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Il limite terso di Mario Benedetti

di Andrea Galgano             9 aprile 2014

recensioni Il limite terso di Mario Benedetti

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L’ultima opera poetica di Mario Benedetti (1955), Tersa morte, edita da Mondadori, amplia e si appropria di una più chiara visuale memoriale.

La perdita, la mancanza, la morte della madre e del fratello, accresce non il congedo, ma la testimonianza di uno sdoppiamento, in cui l’esperienza estrema si raccoglie in una tessitura densa e netta che concede il senso profondo di una chiarificazione.

L’estremo possibile cerca la sua via dall’abisso, con l’aiuto di una parola scarna ed essenziale che vela e rivela il ritrovamento nascosto di un dolore che specchia la sua fragilità, il passo della luce, il silenzio franto.

Il ritorno alle cose care, già visto in Umana gloria (2004), laddove la rimemorazione dei luoghi e dei passaggi percepiscono la sintesi di stupefazione e nominazione, e in Pitture nere su carta (2008), in cui il gesto reliquiario sollecita paesaggi dilatati, attimi di quiete lenta e di sfarzo, terrore anomalo, sillabando lo stupore, qui racchiude una processione di tempo nel tempo, in una goccia minimale e singola.

La solitudine abbacinante inventa la sua testimonianza e, allo stesso tempo, la sua docile paralisi. Entrambe si affidano a un sosia che possa dettare, scrivere e raggiungere le infinite profondità: «Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero / prendermi i giorni, le settimane, i mesi, il tempo / portato addosso, il sosia a cui chiedo di aiutarmi. / Con la sedia di mio padre gioca la bambina che non conosco. / adesso è sua. Gioca con quelli che diventeranno i suoi ricordi. / Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto. / Sollevare dei pesi, deporli. Lo sguardo s’incuriosisce nella forma / di una porta marcita dove abita una signora anziana da sola. / Il sosia ascolta mia madre non morta, parla di mio fratello / o gli scrive. Pensa al protrarsi della vita che mi sopravvive» (Transizione, maggio 2010).

L’ultimità di Benedetti è una perentoria realtà di sopravvivenza e referenza, in cui la parola percepisce il peso dell’ombra delle cose e in quella stilla di dolore estremo conferma il suo pianto miracoloso e vivo: «La porcellana insaporita della cena, / la casa nuova con i contributi della legge / dopo il terremoto. Tutta una vita / per chi vi deve ricordare, per chi vi piange. / E piange la parola che riesce a dire».

Scrive Alessandro Zaccuri: «In Tersa morte, invece, prevale la sdrucitura, il dramma, e così l’intonazione scivola verso la prosa, che in più di un’occasione prevale. Questa volta è la regola ad avere la meglio: il lutto per la morte del fratello sta all’origine della scrittura e intanto la ostacola, impedisce alla forma di articolarsi. Non è, per quanto mi riguarda, un limite. Ho una simpatia istintiva per i libri in cui qualcosa è, o appare, fuori posto. Il magma di Moby Dick, per esempio, ma anche gli esametri sospesi dell’Eneide o Dostoevskij, che lavora di furia alla prima parte dei Fratelli Karamazov, il capolavoro destinato a rimanere incompiuto. E la Bibbia stessa, dove il sublime prevale sul bello. «Dai del tu ai morti, stai al posto di te, anche», scrive Benedetti.  Non  è musica, questa. Non è stile. Ma è la lingua madre del dolore, e chi l’ha parlata – fosse pure per una sola volta – ne riconosce l’esattezza, ne condivide la pena».

In un bellissimo articolo su «Nuovi Argomenti», Giorgio Meledandri afferma che «[…] Mario Benedetti rappresenta un’altra morte e scrive un grandioso ed intenso epitaffio in memoria delle parole. Tutta l’opera non fa che rimarcare l’impotenza espressiva del soggetto, l’indicibilità delle cose, l’esaurimento del linguaggio. […] Solo dentro questa cornice, nell’eco delle parole che muoiono, l’autore può mostrare altre esperienze di lutto. Tenta quindi di recuperare le immagini, i fotogrammi di chi non c’è più: una vera e propria evocazione di luoghi e di date nel corso della quale l’io lirico si diffrange in una molteplicità di soggetti, si mescola con i morti, si sovrappone agli oggetti fino a scomparire».

La diffrazione, il mescolamento, la sovrapposizione e infine la scomparsa sono lande che attestano l’indicibile di impronunciabili scomparse, come «Tra il ferro arrugginito dei vagoni di treni dismessi / la discarica delle parole di poesie che respingono. / Sguardi brevi, arrovellamenti, alberi a caso, afasie».

Le vite pronunciano una stasi scissa che si compenetra nel linguaggio, si appropria nelle parentesi care di ogni vita che sono «interezze create continuamente / per un dopo che non ci sarà più o è già stato».

