sostanze o nicotina e approvano la pratica del gioco d’azzardo (Bastiani et al., 2011). Sono, inoltre, più a rischio coloro che hanno avuto comportamenti sessuali pericolosi per la salute o chi ha avuto esperienze di risse o problemi legali. Infatti, nonostante sia complicata da descrivere, esiste un’associazione tra gioco d’azzardo, crimine e reati legati al gioco, quali assegni scoperti, furto e appropriazione indebita (Canuzzi, 2012).

Anche la qualità dell’ambiente familiare è importante: come evidenzia lo studio di Black e collaboratori (2012), è più probabile che i giocatori patologici siano divorziati, vivano da soli e abbiano subito esperienze di maltrattamento nell’infanzia. Essi riportano, inoltre, una disfunzione a livello di coesione, organizzazione e di conflitto familiare significativamente maggiore rispetto ai controlli (Black, Shaw, McCormick & Allen, 2012). In un altro studio è stata trovata anche una correlazione tra livelli di GAP e stress quotidiano (Elman, Tschibelu & Borsook, 2010). Anche la società può esercitare un fondamentale condizionamento sul soggetto, sia attraverso la scarsità di regole, di leggi di controllo e di deterrenza, sia attraverso un’alta pressione pubblicitaria che enfatizza e incentiva il gioco d’azzardo, rendendolo, così, un fenomeno altamente accettato e tollerato.

1.8.2 Fattori neurobiologici

Il   comportamento   di   gioco   d’azzardo   patologico   sarebbe   riconducibile   anche   a   fattori neurobiologici. In particolare, le disfunzioni coinvolgerebbero i sistemi di produzione, alterazione e rilascio di neurotrasmettitori come la serotonina, la dopamina e la noradrenalina (Serpelloni & Rimondo, 2012).

La serotonina, che ha un ruolo fondamentale nell’iniziazione e nella disinibizione comportamentale, se presente in quantità troppo basse, risulta correlata a livelli elevati di impulsività, alla ricerca di sensazioni forti e ai Disturbi del controllo degli impulsi (Shah, Potenza & Eisen, 2004).

Si ritiene che anche il sistema di produzione, alterazione e rilascio della noradrenalina, considerato alla base della sollecitazione, dell’eccitazione e della ricerca di sensazioni forti, possa essere implicato nel gioco d’azzardo patologico. Si è registrata, infatti, una maggiore concentrazione di noradrenalina nelle urine e nel sangue dei giocatori patologici, nonché un aumento della frequenza cardiaca rispetto ai soggetti di controllo (Brunori, Cippitelli, Serpelloni & Ciccocioppo, 2012; Shah, Potenza & Eisen, 2004).

Il sistema di alterazione, produzione e rilascio di dopamina, considerato alla base dei meccanismi di ricompensa e rinforzo, è implicato nella patologia del gioco d’azzardo patologico. Esso è coinvolto anche nei livelli di attivazione, di attenzione e di arousal. Koepp e colleghi (1998) hanno registrato un aumentato rilascio di dopamina nel nucleo striato di soggetti maschi che stavano giocando per denaro al video gioco Tank. Il gioco d’azzardo è inoltre in grado di stimolare il rilascio di dopamina e, ripetute esperienze di gioco, possono sensibilizzare i neuroni, facilitandone l’attivazione anche di fronte a stimoli connessi solo in maniera indiretta al gioco d’azzardo, come la vista di oggetti o luoghi associati ad esso (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010). Studi in ambito neurologico hanno trovato, poi, un’alterazione nei meccanismi di regolazione del rilascio di dopamina nel nucleo accumbens: nei soggetti con disturbo da dipendenza l’incremento dopaminergico determinato dalle sostanze è più rapido e consistente rispetto a stimoli fisiologici come il cibo o il denaro. Questo spiegherebbe perché gli stimoli naturali non sono sufficienti a elargire piacere e soddisfazione, determinando una condizione di disforia tale da ricorrere a sostanze o comportamenti in grado di attivare questi circuiti in maniera più intensa (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010). I sistemi dopaminergici (nucleo accumbens e area ventrotegmentale) fanno parte del cosiddetto sistema di reward (ricompensa). Nel caso del gioco d’azzardo il funzionamento anomalo del sistema di neurotrasmissione relativo al “processo di gratificazione” si manifesta con un’alterata sensibilità alla ricompensa da vincita e alla perdita.

I soggetti dipendenti dal gioco d’azzardo percepiscono e apprezzano maggiormente, in termini di gratificazione prodotta, gli stimoli derivanti dal gioco d’azzardo rispetto alla popolazione normale; in questi giocatori vi è inoltre, una più rapida risoluzione della soddisfazione da ricompensa e, contemporaneamente, un’elevata riduzione della durata della soddisfazione stessa: questo spiegherebbe la successiva ricerca di nuovi e ripetuti stimoli nei giocatori d’azzardo. In più, è stato visto che i giocatori patologici mostrano livelli di dopamina maggiori già durante l’anticipazione e l’attesa della ricompensa, ma questa gratificazione è minore in caso di vincita. La perdita al gioco produce inoltre un minor abbassamento dei livelli di ricompensa rispetto ai soggetti normali che, in caso di perdita, vengono disincentivati dal gioco (Serpelloni & Rimondo, 2012). La presenza dell’allele D2A1 del gene recettore della dopamina D2 nei giocatori patologici è stato associato, pertanto, alla riduzione della densità dei recettori della dopamina e alla disfunzionalità del sistema dopaminergico  della  ricompensa,  che  porterebbe  il  soggetto  a  ricercare  attività  sempre  più stimolanti, per raggiungere il piacere desiderato (Blaszczynski & Nower, 2001; Brunori, Cippitelli, Serpelloni & Ciccocioppo, 2012 ).

Da uno studio condotto con imaging a risonanza magnetica (MRI), è emerso che, mentre giocano, i soggetti dipendenti dal gioco d’azzardo mostrano una diminuzione dell’attività della corteccia prefrontale, un’area cerebrale coinvolta nei processi decisionali e nel controllo degli impulsi: questo

sbilanciamento è la ragione per cui i giocatori problematici continuerebbero il gioco in maniera compulsiva (Brunori, Cippitelli, Serpelloni & Ciccocioppo, 2012; Shah, Potenza & Eisen, 2004). Molteplici studi,  inoltre,  hanno  registrato aumenti  della  pressione sanguigna e  incrementi nel rilascio di cortisolo durante la pratica del gioco d’azzardo (Shah, Potenza & Eisen, 2004). Altre ricerche hanno altresì evidenziato che la specializzazione emisferica nei giocatori d’azzardo è più bassa rispetto ai non giocatori e vi è anche la possibilità che il gioco d’azzardo possa essere determinato da compromissioni neurologiche prevalentemente a danno del lobo frontale (Lavanco & Varveri, 2006).

