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L’amore di Manuel Vilas

di Andrea Galgano  31 maggio   2022

L’amore di Manuel Vilas

Amor[1] di Manuel Vilas è un’antologia di poesie, uscita per Guanda, nel 2021, che unisce vent’anni di testi da El cielo del 2000 fino agli ultimi anni, passando per Resurrección (2005), Gran Vilas (2012) o El hundimiento (2015).

L’ironia, l’autoparodia, la colloquiale intimità, gli amori franti, la lingua della scrittura che insegue i ritiri del mare e le mandorle nere dell’oceano, le epoche remote e scomparse, le donne come avamposto infinito, concentrano e ispessiscono la sua coltre di silenzio, la critica feroce, i viaggi di tempesta, il sangue nuvoloso dell’estate, e ancora gli abbandoni feroci e le periferie isteriche dell’anima, nel deposito della memoria.

Dove scorrono istantanee di sogno e ricordo, Ezra Pound e Venezia con il maturo sole del cielo:

«Tutta la notte a sognarti, ho passato la notte intera / a sognare di baciarti nel cortile di una chiesa vicino al mare. / Quanto sono stato innamorato di te, e non te l’ho mai detto. / Lo intuivi? Lo desideravi? Lo supplicavi? / Avevi sei anni più di me, eri più esperta della vita, / non uscivi di testa come me, ma eri moderata e prudente, / anche se piena di amore dentro, amore per me, / per me, che ero un tipo del tutto smarrito, e quello sì / si notava a prima vista, e come mi ricordo delle tue mani / e del tuo sorriso, tutti gli amanti si ricordano delle stesse cose, / solo che io non sono mai entrato nel tuo letto, sono anni che immagino / come si doveva stare nel tuo letto, un giorno me l’hai mostrato / ma niente di più. E adesso mi sveglio e ho sognato che ti baciavo, / e sono le dieci del mattino di un’estate monumentale / e sto già bevendo un gin, così,a  digiuno, ed esco / sul terrazzo della mia stanza e vedo i turisti stendersi / sulla sabbia, e penso che potresti essere qui con me, / quanto sono stato innamorato di te e quanto lo sei stata anche tu, / e quanto abbiamo fatto male a non esserci rotolati mille volte / in mille letti […]».

La vita vissuta è un lungo racconto di righe e sogni, innocenze velate e rumori di esistenza, gioie spezzate e solitudini marchiate nell’oscurità,  come una conchiglia di mare ascesa al cielo o l’inesauribile tremore della passione svelata e smodata, allo stesso tempo (Storia di una cameriera).

La vertigine prosastica di Vilas qui raggiunge un acme di bellezza rarefatta. Sembra non esservi posto per la lirica, eppure emerge una fantasmatizzazione raddensata e o-scena, una sete impudica, un’estate pagana:

«A volte mi innamoravo di qualche donna appena intravista / al tavolo di un ristorante, una donna con un vestito bianco, / sui trent’anni, forse trentacinque, altre volte / mi rifugiavo nei musei dell’arte, rimanevo per ore / intere / davanti alle tele di Delacroix, o andavo nei cimiteri / in cui avevano seppellito i poeti del secolo passato, / sempre solo, sempre desiderando di essere ancora più solo, / sognando / una solitudine più dura, più grande, e con lei una perfezione impossibile».

E poi il candore umbratile della luce, il suo mistero, il nitore della fine dell’intimità, i suoi vestiti sparsi, la bocca e il sesso, l’altrove lontano e la paziente oscurità.

In McDonald’s, la grande scena di vita quotidiana a Saragozza si oppone alla gioia spezzata, al melting pot, il tacco dello stivale sopra la pozza di un gelato alla crema disfatto («Una crema bianca, spezzata. / Arde il sole senza tempo, bolle la mano sporca»), noi «Da McDonald’s, lì, siamo lì. / Carne abbondante per tre euro», e come commenta Luigi Sepe Cicala, «Siamo dunque chiamati ad una scelta esegetica: Vilas sta davvero tessendo le lodi di McDonald’s o ci vuole suggerire che siamo noi consumatori, in fondo, ad accettare di farci ‘carne da macello’, di essere ‘spolpati’, sfruttati e soverchiati dalle multinazionali in cambio di prezzi stracciati?».[2]

L’elegia postmoderna[3] della sua macchina pronta a essere demolita, « si lancia in una parodia dell’uomo della classe media, affezionato agli oggetti più che alle persone, parodia in cui il poeta, negli ultimi versi, sembra parafrasare le parole di uno spot pubblicitario[4]», le strade illuminate, il bacio al mondo buono, lo stupore innocente per la realtà, che pur impastandosi con il limite delle cose, le ama, le possiede, le vive, solcano il suo amore, come intitola il testo che dà il nome al libro, che guarda alla falsa finzione della società borghese e al suo tornaconto.

Laddove sembra esserci parodia, dissacrazione lirica, sgomento ironico vi è solo uno sguardo di disincanto o illusione sul mondo, la povera umanità, la piccola gloria e l’infimo combattimento con la morte.

Ci sono testi selvaggi, prose ritorte, liriche spezzate come uno specchio in disordine, parodie sofisticate, solitudine che rammemora, hotel decadenti.

L’invincibile purezza, il patteggiamento con l’abisso, il ricordo frantumato, il corpo-altro, sembrano crollare, ritorcersi, annullarsi, ma poi la nudità dell’essere, il porgersi senza filtri, i dettagli distratti, le prime e terze persone, sono il segno vero dell’anima attorcigliata che ama, si dispera, lotta contro il vuoto generale di tutte le cose, il terrore, la propria genesi che cerca salvezza o, forse meglio, redenzione dei baci come le rose.

Vilas M., Amor, Guanda, Milano 2021, pp. 240, Euro 19.

Vilas M., Amor, Guanda, Milano 2021.

Sepe Cicala L., L’amore fra le righe di Manuel Vilas, (www.rivistaclandestino.com/lamore-fra-le-righe-di-manuel-vilas/), 24 maggio 2022.

[1] Vilas M., Amor, Guanda, Milano 2021.

[2] Sepe Cicala L., L’amore fra le righe di Manuel Vilas, (www.rivistaclandestino.com/lamore-fra-le-righe-di-manuel-vilas/), 24 maggio 2022.

[3] Id., cit.

[4] Id., cit.

Vicki Feaver. La liberazione dell’istante

di Andrea Galgano  22 marzo  2022

leggi in Pdf Vicki Feaver

Il mondo di Vicki Feaver è un’esplosione esplorata di pienezza. Lo è nella sua poesia, La fanciulla senza mani, ispirata alla fiaba dei fratelli Grimm e alla fiaba russa, per cui una fanciulla senza mani, appunto, tagliate dal padre, ricrescono, quando protende le braccia in un fiume per salvare la sua bambina che rischiava di annegare.

Ora che La fanciulla senza mani e altre poesie[1], viene pubblicata da Interno Poesia, a cura di Giorgia Sensi, questo mondo, in cui scrittura e opera restano intrecciate, restituendo un profumo saliente e puro di desiderio e fertilità.

La sapidità ricolma è una raffigurazione feconda, in cui il respiro germoglia e stringe il tormento e il recupero dei detriti, del pianto, di ciò che fatica ad emergere:

«Non i fiori che gli uomini danno alle donne – / fresie dal profumo delicato, / rose rosse altezzose, garofani / dai colori degli abiti delle damigelle di nozze, / fiori quasi senza linfa, / che si seccano e sbiadiscono – ma fiori / che appassiscono sullo stelo / tagliato, foglie che anneriscono / come bruciate dagli enzimi / del nostro fiato, / che marciscono viscide / e dobbiamo raschiare via dall’orlo / del vaso; fiori che esplodono / da gemme chiuse, che si irradiano / come il sole che illuminava / il sentiero della montagna di Tracia, / che noi intrecciavamo ai capelli, / calpestavamo nella foga del ballo, / che ci ricordano che siamo assassine, / capaci di strappare via dalle spalle / la testa degli uomini; fiori che ancora / portiamo in casa di nascosto e con vergogna, / e ci strofiniamo braccia e seno e gambe / con le calde frange arancio, / l’odore del desiderio».

Giorgia Sensi scrive:

«Benchè Vicki Feaver avesse deciso di voler diventare poeta fin da bambina, il suo percorso creativo non è stato immediato né facile. Lei stessa confessa, in una intervista diventata ormai celebre, che nelle prime poesie aveva cercato di reprimere i suoi sentimenti più forti, la sua aggressività, fino a quando un giorno sentì i suoi studenti descriverla come “such a nice woman”, una signora molto carina, molto a modo. Da allora si è coraggiosamente liberata dalle proprie inibizioni, non ha nascosto il lato oscuro di sé, creando o ricreando figure femminili memorabili, donne in cui convivono emozioni estreme, contrastanti, donne consapevoli del proprio potere, capaci di amare e uccidere, di uccidere in nome dell’amore».[2]

La dimensione favolistica, sensuale e deistica («perché nelle sue fantasie / le ragazze si svestono – scoprendo il collo e / le spalle bianche, i seni dai capezzoli scuri e rosati, / il nido scuro tra le gambe – / tra le canne, sotto la luce giallo-grigia / dei salici»), il tempo della quotidianità lucente, proteso alla sensibile voluttà e ripreso nel semplice gesto dello stirare («E ora ho ripreso a stirare: spruzzo / scure gocce d’acqua sulla seta / sgualcita, m’introduco nelle maniche, giro intorno / ai bottoni, respiro l’odore caldo dolce / che il metallo rovente produce sul tessuto fresco / di bucato, finché l’azzurro della camicetta / asciutta non è lucido, levigato, / una forma lieve, spaziosa in cui infilare / braccia, petto, polmoni, cuore») o della gelatina di mele selvatiche, che riproduce lo stesso processo creativo e di idee, molto prima della scrittura o della narrazione e si riappropria del colore del fuoco, che sembrava perduto.