Tali interezze proclamano la loro tersa continuità, le parole che «sono nelle storie che mi hai fatto vedere», sollecitano una testimonianza di tensione e domanda, per «Stare nelle ore / per altre ore, nei giorni che ci saranno», rievocano l’oscillazione di un martirio testimoniato, «Come testimoniare i morti, / vivere come lo fossimo, / morire come siamo. Per la vita / è la scoperta / della morte e della vita», e, infine, riportano, come sostiene Tommaso di Dio «alla “carne” che siamo, carne mortale».

La nudità lucente della vita che si rivela, il dolore del limite, della carne che percepisce il vuoto bagliore della mancanza reale e vivente, svelano il tempio di una figura che ha generato vita, nella quotidiana altezza del gesto: «Cosa devo guardare per sentire che non è così vero, / e riuscire a spostarti nelle faccende di casa, / a risospingerti lungo le strade. E tra le righe / vicine dei capelli guardo i sentieri del sottobosco / ingiallito. E riesco a vedere i vicoli di Napoli, / gli anni trenta, i gatti, le gonne lunghe di una ragazza. / e tu mi dici: tu lo sai che è vero, tu resta forte e sereno, / quanti giorni hai davanti! Io sono morta di lunedì, / tu sei arrivato a guardarmi, ero una cosa vestita / con l’abito blu che mi avevi regalato e tutto il ricamo / del foulard. Così tanto elegante, così tanto bello».

Il gesto-dimora offre il suo palcoscenico di durezza e dettaglio luminoso: la madre, alla quale appartiene solo lo sproposito e la dismisura, il tempo infinito che sembra concretarsi in uno spasmo di apparizioni e le coltri dense di ricordi frammentati: «Devo tenerlo per mano, / non vedo nessuno tenere per mano i bambini. / Vicino alla manica lunga del braccio /  i suoi occhi liberi, e tante madri, / tanti cuccioli di cagne e mucche insieme ai vitelli / che dormono come bambini».

La morte diviene l’ampio gesto della vita che si spegne e si afferma, in un doppio movimento che appare e scompare, si eclissa nei vertici fenomenici di freddi senza riparo: « Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere /  la pura inconcepibile assenza, non distrarti». L’accortezza di non avere solo vent’anni è lo spazio vergine di una sopravvivenza decisa e assorta, che assolda doppi e sosia per comunicare uno spiraglio di consapevolezza e di voce non rabbiosa, ma accorata e descrittiva di una rarità spettrale che termina nell’ora assente: «È un’ora assente. Mi guardi. Si vive ancora, sì, si vive ancora. / Ma non c’è la mano da darti. Guardi gli occhi della malinconia».

«Per tutto il libro, Benedetti fa oscillare le proprie immagini in un verso anfibio, debolissimo, raramente inarcato, sempre sul punto di sconfinare in ritmi ipermetri e ipometri, prosastici; fra di essi, a tratti appaiono figure ritmiche incalzanti, che presto però si sfaldano in soluzioni neutrali, sottotono. Il verso rispecchia una ricerca formale inquieta e liberata da schemi di illusionismo metodico. Tutto trema: come i contorni delle bottiglie nei quadri di Giorgio Morandi, ogni cosa è lì, ben visibile, impressa; ma in una forma che non sa stare se non oscillando, crepata da appena percepibili anacoluti. C’è in questi nuovi versi di Benedetti – e segnatamente nelle ultime sezioni – una sobrietà formale che rasenta l’impressione di negligenza; essa enuclea uno stile “a dispetto” di ogni possibile orpello retorico. È come se ci ricordasse continuamente quanto il senso dell’esperienza e il contenuto sopravanzino ogni possibile stilistica; tanto che risulta particolarmente impossibile qui – o quanto meno totalmente inutile – quello che mai dovrebbe accadere di fronte ad un opera letteraria: godere della forma senza aver aderito al messaggio espresso dal libro, senza averlo fatto proprio». (Tommaso di Dio).

Un viaggio nella pena della morte, non dell’annichilimento. Benedetti si sporge nell’abisso dell’assenza della sua «impietrata lava», «il tempo venuto addosso come suo dovere. / I lutti delle case, del vivo chiamarci a colazione a cena. / la panca di un giardino, i tuoi pianti nella macchina a ore, / i torrenti e le pozze dove nuotare. Cosa ti diceva / è bello stare qui?, umiliata, pestata nella macchina a ore», «nell’ora dell’azzurro cupo», nei fotogrammi dei «gualciti / accappatoi rivoltati dal vento ieri notte »raccoglie i cari per aggrapparsi alla vita e, nel vuoto del sangue, delle «parole in fila» che «mostrano la pioggia sulla strada e nei campi. / Gli occhi che guardano scriverle non ci saranno. La strada / ha gli alberi lontani, l’erba è alzata  respirare, a respirare / come uno di noi. È giusto che io non veda questo mai più».