1.8.3 Fattori di rischio insiti nella struttura dei giochi

Ulteriori fattori di rischio per l’insorgenza di forme di GAP possono trascendere il soggetto e risiedere in alcuni elementi strutturali dei giochi stessi che li rendono potenzialmente pericolosi, date  le  loro  caratteristiche  di  maggiore  additività,  come  la  velocità  di  gioco,  la  velocità  di pagamento, luci, suoni e colori (Filippi & Breveglieri, 2010).

Velocità di gioco: certi giochi, come le slot machines, offrono la possibilità di giocare nel qui ed ora e non è presente un intervallo di tempo che deve necessariamente trascorrere tra una giocata e quella successiva. A ciò, si aggiunge l’immediatezza dell’esito della sessione di gioco, dato che non bisogna aspettare il giorno dell’estrazione, come nel caso del Lotto, o la fine della partita sulla quale si è scommesso. Al contrario, si conosce immediatamente il risultato della propria giocata e il momento in cui si esperisce la vincita o la perdita è tanto breve da non lasciare al giocatore il tempo di riflettere e di percepire la dimensione delle perdite che si stanno subendo: egli cerca di rimuovere l’evento negativo tramite una nuova giocata o, nel caso di vincita, decide di reinvestire il denaro in un’altra sessione di gioco. Giochi molto rapidi, dove il soggetto è sollecitato a rigiocare nell’immediato, aumentano quindi il rischio di creare dipendenza.

Velocità di pagamento: istantaneamente è possibile avere a disposizione la potenziale vincita in denaro, che viene poi spesso reinvestita in una nuova sessione. Questo processo favorisce il fenomeno della rincorsa alle perdite, che rappresenta uno degli elementi di maggior rischio per lo sviluppo di una dipendenza patologica e per lo sviluppo di conseguenze più severe legate al gioco. La rincorsa alle perdite può essere, infatti, la causa di maggiore dispendio di denaro o di furti per reperire i soldi necessari per giocare di nuovo (Lavanco, 2001).

Luci, colori e suoni: sono appositamente studiati per rilassare ed eccitare il soggetto, per invogliarlo a giocare, oltre che per creare familiarità con la slot machine. La presenza insistente delle luci e la loro rapida intermittenza, insieme a combinazioni di colori diversi, sempre molto brillanti (tra i quali prevale il rosso), fungono da seducenti attrattori. Inoltre, in tema di attrattività, è necessario sottolineare l’importanza della dimensione tattile: toccare la slot machine e schiacciarne i tasti,

sembra creare nel giocatore una familiarità con l’apparecchio, promuovendo un rapporto quasi di confidenza,   fiducia   e   di   abitudinarietà.  Prove   dell’importanza  delle   peculiarità  strutturali provengono da uno studio di Linnet svolto nel 2010: cambiamenti nelle caratteristiche riguardanti la velocità di gioco, producevano altrettanti cambiamenti nel desiderio di giocare ancora e nel tempo trascorso a giocare alle slot machines (Linnet, Thomsen, Moller & Callesen, 2010). In generale, tutti i dispositivi elettronici vengono chiamati il crack e la cocaina del mondo del gioco d’azzardo, proprio per questo loro maggiore potenziale additivo. La dipendenza dalle slot machines ha, infatti, un decorso estremamente rapido (meno di 3 anni) rispetto alla dipendenza da altri tipi di giochi (10/15 anni). Tale dipendenza non è determinata dall’entità della scommessa, quanto dall’automatismo gioco-rinforzo immediato che si crea a causa delle caratteristiche strutturali precedentemente esplorate (La Barbera, La Cascia & Sideli, 2010). E’ interessante notare come nei locali il volume degli effetti sonori emessi dagli apparecchi è decisamente basso: non a caso, solo i momenti delle vincite risultano facilmente udibili. Anche la struttura dei casinò e delle sale giochi contribuiscono allo sviluppo della dipendenza: essi sono ambienti chiusi, bui, senza finestre né orologi alle pareti; luoghi senza tempo, dove, attraverso l’abolizione di ogni riferimento esterno, scompare la percezione del tempo cronologico e del tempo naturale. Questo, insieme alla presenza di enormi spazi architettonici, conduce alla perdita di contatto con la realtà, produce un effetto di disorientamento che rende le persone più vulnerabili, deboli e maggiormente disinibite nel consumo e nel gioco (Zerbetto, 2010).

1.8.4 Fattori individuali

Le cause dell’abitudine al gioco d’azzardo riguardano non solo la storia personale del soggetto, le sue esperienze di vita ma anche le sue caratteristiche di personalità. Tra quelle più esplorate in letteratura si riscontrano la sensation seeking, il risk taking, la brama di successo, l’autostima e il locus of control (Lavanco & Varveri, 2006, 2010; Lavanco, 2001).

Con  il  termine  sensation  seeking  si  intende  la  ricerca  di  sensazioni  forti,  del  brivido, dell’eccitazione estrema: i giocatori, spinti dall’amore e dall’insaziabile desiderio di provare esperienze nuove ed eccitanti, ricorrerebbero al gioco per soddisfare queste loro esigenze. In particolare, secondo Zuckerman (1983), ciò che produce in loro forti eccitazioni, sia durante l’attesa del risultato, sia in seguito alla stimolazione della vincita, sarebbe proprio il rischio di perdere. Tuttavia, come l’autore stesso suggerisce, non tutti i giocatori d’azzardo ricercano sensazioni forti e non tutti i giochi forniscono lo stesso tipo di sensazioni. Sembra, infatti, che giochi come il Bingo o le slot machines non diano lo stesso livello di eccitazione di giochi come il poker o le corse di cavalli, che vengono scelti, adottando i criteri di classificazione di Guerreschi, dai cosiddetti “giocatori d’azione”.

Dallo studio di McDaniel e Zuckerman, risulta che la caratteristica della sensation seeking varia a seconda dei giochi considerati, confermando quanto detto sopra; sembra essere, inoltre, più accentuata nei maschi rispetto alle femmine e declina significativamente con l’aumento dell’età, raggiungendo comunque un picco intorno ai vent’anni. La sensation seeking risulta correlata anche con alti livelli di impulsività; in più, sempre in questo studio, alti livelli di sensation seeking sono correlati con il maggior interesse e con la maggiore partecipazione nelle attività di gioco d’azzardo (McDaniel & Zuckerman, 2003). Coloro che riportano punteggi elevati nell’Impulsive Sensation Seeking Scale continuano a giocare di più rispetto agli altri, nonostante l’aumento delle perdite (Zuckerman, 2005). Anche nello studio di Bonnaire et al., (2007), i giocatori patologici che scommettono agli ippodromi, si differenziano da quelli sociali in base ai livelli di sensation seeking. Tuttavia  questa  non  correla  con  il  numero  di  giochi  cui  sono  dediti  (Bonnaire, Varescon  & Bungener, 2007).