La domesticità scrutata da Vicki Feaver imprime l’incisione del particolare, la profondità sacrale del rito antico e presente, come un nido, un canto o un giorno in palestra, la crepa scomparsa e riapparsa, i riflessi di una natura viva, che nasce in ogni istante come un letto di foglie o un dono di fiato, la violenza e la passione del mito (Giuditta e Oloferne), fino al desiderio di approdo, prima di ogni gettatezza:

«Così alla fine feci rotta / per le acque turbolente / oltre la baia; / e per tutta la notte – / livida, gemente – / navigai. / E ora, in questa calma mattinata, / guardo giù in un bacino vitreo, / dove sfrecciano le parole / venate d’oro e d’argento / e galleggiano / morti dalla bocca spalancata / e dove i detriti / sono così familiari – / oggetti che una volta possedevo / gettati qui / da un oceano premuroso / per rendere accogliente l’approdo».

In The Book of Blood, Feaver riscrive alcune fiabe, come quella del principe ranocchio o del sogno di infanzia, vermiglio scarlatto, di Cappuccetto Rosso, di Cenerentola che si rotola nella cenere, della superficie del sole che tocca passato e presente, della vendetta di Medea, di Blodeuwedd, donna di fiori che uccide il marito e viene trasformata in uccello notturno che vaga, del sangue raggrumato della memoria.

La memoria stessa diventa un tempo arioso di pienezza, le cose si vedono per la prima volta, appartengono al suo mondo che diviene universale, a volte spezzato o franto, altre volte una marea che rovescia la terra piatta o le farfalle blu dei baci a mezz’aria.

In I Want! I want!, tratto da un’incisione di William Blake, la narrazione si svolge nella parabola esistenziale prima e vitale poi di Vicki: il triciclo, la casa con un pergolato di rose, il sogno delle streghe, l’amore per le cose ferite, la fusione dei legami e i conflitti familiari, l’ombra e il ghiaccio, fino al bruciore dei baci feroci del tempo di donna, la sopravvivenza e il dolore, come una preghiera inascoltata.

Una creaturalità fragile e solenne, un tempio di bellezza visitata:

«hanno profumato la cucina / per tutto il periodo natalizio / fino a Capodanno. / Sopravvissute agli odori / e vapori dell’arrosto, / hanno dischiuso i petali / dall’intenso rosso rubino / di vecchi sipari di velluto / per rivelare un labirinto / di ombrosi crepacci. / I petali si arricciano / e scuriscono ai bordi ora, / ma lo spettacolo non è ancora finito. / Come attrici attempate, / che recitano finché non schiattano, / una esibisce una vena vagante / di giallo canarino, un’altra / un cespuglio di stami dorati» (Le rose che mi hai dato).

Feaver V., La fanciulla senza mani e altre poesie, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br) 2022, pp. 188, Euro 15.

[1] Feaver V., La fanciulla senza mani e altre poesie, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br) 2022.

[2] Sensi G., Prefazione, in Feaver V., cit., p. 6.

Claudio Damiani Prima di nascere – Nota

di Andrea Galgano  15 febbraio  2022

leggi in Pdf Claudio Damiani Prima di nascere

Prima di nascere di Claudio Damiani[1], appena edito da Fazi, è l’esito di un contrasto  di una pre-nascenza e di una co-nascenza. Nella domanda sull’essere e sul nulla, nell’approvvigionamento essenziale del respiro, nella vertigine mai opaca del tempo e nella sospensione, la poesia di Damiani conosce questa dimensione del sangue e del sospiro e si appropria, dunque, di questo interstizio di esplorazione[2] tra cielo e terra:

 

«Quando ero piccolo, quattro-cinque anni, / mi immaginavo prima di nascere / come sospeso nel cielo ( non so se qualcuno mi aveva detto / queste cose, o me l’ero immaginato io), / mi sembrava incredibile non essere esistito prima / e mi sembrava incredibile pure di essere esistito, / non capivo dove potevo stare, così in alto nel cielo, / dove potevo poggiare i piedi».

Si confronta con lo stupore esile delle cose, con i contrasti e con la paura, con gli ossimori esiziali del vivere e diviene poesia della misura e del colloquio, e, come aggiunge Davide Rondoni,

«del nitore, del debito oraziano e cinese, il poeta delle ariose e commoventi poesie sul fico, sull’infanzia, sull’Elba, sul Soratte, sui ragazzini a scuola, sugli “eroi” del feriale, ecco, questo poeta ha per così dire raccolto, quasi “costretto” tutte queste cose e voci e figure, le ha convocate, quasi citate in giudizio dinanzi al tribunale del tempo e della morte. E soprattutto ha citato in giudizio se stesso, la sua personale vicenda o guerra. Nudamente, spudoratamente. Con la sincerità di sempre, ma ancor più resa estrema, cordiale ma anche puntuta, dal confronto con il tema dei temi, la morte, appunto, e la sua ombra, ovvero la speranza – e viceversa».[3]

Vi è l’attesa e la minaccia, la saggezza di voltarsi dall’altra parte[4], che non è appena un disinteresse nichilistico ma semplicemente una deviazione, una feriale quanto magmatica sproporzione di sguardo.

Questo disarmo è un lievito di aria fresca che entra nel sangue, il corpo che si mischia alle nuvole che avvolgono la dimora del tempo abitabile, come archetipi di infanzia, nella vastità ampia del futuro e nell’interezza di un abbandono epifanico:

«Le farfalle mi venivano incontro / erano quelle piccole azzurre / della mia infanzia che volevamo acchiappare / ma anche cavolaie che volavano a coppie tra i cespugli / e farfalle notturne che mi facevano paura / tra i gradini della scala di casa, / mi venivano incontro e io le accarezzavo / e le baciavo, era come se volassi / nello spazio e mi venivano incontro / corpi celesti, asteroidi, comete / e io li sfioravo e li accarezzavo / e in ognuno abitavo / per qualche tempo, poi ritornavano le farfalle azzurre / e tutte le altre e si diradavano, / si vedeva che andavano in un luogo / come un centro di raccolta / forse andavano a riposare, a mangiare non so, / e io restavo solo / in un cielo completamente vuoto, / completamente solo».

E poi ancora, in quella ampia attesa cerca la risposta alle domande che non si riescono a dimenticare, non si accartoccia mai sul nulla, sulla finitudine e sul limite, bensì si appropria di un tempo che è di luce ed è incombente:

«Sto qui in attesa che il tempo passi / poi finirà e sarà come staccare / l’interruttore, come tagliare le vene / e non si sa cosa succederà / staremo al buio, o alla luce / o non staremo, non saremo niente / (anche se sembra impossibile che questo possa accadere, / da ricerche accreditate sembra che il nulla non possa esistere) / perché sappiamo tanto, abbiamo tanta scienza / ma di noi non sappiamo niente, / e con la scienza, con la tecnologia / ancor più stride la nostra mortalità / e precarietà, come se più la allontanassimo / la morte, più diventasse incombente / e insopportabile. Noi nati alla morte, / noi morituri ti salutiamo, o Cesare, / sfiliamo rigidi davanti al giorno / e nella mano abbiamo la medaglietta / e la stringiamo, col nostro numero inciso».

E se il dato della nascita non fosse che una volontà, una scelta come un piccolo passo («Se fossimo noi che abbiamo scelto di vivere / e di morire, come se qualcuno / ci avesse mandato in missione, / estratti a sorte, / o se ci fossimo fatti avanti, / avessimo fatto un passo, un piccolo passo…»), un’adesione al vivere, quando «con una spinta abbiamo bucato il mondo»?

L’emersione della poesia di Damiani è una conca di abissi, che fronteggiano anche la memoria, il niente (ancor prima del nulla), ma esplorano e vivono la percezione della natura e lo splendore lieve e dolce.

Un orizzonte esile, un fiancheggiamento di alberi, animali, fiumi, che esplodono di grazia nell’antichità ma si rivestono del tempo presente, del deposito del tempo presente.

L’universo nello sguardo, la prosa-mantra, la traccia del “quasi nulla”, lo scrutare lieve che sfida le tempeste e la lontananza, il fuoco e le fiamme invisibili dell’abisso che tiene sospesi, perché nella cifra di ogni tremore[5], «Il mistero è così fitto / e noi così fragili / che non ci sono speranze / o meglio, possono esserci solo speranze, / la speranza è la nostra scienza»:

«La polvere guardo nell’aria / e questa polvere sopra il tavolo / non la tolgo, la lascio, / voglio stare accanto a lei / e dei fili che sono per terra / non li levo, e le orme / delle scarpe, le lascio / e questa mosca anche lascio, morta / e questa cosa che era caduta per terra / e non so più dov’è / non so più che era. / E mi deposito anch’io / mi lascio andare sul letto, / lascio che l’aria mi circondi / come un ciottolo che la corrente trascina, / e che niente mi salvi».

La linea agostiniana[6] e rabdomantica trova la fecondità nel tremito fisso della carezza e della domanda, il nitore puro del cielo e il grande trapezio del mistero che avvolge il tempo:

«Pensa se fosse così: / che noi, mentre stiamo facendo una cosa / comunissima, tipo portare una cosa / sopra un tavolo, oppure cercarla / e ecco aprirsi una porta, e nella stanza / ci sono tutti! È una stanza immensa / e ti salutano gioiosi e applaudono / come un compleanno a sorpresa / e dicono: «Hai visto? Sei contento? / Come stai? Come ti senti?» / e tu lo senti che è stata come uno scherzo la vita / o un brutto sogno, oppure è stata / come una guerra sotto i bombardamenti / e ogni giorno c’erano le sirene, / o c’erano stati giorni belli anche, / di sole, di luce, di silenzio / tu camminavi da solo / in mezzo alle piante amiche»

 

[1] Damiani C., Prima di nascere, Fazi, Roma 2022.

[2] Guidi S., Punte di fiamma invisibili, in “L’Osservatore Romano”, 3 febbraio 2022.

[3] Rondoni D., Claudio trema. Su Claudio Damiani, “Prima di nascere”, in «Clandestino – Rivista», (www.rivistaclandestino.com/claudio-trema-su-claudio-damiani-prima-di-nascere/?fbclid=IwAR2_ZSRHZ3dIa4Vva2nUpKf-dIKUGuzBdzxmLLGWmkgCxn_XEmtx4H9pS0A), 7 febbraio 2022.

[4] Langone C., Il poeta Claudio Damiani ci insegna la saggezza del voltarsi dall’altra parte, in “Il Foglio”, 9 febbraio 2022.

[5] Minore R., Un classico travestito da contemporaneo, in “Il Messaggero”, 13 febbraio 2022.

[6] Affinati E., La poesia «dantesca» di Damiani, in “Roma Sette”, inserto di “Avvenire”, 13 febbraio 2022.

