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Thomas Merton: il poliedro del silenzio

di Andrea Galgano 25 ottobre 2015

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Thomas Merton: il poliedro del silenzio

La poesia di Thomas Merton (1915-1968) significa sfiorare la parola scritta nella modalità, come scrive Bianca Garavelli, «più naturale per esprimere emozione e pensiero» e la vitalità dei suoi versi

«è commovente: davvero trasmettono un profondo amore per la vita, e una gioia nel descriverla, capaci di suscitare ispirazione. Una sorta di contagio benefico che induce ad aprirsi alla bellezza, anche attraverso le realtà più tristi o cupe. Tutte le immagini del mondo sembrano fondersi come onde di un unico mare, ogni istante assume la consistenza preziosa di una gemma, il respiro della creazione diventa musica. […] si intuisce come la poesia di Merton tenda a una fluida dimensione poematica, infusa dalla tradizione dei Salmi: ogni movimento umano, ogni frutto, ogni oggetto (le tonache dei confratelli, una bufera, una quaglia) diventa la nota di una sinfonia perenne, che confluisce in una grande preghiera corale, di cui la poesia è anticipazione. Nella duttile sintesi dei versi, echeggiano le intuizioni di un’anima che nel silenzio e nella solitudine ritrova la pienezza, si abbandona all’abbraccio di Dio».

Pertanto, la poesia rappresenta il movimento di una trasformazione spirituale e propedeutica alla preghiera e agli interrogativi del vivere, in tutta l’ultimità estrema, e come «accesso a una “visione altra” della realtà, la quale supera il materialismo, ma che a un certo punto l’uomo di fede deve superare abbandonandosi all’azione di Dio in lui. Nell’artista, invece, tende a prevalere un atteggiamento più attivo, tipico dell’esercizio della creatività» (Christian Albini): «Segrete / Parole vegetali, / Acqua non scritta, / Zero quotidiano […] O pace, benedici questo luogo folle: / Silenzio che non tramonta / Ama l’inverno quando la pianta tace».
Recentemente Papa Francesco, nel viaggio apostolico negli Stati Uniti, ha ricordato Thomas Merton, nel celebre discorso al Congresso del 24 settembre, assieme a Lincoln, Martin Luther King e Dorothy Day:

«Egli resta una fonte di ispirazione spirituale e una guida per molte persone. Nella sua autobiografia scrisse: «Sono venuto nel mondo. Libero per natura, immagine di Dio, ero tuttavia prigioniero della mia stessa violenza e del mio egoismo, a immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il ritratto dell’Inferno, pieno di uomini come me, che amano Dio, eppure lo odiano; nati per amarlo, ma che vivono nella paura di disperati e contraddittori desideri». Merton era anzitutto uomo di preghiera, un pensatore che ha sfidato le certezze di questo tempo e ha aperto nuovi orizzonti per le anime e per la Chiesa. Egli fu anche uomo di dialogo, un promotore di pace tra popoli e religioni».

La parola che sagoma e ricerca, il tempio dell’anima come passaggio e transito verso un respiro che sia cifra d’Eterno e ressa inquieta, destina la sua profondità a ricercare Dio in tutte le sfumature della realtà. Scrive Marco Roncalli:

«Merton è stato soprattutto un monaco inquieto, ma che ha trasformato l’eremo, con la penna, in un pulpito senza confini, e, con la preghiera, in un tabernacolo dove custodire insieme all’Eucarestia ogni fratello; un trappista difensore della vita monastica eremitica e comunitaria, convinto di «tener viva nel mondo moderno l’esperienza contemplativa e mantenere aperta per l’uomo tecnologico dei nostri giorni la possibilità di recuperare l’integrità della sua interiorità più profonda». Sino a trasformare la sua stessa parabola in un racconto incessante della ricerca di Dio, vivendola tra solitudine e comunione, contemplazione e azione».