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Mondadori, pp.86, euro 16 

Benedetti M., Tersa morte, Mondadori, Milano 2013.

Id., Pitture nere su carta, Mondadori, Milano 2008.

Id., Umana gloria, Mondadori, Milano 2004.  

 

Il posto di Jorie Graham

di Andrea Galgano             27 marzo 2014

recensioni Il posto di Jorie Graham

sul sito della poetessa nella Bibliografia ufficiale  http://www.joriegraham.com/bibliography

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Si chiama Il posto (Mondadori 2014), la nuova raccolta di Jorie Graham (1950), una delle più alte voci della poesia americana. Dopo la scelta antologica, edita qualche anno fa da Sossella, L’angelo custode della piccola utopia, ci giunge questo testo di scheggia e potenza, acutamente tradotto da Antonella Francini.

Premio Pulitzer nel 1996, dal 1997 al 2003 Chancellor of the Academy of American Poets e premio Nonino 2013, per aver «intarsiato i suoi versi sul mito, sulle dicotomie e polarità dell’esistere, scandagliando e sperimentando profondamente tutte le sensazioni della poesia […] dove la parola ritrova la sua eticità e spiritualità tendendo all’infinito», Jorie Graham è nata a New York nel 1950, ha vissuto fino ai diciotto anni a Roma (e il suo iter sembra attestarsi su Pavese. Montale e prima Petrarca) e ha studiato sociologia a Parigi, prima di terminare la sua formazione negli Stati Uniti, dove oggi insegna, ad Harvard, retorica e oratoria.

L’eidetica di Jorie Graham, quasi di neoavanguardia, «[…] ci fa entrare nella forza magmatica della poesia, la sua capacità di testimoniare l’umanità, di risvegliare la mente attraverso i sensi, le presenze vitali del mondo, una «fiumana di sangue» che procede attraverso un deserto. In una fusione coinvolgente di musicalità poematica e densità narrativa» (Bianca Garavelli, da “Avvenire”, 17 marzo 2014).

Ed ecco che i sintagmi intessuti nella pagina acquistano una scaturigine di terra e ferita, il conflitto (persino quello sociale) e la gioia, il crampo del cuore, il tocco, il registro e la trascrizione dell’atto del reale.

È l’inatteso, il blocco superno della realtà che reclama il suo posto, lo spazio di scoperta del mistero che incide l’inconoscibile, che si appropria dell’amore, del tempo presente dilatato e dell’immaginazione: «E vento accolto dal velo d’acqua. / Guarda: l’accoglienza ha una forma […] Ogni cosa nel sole / improvvisa a ritroso, / buttando giù frasi veloci e nervose […] ogni cosa nel sole che tenta d’incarnarsi attraverso qualcos’altro […] Certo il futuro / un tempo non era affatto là […] Parla della lunga catena a ritroso / all’inizio del “mondo” (come lo chiama) e poi, infine, al grande non / inizio. Sento il no iniziare. / Il seguito ronza leggero intorno a me, / cancella le mie impronte», […] Canta dice l’acqua che ripiomba su acqua più ferma – che scorre dove l’altra si rompe. Cantami / qualcosa (il suono del rompersi basso dell’onda) / (gli accordi dove laggiù deposita materia di vita / sulla rampa di spiaggia) (anche la molteplicità / di profondità e rivestimenti dove sorge la chiarezza come una moltitudine) / (mentre l’onda s’abbatte sul suo frangente) / (per squarciarsi all’unisono) (sul suo rifrangersi) – / canta qualcosa, e cantando dissenti».

La poesia di Jorie Graham  chiede un atto ineffabile, evita di dissotterrare la nostra messa in gioco, invita a rischiare la parola per recuperarla nei fondi, non concedendo distrazioni.

E la parola, scomposta, segmentata e frammentata richiede il suo posto, per inebriarsi di mistero, stare dietro la luce del giorno che «sussulta / dietro di noi / ed è un tesoro immenso per esempio oggi / un uomo a cavallo galoppava / leggero su Omaha / sopra la mia spalla sinistra / giungendo veloce ma / leggero e inaudito finchè non mi sono voltata / senza un motivo / come se ciò ch’è dietro di noi / avesse sussurrato / cosa posso fare per te oggi e io mi fossi appena / voltata a / rispondere e la risposta alla mia / risposta scaturisse dalla battigia nell’ultimo sole in cui lui /loro stavano entrando».  

Il respiro precede così l’incedere del verso e il battito, incalzante e vivido, implora la sua esplorazione, quasi che l’istante proclamasse la sua densità e l’immagine si imporporasse di suoni.