Damiani C., Prima di nascere, Fazi, Roma 2022, pp. 152, Euro 18.

 Damiani C., Prima di nascere, Fazi, Roma 2022.

Affinati E., La poesia «dantesca» di Damiani, in “Roma Sette”, inserto di “Avvenire”, 13 febbraio 2022.

Guidi S., Punte di fiamma invisibili, in “L’Osservatore Romano”, 3 febbraio 2022.

Langone C., Il poeta Claudio Damiani ci insegna la saggezza del voltarsi dall’altra parte, in “Il Foglio”, 9 febbraio 2022.

Minore R., Un classico travestito da contemporaneo, in “Il Messaggero”, 13 febbraio 2022.

Rondoni D., Claudio trema. Su Claudio Damiani, “Prima di nascere”, in «Clandestino – Rivista», (www.rivistaclandestino.com/claudio-trema-su-claudio-damiani-prima-di-nascere/?fbclid=IwAR2_ZSRHZ3dIa4Vva2nUpKf-dIKUGuzBdzxmLLGWmkgCxn_XEmtx4H9pS0A), 7 febbraio 2022.

Il piazzale senza nome di Luigia Sorrentino

di Andrea Galgano  1 febbraio  2021

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Il nuovo lavoro di Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome[1] (Pordenonelegge – Samuele Editore 2021) è il recupero di una recisione, una vitalità disperata che, partendo dalla perdita della cara figura paterna, approda a una sofferta ferita che è vertigine e pulsazione, offerta e sacrificio, illuminazione sacrale e orientamento di piega numinosa.

Partendo dall’esergo plutarchesco, sulla morte da vecchi come approdo e da giovani come perdita e naufragio («noi che non eravamo mai stati del tutto / vivi all’amore, / eravamo caduti sul ciglio della strada / nella polvere / conoscemmo con cura il perdersi»), la sua poesia custodisce questa sacralità che lotta contro l’oblio, che si appropria di una dilatazione per farsi visione e viso, necessità di ricordo e testimonianza di incontro: «su tutto il giardino neve / dilatata / silenzio armato nelle pupille / neve, tutta nel sangue / narici oltraggiate / bianco e nero / l’incedere violento / del battito cardiaco / si chiude su di sé / nella luminosa potenza / avviene l’incontro» (Nel secolo che hai lasciato 1).

E ancora nella luce che geme, nella bellezza disperata, nell’enigma misterioso della vita e della morte, la lingua resta attonita e ferma nel cristallo antico dello stupore, come un avamposto di bellezza, un “quasi” nulla che è pura fertilità umana: «geme la luce / tanto più densa e oscura / oscuro marcire oscuro / assorti nella pietà gli occhi prendevano / il cristallo antico dello stupore / il cranio stretto fra le mani / povero e antico resto / bellezza disperata / chiamata a scendere / neve affamata ha consumato / il sacro giardino / nel secolo che hai lasciato».

Il cuore giovane che soffoca, grida, vive la sua linea parallela e la fecondità umbratile di una semenza felice e maledetta, dove il microcosmo del dolore singolare è lacerazione universale, ciò che resta non sono solo macerie o rovine, addii impossibili e carico infinito («lente le mani raccoglievano i capelli / sulla nuca / mentre la pioggia ricadeva / sui loro volti / uno alla bocca dell’altro beveva / la lentezza / sollevati nelle braccia / la sostanza liquida caduta / dalla bocca sul marciapiede / accasciata sulle spalle / la processione disumana / la beata, sfiorata giovinezza»), ma è la bellezza che non vuole morire, che non decide di scomparire:

«[…] Sotto la notturna volta della scala comunale è scomparso il ragazzo che infilzava lucertole trapassandole da parte a parte con il fil di ferro. Da poco si è accasciato sul terreno, in mezzo al groviglio di arbusti spinosi e rami secchi. Una striscia di cielo lo guarda. Nella testa della capra suona il ritmo assordante di una musica persecutoria. All’alba spalancherà gli occhi senza nessun ricordo. La morte da giovani arriva all’improvviso, carica di violenza. Lo smembramento è totale. Su tutto domina l’ebbrezza gridata da un cuore felice e maledetto» (Morti parallele).

La vitalità ombrata di questi testi raffigura una resistenza umana estremamente commossa, dove neve e sangue si uniscono, come se restituissero non una lotta impari ma un agone, in cui l’amore e il suo mistero accompagnano le tensioni dell’io, la sua vertigine, il proclama della sua indocilità dionisiaca: «la forza che uccide / in un colpo solo / è sommaria, rapidissima / occhi azzurri strappati dalle orbite / – vi divoreranno / il coltello posato a due centimetri / dal lago / dal sangue / dalla carne strappata / – vi insultano – / la capra geme sul tavolo / la gravità, oscura forma, / la preda».

In questa oscurità materica, in questa esiliata luce giovane («la notte si era accasciata / la giovinezza / l’avevamo trascorsa / nel peso della sua immortale rovina / noi che non eravamo mai stati / del tutto vivi all’amore / c’eravamo concessi al freddo / stretto nelle narici, nelle vene / avevamo perduto tutte le parole / la forza di una generazione»), nella sillaba muta di ogni sventura e nella preda edace del tempo, discesa come fame e consumazione nevosa, come afferma Mario Famularo, vi è non già una poesia introflessa «ma assolutamente attenta ed esposta all’altro da sé, essenziale alla comprensione dell’aspetto più autentico dell’esistere, al lato più tremendo e sacro dell’esperire il mondo[2]»: « il silenzio delle lamiere nascose / l’assalto in una notte di febbraio / i denti sul braccio fino all’osso / la testa contro il finestrino / – tu sei niente, nessuno – / e non so quando / tutto il nascosto ci travolse / senza emettere un lamento / gelò la fronte il respiro / della cenere». (Piazzale senza nome)

La carne strappata del dolore, nella sfinitezza della finitudine percossa («lui è uno di fonte al quale / ci si copre la faccia / crollato nel profilo / sfinito, brace predata dall’ambra / gola automatica / neve deglutita piano piano / vedo cose che altri non vedono / ha rinunciato / l’insofferenza della mano / percuote la sua ora»), nelle giovani vite tagliate e nel corteo di torture, il respiro sembra precipitare e abbandonarsi, ma è «nella calma materna» che «corre tutta la vita»:  «aveva oltrepassato il confine / restituita la voce / all’universo / la sorgente di luce non era più / visibile / era tramontata fra gli alberi / la notte bianchissima discesa / fino in fondo, guerriera / nel suo sangue la neve / il freddo polare nelle pupille / allagate / perdute per sempre».

La trasparenza bianca del dolore, raffigurato in immagini di abbandono, insulto, disprezzo tormentato, lascia impronte, si consegna alla fertilità di ciò che non muore, nonostante la rosa intorpidita e muta, la totalità della sofferenza, le palpebre socchiuse, l’indifferenza: «dal vetro vede la strada / una lingua umida / limacciosa / spalancata negli occhi / ha fame di notte / l’odore della pioggia senza peso / ha investito il corpo nascosto / l’odore viene dal basso / la suola delle scarpe / non ha consumato / la sconosciuta profondità / del vedere».

La poesia di Luigia Sorrentino scava nelle vene, non rilascia segni di nichilismo o di rassegnazione, narra l’esondazione tenebrosa delle ferite, mantenendo la forza di ciò che è senza fine, la parola amata, la linea dell’orizzonte femminile, la voce dell’universo e la grazia del padre: «la gioia del fiorire / ebbe inizio in te / la pienezza riempiva i frutti / l’imperioso fare ci ha traditi / – siamo stati traditi / dagli organi vitali – / la durata non ci tocca più / svuota le nostre vene / la giardiniera inghirlandata / ci arresta tra soste d’amore / guardandoti il volto distende / l’impronta della morte è svanita».

O, infine, in una sacrale accoglienza di bellezza custodita, il tremendum ha una pausa di dolcezza arresa e ci rimette una grazia rarefatta: «corpo affermato / dalla terra emanava / odore di fresie selvatiche / prepara lo stelo del fiore / un cammino di polvere / accudisce l’arcaico / rito dell’acqua / la pulizia con la spugna / alla fragile tomba / baciava la sua vita adorata / il male riempito / pulsava nelle soste del tempo / il suo cuore, l’oceano».

[1] Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021.

[2] Famularo M., Piazzale senza nome di Luigia sorrentino, (www.laboratoripoesia.it/piazzale-senza-nome-luigia-sorrentino/).

Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021, pp. 102, Euro 13.

Sorrentino L., Piazzale senza nome, Samuele Editore, Fanna (Pn) 2021.

Famularo M., Piazzale senza nome di Luigia Sorrentino, (www.laboratoripoesia.it/piazzale-senza-nome-luigia-sorrentino/).

Grace Paley: l’attenzione nascosta

di Andrea Galgano  25 gennaio  2021

leggi in Pdf Grace Paley: l’attenzione nascosta

L’anima di Grace Paley (1922-2007) è un’urgenza di domanda. Lo è nella esatta puntualità dei suoi racconti, nella registrazione puntuale dei dettagli del mondo, nella narrazione, solo apparentemente semplice (e quindi, chiara e trasparente) delle sue raffigurazioni.

La raccolta dei suoi testi di poesia, ora riuniti in volume, dal titolo Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta[1], tradotto da Paolo Cognetti e Isabella Zani, per l’editore Sur, ha segnato gli anni più tardi della sua vita, toccata dalle vertiginose bellezze autunnali del Vermont, dove viveva con il marito fino alla morte, avvenuta nel 2007.