La tessitura mistica della sua trama poetica diviene l’esito di una stanza interiore che viene ridestata da una vibrazione e da una scoperta che riconcilia. Nato nel 1915 in Francia da genitori artisti, da madre statunitense e padre neozelandese, si trasferisce a Douglaston, vicino New York nel 1916.
Dopo la perdita della madre, ammalatasi e morta di cancro nel 1921, si trasferisce con il padre (morirà nel 1931 di tumore) alle Bermuda e poi di nuovo in Francia, vive la sua esistenza di tormento e inquietudine, pacificandosi dapprima con la conversione nel 1938 al Cattolicesimo e poi nel 1947 pronunciando i voti solenni nell’abbazia trappista di Nostra Signora di Gethsemani, nel Kentucky: «Incominciai a ridere con la bocca nella polvere: senza sapere come e perché, avevo compiuto davvero la cosa giusta, e anche una cosa magnifica».
Nel 19 marzo del 1958, Merton, all’epoca maestro dei novizi del suo monastero, annota nel suo diario: «Fui d’un tratto preso dall’idea che io amavo tutta quella gente, che mi apparteneva come io appartenevo a loro, che non potevamo essere estraniati gli uni dagli altri anche se di razze diverse».
Commenta Enzo Bianchi:

«È lo stupore di scoprirsi appartenente all’unica umanità, senza esenzioni e privilegi, uno stupore che spazza via l’illusione che emettendo i voti religiosi si diventi una creatura di diversa specie, pseudo-angeli, “uomini spirituali”, uomini di vita interiore. […] Ed è lo stupore […] dell’ateo libertino che resta incantato dagli scritti di Etienne Gilson e Jacques Maritain e, dopo pochi mesi di frequentazione della chiesa del Corpus Christi a New York, viene battezzato. È lo stupore del giovane docente universitario che, solo tre anni dopo il battesimo, scopre un’abbazia trappista nel Kentucky rurale e chiede di esservi ammesso come novizio. Sarà ancora lo stupore del monaco provato che cerca un’impossibile conciliazione tra il voto di obbedienza a una comunità cenobitica e il crescente desiderio di una solitudine eremitica. Ma anche lo stupore di chi scopre che, man mano che si ritira dalla frequentazione degli altri – confratelli, amici, frequentatori del monastero – sente crescere in sé una solidarietà cosmica, un farsi carico delle speranze e delle sofferenze della propria generazione».