Un altro processo psicologico implicato nei meccanismi del gioco d’azzardo è l’atteggiamento verso il rischio, il cosiddetto risk taking, letteralmente “assunzione di rischio”, che si evidenzia maggiormente se c’è familiarità dell’individuo con il gioco (Mishra, Lalumière & Williams, 2010). Da  alcuni  studi,  emerge  che  i  comportamenti  di  sensation  seeking  e  risk  taking  riescono  a discriminare i giocatori problematici/patologici da quelli sociali, suddivisi in funzione dei risultati del SOGS. In modo del tutto speculare, l’evitamento del pericolo (harm avoidance), che può essere definito come la tendenza a fuggire dagli stimoli eversivi, è risultato significativamente più basso nei giocatori patologici (Lavanco & Varveri, 2006). Il gioco d’azzardo patologico è da considerarsi, secondo   alcuni   autori,   l’espressione  di   una   più   generale  propensione  al   risk   taking:   il comportamento di gambling sembra, infatti, essere associato alla propensione e una certa attitudine al rischio (Mishra, Lalumière & Williams, 2010).

Un  altro  costrutto  utile  per  spiegare il  comportamento dei  giocatori è  quello  della  brama  di successo, costrutto che trae origine dalla teoria della personalità di Murray (1938). Sembra che i soggetti con un forte bisogno di successo preferiscano scommesse dall’esito più incerto o forme di gioco d’azzardo che coinvolgano il fattore abilità (Lavanco, 2001). Il gioco d’azzardo viene a configurarsi con questi presupposti, come un’attività ludica funzionale alla soddisfazione di alcuni basilari bisogni umani (Kusyzsyn,1984).

Il livello di autostima sembrerebbe avere un ruolo determinante sul comportamento di gioco. Tuttavia, non è stato ancora chiarito se la bassa autostima sia causa della dipendenza dal gioco o sia invece una conseguenza delle ingenti perdite in campo economico, personale e sociale. La depressione e gli stati ansiosi associati al gioco problematico o patologico sembrano contribuire a impoverire proprio la stima in se stessi, oltre che danneggiare la capacità di mettere in atto strategie di coping funzionali (Lavanco & Varveri, 2006) .

Il costrutto di locus of control, introdotto nel 1960 da Rotter, si riferisce al sistema di aspettative e credenze di una persona circa il controllo della propria vita, cioè il grado in cui gli individui credono  di  poter  esercitare  un  controllo  sulle  azioni  e  sugli  eventi  della  vita  (Meyer  de Standelhofen, Aufrère, Besson, & Rossier, 2008).

I risultati derivanti dagli studi sul locus of control dei giocatori patologici, tuttavia, non sono unanimi: a fronte di studi che rilevano una correlazione con un locus of control interno, ce ne sono altri in letteratura che documentano, al contrario, un’associazione con quello esterno (Lavanco,

2001; Zhou, Tang, Sun, Huang, Rao, Liang et al., 2012). Questi risultati indicano che, né il locus of control interno né quello esterno, possono interamente spiegare il comportamento disfunzionale di gioco (Zhou, Tang, Sun, Huang, Rao, Liang et al., 2012). Una spiegazione a queste conclusioni divergenti, chiamerebbe in causa le diverse tipologie di gioco d’azzardo: i giochi di fortuna attirerebbero gli esterni, mentre i giochi di abilità sembrerebbero aver maggior successo tra gli interni. Tuttavia, sia gli “esterni” che gli “interni” cercano di controllare la situazione di gioco, ma questa percezione illusoria è maggiore tra gli interni, dal momento che il soggetto con questa tendenza attribuzionale preferisce credere che l’esito del gioco sia governato dalla sua abilità, anche quando, invece, è governato dal caso (Lavanco, 2001). Le strategie utilizzate dai due gruppi per esercitare il controllo sono sostanzialmente diverse: mentre gli esterni mostrano un approccio attivo alla situazione, gli interni attuano una modalità di controllo di tipo passivo. I primi, infatti, credono che loro stessi sono in grado di scegliere dei numeri che con maggiore probabilità usciranno in una lotteria; negli interni, invece, l’illusione di controllo si manifesta nel ritenere che il biglietto che è stato loro assegnato ha più probabilità di essere estratto (Cowley, Farrell & Edwardson, 2006).

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L’elemento soggettivo del reato

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di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

26 ottobre 2014

1) Coscienza e volontà.
2) Affinchè si possa sostenere che un soggetto ha commesso reato è nedcessario valutare se avesse la volontà di compiere quell’azione e di assumere una determinata condotta.
3) Ciò evidenzia anche una conquista civica dell’uomo anche dal punto di vista giuridico poichè prima era sufficiente connettere la causalità tra azione ed evento per procedere con la punizione.
4) L’elemento della volontà connessa al fatto è anche detto elemento soggettivo o psicologico del reato.
5) L’art. 43 del codice penale recita: ” il delitto: è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente;è colposo, o contro l’intenzione quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico.”
6) Nel corso degli anni si è svolto un òlungo dibattito dottrinale che ha portato allo sviluppo di delle teorie: dell’intenzione, secondo cui la volontà è l’intenzione di cagionare l’evento, mentre, per la teroria della rappresentazione della volontà, la volontà va cercata nella previsione dell’evento.
7) E’ utile richiamare il dispositivo dell’articolo 42, codice penale, comma 1 secondo cui, ” nessuno può essere punito per un’azione […] se non l’ha commessa con coscienza e volontà.”
8) La domanda che si è posta la dottrina è, come deve intendersi la coscienza e volontà?
9) In generale si considera sufficiente la volontarietà dell’atto1, in un certo senso si ritiene sufficiente il semplice impulso volontario.
10) Dal punto di vista psicologico, questa teoria non trova fondamento perchè si è dimostrato come non tutte le azioni, seppur le più lucide possibile, corrispondano alla concreta volontà di compierle e viceversa, possono esserci atti che per volontà si vogliono portare a termine ma che, per la stressa forza di volonta o per impulso, vengono frenate.
11) Il dolo.
12) L’articolo 43 del codice penale esordisce con il dire “ è doloso“, quindi ora cerchiamo di capire in maniera generica e semplice cos’è il dolo.
13) La forma tipica della volontà colpevole è definita dolo2, ne consegue, che l’azione costitutiva del fatto di reato deve essere sia preveduta che voluta.
14) La dottrina ha ampiamente discusso se far rientrare tra gli elementi costitutivi del reato anche la conoscenza dell’agente, del disvalore del fatto, dell’antigiuridicità, finchè non è intervenuta la Sentenza della Corte Costituzionale numero 364/1988, la quale interpretando l’articolo 27 della Costituzione, comma 1, secondo cui, ” la responsabilità penale è personale“, ha rimarcato il principio di colpevolezza a fondamento della responsabiliotà penale, il che, ” postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica” e ne limita la responsabilità penale solo ” all’oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto.”

_________________________________________________________________________

1 Antolisei, ” La volontà nel reato“, in Riv. Pen., 1932, 233.
2 Thodt, ” La nozione del dolo nella letteratura giuridico-penale straniera con riferimento al nuovo c.p.it.” in Nuova Legisl. Ital.,1932, 141.