Nella prefazione, Paolo Cognetti racconta l’estremità di due poli identitari che comunicano tra loro, l’anima versatile dei racconti, in perfetta linea di congiunzione con Hemingway, Carver e Bukowski, ambientati nel Bronx, a New York, dove il fulcro popolare, le frontiere di passaggio dell’immigrazione erano la cifra e la firma di una umanità in lotta, e il tempismo lirico e sagace del gesto poetico:

«Con Bukowski, Grace Paley ha piuttosto in comune il carattere: l’esuberanza, l’anticonformismo, l’ironia, l’idea della scrittura come luogo di libertà, l’insofferenza a ogni tipo di autorità sulla pagina e nella vita, e anche l’orecchio che le permetteva di registrare la musica del mondo. Le piaceva definirsi una story-listener, ascoltatrice di storie: prima ascoltare e poi riferire, era la sua idea del lavoro di scrittore. E con ciò fare della scrittura un atto politico, perché riferire è un dar voce a chi non ce l’ha: agli ebrei, alle donne, ai bambini, ai migranti – ai dimenticati e agli sconfitti delle guerre del nostro tempo. E infine agli sconfitti della guerra tra noi e il pianeta, che sono gli alberi e gli animali. […] Grace Paley non poteva scindere il suo lavoro di scrittrice dall’impegno politico, ma se sulla pagina era una compositrice raffinata, musicale, una jazzista della lingua inglese, per strada era una combattente che non si tirava indietro davanti alla violenza del potere […]».[2]

Roberto Galaverni scrive:

«Paley è stata quel che si dice una scrittrice civilmente impegnata, una protagonista della controcultura newyorchese che ha costantemente avuto nel proprio mirino il militarismo, la discriminazione razziale e quella sessuale, nei confronti delle donne anzitutto; ma poi anche l’avidità, la mancanza di idee, di coscienza politica, di partecipazione comunitaria, di prese di posizione forti e consapevoli. […] Per un temperamento simile la lettura non poteva certo consistere in un rifugio o in un mondo a parte. Al contrario, l’esercizio della scrittura risulta sempre subordinato alle necessità dell’esistenza, pubblica o privata senza particolari differenze. Anche per questo ha scritto poco: l’impegno diretto nella e per la vita aveva comunque la precedenza sulle pur amate parole».[3]

Il garbo, l’ironia, l’azione necessaria della scrittura, il travaglio e la dolenza, il discorso e la passione, la cura per la realtà e per l’umano, l’interesse vitale sono le linee del suo orizzonte, celebrano il dettaglio universale per farsi battito puro e secco della forza tenuta da un avamposto, senza bisogno di fuga. Un allarme contro ogni scomparsa, piccole avvertenze quotidiane che vivono e intessono le dinamiche esistenziali, anche nei decentramenti e negli spaesamenti della lingua:

«Un giorno nella vita della mia famiglia / io sono entrata nella lingua inglese / le d e le t fra i denti   il fischio delle s / Allungavo le i / mi perdevo in qualche r  / le infilavo / dove non erano richieste / spesso piazzavo una preposizione / alla fine della frase / questo per guardarmi da / un’inflessione risentita / Con mia grande sorpresa gli estranei mi capivano / ho continuato a parlare   / ero sfrontata   / dicevo / ovunque vada trovo verbi che non combinano niente / sono anni che certi nomi comuni non vengono più chiamati / col loro nome proprio / devo fare una domanda triste / le leggi dell’entropia agiranno a dispetto del rigore? / esiste una letteratura che canti la scomparsa / delle lingue madri?».

Le fragilità degli avvisi, il cuore umano in tutta la sua contrastata pulsazione, il limite e la precarietà di ogni finitudine, la voce di ciò che non si sente, l’arguzia a servizio di una parola che è dettato e spazio, sono il tempo dell’umano, lo consegnano all’umano, vissuto dal treno, dal gesto vissuto e dal dialogo, appena gridato o sussurrato:

«Che diceva la poesia quel giorno / stavamo parlando  parlando / diceva  sta’ buona   lasciami / l’ultima parola  senza quella / hai a stento un pensiero  / Ai tempi / avevo le tasche piene / di ottime pietre / ma non ero / senza peccato  che cosa / potevo fare se non passi pesanti  pesanti / Un giorno ho smesso di reggere le battute / riuscivo a farle con la facilità di sempre / ma mi chiedevo perché l’altra persona rideva / non era anche lei nei guai / come il resto del mondo? / La vita è due sogni / il tuo e quello di chi ami / a colazione  una fatica ascoltare / una pena raccontare  qualcuno / piange  chi ha fatto il caffè / e tutto è perduto».

La forza di Grace Paley è questa attenzione nascosta, dove le immagini, i richiami, la memoria e il conflitto, la sintonia naturale custodiscono un ponte di sollievo, ciò che raduna i bisbigli di madre, ciò che non si tacita e dove persino una parola, come stormire, è arrivata tardi ma non ha oblio, non conosce l’oblio, è solo un ritardo di affrancamento: «è una parola meravigliosa / ho tentato di usarla ma non ci sono riuscita / mi è squillata davanti in una poesia di Jane Cooper / adesso vivo tra gli alberi  le fronde / i rametti e le foglie  / soffia un vento leggero / ma la parola stormire mi è arrivata troppo tardi» (LA PAROLA STORMIRE).

Già il titolo della raccolta, che è l’incipit di uno dei testi, richiama l’essenzialità della procedura e del gesto poetico, la non-canonizzazione dell’aura poetica, il gradiente arguto e intelligente del dire, dove le pause sono respiri e sillabe dilatate, dove il paradosso è il modo per innervare gli ossimori del mondo, i dolori, i traumi e le inibizioni del corpo che cambia («la carne incontra l’anima / e sussurra   tu»), le latitudini autunnali della meraviglia del Vermont, la sua benevolenza visibile.

«Non volevo dipendere dall’autunno / volevo perdermelo per una volta   saltare / a un’altra latitudine dove non era così / famoso  volevo mostrare che la bellezza / si può trattenere nel respiro così come respiriamo / dolore e tradimento   non sempre devono / accadere nell’attimo presente / Guardate  eccolo là  il nostro celebre / dorato autunno del Vermont color del vino  verde / come l’estate per cominciare e poi il sole / mattutino tira su la bruma dal freddo fiume notturno / gli aceri addolciscono  / senti un certo / battito accelerato  una vampata   in te che vivi quella / fedele campagna  in fiamme  in tremante / attesa del suo lungo inverno  nessuno dovrebbe  / esser costretto a sopportare tanta bellezza motivata dalla / morte / ogni singolo anno  / questo corpo stagionato sa / che insopportabile».

Tutta la poesia di Grace Paley è un indizio visibile, come avviene in Lettura dei giornali all’edicola di paese, dove l’ironia compensa le notizie lette e scabre e vi è «la retorica asciutta e la logica paradossale di chi sa destrutturare i luoghi comuni, con lo stesso riverbero lirico entro una natura antropomorfizzata[4]».

L’addensarsi del tempo, i cambiamenti, la cooperazione naturale («perché la luna estiva è bassa / ad abbagliare i campi in ombra e / fa talmente luce alla finestra  è / la legge naturale come anche un bambino / capirebbe della luna dell’amore della notte»), la vita lieve, la morte e la bufera che infuria, segnano le sue buone stelle, come l’ultima bellezza di uno sguardo d’amore, nella luce spoglia:

«Volevo portarle un calice / o magari un bicchiere d’amore / o d’acqua fresca  volevo sedermi / accanto a lei mentre riposava / dopo una lunga giornata  volevo ingiungere / encomiare  ammonire dicendo non / fare così  ma certo  perfetto  provaci / volevo aiutarla a invecchiare  volevo / dire parole ultime  / le parole famose  / per l’illuminazione definitiva / volevo / dirgliele adesso  casomai fossi / placida in sonno quando l’ultimo sonno colpisce / o disordinata dalla vecchiaia  volevo / portarle un bicchier d’acqua fresca / volevo spiegarle che  la stanchezza è / normale  anzi perfino opportuna / alla fine del giorno».

[1] Paley G., Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta, prefazione di Paolo Cognetti, sur Edizioni, Roma 2022.

[2] Cognetti P., prefazione, in Paley G., cit., pp. 6-8.

[3] Galaverni R., La seconda stagione dell’ardente Grace Paley, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 16 gennaio 2022. 

[4] Tolusso Mary B.,  se ami stare al mondo fai come l’acero anche mezzo secco si slancia vero il sole, “TuttoLibri – La Stampa”, 15 gennaio 2022.  

Paley G., Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta, prefazione di Paolo Cognetti, sur Edizioni, Roma 2022, pp.130, Euro 14,00.

Antonietta Gnerre: il nome dell’eternità

di Andrea Galgano  22 dicembre 2021

leggi in Pdf Antonietta Gnerre: Il nome dell’eternità

La nuova raccolta di Antonietta Gnerre, Quello che non so di me[1], edita da Interno Poesia, custodisce vigore e impercettibilità. Non solo per la forza immaginifica e vertiginosa del verso, ma, in particolar modo, per una sorta di vitalità esistenziale incandescente, che risolleva termini e fissità, panismo e tensione metafisica.

È una leggibilità del tempo, una fenomenologia linguistica che si innerva nella Natura e la abbraccia sia attraverso la ponderale finitudine (le cicatrici, i sogni non infilati più tra le stelle, i segni provvisori, le ombre luminose dell’Irpinia che somigliano all’universo) sia attraverso uno sconfinamento di suono, come una eco di amore.

Ago di pino in un solco, benedizione di nascite appena ricolme, nome che salva dalla morte:

«Se ho pianto è perché sono stata al buio / con un peso  / capovolto di assenze. / La nave inclinata nella sua rotta,  / i sogni non infilati / più tra le stelle. / Se ho pianto è perché le preghiere  / rientravano e uscivano  / da una linea / sottile di menzogne.  / Il giorno soffocato nelle sponde dei pini,  / dopo una mareggiata, / acceso solo dalla luna. / Se ho pianto è perché da ragazzina / ho giurato / che avrei guardato in silenzio / la bellezza dei germogli svanire / davanti ai miei occhi».

Alessandro Zaccuri, nella prefazione scrive:

«Le poesie di Antonietta Gnerre seguono il percorso inverso. Si aprono con versi che già annunciano quanto verrà dopo, come in una mise en abyme anticipata ma non precipitosa. Viene in mente lo specchio che nei Coniugi Arnolfini di Jan van Eyck riassume e nello stesso tempo capovolge l’intera scena. La contiene e, contenendola, la interpreta. «Quello che non so di me / è superiore alla piog­gia» […] Quelli ap­pena citati sono i versi iniziali di una poesia che, con studiata consapevolezza, si incontra ben oltre la metà della raccolta, in una sezione posta sotto l’emblema arcano e affascinante del muscovite, il cristallo dall’a­spetto tagliente che ben simboleggia l’affilato desiderio di precisione senza il quale nessuna avventura poetica potrebbe essere intrapresa. L’equivalente minerale del­la ginestra leopardiana, in un certo senso […]».[2]

Il nome della poesia è un grido davanti all’Eterno, terra che si rivolge verso l’alto, parola di sangue e centro esatto del cielo, come nei volti cari e amati, nella tutela dei numi e nella fronda “sfrondata” del tempo, come avviene in questo omaggio a Pasolini, prossimo e venturo: «[…]Sono una madre. Madre di un figlio e di figli mai nati./ Come te ho avvertito la mia croce umana. / Mi asciugo le lacrime con i resti delle mie mani. / Il mio sguardo fissa un solo punto. Gli ospedali sono / fatti di pareti / che sembrano fili di nuvole che soffrono il cielo».