Il poeta sente vibrare lo stupore, la riconciliazione che assona, la contemplazione che abbraccia il reale come segno, come crittografia sacra che ricerca, senza risparmio e nello spasmo, il compimento, l’abbraccio, il senso nascosto e vitale e la scena in cui il mondo accade dove la terra raccoglie il cielo: «Vento e una quaglia / E il sole pomeridiano. / Cessando di interrogare il sole / Sono divenuto luce, / Uccello e vento. / Le mie foglie cantano. / Sono terra, terra […] Quando avevo un’anima, / quando ardevo / quando questa valle era / Solo aria fresca / Hai pronunciato il mio nome / Chiamando il Tuo silenzio».
Scrive Christian Albini: «Merton contempla i boschi, gli animali, gli uccelli in volo, la notte, ma anche i grattacieli e la vita sfrenata delle città, le guerre, i disordini razziali e sente vibrare in tutte queste realtà il soffio dello Spirito, come presenza o come appello. Invece che metterlo a tacere, cerca di lasciarlo parlare, prestandogli la propria voce».
E questo sentimento inquieto a lasciare, in tutte le sue dieci raccolte di poesia, lo stampo di una Presenza che pervade mito e sogno, il silenzio (Tutti questi alberi / Così trasformati / Stolti / Si chinano adoranti / Le colline dormono / In trapunte ghiacciate / Mi immergo fino al ginocchio nel silenzio / Dove la bufera solleva nubi e punge), il dolore («Poiché tra le macerie del tuo aprile Cristo giace ammazzato, / E piange tra le rovine della mia primavera: / L’oro delle Sue lacrime cadrà / Nella tua mano debole e abbandonata, / E ti riscatterà a questa terra: / Il silenzio delle Sue lacrime cadrà / Come campane sulla tomba straniera. / Ascoltale e vieni: ti reclamano a casa») e le bufere precoci, l’amore prima dell’alba come nascita e emanazione («E quando le loro voci lucenti, linde come l’estate, / Risuonano, come campane di chiesa sul campo, / Cento Luteri polverosi risorgono dai morti, incuranti, / Scrutano l’orizzonte cercando la smorfia sdentata / delle fabbriche, / E annaspano, nel grano verde, / Verso i richiami sonori del treno merci dell’ovest»), la protesta e l’ironia, il disegno delle linee che chiedono respiro al mondo creato e alle particelle che lo compongono: «Quando nessuno ascolta / Gli alberi quieti / Quando nessuno nota / Il sole nella pozza / Dove nessuno sente / La prima goccia di pioggia / O vede l’ultima stella / O accoglie il primo mattino / Di un mondo smisurato / Dove inizia la pace e termina la rabbia: / Un uccello, immobile, / Guarda l’opera di Dio: / Una foglia che vortica, / Due fiori che cadono, / Dieci cerchi nello stagno. / Una nuvola sulla collina, / due ombre nella valle / E la luce colpisce la casa».
Commenta Christian Albini: «In coerenza con la logica dell’incarnazione, la contemplazione, in quanto consapevolezza della vita autentica, può essere raggiunta solo nell’umanità, non estraniandosi da essa. La poesia, perciò, può consentire di vedere il mondo intero e le vicende della vita come sacramenti, segni di Dio e del suo amore all’opera nella nostra esistenza».
I luoghi, allora, diventano corali dipinti, perforano l’aria del monastero che diventa città di Dio in una minuta di destino e compimento, solleva la panoramica di un’appartenenza alla variegata bellezza che circonda ed entra in comunione, in quanto segno intuito e vissuto della mano di Dio.
Il monaco, come Elia, si mette in cammino e l’io si risveglia in tutte le sue urgenze elementari. È la sua stanza il punto di sguardo. Ma è una stanza che pronuncia la sua appartenenza e la sua dipendenza all’infinita Genesi, a Dio che si incarna e tocca ogni infinitesimo umano, che si introduce in modo non prevedibile e non previsto, facendo luce sulla verità di noi stessi: «Il seme, come ho detto, / Si cela nella zolla ghiacciata. / Modellate dai fiumi, le pietre / Non se ne curano né lo sentiranno mai, / E coprono la terra coltivata. / Il seme, per natura, aspetta di crescere e dare / Frutto. Per questo non è solo / Come le pietre, o le cose inanimate: / Voglio dire, solo per natura, / O solo per sempre».
La vera ascesi non è elevazione sulle dinamiche mondane bensì entra in comunione: con l’umano unico e irripetibile. Ed ecco che la poesia diventa umana questione e preghiera, si fa religiosa, perché la realtà lo, lo annuncia ogni giorno qui e ora silenziosamente: «Io sono l’ora stabilita, / L’«adesso» che taglia / Il tempo come lama. / Sono il lampo inatteso / Oltre il «sì», oltre il «no», / Il presagio della Parola di Dio. / Segui la mia strada, ti porterò / Verso soli dai capelli d’oro, / Logos e musica, gioie senza colpa, / Scevre di domande / E al di là delle risposte: / Poiché io, la Solitudine, sono il tuo sé / Io, il Nulla, sono il tuo Tutto. / Io, il Silenzio, sono il tuo Amen!».
Afferma Albini, «Non perché sia uno scrivere riguardante questioni religiose, ma nel senso di essere una scrittura che è in sé un’attività religiosa, dal momento che produce parole mediante le quali Dio agisce, anche indipendentemente dalla consapevolezza e dall’intenzione del poeta. Sono “parole per Dio” nella misura in cui ci liberano dalle prigioni create dalla nostra mente o dalla società, risvegliandoci alla realtà autentica».
Questa poesia costruita nel silenzio compone le sue fiamme di visione, presentendo e vivendo ciò che accade, prefigurando, profeticamente, ogni crollo e apocalisse, come tensione e vertice di ogni genialità: «Come sono state distrutte, come sono crollate / quelle grandi e possenti torri di ghiaccio e d’ acciaio / fuse da quale terrore? / […] Quali fuochi, quali luci hanno smembrato, / nella collera bianca della loro accusa / quelle torri d’argento e d’ acciaio/ colpite da un cielo vendicatore? […] Le ceneri delle torri distrutte si mescolano ancora alle volute del fumo / velando le tue esequie nella loro bruma; e scrivono il tuo epitaffio di braci: / “Questa fu una città/ che si vestiva di biglietti di banca”».