Claudio Magris, in un articolo sul “Corriere della Sera” del 20 gennaio 2013, dal titolo La poesia ricuce il mondo, scrive:

«La sua lirica cattura una totalità mossa, spezzata, mutevole, imprevedibile, multipla e simultanea, che il suo verso epicamente lungo e digressivo o concentrato ed essenziale come quello di un haiku coglie con bruciante verità. La sua totalità comprende l’individuo – i suoi sentimenti, passioni, smarrimenti – ma anche la specie e l’incertezza radicale del suo, del nostro futuro. La sua opera esprime una radicale verità della nostra condizione, la vigilia di un ignoto e sconvolgente cambiamento: la possibile – concretamente possibile – assenza di futuro, la morte della nostra specie o una trasformazione tale da renderla non più umana, da aprire l’era del non-umano. […] Il tempo geologico è tanto più grande di quello storico, ma forse il tempo non c’è, non esiste, perchè nel ticchettio dell’orologio non c’è niente, solo un secondo in cui non può esistere nulla e lo spazio fra un secondo e l’altro in cui egualmente non può accadere nulla, eppure la poesia va alla ricerca di questo tempo e di ciò che esso (forse) contiene; ascolta gli uomini, ma anche la foglia, lo scirocco, il cristallo come le vicende d’amore, gli eventi storici e quelli mai es empre esistiti del mito, «il bagliore che assomiglia allo svanire», perchè ogni Io ha dentro di sè il suo «animale morente». La sua Euridice, come quella che ho cercato di rappresentare anch’io, desidera sparire in quello sguardo di Orfeo che si volta».

Il posto, pertanto, è l’osservazione avventurosa del mondo, il gemito del creato, che, anche quando sembra superfluo, si intride di rivelazione, come scrive in Cagnes sur mer 1950: «Sono l’unica a ricordare / la voce di mie madre nell’ombra particolare / dell’arco romano ricolmo di cielo / che oscura le pietre sulla strada in discesa / da dove lei ora risale all’improvviso. / Come l’arco, la voce e l’ombra / violentemente afferrano il piccolo triangolo / della mia anima, un film muto dove note di piano / diventano un corpo impazzito / per le immagini squillanti dello spirito – patria abbandonata – miracolo da cui / si riemerge vivi. Così qui, io di nuovo / rileggo il libro del tempo,

il mio unico tempo, come se ci fosse un fatale errore la cui / natura non so rintracciare – o la forma –  o l’origine – / prendo la creatura e la riporto / sul posto dove io sono un minuscolo serbatoio di sangue, cinque chili d’ossa / e tendini e altre cose – già condannata a quest’unica anima – che dicono pesi meno d’una piuma, o tanto / quanto un centinaio di grammi quando cresce – come in un viaggio ripercorro / quelle arterie, il prezioso liquido, il campo di metodi, agonie, / stupori – che io non sprechi gli stupori – / che non uccida per errore fratello, sorella – mi siederò con audacia una volta ancora sul mio inizio […]».

L’espansione dell’opera di Jorie Graham si nutre di una vocalità cosmica e di uno spazio di macerie insalubri, di spaesamenti di mente e mondo, e costringe a non cambiare itinerario di affinamento, per osservare, intingere gli occhi nel tempo per «restituire alla mente, in modo nuovo per ogni generazione, la sua parola e le parole al loro mondo tramite un uso preciso. Ogni generazione di poeti ha questo dovere, e ogni volta deve svolgerlo ripartendo sostanzialmente da zero», per «riportare la parola umana nella cosa immortale; assicurare che il rapporto, anche se per un istante soltanto,  sia vitale e autentico Far sì che le parole siano canali fra mente e mondo. Renderle di nuovo pregnanti».

È la sua personale ricostruzione della parola segmentata nel mondo, il gesto sopravvivente nella strada al margine del campo, «per vedere / nella spumeggiante fine del giorno / il posto dove tutto davvero / risiede, desiderato o sopra- / valutato / dalla mente umana, che può / se lo vuole / portarlo alla luce / con l’immaginazione – non c’è invenzione – oppure c’è – finchè / esiste, la mente può / farlo – […] il mondo ha aperto la sua veste / e tu / eri libera di guardare / senza nessuna / frenesia, nessuna canzone, semplicemente così, polmoni sospesi, le / cesoie sospese / lì nella mano, / la siepe selvatica accanto a te, / e tu puoi – sì – sentirla scorrere / per le sue migliaia / di steli – e più vicino ora / anche lo stelo / esile e solo».

L’osmosi di corpo e mente, la sopravvivenza della parola alla storia e nella storia, l’immaginazione, che non tralascia nemmeno il fare politico, invita alla redenzione e la poesia diviene «un atto di profonda responsabilità spirituale … Io utilizzo la poesia per essere obbligata a rimanere nella storia». come disse a Firenze il 20 dicembre 2006 nel laboratorio della rivista “Semicerchio”, l’azzardo e lo scandaglio abissale delle sue pagine diventano espressione di concrezione di passato e  ferita, di persone e luoghi, in un fertile connubio di comunione.