Il nome del nome. Gnerre vive di questa nominazione, come un gemito di sogno e promessa («Quello che mi piace del tuo nome / è ciò che non è stato nei secoli. / Da bambino ti svegliava / quando non sapevi parlare. / Quando non conoscevi i numeri. / Lo ascoltavi in silenzio / prima di aprire gli occhi, / prima che lo smalto di una nuvola / diventasse grigio. / Lo so: hai bisogno di saperti in questo nome. / Di indossarlo come fosse seta, / straccio, riparo momentaneo»), il cielo abbassato sopra la pelle, la nascita e l’indumento dei sogni e la voce che si sporge sulla luce o, anche, il volo di una preghiera sommessa e lucente, come il bacio verso tutte le foglie che si sono viste cadere:

«Se ora riuscissi a dire piano il verbo che più hai amato, / a non smettere di pronunciarlo nei pensieri, / azzererei gli alfabeti i colori i rumori. / Gli anni vissuti. / Con la punta delle dita sfiderei il tempo  / – dalle tarme di una coperta –  / per vedere quei continenti distanti / che sognavo da bambina. / Se ora riuscissi a declinarlo piano il verbo del perdono, / vicino al muro della tua casa di Polla, / ferma accanto al grano, alla rosa./ Con le spalle verso la terra, / con gli occhi fissi sul cipresso che non c’è più, / ascolteresti la mia voce nella tua luce».

Il transito della vita, l’irenismo[3], la scomposizione memoriale e temporale, il contemporaneo avvenimento del qui e ora custodiscono la scena del mondo, dove la parola, la poesia che misura i nomi, il lessico familiare e intimo aprono il segreto che forma l’universo, lo scandiscono, lo sillabano, ne fanno, insomma, un respiro che si prolunga, che tocca gli apici diurni di ogni sostanza:

«C’era il respiro dei campi / accanto a te. Talvolta sfiorava / la pietra ferita. / La rifrazione della luce  / che creava i fiori. / Forse era un giorno d’autunno / quando lo hai udito per l’ultima volta. / Scintillava nell’erba impermeabile. / Eri bambina, contavi i tigli / sussurravi alle foglie: / sono foglia anche io. / Di notte lo immaginavi vicino al letto / a proteggerti dalla cera della vita, / che cadeva sul portone. / Un colpo d’aria scriveva la tua storia. / Quella che leggono i vivi fino a cadere / nei punti invisibili dei corpi».

E la salentina Pescoluse ne diviene il cosmo unico:

«Il pavimento forma un verso. / E qui, dove invento una casa nella tua, / poggio le mani sui muri ancora caldi / dell’ultima estate. / Le poggio per misurare chi siamo. / Gli ulivi ci attendono nascosti. / Ora, ad esempio, anche loro stanno fissando / le formiche che trasportano un chicco di grano. / Il verso si completa con la luce che arriva / dalle persiane / tra i nomi delle formiche che ci osservano».

E poi il sigillo delle nuvole come anime materne, le pareti del silenzio, gli anni raccolti prima di dormire come un eliso esilio, i ricordi e l’odore del pane, la goccia che somma il tempo, i colori lontani, la veglia e i fili, la muscovite e i suoi disegni.

L’eternità è un ramo di foglia innocente:

«Quello che non so di me / è superiore alla pioggia. / Si rifiuta di cadere. / È una bellezza che resiste  / al buio dei temporali. / È una piccola follia / che si ferma sopra le curve / della massa informe delle strade. / Quello che non so di me / conta gli anni dei fiumi, / tutte le mani che hanno lavato / le lenzuola. E le cose ferme a terra /tra gli abbracci delle piante. / C’è remissione nel naufragio dei miei occhi. / C’è supplica nel prestare attenzione / alle cose che mi mancheranno».

 

 

Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021, pp.92, Euro 11.

Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021.

Blanco G., Antonietta Gnerre, Quello che non so di me, (leggeretutti.eu/antonietta-gnerre-quello-che-non-so-di-me/), 7 aprile 2021.

Guarracino V., Poesia, Gnerre tra tempo, storia e identità, in “Avvenire”, 20 agosto 2021.

[1] Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021.

[2] Zaccuri A., prefazione, in Gnerre A., cit., p.5.

[3] Blanco G., Antonietta Gnerre, Quello che non so di me, (leggeretutti.eu/antonietta-gnerre-quello-che-non-so-di-me/), 7 aprile 2021.

Idea Villariño: la dimora e la frattura

di Andrea Galgano  6 novembre 2021

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La poesia di Idea Villariño, che ora ci viene restituita in tutta la sua fulgida e tenebrosa vertigine, grazie all’antologia Di rose che si aprono nell’acqua[1], edita da Bompiani, a cura di Laura Pugno, racchiude l’enigma della frattura lacerata, la ferita del corpo-mondo, componendo, insieme, l’incolmabile dimora della solitudine, dell’impressione diruta dell’amore e della mancanza.

Come se il paradiso non fosse già esclusione ma lacerto di sogno spezzato, purezza sperduta, dove notte e silenzio si intrecciano, e il limite (e, dunque, la morte) appaiono come segno lucente e oscuro di un contrasto, di una lotta radicale interiore, che, come afferma Roberto Galaverni:

«[…] non cerca di addolcire il ritmo opaco, la routine sorda dei giorni contro i quali l’amore, la speranza spesso si infrangono. Piuttosto sembra conservare il ricordo di un Paradiso perduto, come suona il titolo di una poesia e di un’intera raccolta. Può essere un tempo lontano, può essere la dimensione non contaminata dell’infanzia. Ma questo stesso ricordo o nostalgia, una nostalgia che si direbbe costitutiva, è la molla di un desiderio mai pienamente realizzato oppure solo in modo fuggevole, in un attimo presto consegnato al trapassare e all’oblio […]. Ecco perché, stretta tra la quotidianità delle relazioni e l’idea di un assoluto che sfugge di attimo in attimo, che si polverizza nell’atto stesso di vivere, la poetessa sembra inscrivere nella propria parola una protesta, che è prima di tutto contro la fragilità degli esseri, contro lo scandalo del consumarsi, fino a esprimere quasi un desiderio di annullamento».[2]

La sua rarefazione, però, non tocca il nichilismo, si aggancia, invece, a una linea di fragile inesorabilità che trema («E quando sarà ormai la mia vita, / la mia ardua vita, / in solitudine / come una lenta goccia / che sempre vuole cadere / e sempre resta dov’è / reggendosi, riempiendosi / di sé, tremando, / affrettando il suo brillare / e il ritornare al fiume. / Ormai senza luce né tremore / cadere nell’oscurità»), di implacabile strazio (come trovarsi sotto l’acqua e sotto l’aria), disegnando, pur nella cupa linea degli orizzonti ripiegati, come un ramo di fiori scuri sul petto, una rigorosa trama umana, uno spasimo di eccellenza femminile nella sua nudità completa e, infine, un inchiostro vitale di luce rifiutata, che cerca, senza fine, una piccola luce lontana:

«In nudità completa ormai / misteriosa assenza / di processi e formule e metodi / fiore a fiore, / essere a essere, / coscienza ancora / e un cadere in silenzio e senza oggetto. / L’angoscia è ormai / appena un sapore, / non vi entra il dolore, / la tristezza non tocca. / Una forma che dura senza senso, / un colore, / uno stare per stare / e l’attesa insensata. / In nudità completa ormai / sapienza / definitiva, unica e gelata. / Luce a luce, / essere a essere, / quasi in ameba / forma, sete, durata, / luce rifiutata».

Nella sua opera, legata sia all’esperienza politica, di cui sente tutto il peso, il dolore, anche attraverso la dura repressione della dittatura militare, sia alla cosiddetta generazione del ’45, permane questo tracciamento di platense travaglio luminoso, di lacerto mai obnubilato, di amore che cerca metamorfosi e si trasferisce nelle sue armonie spezzate.

Martha L. Canfield scrive:

«Echi di Baudelaire e di Darío, ai quali Idea dedica una poesia ciascuno, si percepiscono disseminati nella sua opera, benché soltanto, specialmente per quanto riguarda il secondo, come punti di riferimento da cui prende l’avvio il suo personale codice d’interpretazione del mondo. E naturalmente non tratta mai del Darío estetizzante, ma del Darío tormentato dall’ineluttabilità della morte. […] L’inclinazione morale e filosofica della poesia di Idea, la sera e costante riflessione sulla morte concepita come una presenza attiva in ogni essere mortale, che cresce con la vita fino a trionfare su questa cancellandola, richiama direttamente la poesia di Quevedo. Ma anche quella di Paul Valery, con il suo “Misticismo senza Dio” e il suo anelito di purezza; e di César Vallejo con la sua pietà per l’uomo […] Così la poesia di Idea diventa espressione intensissima del malessere contemporaneo. Si può dire che in lei l’essere contemporaneo si definisce a partire dalla sua angolazione più drammatica: il dolore di esistere, l’impossibilità di mantenere quella coerenza e quella “purezza” che implicherebbero il rifiuto stesso della vita, la perdita di ogni speranza di trascendenza metafisica o religiosa, la perdita di ogni teologia che non sia negativa».[3]

Laura Pugno aggiunge: :

«nell’opera di Villariño tutto cambia, e allo stesso tempo tutto rimane inesorabilmente com’è. Il vivere di questa poesia è, e non cessa mai di essere, un vivere con la morte e per la morte. È una poesia totalmente laica, e allo stesso tempo irriducibilmente metafisica nella sua apparente semplicità. Una poesia radicata in quella che è vissuta come irrimediabile separatezza del corpo dal mondo, e dei corpi umani tra loro. Corpi che si slanciano con ardore verso cosa? Perché non possono evitarlo, pur nella consapevolezza che l’esito di quello slancio non potrà essere che il fallimento, e che qualcosa verso cui ci si slancia sia l’amore o la politica poco importa. […] la poesia di Idea Villarino è intima, corporea, dilaniata, esperienziale, è la poesia di un soggetto assoluto al femminile che in modo altrettanto assoluto sente di potersi esprimere di fronte all’assolutezza – crudele – del mondo che ha davanti. Senza con ciò dover sottostare – esattamente come un soggetto assoluto al maschile – a nessuna restrizione che non dipenda dalla propria capacità di dominio sulla lingua. Un soggetto femminile intero, che pensa e trova la propria voce e parla da questo sentimento di interezza di cui una lacerante solitudine è l’inevitabile traduzione, la certa conseguenza»[4].