Scrive, infatti, Luigi Giussani:

«Come mai può accadere quell’avvenimento? Come mai possiamo essere provocati dall’urto di quell’incontro – per cui la vita s’incomincia a illuminare, un baluginare sia pur crepuscolare s’insinua nel nostro orizzonte, e insorge un desiderio di capire di più ciò che ci si è fatto incontro, di esserne più profondamente investiti e di seguirlo? Come mai l’avvenimento accade? Poiché non c’è nessun precedente che lo possa far prevedere; ma accade. Se accade, ha una causa. Essa non si lascia tuttavia includere nell’elenco che nostre analisi di accadimenti antecedenti possono formulare: è qualcosa d’altro. Qual è dunque la causa dell’avvenimento, la causa per cui quell’avvenimento diventa un incontro con una presenza eccezionale, che poi riconosceremo coscientemente divina, cui poi diremo: «Tu, Cristo» – poi, non allora? Nel momento dell’incontro essa è infatti una realtà che semplicemente ci colpisce e ci muove per la sua diversità, perché chi da quell’avvenimento è già stato colpito, e partecipa dunque della sua comunicazione nel mondo, ha una faccia con degli aspetti diversi: ha criteri diversi, una emotività e una affettività diversa, un impeto di gratuità ignoto, una capacità di impegno strana («Chi te lo fa fare?» gli si direbbe guardandolo). La causa di quell’avvenimento, di quell’incontro, e del movimento che suscita in noi, si chiama, nel linguaggio cristiano, Spirito Santo. Si dice Spirito l’energia con cui il mistero di Dio opera nel mondo che ha creato, lo plasma e lo piega, come un grande fiume, verso la sua foce – che è il mistero stesso di Dio. Questa energia viene nel mondo e lo penetra infinitamente di più da quando quell’Uomo cui lo Spirito stesso ha dato vita («… concepì per opera dello Spirito Santo») è morto ed è risorto».

E l’avvenimento allora provoca, insorge, destina il sangue a una domanda di eternità non preclusa, e siamo chiamati a sperimentare questa resurrezione discreta, come crepa di dimore intime e cenno pregato, ultimo indizio di una gioia cara che rende puro i cieli come sorgente.

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THOMAS MERTON, Che la mia sete diventi sorgente, Àncora, Milano 2015, pp.96, Euro 12,00.

MERTON T., Che la mia sete diventi sorgente, a cura di Christian Albini, traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, Àncora, Milano 2015.
AA.VV., The Literary Essays of Thomas Merton, a cura di Patrick Hart, New Directions, New York 1985.
BIANCHI E., Thomas Merton, lo stupore della comunione con gli altri, in “La Repubblica”, 1 febbraio 2015.
CASOTTI F., La poesia di Thomas Merton, in «Aevum», anno 39, Fasc. 3/4 (Maggio-Agosto 1965), pp. 370-378.
GARAVELLI B., Merton. Il respiro dei versi, in “Avvenire”, 2 ottobre 2015.
GIUSSANI L., Appunti da una conversazione con un gruppo di universitari, La Thuile, agosto 1992. (http://www.tracce.it/?id=338&id_n=5062)
MEDAIL C., Merton, il profeta che vide crollare le torri di New York, in “Corriere della Sera”, 20 MARZO 2002.
O’CONNELL P. F., «The Vision of Poetry», in W.H. Shannon – C.M. Bochen – P.F. O’Connell, The Thomas Merton Encyclopedia, Orbis Book, Maryknoll 2002, pp. 360-363.
PAPA FRANCESCO, Discorso all’assemblea plenaria del Congresso degli Stati Uniti D’America, Washington, D.C., 24 settembre 2015. (http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/september/documents/papa-francesco_20150924_usa-us-congress.html)
RONCALLI M., Merton. Viaggio alla ricerca dell’uomo, in “Avvenire”, 28 gennaio 2015.
WILLIAMS R., Azione e contemplazione. Incontri con Thomas Merton, Qiqajon, Bose 2013.