La soglia di Susan Stewart

di Andrea Galgano             25 settembre 2014

leggi in pdf LA SOGLIA DI SUSAN STEWART

Susan Stewart Poet Writer Critic

Susan Stewart (1952) esprime la vitale vertigine di un nutrimento che attinge dal repertorio dei classici latini e greci e dalla coltre concettuale sedimentata dei poeti metafisici inglesi del Seicento, ma manifesta una pura e sostanziale ricerca espressiva che si sporge sulla conoscibilità del reale, sulla sua calorosa meraviglia e, infine, sulla concretezza che si fa immagine primordiale ed eco inscindibile.
Poetessa, membro dell’American Academy of Arts and Sciences, critico, traduttrice (ha tradotto l’Andromaca di Euripide), insegna storia della poesia ed estetica presso l’università di Princeton e nel 2005 ha ottenuto il titolo di Chancellor dall’Accademy of American Poets.
Il suo sguardo si afferma nella densità dell’essere. In essa la realtà emerge nella sua datità, nella sfrontatezza di una cosalità mai ridotta, ma vibrante nella profondità e nell’intensità di una «ambiguità instabile tra le profondità intime dello’io e, d’altra parte, il fondo misterioso della realtà che ci circonda, fino ad esiti solo apparentemente paradossali» (Antonio Spadaro):

«Lascia che ti parli del mio meraviglioso dio, di come si nasconda negli esagoni / delle api, di come la siccità che strofina le sue mani coriacee / sopra il mondo sia una sua creazione, così come la pioggia nei minuti silenziosi / che lasciano soltanto pensieri di pioggia. / Un atomo che lavora e lavora, un atomo che lavora nella notte / più profonda, poi esplode come la stella più lontana, molto / più piccolo di una puntura di spillo, molto più piccolo di uno zero che non ha / nessun desiderio, nessun desiderio verso di noi».

Scrive Roberto Mussapi:

«La Stewart […] restituisce un binomio di felicità visionaria e potenza rivelante su cui si innesta innanzitutto la poesia americana, e una dimensione metafisica, di origine europea, dove metafisico non indica una astratta speculazione nelle sfere celesti, ma la rappresentazione di realtà invisibili e incorporee attraverso immagini concrete, azioni, insomma la traduzione dell’ invisibile in visibile che è uno dei sogni e degli impulsi originari che muovono ogni artista. Come molti poeti americani del passato, è legata al mondo presocratico, vale a dire al pensiero greco delle origini, quando filosofia, cioè ragionamento logico, e poema, cioè cosmologia, canto della natura, si intersecano e a volte si fondono. Paesaggi, luoghi e figure elementari di un mondo percepito nel suo nascere: foresta, stelle, acqua, deserto, prato, lampo, rosa. Il mondo delle cose prime, rivelato dallo stupore del poeta che quanto più è immediato tanto è sapiente e sapienziale: «Io mi addormento in onore della pioggia, / in onore dell’inquietudine delle foglie, / e un gran fremito passa / sopra la terra; è la musica / del nostro dimenticare».

E ancora: «In Susan Stewart il mondo quotidiano, in cui la natura non è marginale ma onnipresente, si accende di lampeggianti rivelazioni, la vita è svelata in piccoli miracoli ininterrotti, continuamente celati nel mistero, cifra principe della realtà. Una poesia della soglia, continuamente al confine tra umano e divino, visione e meditazione filosofica. Immaginazione e pensiero trovano nella sua opera una formulazione nuova di un binomio cardinale della poesia d’Occidente». Pertanto il pieno brusio del suo magma cerca l’oscurità delle superfici, la sorgente primordiale e primaria di un luogo, «una fila di alberi, una fila di stelle. / Cercalo dunque: troverai che potresti perdere / il senso della profondità, / una foglia, un fascio / di carta, una federa / o una faccia / a forma di cuore, / un sibilo che infuria, / come i venti, come / la morte, in un groviglio / là nei rami».

È una danza avvinta che incontra i libri del buio («Buia la stella / fonda nel pozzo, / luminosa nell’acqua») e il silenzio muschioso, per premere contro l’oscurità, «andando più a fondo nell’acqua, nero nella nerezza, / la fonte dell’acqua che aspetta là, lontana sotto l’acqua / e l’acqua nera come carbone, / nera come qualsiasi cosa estratta dalla terra; / allora portala alla luce del giorno e schiarirà / ancora, trasparente nel bicchiere trasparente, invisibile / sulle mani, benedizione, / che scende, felicità che balena».
La grammatica delle sue linee ha radure luminose e sospensioni di anima. Il verso frastagliato, dislocato e franto condensa le punte iconiche della riflessione, della percezione del reale e del suo contrappunto esperienziale, quest’ultimo forgiato dall’intuizione e dall’immaginazione.
Il risveglio celebra la soglia dei contorni e la loro nitidezza condivisa, laddove la scena invernale e brinosa porge il suo nero solco impenetrabile.
Il dopo-immagine ghiacciato raccoglie il volo improvviso e nitido che precipita e discende, come un empito di fiato che unisce sacro e profano, nel suo sibilo che infuria, lasciando l’impronta di una notizia splendente e impossibile: eppure «la verità rimane / che non posso sapere solo quel che ho visto e se / viene ogni notte, ogni sogno, ogni stella o per niente». Il gufo, che in questo poema è, allo stesso tempo, invocazione, notturno ed esplorazione, – ossia «troubled-recognition topos», secondo la felice definizione di Randall Couch, diventa, come commenta Maria Cristina Biggio, «nell’istante della poesia e per sempre, meravigliosa creatura che sposa il paesaggio e redime il tempo-di-ora bloccato nell’attesa di fare “un sogno invernale”».
L’abbandono e la forza epistemologica della mobilita la sua ricerca di significato, si compromette con l’allungamento delle ombre e con la profondità della indeterminatezza dello slittamento della percezione visiva. Essa diventa, pertanto, il luogo della creatività e della fantasia, come finalità della forma.
In un’intervista rilasciata a Roberto Mussapi, su “Avvenire”, del 28 dicembre 2013, Susan Stewart traccia la sua vitale e meravigliosa stele poetica, affermando che

«La bellezza di ogni poesia è costruita sulla musica dei suoi suoni e intervalli misurati, sulla vividezza delle immagini, l’immediatezza e la tessitura del suo eloquio, e la sua evocazione di presenza. Le poesie sono vive, e la loro vita è più lunga di ogni nostra vita individuale. Il pensiero poetico è capiente, perché esalta non solo tutti i nostri poteri mentali (la ragione, l’immaginazione, le memoria e l’emozione insieme), ma anche i nostri ritmi fisici, il battito dei nostri cuori, il ritmo del respiro, gli occhi che si chiudono o si aprono. Nel leggere e scrivere poesia noi portiamo il nostro intero se stesso a significati condivisi. Come forma d’arte, la poesia ha valore in se stessa, il linguaggio attraverso il quale la poesia si compie non si esaurisce nell’esperienza o nei desideri del momento. No, la poesia vive oltre il contesto del suo farsi e la sua storia procede».