La sua anima profuma di dolore, che fa essere un corpo di finestre chiuse, gettate in silenzio. È il dolore che ripiega e fa ripiegare, sembra quasi sprofondare ma non si arrende e avverte tutto il limite inspiegabile di ciò che termina: «Questo che va e viene / che prendiamo con noi portiamo via / da una parte all’altra / ossicini gangli midolli / la voce la dolce sensazione del contatto / il cristallino / il pube / questo che ogni notte / mettiamo in salvo / fragile cosa / tutto questo / cos’è questo / sangue / fiato / pelle / nulla».

Essere supplice di cieli lontani, ammantare il proibito di bellezza, il cielo-cielo del paradiso perduto, l’aria sporca che cade, la notte-morte (la chiusa notte umana) che viene: «è giallo fuori / dio mio, / è giallo / come un uccello morto / come un ago d’oro / di ghiaccio / come un grido. / è giallo fuori. / ed è giallo dentro».

La sua opzione negativa, dunque, sente il peso anche della storia e del povero mondo, della violenza ostinata dei corridoi e dello schifo di albe sordide. Resta, però, in fondo, la nostalgia della vita che si pronuncia e che attende:

«Tutta l’aria / i cieli / il vasto mondo ebbro / girano e girano e girano intorno / a questa stanza questo letto / questa luce questo foglio. / Tutta la vita / tutta / vibra fragile e densa / o risplende intorno / o si strazia nell’oscurità. / Tutta la vita vive / tutta la notte è notte / il mondo mondo / tutti / sono lì fuori sono / fuori di qui / del mio ambito / per tutti è sabato / la notte del sabato / e io sto sola sola / e sto sola / e sono sola / anche se a volte / a volte / il sabato, di notte / mi invade a volte una / nostalgia della vita».

In quel confine di detriti, in quel cuore freddo e azzurro, nel peso sulle spalle, l’immensità di essere goccia grigia cade nelle ombre dense, come un fiore di cenere:

«L’amore… ah, è la rosa. / Tienila, sostienila, dalle acque dolci e pure, / veglia la miracolosa ascensione del profumo / quella nebbia di fuoco che prende forma di petali. / L’amore…ah, è la rosa, la rosa vera. / Ah, la rosa totale, voluttuosa, profonda, / dallo stelo superbo e le radici d’angoscia, / da terre terribili, intense, di silenzio, / è la rosa serena. / Tienila, sostienila, sentila, e prima che sfiorisca / inebriati del suo odore, / conficcati alle lame dell’amore, quel fiore, / quella rosa, illusione, / idea della rosa, della rosa perfetta».

Essere nulla ma in quel nulla brillare di densità, essere foglia caduta di occhi chiusi, nella luce delle mani illese e lese, essere corpo di gelsomino assetato o rosa rossa, come cristallo puro di carne: «Ma tu hai qualcosa, non so, quella luce invalida / sulle tue labbra pigre. La pigra nobiltà / che fa svenire le cose sotto le tue lunghe dita, / quel retrogusto amaro / che i tuoi baci più dolci mi lasciano in bocca, / il denso bagliore che fa di cristallo le rocce / quando tu me le dici, la tensione del tuo corpo, / il suo profumo segreto».

L’amore, come quello per lo scrittore uruguaiano Juan Carlos Onetti, a cui dedica le Poesie d’amore del 1957, è dono straniero e sussurro di fuoco, pietre d’ombra («La notte non era il sogno / era la sua bocca / era il suo bel corpo spogliato / dei gesti inutili / del suo viso pallido che mi guardava nell’ombra. / La notte era la sua bocca / la sua forza e la passione / era i suoi occhi seri / pietre d’ombra / che cadevano nei miei occhi / e era il suo amore in me / che invadeva così lenta / così misteriosamente»), lettera disperata che lo dice e che sanguina nella pioggia selvaggia, persino, disamore («Prendo il tuo amore / eppure / ti do il mio amore / eppure / avremo sere notti / ebbrezze / estati / tutto il piacere / la felicità / la tenerezza. / Eppure. / Ci mancherà sempre / l’infinita bugia / il sempre»).

Questa è la sua forza ineludibile, il suo abbandono opaco e oscuro che alza gli occhi al mistero abissale delle stelle, la sua fragile pienezza che non conosce pace, avvinta alle fronti unite delle ombre, all’amore che è sogno, ghiandole, follia, alba nuda:

«Il giorno cresce verso di te come fuoco / dall’alba nuda trasfigurata dal freddo. / Il giorno cresce verso di te come fuoco, / come un fiore di carne celeste, come un fiume. / Il giorno cresce verso di te come fuoco / e quando cadi in me gli abissi chiamano il mio nome. / Il giorno cresce verso di te come fuoco. / Mare d’oblio, profondo oceano d’ombra, / anche di me fai notte assoluta e senza eco, / mare d’oblio, profondo oceano d’ombra / e divento mano a mano che cancelli il mio destino / mare d’oblio, profondo oceano d’ombra».

Nella sua casa di Las Toscas, Idea vede il mare. Forse una pausa, un desiderio di fusione, un’intima segretezza che placa.

Oppure la pericolosa Sirena che conquista («Dire no / dire no / legarmi all’albero / però / desiderando che il vento lo rovesci / che la sirena salga e con i denti / tagli le corde e mi trascini al fondo / dicendo no no no / però seguendola»), l’ametista che aggiunge pienezza, il lungo braccio del no.

Vede il mare e gli occhi brillano di canto finale: «Laggiù ci sarà il mare / che comprerò per me / che ammirerò sempre / che ululerà bellissimo / stenderà le mani / si farà mite bellissimo / triste dimenticato / azzurro profondo / eterno eterno / e passeranno i giorni / mi si stancherà la vita / verrà a fine il corpo / si seccheranno le mani / dimenticherò l’amore / davanti alla sua luce / il suo amore / la sua bellezza / il suo canto».

[1] Villariño I., Di rose che si aprono nell’acqua, a cura di Laura Pugno, Bompiani, Milano 2021.

[2] Galaverni R., Anche in Uruguay vivere la vita uccide l’assoluto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 31 ottobre 2021.

[3] Canfield L. M., Il sistema poetico di Idea Vilariño, (fanzine.versanteripido.it/il-sistema-poetico-di-idea-vilarino-retrospettiva-di-martha-l-canfield-1/).

[4] Pugno L., Dire no. Sulla poesia di Idea Villariño, in Villariño I., cit., pp. 6-7.

Villariño I., Di rose che si aprono nell’acqua, a cura di Laura Pugno, Bompiani, Milano 2021, pp.375, Euro 22.

Villariño I., Di rose che si aprono nell’acqua, a cura di Laura Pugno, Bompiani, Milano 2021.

Canfield L. M., Il sistema poetico di Idea Vilariño, (fanzine.versanteripido.it/il-sistema-poetico-di-idea-vilarino-retrospettiva-di-martha-l-canfield-1/).

Galaverni R., Anche in Uruguay vivere la vita uccide l’assoluto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 31 ottobre 2021.

H.D. Le labbra dell’enigma

di Andrea Galgano  1 ottobre 2021

leggi in Pdf H.D. Le labbra dell’enigma

Hilda Doolittle (1886-1961), prima donna ad essere insignita dall’American Academy of Arts and Letters, dimora in una linea intensa tra vortice (e vertice) raffigurativo e densità espressiva. Il suo legame musaico esprime, attraverso l’enigma, l’estasi ordinata, l’estremità della voce, il nucleo e il codice immaginativo, la fatale e vorticistica tessitura di una tensione simpatetica, poichè

«Attratta dalla psicanalisi e dall’occulto, dai geroglifici e dalla comunicazione con i morti, H.D. fa una poesia piena di mitologia, caratterizzata dal verso libero e dalla precisione pittorica dell’immagine – per tornare all’Imagismo – un’immagine in movimento ed elementare molto vicina ai pittori del Blaue Reiter[1]».

L’immobilità e il movimento, l’Entusiasmo, la trasgressione antinormativa, l’estasi pittorica non inseguono una sincretistica esposizione delle immagini, e, come teorizzato da Pound, bensì la singolarità dell’immagine in quanto unica, e, potremmo aggiungere, archetipica.

La scelta delle iniziali entra in questa dinamica di coltre sconfinata. È marea, fuga, trascina le rocce della scogliera, lavora pietre grezze, canta un lamento infinito nell’onda che irrompe.

Qualcosa di ricercato, vissuto e perduto, insieme, come un giardino protetto che dissipa bellezza e riparo per richiudersi in una lotta verticale di rigenerazione («Poiché questa bellezza, / bellezza senza vigore, / soffoca la vita. / Voglio che il vento spezzi, / sparpagli questi steli rosati, / ne strappi le cime speziate, / le getti via con le foglie morte»):

«La luce passa / da crinale a crinale, / da fiore a fiore – / la distesa di hepatica, / sotto la luce intristisce – / i petali si rinchiudono, / le cime azzurre si piegano / verso il cuore più blu / e i fiori sono perduti. / Le gemme di corniolo sono ancora bianche, / ma un’ombra dardeggia / dalle radici – / scivola nera da radice a radice, / ogni foglia / ne taglia un’altra sull’erba, / ombra cerca ombra, / poi foglia / e ombra sono perdute» (Sera).