Clemente Rebora. il grido e la tensione

Clemente Rebora. Il grido e la tensione

di Andrea Galgano                                         11 settembre 2013

Clemente Rebora. Il grido e la tensione

Poesia Contemporanea

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«Qualunque cosa tu dica o faccia / c’è un grido dentro: / non è per questo, non è per questo!».

In Clemente Rebora (1885–1957), non esiste evento o circostanza o scheggia di dettaglio, ricolmo di gioia o doloroso, che non sia assedio della realtà, che non sia soggetto a provocazione o destinazione ultima, dove la natura non prenda coscienza di sé. È, quindi, nell’uomo che si innerva la caducità, la contingenza delle cose, tra il tentativo di aggrapparsi al possesso precario, agli idoli, e l’esigenza di compimento che porta in grembo il suo grido, con una segreta domanda.

Tutta la scrittura nasce da questo avvertimento e da questa urgenza, come annota Emilio Cecchi: «far l’elogio di questa posizione spirituale autenticarlo col raffronto di tanta viltà e scioccheria nella nostra letteratura odierna, equivarrebbe a offendere lo scrittore».

«Rebora», aggiunge Elio Gioanola, «è colui che più di tutti ha trasfuso in poesia esistenzialità e moralità, disperazione e speranza, rifiuto dell’esistente e ansia di assoluto, fino a costruire il più autentico monumento di poetica espressionistica della nostra letteratura primonovecentesca».

La totale esattezza spericolata, unita a una dissonante, quasi sfrangiata, musicalità si impongono in una «fonte viva; qui c’è un’anima e un uomo», come scrisse Giovanni Boine.

Sergio Pautasso, analizzando il rapporto di Rebora con i contemporanei, afferma: «La presenza di Rebora nel Novecento risulta sconvolgente perché spariglia le carte degli ormai consolidati schemi della storiografia letteraria; non solo, ma con la sua poesia egli ha rimesso nematicamente e linguisticamente in discussione il rapporto con le poetiche novecentesche, dimostrando che con esse aveva poco a che fare perché, in effetti, mirava ad un diverso risultato. Di qui deriva, e si spiega, l’inadattabilità dei versi reboriani alle regole della lettura critica della poesia novecentesca. Il che non significa che la critica non si sia occupata di lui, anzi. Ma si vuole dire che la lettura reboriana è stata, diciamo, più difficoltosa, per reali ragioni oggettive».

Egli stesso, il 13 ottobre 1956, sostando, per così dire, sull’essenza del classico, annotò: « Ogni vero poeta (e pochissimi sono) […] ha in proprio il suo non comunicabile genio personale innestato nell’elemento unanime e perenne della cultura e della civiltà del suo tempo; per cui, questo elemento universale – e quanto più è purificato d’ogni ingombro contingente – lo fa diventare un classico».

Il racconto e la sorpresa della lievità degli istanti, quando corrono «per l’aria immagini di bene / con riso di speranza», si accompagna allo sgomento «del sogno disperso / dell’orgia senza piacere / dell’ebbra fantasia», all’incanto del pieno respiro, alle stelle-ragazze che danno «bàttiti di ciglia / divini».

Rebora canta lo spazio della «realtà segreta», la tensione sulla positività ultima della realtà, quando una illogica allegria investe un indizio di ringraziamento: «e quasi sento un caldo àlito umano / sul viso e dietro il collo un far di baci / e tra’capelli morbida la mano / d’amante donna in carezze fugaci» o inseguimento con balzo fulgido dietro all’ «amor che nel nostro cammino accende / l’inconsapevol brama triste o lieta», per godere delle cose così come sono: «quando si nutre il cuore / un nulla è riso pieno, / quando si accende il cuore / un nulla è ciel sereno: / quando s’eleva il cuore / all’amoroso dono, / non più s’inventan gli uomini, ma sono».