Recuperare la parola alla sua sopravvivenza, come solcare le retine di una presenza di senso che essa contiene, senza la scheggia di vaniloqui possibili e di ovvietà spezzate, per cercare, infine, il disegno delle danze, la visione delle colline lontane, il trampolo dei sogni.

La scena diviene, pertanto, una gemma di macerie recuperate, di splendente vacuità sulle foschie e laddove la resistenza, la geniale trasposizione umana sono «ancora il segreto del terreno / arato di nostra creazione / respiro dopo respiro».

Scrive Antonella Francini: «Nell’intervista rilasciata a “The Paris Review”, Graham ricorda che Roma ha rappresentato per lei il tempo storico, uno spazio dominato da un «imponente senso della storia», dove la «percezione della dimensione temporale, della vita e delle azioni del passato»  la facevano sentire come un fantasma, «un’anima in pili nell’enorme massa di detriti umani». Al lato opposto della sua esperienza Graham mette il tempo “geologico” del Wyoming, le vaste distese di spazio dove si sentiva ugualmente un fantasma, dove «questioni di giustizia, cause ed effetti della storia svaniscono», dove la coscienza individuale non ha accesso e «qualsiasi assunto sull’importanza degli esseri umani su questo pianeta» deve necessariamente essere corretto. […] Il periodo intermedio della Francia e dell’esperienza politica ha rappresentato invece l’apertura alla realtà, ad «altre forme del presente definite pili dalle idee che dalle sensazioni, dall’immaginazione, dal mito, dalla storia». Queste tre dimensioni possono essere associate ai tre grandi blocchi tematici della poesia di Jorie Graham: il tempo geologico dell’Ovest americano fa da sfondo alla meditazione metafisica, quello romano al tema della storia (personale, collettiva e culturale) e quello francese alle questioni socio-politiche».

È nella dinamica dell’altro e dell’altrove, dalla esperienza e dall’avvenimento della poesia, che può essere rintracciabile la sua origine e l’affettività della sua conoscenza che implorano «la morbida deviazione mutata in bellezza».

Ancora una volta, la parola, come annota Antonella Francini è «scardinata da ogni vincolo sintattico, ma tuttavia risalta e risuona dalla posizione di isolamento in cui Graham la pone avvertendo il lettore postmoderno che, anche se erosa dagli attacchi teorici e dalla retorica, può sempre creare significato. Le parole, così messe sotto il riflettore, impongono ed esigono una ri-definizione, creano una vibrante tensione fra occhio e immagine grafica, rispuntano ossessivamente in una sorta di gioco del gatto e del topo con un poeta determinato a costruire una nuova colonia per il suo “sciame”, a sondare per loro tramite i misteri della vita umana. In quest’appassionata ricerca della minima essenza di lingua e materia, parola e silenzio devono in qualche modo coincidere […]».

La sua poesia proclama il risveglio di una conquista, non solo di forma o di distesa emersa, ma un posto umano che si impenna, si concede, offre il suo fianco vitale, per «Essere una persona / umana e poi donna. / Essere una che ha avuto / abbastanza. / Abbastanza sottosuolo. / Abbastanza giardino / col suo muro alto anche se non alto abbastanza con tutti / gli spioncini a meno che non fossero / soltanto cretti accidentali / da cui vedere / il mondo».

Poi il mondo, che corre famelico, che nasconde le mani. Resta in ascolto l’anima socchiusa, la nota lunga del tempo, come una creatura che abita le soglie e il dolore esaminato, la maestria delle forme umane. Dove un grido o forse, meglio, un canto tralasciano il loro sangue per darsi avvio e pronunciare tutto il loro magma di spaesate gemme.

 

3Dnn+9_2B_pic_9788804635796-il-posto_originalJORIE GRAHAM, Il posto

Mondadori, pp.240, euro 18    

 

  

Graham J., Il posto, Mondadori, Milano 2014.

Id., L’angelo custode della piccola utopia. Poesie scelte (1983-2005), Luca Sossella Editore, Milano 2008.

(a cura di) Graham J.- Lehman D., The Best American poetry 1990, Collier Books, New York 1990.  

Il minimale spasmo di Umberto Fiori

di Andrea Galgano             13 marzo 2014

recensioni Il minimale spasmo di Umberto Fiori

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La lingua poetica di Umberto Fiori (1949) afferma l’artiglio pieno dell’essere che incide il tempo, uno scarto o una frangia di verso che si appropriano del passaggio comune delle cose.