L’orbita immaginale e il colombario della sua anima lucente di buio fiutano e tentano di appropriarsi della vita piena e della sua realizzazione, come l’atto di fede che arreda la transizione e la liminalità. Esse interrogano, come scrive M. C. Biggio,

«l’idea di trascendenza (la luce, il volo, gli uccelli, le ali, le api, il vento, il “fuoco vivente”, il divino, la fuga, il paradiso, la bellezza lirica, il vorticare) e la realtà della discesa (l’oscurità, la cenere, il bruciare, la caducità, il radicato, il sotterraneo, il mondo fisico e i suoi elementi, ecc.). Sono motivi costanti anche la riflessione sul farsi e sulla forza epistemologica dell’invenzione poetica – capace di estendere la nostra imperfetta conoscenza del mondo e di tracciare una nuova mappa di mondi possibili rivelando il sacro e il misterioso di realtà trasfigurate dall’arte – e sull’ossimorica potenza della “memoria umana”, intesa come abisso, fondo incommensurabile in cui il tempo si fa quasi infinito nella vita breve e mortale dell’uomo che la possiede. Ad essi si accompagna l’interesse di Stewart per la perduta condizione edenica dopo la cacciata dei nostri mitici progenitori: il tema della caduta offre alla sua poesia la possibilità di farsi struggente ripetizione del giardino e, nel contempo, lamento dell’esperienza profondamente umana del limite, senza che in essa vengano mai meno né la capacità di confrontarsi con la tragedia e il male come parti del tutto, né la speranza e lo stupore per l’incommensurabilità dell’esistenza».

La poesia cerca l’ineffabile tangibilità e percepisce l’attesa e la lotta contro le soglie tenebre, l’osmosi dei passaggi, l’enigma, l’alchimia del linguaggio, per folleggiare «con il nonsense e l’ironia (intesa in senso romantico e in quello socratico di dissimulazione nella struttura discorsiva) per sottolineare il dubbio e l’incertezza che l’accompagnano, e che usa il mito come prezioso collante alle interrogazioni della cangiante e multiforme realtà. Per poter infine dire, al di là di quinte e sipari e con la più vasta gamma possibile di domini del reale, il favoloso mondo sognato in cui «nessuna morte è naturale» (Maria Cristina Biggio): «Una volta eri addolorato / e loro ti vennero incontro nell’aria bianca. / Entrarono in / una musica infinita, / il pavimento del tempio / era muschio calpestato. / Hai vegliato / per una fessura / nella pietra / che poteva aprirsi e / chiudersi liberamente, come / una mano. / Hai vegliato / nella verdezza mentre colmava l’aria bianca».
La densità ermetica della poesia di Susan Stewart si concentra sull’allusione, sull’incontro tra l’io e chi riceve, divenendo esplorazione d’infanzia e giovinezza del mondo.
La realtà si svela e compie il suo linguaggio e lo sguardo della Stewart, come visione binoculare, intuisce risvegli smossi, la nostalgia del passato trasferito e in transito, la frizione della vita e della morte e «tremare argento dell’elemento».
La sovrapposizione della memoria percorre le scapole della poesia in un contrasto metafisico e conoscitivo, vive di un trasalimento felice che illumina l’inizio per figurare la specificità dell’altro, ricalcarne le forme, conoscerne la fecondità.
L’erranza della materia, «Dove l’aria è intessuta di muschio che s’asciuga, / (in quel posto dove son cresciuta) la foresta in un groviglio, / un aroma di muschio dai funghi e dalle trine di muffe, / dolce-stellato andare, in un groviglio di rovi, di felci», permette di trapassare gli oggetti, di conoscere le stratificazioni, il limitare della foresta simbolica, che è «risorsa della natura, di tutto ciò che è oltre i fatti della storia, oltre i nostri concetti di spazio e tempo e le categorie e il nostro modo di conoscere e che, in quanto tale, precede la memoria e l’invenzione. La natura è l’indefinibile, l’illimitata risorsa al di sopra della quale la conoscenza si innalza – proprio come l’invisibilità sta al di là del visibile – non in senso mistico ma come un reale riconoscimento del limite dei nostri poteri analogo alla finitudine sancita dalle nostre morti individuali».
La chiarità e l’esatta precisione delle immagini di Susan Stewart si appropria delle trame e delle simmetrie dei giochi, come spostamento di forze (come lo spirito che vaga tra le foglie scosse di red rover) e ripiegamento svelato, riflessione sulle passioni e sui mali del mondo: «colui che si è riversato / nel suono, si è fatto parola del silenzio; / mandato in mezzo al tempo, si è fatto tempo che emerge. / Mentre il passato si accresce, il futuro diminuisce / e la paura assume i tratti dell’amore».
Fare precipitare la visione poetica tra le radici nascoste, lo stupore, gli abissi, tra le presenze vitali incise nella memoria fantasma e nella luce, nei vecchi dolori, è il genio dello scarto e della visione, situata nella «profonda mezzanotte del giorno e dell’anno».
Scrive ancora Maria Cristina Biggio:

«La Stewart accoglie, in una fantasmagoria di specchiata luce e ombra, le contraddizioni e i dubbi della realtà, allo stesso tempo accogliendo il progresso e l’avanzamento che nasce dal loro contrasto e scontro, lasciando entrare una variazione, formale e/o tematica nel verso ripetuto, che così slitta verso un significato di problematica discordanza, più cupo o perturbante che, appunto, disorienta il lettore […] Metafore e metonimia, metafore-metonimiche, giochi di parole e giochi con le parole […] sono la logica conseguenza di una metafisica instaurata con il senso (della vista, dell’udito, del tatto e di un senso vestibolare della vertigine o dell’equilibrio nell’attraversamento delle varie soglie), che viene poi necessariamente rappresentata in parole. Davanti all’eterno, all’invisibile, al non razionale, la parola umana prova a dire i cortocircuiti della razionalità, mentre il poeta sale e scende dalla mitica catena d’oro del linguaggio, tentando di avvicinare terra e cielo».

Persino il male, la caduta, il dolore diventano traccia meridiana ed eco di una possibile redenzione e di una nuova costruzione di mondo, come antifone che nominano e conservano le cose, come colonie perdute a punta di freccia e come litanie ripetute di uno shock ripetuto e continuo, che però non ha paura di richiamare i nomi di un mondo spezzato che riporta indietro il tempo, rallentato e pastorale (Elegia contro il massacro alla Amish School, west Nickel Mines, Pennsylvania, autunno 2006): « Lena, Mary Liz, e Anna Mae / Marian, Naomi Rose / quando il tempo si è fermato / dove il tempo ha rallentato / i cavalli portavano la pioggia. / Mary Liz, Anna Mae, Marian / Naomi Rose and Lena / le lanterne accese / nel buio mezzogiorno / nel processionale del dolore».
Il potere incantatorio del mito, laddove celebra la drammatizzata soglia dei vasti panneggi, va alla ricerca del linguaggio della memoria prenatale, celebra l’incisione dei luoghi e del tempo e, nelle sue prominenze lessicali, inscena una parola gravitata, «alla base immobile del mondo che gira», che non ammette eclissi, ma scava il suo sfioramento della visione presente, gli incontri trans temporali come riscrittura e connessione di qualcosa che non c’è ancora, ma trova la sua trama di inizi rianimati nel «sonno orlato di raso».