Annota Gianni Mussini: «In Rebora, anche nel primo Rebora, non esiste una vera “autonomia del significante”. Per lui la poesia è invece sempre eteronoma: non vale in sé, ma in quanto espressione di un altro e di un oltre. Cioè, di una verità che sempre la supera: una verità prima angosciosamente cercata e, quindi, forse altrettanto angosciosamente trovata. In fondo, la poesia reboriana non è che la trascrizione fedele di questa ricerca: essa rappresenta tutta un’esperienza, tutta una vita».

La poesia che non sovrascrive la vita, ma è più necessaria della vita stessa ha il gemito di un’urgenza, in cui il battito dell’ora e del tempo crescono, innestandosi nell’eterno: «Vorrei palesasse il mio cuore / Nel suo ritmo l’umano destino».

I Frammenti lirici del 1913, pubblicati dalla Libreria della Voce, sono «la grande avventura di un giovane che vuole misurarsi con il mondo delle idee, delle parole, dei suoni e tutto fondere a tentare una verità percepibile ma non sempre rivelabile» (Gianni Mussini).

Umberto Muratore annota che nella dedica del testo, egli «esprimeva il desiderio, definito poi meglio nei Canti anonimi, di non trovarsi a cantare il proprio io, bensì l’io comune, di farsi interprete delle ansie e delle aspirazioni comuni del tempo», nell’ «accettazione spontanea, mistica, del proprio dolore e della propria nullità, purchè da tale stato di svuotamento individuale nascano semi di vita per gli altri».

La frammentazione di un’epoca, la vicinanza (nel titolo), petrarchesca, propongono un bivio: distruggersi nello strazio della guerra (definita «tremendo festino di Moloc, stanza dell’ammazzatoio di Barbableu» dove tutto è «mari di fango e bora freddissima» ed egli si sente «fatto aguzzino carnefice»), nella sconfitta frustrata di un «forsennato voler che a libertà / si lancia e ricade […] e fatica e rimorso e vano intendere: / e rigirio sul luogo come cane» e nell’annientamento totale, oppure invocare una segreta domanda, rischiando l’immagine salvifica intravista e sfuggente: «il mio volto s’alza a chiedere / la verità alla vita, / che l’attimo contrasta / e il dolor solo accoglie», ma «il dolore non basta / e l’amore non viene».

«La poesia di Rebora», sostiene Elio Gioanola, «appare lacerata da un’inquietudine profonda, dal senso di un’inadeguatezza radicale rispetto al mondo com’è agli uomini come mostrano di vivere. Egli ha intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere».

La sproporzione evolve la martellatura dell’istante in domanda di totalità, come egli stesso ricorderà nel Curriculum vitae: «Un lutto orlava ogni mio gioire: / l’infinito anelando, udivo intorno / nel traffico e nel chiasso, un dire furbo: / quando c’è la salute c’è tutto, / e intendevan le guance paffute, / nel girotondo di questo mondo».

Al cuore non basta l’effervescenza dello spirito, il lievito del buon senso. Tutto deve richiamare a una Salvezza ricercata e presente, a un Senso ultimo che passi dalla datità concreta e rechi in grembo una domanda elementare: «Tutto ascendeva, / congiunto, discosto, / i monti e la sera, / presenza del cuore nascosto, / lontananza del fior sullo stelo. / Al varco dell’ombra e del cielo / Scoprivo lo spazio alle cime, / che hanno confine/ ov’è l’inizio più vero» (Ca’ delle sorgenti).

Mancava questo al giovane Rebora, «ammiccando l’enigma del finito sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuori scapigliato come uno scugnizzo, dentro gemevo, senza Cristo».

Commenta Pautasso: «In lui agiva una tendenza alla religiosità, ma che non coincideva ancora con una scelta, benché inconsciamente la sua scelta egli l’avesse già fatta, almeno con la poesia».

L’oscillazione tra eterno e transitorio ama la piena dell’indicibile, nata dal dissidio interiore di una contraddizione non risolta che possa germinare di vividezza: «vorrei, maturar da radice / La mia linfa nel vivido tutto».