La descrizione dei paesaggi urbani, i protagonisti, spesso periferici, delle sue condensazioni di tempo sollecitano l’anima scorta e memorabile di uno sguardo e di una appropriazione che impara subito il tessuto dell’anima, il suo poema compatto, perché, come scrive Andrea Afribo, nella raccolta antologica, recentemente edita da Mondadori (Poesie 1986-2014) «c’è quasi sempre una storia nelle poesie di Fiori, munita di personaggi, di un minimo ma sufficiente ancoraggio spazio-temporale, e costantemente seriata in due momenti. Il primo, esplicitato oppure solo alluso o dato per scontato, descrive la routine di ogni giorno, rassicurante ma soporifera, protettiva ma devitalizzante. Il secondo sovverte il primo, e lo fa all’improvviso, trafiggendolo con un evento tanto banale e casuale quanto, negli effetti, eccezionale».

È la sopravvivenza di un miracolo che sporge la sua impronta, il tratto improvviso e tenace: «Ogni nome ha ragione, / ed ogni cosa sta / in pace / nel suo nome. / Soltanto il mio / suona come un allarme / nell’altra stanza, / come un rimprovero».

La permanenza della parola poetica esprime il suo fischio lontano, condensa l’essenziale allontanandosi dallo spumoso spazio della ridondanza, dove l’io tocca il suo risveglio: «In piena notte / sui viali scatta un allarme. / Si ferma, e poi ripete / due note acute, tremende, con la furia / di un bambino che gioca. / nei muri bui dei palazzi lì sopra / le finestre si aprono / si accendono. / Tranne la strada / in mezzo ai rami, vuota, / niente si vede. / Si tirano le tende / e si rimane intorno a questo urlo / come si sta in un campo intorno a un fuoco».

Lo scarto del silenzio e dell’allarme non distolgono il miracolo di ciò che accade, come se la poesia inseguisse non la sua sopravvivenza, ma il bagliore dell’avvenimento che condensa i suoi confini, apre spazi, favorisce le sue concessioni quotidiane: «Alte sopra la tangenziale, chiare / due case con in mezzo un capannone. /  È questa l’apparizione, / ma non c’è niente da annunciare. / Eppure solo a vederli / Là fermi, diritti davanti al sole, / i muri ti consolano / più di qualsiasi parola. / Cancellate, ringhiere, / scale, colonne, cornicioni: / ha l’aria, tutto, come se qualcuno / dovesse veramente rimanere».

È la testimonianza dell’io che si spinge fino al suo testimone segnico, dove il “voi”, il “tutti”, la “gente”, il “due” (nella sua prima raccolta Esempi (1992) abolisce, in forma inibitoria, la prima persona) caratterizzano il puntuale crocevia e il ventaglio dell’esistere, come avviene nella raccolta Voi (2009) dove egli sostiene che  «Le due persone in gioco nel libro non si equivalgono; non sono solo impari, sono incommensurabili: è di questo che Io si dispera. Voi è innocente per definizione: è una persona astratta, disincarnata, un generico Prossimo, a cui Io deve tutto e dal quale nulla può pretendere. A Voi spetta il primato morale. Un primato assoluto, indiscutibile. Io è la colpa incarnata, un “difetto” di Voi: solo Io è chiamato a rispondere di fronte a Dio (al Senso, all’Essere) di ciò che fa, addirittura di ciò che è, della sua stessa esistenza. Solo Io muore. Solo Io si perde, si salva. […] questa disparità viene presentata come l’assurdo, il mistero, il santo enigma di cui ogni singolo deve venire a capo» verso ciò che Fiori chiama la sua «parola normale», come afferma in un’altra intervista rilasciata a Fabio Giarretta.

La parola normale di Fiori, pertanto, è l’esito di una fedeltà dichiarata alle cose, che persino nella sua sovente impersonalità concentra le locazioni, le indeterminatezze e laddove il paesaggio urbano, ricolmo di piazze, angoli, anditi lievi, rivela l’illuminazione di uno scavo interiore che si riporta all’esterno, come misterioso segreto concreto di nudità che decide l’intero senso del mondo: «Ecco: le cose. / Dove tutto si perde e manca, / rimangono. Si lasciano / ascoltare e vedere. / Sono vere, le cose, e saranno vere: / per questa promessa anche ora, / nascoste nel loro buio, / anche in corsa, / ti sembrano care e buone».

Annota Andrea Afribo: «Non si cerchi poi di capire in quale città si svolgano i fatti. La ricorrente presenza di strade, viali, angoli di strada, tangenziali, semafori (e ancora sottopassaggi, tram, macchine, giardini, autosilo, piazzale, cantieri, scavi, asfalto) dice chiaramente che siamo dentro uno spazio cittadino o meglio metropolitano. Può essere Milano, ma può essere qualsiasi altra città».