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BIGGIO M.C., Susan Stewart, due poesie (http://poesia.blog.rainews.it/2012/01/19/susan-stewart-due-poesie/)

La capacità a delinquere e la capacità criminale. III parte

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Terza Parte

di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

 4 settembre 2014

Affinche si possa ben valutare capacità criminale di un soggetto è necessario prendere in considerazione alcuni requisiti. Del primo ne abbiamo già parlato nel precedente articolo (http://www.polimniaprofessioni.com/rivista/la-capacita-a-delinquere-e-la-capacita-criminale-i-parte/) ora passiamo ad analizzare gli altri.

IL MOVENTE.

Il secondo elemento affinchè ci sia la capacità criminale è il movente dell’azione criminosa compiuta.
Ad esempio, passando subito all’analisi giurisprudenziale dell’elemento, una recente sentenza della Cassazione Penale che ha fatto molto discutere è la numero 44480/2012, secondo cui, ” integra, infatti, il delitto di violenza sessuale anche il mero sfioramento con le labbra del viso altrui per dare un bacio, posto che tra gli atti suscettibili di concretizzare il reato de quo possono essere ricompresi anche quelli insidiosi e rapidi, riguardanti zone erogene su persona non consenziente.” 1
La sentenza richiamata è anche importante poichè riapre anche la questione della definizione di ” atti sessuali” ricomprendendone il semplice sfioramento delle labbra.
Sul punto che ci interessa, analizzando quanto sopra, si può ritenere che per gli atti sessuali, la giurisprudenza punisce “qualsiasi condotta che costituisca un’intrusione nell’altrui sfera sessuale, a prescindere dal movente e dalle finalità perseguite dall’agente.”
Questo perchè i giudici, spesso utilizzano il termine ” in modo atecnico.”2 riferendosi alle parti del corpo anatomiche ” che normalmente e notoriamente sono oggetto di concupiscenza sessuale e rientrano nella gamma della c.d. appetibilità sessuale.”
A tal proposito, parte della dottrina ha ritenuto che il giudice,per verificare la sussistenza dell’abuso sessuale, come nel caso di specie della sentenza in esame, non deve valutare solo le parti del corpo aggredite, ” non deve fare riferimento unicamente alle parti anatomiche aggredite dal soggetto attivo e/o al grado di intensità fisica del contatto instaurato, ma deve tenere conto dell’intero contesto in cui il contatto si è realizzato e della dinamica intersoggettiva, esaminando la vicenda con un approccio interpretativo di tipo sintetico, volto, cioè, a desumere il significato della violenza sessuale da una valutazione complessiva di tutta la vicenda sottoposta a giudizio.”3

I PRCEDENTI DEL REO.

Prendendo in considerazione il soggetto di cui deve essere valutata la capacità criminale, vanno valutati i comportamenti precedentemente assunti dal soggetto: le precedenti condanne e i precedenti giudiziari, come anche gli eventuali fatti amnistiati, le aasoluzioni per prescrizione, per mancanza di querela o remissione, per non provata reità.4
IL COMPORTAMENTO CONTEMPORANEO E SUCCESSIVO AL REATO.

Si prende in considerazione il fatto che un soggetto ha l’inclinazione a compiere un delitto tanto maggiore quant’è l’efferatezza, il cinismo, la disinvoltura, la ferocia, la capacità di seviziare la vittima.
Utile ed importante è anche considerare l’atteggiamento posteriore al reato, valutandone l’indifferenz anei confronti della vittima, sentimenti di soddisfazione per il suo gesto, di mancanza di preoccupazione nel riparare il danno.
Potrebbe capitare la situazione in cui un soggetto, si autodenunci e confessi: un punto che va valutato come minor capacità criminosa del soggetto solo se deriva da vero pentimento.

IL CARATTERE DEL REO.

Importante è valutare e considerare la psiche del reo.
Valutare ciò è utile per comprendere la capacitàcriminale, ossia la capacità di determinazione.
Non è da pensare che questio elemento sia un semplice segno rivelatore ma è molto più importante poichè è la base stessa dell’attitudine.5

L’AMBIENTE.

Valutare l’ambiente in cui un soggetto mette in atto la sua capacità criminale, scsaturisce dalla littera legis dell’articolo 133 del codice penale, comma 1, numero 1, che prevede testualmente che ” il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione.”

STRUTTURA ANALITICA DELLA NORMA.

Nonostante la struttura analitica dell’articolo 133 del codice penale, il quale prende in considerazione tutti i requisiti di cui sopra esposto e spiegato, parte della dottrina ritiene che ” la norma manca di indicare i criteri finalistici sottesi, nel senso che non è chiaro se la gravità del fatto e la capacità a delinquere vadano interpretate in chiave retributiva ovvero specialpreventiva. Si tratta di uno snodo dottrinale rilevante, stante la polivalenza dei termini utlizzati, ancora fortemente dibattuto. Secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, la soluzione starebbe nei binomi retribuzione-gravità del reato e specialprevenzione-capacità criminale.”6
Altri sostengono che ” la chiave di volta dell’art. 133 c.p. risiede non tanto negli indici fattuali quanto nei criteri della gravità del reato e della capacità criminale.”7
Un accetto va debitamente posto circa l’ampia discrezionalità lasciata al giudice nel determinare la pena, legata forse all’impossibilità, secondo alcuni, da parte del legislatore di richiamare tutti i casi che possano verificarsi.8
Un aparte di dottrina ritiene questa elencazione minima della norma, ” ” residuo irrazionale” nell’attività del giudice, seppure ineliminabile, vista la normativa sulla determinazione della pena vigente nel nostro ordinamento, non sia ” efficacemente circoscritto”9

LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE NUMERO 299 DEL 1992.