Scrive Gianfranco Lauretano: «La poesia di Rebora imita invece non tanto la vita materiale, ma il movimento interiore, l’anima che, comprendendo se stessa e il mondo, avanza sbattendo in contraddizioni, complessità, mistero».

L’infinita densità del tutto è l’incisione di una affinità che non conosce esclusione di dettaglio o innesti una grande aspirazione «mar che ti volgi è riva e chiami, / cuor che ti muovi ovunque è pena e l’ami».

La commistione dell’umana tensione con la percezione del limite, come se germogliasse dalla sconfitta un’attesa, forte più di ogni calcolo, impone una vigile veglia «solida e coerente» (Gianfranco Contini), come testimoniano i passaggi del Frammento V, che Luigi Giussani commenta così: «Quanto più mi sento nella morsa delle cose che mi impediscono di identificarmi coi sogni, coi desideri, tanto più vorrei che questa morsa che stringe mi facesse ardente nella dedizione della mia energia. Bellissimo paragone della barca a vela, del fermaglio e della scotta; quanto più si stringe tanto più il vento che vi soffia dentro fa volare la barca […] è talmente forte il senso della positività ultima del mistero che l’alienazione e il limite non diventano, o non restano, obiezione, ma diventano addirittura l’opposto, un urto che più spinge a dare. Si tratta di una lotta, di una partecipazione nella lotta dentro la storia, per il mondo concreto».

Questa drammatica dinamica agonistica trova la sua espressività in un componimento Il pioppo, scritta dal suo letto di dolore, dove visse la sua malattia e dove davanti alla finestra vide «il pioppo severo»: «Vibra nel vento con tutte le sue foglie / il pioppo severo; spasima l’aria in tutte le sue doglie / nell’ansia del pensiero: dal tronco in rami per fronde si esprime / tutte al ciel tese con raccolte cime: fermo rimane il tronco del mistero, e il tronco s’inabissa ov’è più vero».

Tutta la realtà proclama un oltre, lo afferma, e chiede all’uomo di tendere verso questa nuova incommensurabile scena, o meglio di attenderla nella sua domanda elementare. Egli fatto per il cielo, ma concatenato alla terra, come tanti suoi simili legati alla sua condizione, come scrive Roberto Filippetti: «Questa «domanda di vita» attraversa da un capo all’altro l’opera prima: frammenti gremiti di una domanda di totalità».

Nei Canti anonimi, secondo libro di Rebora, «si accentua la sua tendenza a scomparire come io per farsi voce, anonima appunto, di una situazione comune, quella della pena nella città moderna sempre più priva di umanità, e dell’ansia amorosa per qualcosa di diverso e più alto» (E.Gioanola). L’acme poetico di Rebora si respira nella vibrante Dall’immagine tesa, definita come una delle più alte espressioni poetiche e, allo stesso tempo, religiose del nostro tempo, di «un fatto che venga a dare un senso all’attesa e alla tensione», come commenta Romano Luperini.

L’angoscia della prima guerra mondiale è il senso del vuoto, di non scorgere e affermare nulla sotto di sé. Eugenio Borgna, all’incontro «Clemente Rebora: l’ardore il limite, l’eterno. La vita come tensione», organizzato dal Centro Culturale di Milano, ha analizzato e descritto questo sentimento in Rebora: «Il filo rosso di questa mia prima sequenza è dunque l’angoscia come esperienza umana  (sebbene possa essere anche un’esperienza psicotica, ma io ne parlo  come esperienza umana) che però è anche una esperienza creatrice […]. L’angoscia della morte diventa sul piano lirico angoscia creatrice. I Canti anonimi, pubblicati nel 1922 ma incominciati nel 1900, hanno come leit motiv il Mistero o l’attesa. In queste poesie si spegne la fiamma divorante dell’angoscia: la guerra è finita e Rebora entra in una vita normale, almeno apparentemente».