L’evento che si svela coglie rimanenze lasciate come «Una fila di esempi, una serie / di facciate di case, rapide e serie», partecipa all’esperienza di una illuminazione allusa e integrante e che invita all’interpretazione, al passaggio netto, all’esclusione come gemma nativa di una perdita: «Le mie poesie sono nate dalla perdita di una biografia (delle sue nostalgie, dei suoi programmi, dei suoi rimorsi, delle sue promesse); sono nate non da me, dalla mia storia. Qualcosa mi impediva di mettere al centro dell’attenzione non solo la mia personale vicenda, ma qualsiasi elemento che rimandasse a uno svolgimento, a un divenire, a un prima e a un dopo intensi in senso forte. Se cerco l’origine del mio lavoro trovo questa esclusione».

Altrove Umberto Fiori, in un’intervista a cura di Maria Borio su Pordenonelegge.it, sulla mancanza, come cellula dello sguardo, afferma che: «L’occhio ha l’illusione di non far parte della scena che sta osservando: è immate­riale, invulnerabile, domina il mondo. In una poesia di Esempi, d’altra parte, si dice: “Più grande di tutto è lo sguardo / ma le case sono più grandi”. Lo sguardo, insomma, è radicato in un corpo, le cose guardate possono essere (in molti sensi) più grandi di quel corpo e dell’occhio che le osserva e crede di dominarle. Nella Bella vista il verbo “mancare” viene utilizzato in un senso un po’ diverso, come sinonimo di morire, non esserci più. lo chiedo alla “Bella vista” di insegnarmi ad accettare l’inaccettabile: il mutamento, la fine. Lei stessa, l’immensa Bellezza, la potentissima Natura, l’ “eternamente salva”, si è piegata al tempo, è scomparsa (o così sembra): l’uomo, invece, non capisce, non riesce ad accettare di “mancare”».

L’apologia delle sue storie intesse l’appartenenza dell’individuo alla comunità, come rapide di immagini che recano fasci inattesi, epifanie e apparenze di una quotidianità franta ma sempre ricca di exempla e di baluginii di tempo: «Chi potrà più trovarci, / chiedere conto, / domandare perché, / dove cosa? Noi siamo / tre piccioni che beccano / la pozza di gelato sul marciapiede. / Siamo il busto di bronzo, / la targa del furgone, l’altra bottiglia / che porta il cameriere. / Chi potrà dare / torto o ragione?».

Il prodigio del tempo possiede la scheggia di una lezione che sembra non riuscire a rivelarsi, nella potenza di una forza buia, ma che non smette di desiderare l’avvento, l’attesa di spasmo che contiene lo scavo dell’umanità in tutte le sue forme, come l’interno di casa in cui «mentre le stanze passano / e se ne vanno, viene / come una spinta dentro, / come un’invidia. / Ci si sente mancare, / in queste scene. Si è come tenuti fuori. / Ma in fondo poi / vedere come tutto / procede bene / anche senza di noi, / fa quasi ridere. / E si diventa liberi, leggeri: / non si è più lì, si ragiona / come già morti, come / mai nati.[…] / Eppure questo, / questo che tutti vedono / là, nei soggiorni / e nelle camere, non smette di mancare: / essere così chiari / senza saperlo, / stare soprappensiero / un attimo, nel pieno dell’attenzione».

La scrittura di Fiori si appropria, pertanto, di una scena, una scheggia di tempo infilata nel tempo, non si discosta mai da ciò che accade e implora chiaritudine «per spremere una lezione salutare da quei fatti quotidiani che sinteticamente racconta» (Andrea Afribo): «Quello che siamo qui / nell’ansia di questa luce / in questa data, / giorno per giorno va. È frecciame: / schegge, polvere, trucioli».

La sua poesia stuporosa insegue l’imprevisto e la restituzione, il cerchio di una pienezza che si vede e si invoca, la chiarità del limite, la figura forsennata che prepara inattese trasparenze.

«I momenti che preparano l’epifania», scrive Andrea Afribo, «che aprono una breccia liberatoria nel muro dell’abitudine, consistono tutti in zone di scivolamento minimo ma sufficiente, interne all’ogni giorno. Sono piccoli guasti, interruzioni del continuum, imprevisti banalissimi ma inderogabili e disarmanti. Soprattutto sono ingorghi del traffico, ritardi, incidenti con annesso capannello di curiosi, tamponamenti da constatazione amichevole, una lite, uno scontro involontario tra due passanti, il già visto scatto di un allarme, lo squillo di un telefono o di una sveglia nell’appartamento del vicino, eccetera. E poi tutto quanto può capitare in una discussione: perdere il filo del ragionamento, bloccarsi, un silenzio a sorpresa».

L’enunciazione è un longevo dialogo di vuoti in attesa, l’indefinito fronteggiato, la rissa dell’anonimo, ma tutto proteso al miracolo incombente, all’offerta estrema: «Sento le piante crescere, sento la terra / girare. Tutto mi sembra forte e chiaro, tutto / deve ancora succedere».