Grazie a Interno Poesia, e con la cura e la traduzione di Giorgia Sensi, Poesie Imagiste[2] di Hilda Doolittle, ci restituisce, come si legge nella prefazione, una lingua naturale:

«priva di costrutti artificiosi, ellittica, il verso è libero e i ritmi sono irregolari, seguono la regola imagista del “non rappresentare ma presentare”, combinano immagini nitide, brusche giustapposizioni, un effetto visivo – tutto un inventario di fiori, alberi, rami, rocce, onde, paesaggi marini e terrestri – ben precisi, ricco di movimento e di azioni, spesso energiche, espresse da verbi dinamici, a volte anche violenti, come calpestare, frantumare, strappare […]» (pp.9-10).[3]

In sea Rose (Rosa di mare), H.D. unisce la violenza della natura alla sua dolcezza, indicando, inoltre, asprezza, pericolosità selvaggia e trasudazione contemplativa:

«Rosa, ruvida rosa, / sciupata, scarsi i tuoi petali, / fiore scarno, sottile, / rade le foglie, / più preziosa / di una rosa umida / sola su un stelo – / sei colta nella corrente. / stentata, piccola la foglia, / sei sbattuta sulla sabbia, / sei sollevata / nella sabbia secca / spinta dal vento. / Può la rosa gialla / trasudare tale acre fragranza / indurita in una foglia?».

L’immagine che oltrepassa la realtà è un allarme di luce, in cui lo scuotimento deriva dal fulcro feroce e indocile del tempo e del reale. Vi sono scricchiolamenti primari, foglie spezzate, dispersione di vortici ed emersione creaturale di Eros:

«La tua statura è modellata / con colpi precisi: / sei cesellato come rocce / erose dal mare. / Nella torsione e presa del tuo polso / e nella tensione delle corde, / c’è un bagliore di ottone levigato. / Il colmo del tuo petto è teso, / e l’ombra è nitida al di sotto / e tra i muscoli errati / delle anche snelle. / Dal contorno dei tuoi capelli serrati / viene luce, / e intorno al tuo torso msachile  / e all’arco del piede e la caviglia diritta».

H.D., la cui cultura proviene dai grandi autori del passato e dalla mitologia greca, che rimodella e ricompatta attraverso le disposizioni immaginifiche dell’io (Adonys, ad esempio, «Ciascuno di noi come te / è morto una volta, / ciascuno di noi come te / è passato tra il flusso delle foglie boschive, / screpolate e piegate / e torturate e spiegate / nel gelo invernale, / poi bruciate in punti dorati, / riaccese, / rigida ambra, / scaglie di foglia d’oro, / oro trasformato e di nuovo saldato / nel calore del sole» e poi Pygmalion, Eurydice), entra nella luminosità inseguendola, espone i dettagli frangibili e protesi, laddove la precisione, il segreto eleusino, la percezione ideogrammatica recano la geografia di un vocabolario senziente e percettivo, in cui l’atto creativo diviene esattezza che deborda: «I pensieri mi lacerano, / temo la loro febbre. / Sono dispersa nel suo vortice. / Sono dispersa come / i semi caldi rinsecchiti».

La sua poesia si riempie di dettagli e vitalità come se fosse seme sparso, e allo stesso tempo, diventa fragranza, perdita e trafittura, aratura dell’anima e orlo di dune. Il portale dell’essere è combattimento per l’esistenza, grido e lancio squarciato, vissuto tra piante e monti, dove la tempesta della natura è partecipata e ostile: «Turbina, mare – / turbina i tuoi pini appuntiti, / schizza i tuoi grandi pini / sui nostri scogli, / gettaci addosso il tuo verde, / coprici con le tue pozze di abete».

L’ossimorica e onirica floridezza produce annunci ed evocazioni nel nudo cuore e polvere d’estate («La sabbia dura si frantuma, / e i suoi granelli / sono limpidi come vino. / Molte leghe più lontano, / il vento, / che gioca sull’ampia riva, / ammassa piccole creste, / e le grandi onde / vi si frangono sopra»), domanda al dio nel colore scuro del ciclamino:

«Giunco / squarciato e strappato / ma doppiamente ricco – / le tue grandi cime / fluttuano sui gradini del tempio, / ma tu sei spezzato dal vento. / La corteccia del mirto / è punteggiata da te, / le squame sono distrutte / dal tuo stelo, / la sabbia spezza i tuoi petali, / la solca con lamina dura, / come selce su pietra brillante. / Eppure benché il vento / frusti la tua corteccia, / sei sollevato, / sì – benché sibili / per ricoprirti di schiuma».

Dopo la saga imagista, come ella stessa la definì, si occupò di cinema ma anche di un lungo lavorìo su Pound e al tributo a Freud, come una linea di segni sul muro.

[1] Farnee R., Ricordando Hilda Doolittle (www.minimaetmoralia.it/wp/approfondimenti/ricordando-hilda-doolittle/), 28 settembre 2020.

[2] H.D., Poesie imagiste, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br), 2021. 

[3] Sensi G., H.D. Imagista, in H.D., Poesie imagiste, cit.,  pp.9-10.

H.D., Poesie imagiste, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br), 2021, Euro 15.

H.D., Poesie imagiste, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br), 2021. 

Bianchi R., Imagismo, in Modernismo/Modernismi, Principato, 1991.

Farnee R., Ricordando Hilda Doolittle (www.minimaetmoralia.it/wp/approfondimenti/ricordando-hilda-doolittle/), 28 settembre 2020.

“Non esiste grande arte senza grandi amanti”. Storia brutale di H.D. (www.pangea.news/hilda-doolittle-storia/), 18 settembre 2021.

 

Jón Kalman Stefánsson: lo scenario strappato dal sogno

di Andrea Galgano  7 settembre 2021

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La poesia di Jón Kalman Stefánsson, che ora Iperbrea raccoglie in un volume dal titolo La prima volta che il dolore mi salvò la vita[1], con la traduzione di silvia Cosimini, contiene la genesi  di un’attitudine nascosta, nata da un’asperità e da un smarrimento che insegue la parola che può dire l’amore e liberarlo, come musica ed eruzione, mattamente, bruciore e urlo di spiagge.

Daniele Piccini scrive: «Jón Kalman Stefánsson ha raccontato tutto questo: la sfida dell’uomo e del su sogno – spesso nutrito di parole, di libri molto amati – a una natura imperturbabile e ostile. Con personaggi che parlano poco e piuttosto rimuginano, rivanno con la mente ad anni lontani o a eventi che li hanno fulminati[2]».

Con il porto d’armi per l’eternità (1988), Dai reattori degli dei (1989) e Mi chiese cosa avrei portato su un’isola deserta (1993), più un’appendice di testi del 1994, la linea postuma del tempo, la creaturalità, la tregua e la fida, l’universo e la sua vastità, l’indistinto, l’oltre-mondo e la sua affermazione vivono di una coltre spessa e robusta, che rivela il duro cavo di un lavoro di perfezionamento archetipico e poi la lontananza, l’attesa: «Allora la tenebra era il respiro degli spettri / i casali di torba tremavano ai colpi brutali / dei venti mentre i fieno già raccolto volava via».

La scrittura di Stefánsson è un’emersione di fondo, che tenta di far affiorare, persino, ciò che svanisce e si dirada nelle tenebre, il mare oscuro delle ciglia, il divincolamento dei nessi e i rapporti interni delle sillabe.

La sua profonda inquietudine si confronta con il destino. La voce diventa il nesso causale di una bellezza franta che nasce «dal vuoto, nel vuoto forse lasciato, forse da un Dio che sembra eclissato, morto[3]», (dirà infatti: «lo riferiscono certi informatori / che uno dei prossimi giorni / si potrà vedere dio / andare a caccia insieme al futuro / l’attimo prima / di fare fagotto e andarsene / con il cielo sottobraccio»).

Egli racconta l’addensamento dello stupore («L’aurora si addensa in un sole / che come sempre non vede nulla di nuovo / e paventa l’eternità»), l’amplificazione della tradizione, la voluttà del margine, la dissolvenza onirica dei ricordi e la notizia della vita, che si mostra come spaesamento di pioggia e caldo:

«davanti ai miei occhi si dirada / la notte / gli alleati / apparsi dal buio / si rivelano fatti della densità del sogno / e il giorno / mi serra le sue mani azzurre intorno al collo / e detta le condizioni del vincitore / non mi aspetto che questa guerra / si legga nei libri di storia; / il numero dei morti / non mi supera di molto / e con le sue generazioni svanite alle spalle / dichiaro che / un giorno / un maledetto giorno / darò anch’io il mio contributo / ad abbattere i sogni».

Poi Reykjavík diviene l’approdo di una vita che si volge, lo scranno del presente e del vento salmastro, la stanchezza di una tela-isola di orizzonte, in una nuvola di polvere.

Stefánsson muove i passi attraverso dettagli mendicanti (un incidente stradale, le radio, Elvis Presley, i corvi, la luce disabitata della scomparsa e della distanza e il sortilegio umbratile di una vertigine): «questa greve / atrofizzante rotazione / del pianeta nel vuoto siderale e io / sempre faccia a faccia col calore / del sole che ogni giorno punta / il suo sguardo rovente come fiamme / lanciate dietro stelle sfavillanti / in folle fuga nella notte appena sorta».

Il senso di fallimento, l’amarezza e la malinconia, il sogno di veglie e la ferita aperta, conservano l’oro del silenzio, le parole e le sere, lo schermo dei capelli chiari, come l’assalto delle dimore che non cancella le ombre e si affida ai cicli naturali e alle attese memoriali degli istanti come folgori.

«Un mezzo bicchiere di whisky colato più volte sul vecchio piano / una voce arrochita e nel crepuscolo una tromba lamenta il suo destino / e da qualche parte, il violino si tiene / i nostri sogni. / Notte, un velo di nebbia scivola quieto / otto i lampioni. Le sedie capovolte sui tavoli / e un nero brizzolato sembra che spazzi. / La sua camicia che era blu ha un colore indefinito. / Una coppia sognante sulla pista in abbracci profondi. / La donna con un vestito a rose. Un uomo addormentato / sul bancone del bar e la sigaretta consumata da tempo. / Una lampada a olio fumosa proietta una luce flebile sul mezzo / bicchiere vuoto e un raggio di sole rossastro tasta / senza far rumore la finestra dello scantinato. / Il giorno non è nostro e lei. Lei è infinitamente lontana».