L’angoscia come portatrice di significati per creare, scrivere, raccontare la crudeltà e la durezza di quel «corpo in poltiglia / Con crespe di faccia, affiorante / Sul lezzo dell’aria sbranata».

Il senso del nulla non fa implodere la ricerca di un infinito che si presenta: redimere non è risarcire. La redenzione è il bacio che non lascia sole le labbra: «Eppure la cosa capita / non redime la cosa sofferta; / e la parola senza bacio / lascia più sole le labbra». Le parole senza presenza subiscono al condanna al vuoto, tremano come dallo sperpero di un bisogno, come da una culla. In quel bacio c’è tutta la dimensione del nostro essere.

La trepidazione dell’immagine è l’attesa di qualcosa che nell’«ombra accesa» ha imminenza di passaggio. Egli spia i suoni impercettibili di quel (sin estetico) «polline di suono» fra quattro mura dilatate di spasimo infinito, pur non aspettando immobile nessuno, ne avverte l’orlo della presenza. L’immagine tesa di Rebora è «la mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes animae». Ma quest’Ospite arriverà improvvisamente e imprevisto (immagine già presente in Peguy), sbocciando, portando il dono della  vittoria sulla morte. Sarà un bisbiglio come la certezza di una nuova positività (il poeta si convertirà nove anni dopo) e come egli stesso scrisse a Montale: «La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto».

Il silenzio di oltre trent’anni dai Canti anonimi (1922) ai Canti dell’infermità (1955), raccoglie il seme della conversione, ma non è silenzio assoluto (se non di pubblicazione), bensì tremore e affermazione di Dio: «Se il sole splende fuor senza Te dentro, / tutto finisce, in cupa nebbia spento. / orrore disperato, Gesù mio, / trovarsi in fin d’aver cantato l’io!».

Afferma ancora Eugenio Borgna, soffermandosi sul silenzio di Rebora, molto simile all’angoscia paolina, o a quella di Teresa d’Avila, o del grido sulla croce che fa scoprire l’eterno: «L’angoscia creativa, l’angoscia umana che ritroviamo nelle poesie composte in quegli anni fatali quando non sarà più l’angoscia del campo di battaglia ma l’angoscia che la malattia fa riemergere, angoscia riscattata dalla speranza, diventa una nuova, rinnovata, misteriosa sorgente di creatività, e allora i Canti dell’infermità non si capirebbero fino in fondo se non le ricollegassimo anche al fatto che dopo venticinque anni di silenzio rinasce una esperienza creativa che sia per la concomitanza molto stretta con questa malattia devastante sia per i contenuti, seppur trasfigurati,rimanda ai componimenti nati nel periodo della guerra. Questo lungo silenzio […] permette di meglio comprendere le ultime poesie, insieme alla rinascita dell’angoscia, che pure è ormai segnata, incrinata dalla speranza».

La febbrile e micidiale fertilità degli ultimi anni, accompagnati dal cuore del pensiero rossiniano, destinano l’infermità al percorso del suo dettato esistenziale e del giovanile gemito ramingo senza Cristo, degli amori giovanili, della guerra, dell’abisso «preso dall’artiglio dell’io», del cielo dell’alba raccontato dal fievole belato della Grazia.

Bacerà la tenerezza di Dio, accadrà l’Avvenimento che consente di sfiorare e poi di toccare la dimora tenera del suo compimento di uomo, che attraverso la sofferenza partecipa alla redenzione di Cristo, centro del cosmo e della storia.

In un’umanità vissuta interamente, la realtà rivela il suo essere segno, «il grido diventa azione di fede-sveglia nel mondo, e da lì sorge la speranza», per sorprendere la possibilità, ultima e positiva, di una risposta, di un’azione di fede nel mondo e in cui le cose rappresentano il vertice di un rapporto in cui vivere e costruire:  «Nella sommersa pace il guardar mio / tenue senso di un crepolìo / D’aria che a galla su per l’acqua levi; / Cammino in nimbo, e rarefatto inclino / Sinuoso al fosforico sentiero: / Ciò che men dissi, tutto m’è vicino; / E per l’amante cuor nulla è mistero».

Clemente Rebora archivio Giovannetti/effigie 

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