Sulla questione su esposta si è espressa la Corte Costituzionale, ritenendo che l’articolo 133 del codice penale, “specifica quali sono i connotati oggettivi e soggettivi del singolo caso dei quali il giudice può e deve tener conto per determinare la sanzione concreta e quali sono gli elementi dai quali egli può desumere le relative valutazioni. E la determinazione legislativa del minimo e del massimo della pena irrogabile per ciascun tipo di reato non rappresenta soltanto un limite alla discrezionalità giudiziale, ma costituisce anche un indispensabile parametro legislativo per l’esercizio di essa, un criterio guida senza il quale il potere così riconosciuto al giudice non sarebbe riconducibile al principio di legalità.
Mediante la determinazione legislativa del minimo e del massimo di pena, infatti, il compito che viene assegnato al giudice è quello di “proporzionare” la sanzione concreta non già al proprio giudizio di disvalore sul fatto previsto dalla legge come reato, ma alla scala di graduazione individuata dal minimo e dal massimo edittali, tenendo conto della volontà del legislatore di comminare il minimo a quelli, tra i casi riconducibili alla medesima fattispecie astratta, che siano connotati da minor gravità e presentino minori indici di capacità a delinquere, e di comminare, d’altra parte, il massimo edittale ai casi che, in base agli elementi di cui all’art. 133 cod. pen., rivestono maggior gravità ed in cui siano ravvisabili indici di maggiore pericolosità personale.
La predeterminazione legislativa del massimo di pena irrogabile per un determinato tipo di reato costituisce quindi un requisito essenziale affinchè la discrezionalità giudiziale nella determinazione concreta della pena trovi nella legge il suo limite e la sua regola e non si traduca, invece, in arbitrio.
Il principio di legalità della pena escluderebbe pertanto la legittimità costituzionale di reati a pena massima indeterminata: tant’è che tale ipotesi non ha modo di verificarsi nel nostro ordinamento, dato che – ove la specifica norma sanzionatoria non indichi il massimo edittale, si deve intendere che essa faccia riferimento alla durata massima prevista in via generale, per le singole categorie di pene, dagli artt.23-26 cod. pen. e 26 cod. pen. mil. di pace.
Ma il principio di legalità richiede anche che l’ampiezza del divario tra il minimo ed il massimo della pena non ecceda il margine di elasticità necessario a consentire l’individualizzazione della pena secondo i criteri di cui all’art. 133 e che manifestamente risulti non correlato alla variabilità delle fattispecie concrete e delle tipologie soggettive rapportabili alla fattispecie astratta. Altrimenti la predeterminazione legislativa della misura della pena diverrebbe soltanto apparente ed il potere conferito al giudice si trasformerebbe da potere discrezionale in potere arbitrario.”10

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1 C. Cass. Pen., Sez. III, 26/09/2012, n. 44480. 2massimo della pena non ecceda il marg

2 Palumbieri, Introduzione, in Cadoppi (a cura di), I reati contro la persona. III. Reati contro la libertà sessuale e lo sviluppo psico-fisico dei minori, Milano, 2006, 53.

3 Fiandaca, voce Violenza Sessuale, in Enc. dir., Agg., vol. IV, Milano, 2000, 1153 ss.

4 F. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale,Giuffè, 1989, 567.

5 F. Antolisei, op.cit.,Giuffè, 1989, 568.

6 http://www.brocardi.it/codice-penale/libro-primo/titolo-v/capo-i/art133.html

7 B. Cruccolini, in F. Palazzo, Corso di diritto Penale, Giappichelli, 2005.

8 F. Bricola, La discrezionalità nel diritto penale. Nozione e aspetti costituzionali, Milano, 1965, in Scritti di diritto penale. Opere monografiche, Milano, 2000, p. 100-101; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale , Parte generale 5° Ed..Zanichelli, Bologna, 2007. 742.

9 Dolcini, La commisurazione della pena, p.72.

10 C. Cost. 24/06/1992, n. 299.

Il sangue amaro di Valerio Magrelli

di Andrea Galgano             23 aprile 2014

recensioni Il sangue amaro di Valerio Magrelli

Foto_Magrelli

Il nuovo libro di Valerio Magrelli (1957), Il sangue amaro, edito da Einaudi, fodera la quotidianità in un paesaggio di voci dispiegate, dediche improvvise, riferimenti estesi ad amici e anime interlocutrici, ai vocativi allusi.

Il dialogo si frastaglia in un contatto che riflette e confessa, si allontana dalla figuralità di immagini e apre la sua scena alla simmetria degli specchi e dei suoni, ai chiasmi del timore e del tremore, della convivenza sociale e della lotta civile

In un articolo su «Il Sole24 ore» del 17 marzo 2014, Gabriele Pedullà scrive che: «Questo affollamento ha sicuramente a che fare con l’approfondirsi di una vena civile che nelle prime raccolte sarebbe stato difficile da prevedere. Quando è che l’io incontra il noi? Dietro l’omaggio o il saluto, di là dal vetro i nomi e i referenti particolari sembrano rimandare a una comunità perduta, o a una ipotetica comunità a venire. Nel presente, invece, c’è solo il vuoto. Curiosamente infatti, non appena entriamo nei testi, ci accorgiamo che, esclusa la famiglia, le poche entità collettive evocate si reggono tutte su una privazione originaria: i giovani senza lavoro, gli odiatori disperati che scrivono insulti nei bagni pubblici, gli uomini bruciati assieme nelle Torri Gemelle o, con un altro rogo, gli operai periti nell’incidente della Thyssen. All’impossibilità kantiana di attingere alla cosa in sé si aggiunge ora, dunque, una paralisi storica. Al punto che, nell’età della trasformazione della politica in scienza della governamentalità e della governance, le dediche si rivelano altrettanti tentativi di fare gruppo: se necessario oltre lo spazio e il tempo. Invocazioni di aiuto almeno quanto profferte di affetto ai vivi e ai morti».

L’io, pertanto, vive «l’aria del nostro tempo» (Gabriele Pedullà), come squarcio ferito di ansia, confine che «avvampa e non consuma», come un bisticcio con l’esterno che stritola, annienta, sbilancia la sua malinconia nei paradisi perduti della lettura «Trovarsi a fianco qualcuno assorto nella lettura, / mi porta a domandargli. Dove sei? / per questo cerco di cercarti dentro, / di raggiungerti dentro quel dentro / da cui mi sento irrimediabilmente escluso».

La sua esattezza di figura, se da un lato condensa il proprio residuo interiore, dall’altro esprime la vertigine franta delle cose, articolando la concreta condensazione vista in Ora serrata retinae (1980), attraverso la nominazione e la paura insozzata delle soglie: «Da una finestra aperta non entra soltanto la luce; / a volte può entrare dell’altro che non avresti voluto. / Lo schifo, lo schifo, lo schifo di un animale che vola / in mezzo alle cose di casa violando lo spazio privato, / quell’unico spazio che resta di qua dalla finestra» o ancora adempiere l’infernale ignoto di una tecnologia avara e della burocrazia che sembra lasciare un vuoto estinto: «Natale, credo, scada il bollino blu / del motorino, il canone URAR TV, / poi l’ICI e in più il secondo / acconto IRPEF – o era INRI? / La password, il codice utente, PIN e PUK / sono le nostre dolcissime metastasi. / ciò è bene, perché io amo i contributi, / l’anestesia, l’anagrafe telematica, / ma sento che qualcosa è andato perso / e insieme che il dolore mi è rimasto / mentre mi prende acuta nostalgia / per una forma di vita estinta: la mia».