Daniele Piccini afferma ancora:

«Resta al poeta, in questa vertigine di irrilevanza, in questa condizione di povertà e di incertezza, la propria parla: una lingua affilata, accordata a un ritmo, a una vera e propria musica. […] La poesia sarà da maneggiare un po’ come un strumento, per tentare di addomesticare la solitudine e comporre scenari che la rendono contemporanea, abitabile come un luogo quotidiano».[4]

L’insonnia e gli orli, il sarcasmo e la fierezza, dunque, in cui l’io fronteggia l’epica solitaria degli arcobaleni («donna, guarda; / ho mandato quest’uomo / così posso strappargli / gli occhi / – e tenerli per me / con la tua immagine dentro»), vivono la scomparsa sgualcita dello sguardo ventoso di donne amate e lo sparo dell’eternità, come il closing time alla Tom Waits.

o l’immensità di una domanda che ricerca lo spasimo precario dell’umano, oltre l’inermità dei sogni interrotti, del limite-respiro quasi leopardiano e di ciò che sparisce oltre lo sguardo:

«A volte sogno la nera bellezza del cielo / le mani ardenti del sole che spazzano la marea / umana dalla superficie della terra prima che il giorno / si chiuda dentro la notte glaciale / A volte sogno oltre il vortice di luce urbana / un cielo che è una porta o un miraggio sopra / i monti frastagliati che s‘infilano tra le nubi cariche / d’acqua e uccelli che spariscono nei corrugati / crinali mentre l’inchiostro del tempo sposta / le montagne e la mia vita trascorre come / una stretta di mano casuale / A volte sogno un uomo indistinto / nel tempo sostenere che la terra è sua».

[1] Stefánsson J.K., La prima volta che il dolore mi salvò la vita, traduzione di silvia Cosimini, Iperborea Milano 2021.

[2] Piccini D., L’Islanda dopo Leopardi non è fatta per l’Antropocene, in “Corriere della sera – La Lettura”, 5 settembre 2021.

[3] ID., cit.

[4] ID., cit.

Stefánsson J.K., La prima volta che il dolore mi salvò la vita, traduzione di silvia Cosimini, Iperborea Milano 2021, pp.288, Euro 17, 50.

 

Stefánsson J.K., La prima volta che il dolore mi salvò la vita, traduzione di silvia Cosimini, Iperborea Milano 2021.

Piccini D., L’Islanda dopo Leopardi non è fatta per l’Antropocene, in “Corriere della sera – La Lettura”, 5 settembre 2021.

Ilya Kaminsky: lo specchio del silenzio

di Andrea Galgano 22 luglio 2021

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Repubblica sorda[1] (Deaf Republic) di Ilya Kaminsky, pubblicato precedentemente negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel 2019, ora disponibile in Italia, grazie a La Nave di Teseo e alla traduzione di Giorgia Sensi, racconta di una città immaginaria, Vasenka, i cui cittadini, mentre assistono a uno spettacolo di marionette, vengono dispersi dai soldati e la città occupata.

Durante i disordini, i soldati uccidono un ragazzo sordo, Petya, e quello sparo diviene l’ultimo suono udito: tutti diventano sordi e manifestano il loro dissenso attraverso il linguaggio dei segni e «a partire da questa sospensione spontanea e insieme consapevole della comunicazione («Nelle orecchie della città, cade la neve»), si sviluppa come per gemmazione progressiva l’intero poema. Si tratta del resto della sua metafora più importante e feconda. Si può dire anzi che non solo la sua qualità ma la sua stessa plausibilità stiano tutte in quella prima intuizione[2]»:

«Il corpo del ragazzo è steso sull’asfalto come una graffetta. / Il corpo del ragazzo è steso sull’asfalto / come il corpo di un ragazzo. / Io tocco le pareti, sento il polso della casa, e / mi guardo attorno senza parole e non so perché sono vivo. / Attraversiamo la città in punta di piedi, / Sonya e io, / fra teatri e giardini e cancellate in ferro battuto – / Siate coraggiosi, diciamo, ma nessuno / è coraggioso, mentre un suono che non sentiamo / fa alzare in volo gli uccelli dall’acqua».

Nato ad Odessa nel 1977 in Ucraina, al tempo Unione Sovietica, di origine ebraica e fin da ragazzo negli Stati Uniti, per sfuggire alle ostilità razziali, Kaminsky, che soffre sin da bambino di problemi di udito, compone una partitura di favola e dramma, ribellione e incanto unitario, teatro e poema.

La rifondazione poetica nasce dal mito che dice la verità[3]. Attraverso la scomposizione biografica e narrativa, l’epicedio del proprio dolore, il segno diventa il centro dello sguardo, la prospettiva unica del tempo, dove il presente manifesta non già l’inadeguatezza ma una frattura, una sospensione franta e una insurrezione sentita verso la drammatizzazione e uno specchio riflesso[4]:

«E quando bombardavano le case degli altri, noi / protestavamo / ma non abbastanza, facevamo opposizione ma non / abbastanza. Io ero / a letto, intorno al mio letto l’America / cadeva: casa invisibile dopo casa invisibile dopo casa invisibile – / Portai fuori una sedia e osservai il sole. / Nel sesto mese / di un regno disastroso nella casa del denaro / nella strada del denaro nella città del denaro nel paese del denaro, / il nostro grande paese del denaro, noi (perdonateci) / vivevamo felici durante la guerra».

I personaggi muovono il loro teatro diseguale, dove anche i disegni dell’autore compongono una semiologia luminosa e dolorosa, assieme, in cui il palcoscenico del paese diventa una inner vision dell’essere, in cui pietà (come il gesto di Alfonso o la bocca aperta di Sonya in cui «noi vediamo / la nudità / di un’intera nazione»), la lettura del molteplice e dell’invisibile, la lacerazione nuda, il rifiuto, la costellazione dell’umano.

Il dramma cresce come un’onda. Il segno stesso diventa dramma, e l’alterità diventa una sorta di negative capability, in cui i dialoghi, le descrizioni, i frammenti non si scompongono, bensì attuano reminiscenze randagie e atti d’amore.

Il loro paradosso di sordità li rende liberi («In questi viali, la sordità è la nostra unica barricata») e «il silenzio è l’invenzione dell’udito», come scrive in nota Kaminsky. Il silenzio diventa la lingua «Cos’è il silenzio? Qualcosa del cielo in noi».

Una lingua non rassegnata ma piuttosto umbratile stupore chiaroveggente e persino, lotta politica, nel senso più alto:

«La sordità è sospesa sopra tetti di latta azzurra / e gronde di rame; la sordità / si ciba di betulle, lampioni, tetti d’ospedale, campane; / la sordità si posa nel petto dei nostri uomini. / Le nostre ragazze coi segni dicono, / Cominciate. / I nostri ragazzi lentigginosi, bagnati, si fanno il segno della croce. / Domani saremo allo scoperto come le costole magre dei cani / ma stasera / non ce ne importa abbastanza da dover mentire. Alfonso salta addosso al soldato, lo abbraccia, gli buca il polmone».

Il linguaggio creato dagli abitanti, dunque, permette la comunicazione della libertà, la resistenza, il pericolo, il grido e il corpo sporcato: «Un soldato si allontana marciando, tiene in braccio la bambina di Sonya e Alfonso rimasta orfana. In Central Square Alfonso penzola da una corda. Una scura macchia di urina sui calzoni. Il burattino della sua mano balla».

Il secondo atto restituiscono la storia di Momma Galya, il suo tempo di pienezza e di guerra e gloriosa benedizione salmica («Benedetta sia ogni cosa sulla terra finché non si guasta, / finché ogni cuore ingovernabile non ammetterà: Mi sono confuso / eppure ho amato – e ciò che ho amato / ho dimenticato, ciò che ho dimenticato ha portato gloria ai miei viaggi, / ho osato viaggiare il più possibile vicino a te, Signore»), dove neanche il tempo è risparmiato e tutta la teologia di Kaminsky diventa speculum in aenigmate: «Come uomini di mezza età, / i giorni di maggio / si incamminano verso le prigioni. / Come giovanotti si incamminano verso le prigioni, / il cappotto / buttato sopra al pigiama».

E ancora:

«Questo corpo da cui testimonio è un binocolo da cui tu puoi / guardare, Dio – / una bimba si aggrappa a una sedia, / mentre i soldati (le facce modellate dall’interno dalle parole) / arrestano tutta la mia gente, io / scappo e la bandiera è l’asciugamani su cui il vento si asciuga le mani. / Mentre loro scardinano le porte del mio appartamento / vuoto – io sono in un altro appartamento e sorrido alla bimba che / si aggrappa a una sedia, / barcolla / verso di te e di me, Dio. / Io batto le mani e applaudo / i suoi primi passi, / i suoi primi passi, in pericolo come tutti».

La tragedia racconta la terra, la simbolizzazione dei segni, la perlustrazione del vuoto, la speranza che non si cela nell’ottimismo progressivo ma è gradiente dell’umano, ampiezza di sguardo, splendore di corpo. La parola finale è una lode: «Io non sento spari, / ma vedo uccelli schizzar via sui cortili delle periferie. / Come splende il cielo / mentre il viale ruota sul proprio asse. / Come splende il cielo (perdonatemi) come splende».

[1] Kaminsky I., Repubblica sorda, traduzione di Giorgia Sensi, La Nave di Teseo, Milano 2021.

[2] Galaverni R., Tutti sordi per scelta. Solo così la follia tace, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 11 luglio 2021.

[3] Id., cit.

[4] Brewbaker W., Silence that is not silence: on Ilya Kaminsky’s “Deaf Republic”, on “Los Angeles rivive of books” (www.lareviewofbooks.org/article/silence-that-is-not-silence-on-ilya-kaminskys-deaf-republic/), march 8, 2019.

Kaminsky I., Repubblica sorda, traduzione di Giorgia Sensi, La Nave di Teseo, Milano 2021, pp. 176, Euro 17.

Kaminsky I., Repubblica sorda, traduzione di Giorgia Sensi, La Nave di Teseo, Milano 2021.

Brewbaker W., Silence that is not silence: on Ilya Kaminsky’s “Deaf Republic”, on “Los Angeles rivive of books” (www.lareviewofbooks.org/article/silence-that-is-not-silence-on-ilya-kaminskys-deaf-republic/), march 8, 2019.

Galaverni R., Tutti sordi per scelta. Solo così la follia tace, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 11 luglio 2021.