Commenta Pedullà: «Generalizzando, si potrebbe dire che in questo nuovo Magrelli le parole ripetute alludono a una tragedia (o comunque a un trauma) che si ripresenta rigorosamente in forma di commedia. A essere amaro, in queste poesie, è infatti soprattutto il riso. Il quale non è mai stato così abbondante nelle opere precedenti di Magrelli, ma – contrariamente a quanto asserisce il noto proverbio – qui non “fa buon sangue”. Mai».

Sono oggetti violenti di mete ignote di cittadino, luce orfana di un movimento, come «un vento che soffia da dentro / per scuotere le foglie delle dita / e non si ferma più» e questo stormire di fronde porterà a una tramutazione «in betulla / o in un cipresso sul bordo del fiume, / con quel tremolare di luci / alzate dalla brezza. / mi farò soffio, mi farò soffiare, / panno lasciato al sole ad asciugare».

Il disfacimento disincantato del gesto poetico di Magrelli ha l’amarezza del riso e del sangue, l’esterno che penetra lo sporgersi verso l’abisso («Ecco perché vengo avanti piano piano, / come sull’orlo di un baratro. / Ecco perché mi protendo verso il vuoto / in fondo al quale posso a malapena intravederti»), il diario del tempo che squaderna le ferite e il disincanto escluso, come una smarrita enclave di parola silenziosa («Il vuoto del tuo corpo, / il suo silenzio, / dimostrano che il padrone non è in casa. / resta solo il cappello, posato sulla sedia / per occupare il posto dell’assente. / Quando leggi, vai via, e mi lasci solo») oppure il ritmo della vertigine dell’ansia che «è una domanda più totale, che include l’origine e la fine di ogni nostro «sistema fluviale», cioè di ogni nostra vita, che «nasce dal disgelo delle vette, dov’è il regno del cuore». Non solo una suggestiva immagine, in cui il nostro circuito cardiovascolare diventa una complessa rete fluviale vivente, ma il segno di una profonda richiesta di appartenenza», come scrive Bianca Garavelli su “Avvenire”.

L’estuario di Magrelli si attesta sul suo tempo elicoidale che vela il mondo e descrive la nascita, il suo affidamento, la sua parola segreta, come anello solstiziale: «Cinquanta volte giugno, / e sarei io, l’anello? / l’anello è lui, questo tempo elicoidale / che torna su se stesso / sempre uguale e uguale mai, / mio giugno, anello solstiziale / di sangue, di nozze di addio, / eterna vigilia di quella vacanza / che infine giungerà pura / nudissima luce definitiva, / mio sabato dell’anno, rompendo / finalmente l’anello sisifale».

È spesso il tempo dell’esclusione dal tempo («Riuscire a condividere quello spazio / da cui mi escludi, e che esiste soltanto / perché tu me ne escludi») a ridisegnare lo strappo sgualcito della separazione che genera nostalgia, che implora il corrimano del corpo, che invoca la bellezza dai regni interiori e «dei fondi incantanti del non-io».

Il suo calendario è un brusio che apre il ponte levatoio per varcare le stagioni e gemmare sugli affetti, promettere redenzione, toccando persino il rovinoso suburbano, come un occhio poetante «che intravede la vetta, la bellezza / come promessa di felicità», che soffre «il barbarico barbaglio» di luglio ma «resta il cielo a ricordarci un tempo / in cui la vita respirava piena. / Ma resta un cielo a ricordarci il tempo / in cui respirerà piena la vita».

I ritratti raccolti in questo testo si fondono e si raccolgono in un delta a distanza che mette a nudo, in cui personaggi come Carlo Betocchi, Leon Bloy, Pier Paolo Pasolini, Mircea Eliade, Gian Lorenzo Bernini, Ettore Petrolini, Totò rappresentano il sintagma fluviale di un ponte inesausto che si rivela, l’otobiografia che rumoreggia i passi della vita che attraversa «tutte le forme possibili di esperienza “fluviale”: un simil-Mekong italiano e Piazza Navona con la sua celeberrima fontana, l’autolavaggio e il gran Canyon, i ponti cittadini e la fonte Castalia che rende poeta colui che beve alla sorgente, la Neva ghiacciata e il rompersi di un tubo che porta alla luce il “sistema sanguigno” della casa» (Gabriele Pedullà).

I paesaggi laziali, l’immersione nella lettura con la donna amata irraggiungibile avvertono come una fragile impossibilità esclusa, il segno di un incontro e di una comunione mancata, uno stampo nell’ombra di se stessi: «Invisibile e invincibile / è lo stampo che porto dentro me, / stampo del mondo impresso a me nel mondo / e che mi fa essere al mondo / soltanto nella forma dello stampo. / Dov’è la libertà, se la malinconia / raccoglie le sue nuvole senza nessun perché? / sto qui e subisco il loro lento transito / solo aspettando / all’ombra di me stesso».

Spesso è il fuoco ad accompagnare il ritratto di queste danze amare, una città incendiata di un’ansietà che avvampa e non consuma, come una specie di falso fuoco che brucia e si lascia bruciare, in una sconfitta consustanziale, in un attimo sparuto.

Magrelli ci consegna una ferita esclusa ma non vinta, la precarietà prigioniera (««Non siamo a casa neanche a casa nostra, / anche la nostra casa è casa d’altri, / la casa di qualcuno arrivato da prima /  che adesso ci caccia. / Vengono a sciami / si riprendono casa, / la loro casa, / da cui ci scuotono via, / punendoci per la nostra presunzione: / essere stati tanto fiduciosi / da credere che il mondo si potesse abitare»»), le mattinate apocrife che gocciolano notte, il raspamento di qualcosa che si contrae per «ottenere che lentamente, esile, torni / il moribondo flusso di corrente / ed un nuovo splendore inondi i giorni. / Solo così rinasce quel potente / getto di sole che rimette in moto / ruota, ciclo, marea, nascita, photos».

Ma in quel punto raschiato, in quel segno di ferita rimane l’accorata preghiera clandestina, come una sorta domanda grande e spiata a Dio ultimo e reietto fra i reietti: «Dio delle baraccopoli, Gesù dei clandestini, / nato nella favela, ultimo fra i bambini, / creatura della notte, amato dai reietti, / scintilla nelle tenebre, abisso degli eletti. / Gesù di baraccopoli e Dio dei clandestini, / nell’ultima favela neonato fra i bambini, / amato dalla notte, creatura dei reietti, / abisso nelle tenebre, scintilla degli eletti. / Abisso e baraccopoli, scintilla e clandestini, / quanto amato in favela!, creatura dei bambini, / ultimo nella notte, neonato fra i reietti, / Gesù dentro le tenebre, Dio di tutti gli eletti».

978880621845GRA

Valerio Magrelli

Il sangue amaro       

Einaudi, pp. 149, 13 euro

 

 

Magrelli V., Il sangue amaro, Einaudi, Torino 2014