Nelle sue case, nei palazzi, negli spazi che abitano la gemma miracolosa che sorregge il mondo, la sospensione di Fiori è pronta a donare i suoi fatti, come chi è teso a invocare e gridare fatti e prove e «proprio allora, lontani come sono, / rivedono il miracolo: / che sia una la stanza, / che sia lo stesso / il tavolo dove battono».

 

UMBERTO FIORI

Poesie 1986-2014

Mondadori, pp. 272, Euro 20

 fiori

Fiori U., Poesie 1986-2014, Mondadori, Milano 2014.  

Id., Tutti di tutti, in «Il gallo silvestre», 11, 1999.

La lancia di Frank O’Hara

di Andrea Galgano                                         16 gennaio 2014

poesia contemporanea La lancia di Frank O’Hara

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Frank O’Hara (1926-1966) ha scritto la sostanzialità della concretezza, l’emergenza sorgiva, la finitudine di una parola-scoppio come una nervosa grazia che irrompe scoperchiata.

Incontrato in un party nel Village, Marisa Bulgheroni così lo ricorda:

 

«[…] stava tra gli altri, pittori, poeti, musicisti, gente di teatro, i protagonisti della Scuola di New York, come un re in incognito, arrivato lì per caso, la polvere del viaggio sulla giacca stinta a righe bianche e celesti, gli occhi irrequieti azzurrovioletti, tagliati in una materia mobile come vento o come neve, intensamente presente benché forse sul punto di andarsene, un perfetto abitante della vorticosa Manhattan delle sue poesie. Già allora la sua grazia nervosa, la sua volontà di vivere e scrivere in un unico gesto, di rendere durevole il precario, di trasmettere alla parola l’istantanea del passo e del respiro avevano per i più giovani la forza di un contagio e la sua stessa vita, scoperchiata, giocata con grandiosità, «tenuta insieme precariamente nella mano veggente di altri», la sua omosessualità, la sua abissale trasparenza di uomo che si riconosce molteplice erano leggenda ancor prima che morisse, nel luglio ’66, in seguito a un incidente simile a uno spettacolare appuntamento. Il suo sand buggy – costruito per corse veloci sulla spiaggia – saltò in aria su una duna di Fire Island, la storica isola, piatta come una lingua di sabbia appena affiorante dall’oceano, dove Thoreau, nel 1850, andò a cercare i relitti del naufragio in cui era perita Margaret Fuller».

Ma se la poesia di O’Hara «non è fatta di strumenti / che funzionano a volte / poi ti lasciano / ridono di te vecchio / si ubriacano di te giovane / la poesia è parte di te», vero è quel che ha scritto Donald Allen, usando la parola record, come registrazione che rifiuta l’aspetto combinatorio del gesto poetico e si attesta alla diretta espressione dell’energia vitale.

È la registrazione dell’esperienza vitale soggiace ad ogni suggestione, movimento, denso incontro.

Nel suo manifesto, Personism, O’Hara giunge a far crollare ogni confine tra la vita e l’arte: «la poesia non è tra due pagine, ma tra due persone».

Questo incrocio di incontri è il nemico dell’astrazione e si incide in una magmatica apertura di suggestione ed emozione: «L’astrazione (in poesia, non in pittura) comporta la rimozione della persona del poeta. […]. Il Personismo, un movimento che ho fondato recentemente e che nessuno conosce, mi interessa molto perché è completamente opposto a questo tipo di rimozione astratta».

L’attestazione pittorico-musicale e la poesia come atto creativo nascono da una lotta furiosa che risale a Pollock, de Kooning fino al realismo immaginario, si richiama a Picasso e i suoi collages, risale ai simbolisti francesi, si appropria di Apollinaire e come scrive acutamente John Ashbery: «[…] parole e colori che potevano essere presi liberamente a prestito qua e là per costruire grandi strutture ariose, mai viste fino ad allora nella poesia americana e in genere in tutta la poesia, più simili alle circonvoluzioni erranti di una mente aperta fino al punto della distrazione. Ne scaturiva una libertà di espressione poetica che era davvero praticabile e che, insieme ad altri tentativi analoghi sul versante tecnico (Charles Olson) e psicologico (Allen Ginsberg), spianava la strada a tutta una generazione di poeti più giovani».

In un articolo apparso su «Poesia» del dicembre 1997, intitolato Frank O’Hara e la poesia dell’emergenza, Roberto Ferdani scrive che «La poesia, in O’Hara, accade, come accade la vita; nasce da (e richiede) un atteggiamento essenzialmente emozionale, destrutturato, immediato; è ciò che fluisce dall’essere quando la logica – luogo di separazione, di finitudine e di temporalità – si arresta e arrestandosi permette lo scorrere inarrestabile del movimento dell’essere fattosi parola. Per lui l’azione poetica non avviene attraverso un atto intellettuale bensì attraverso un’apertura emotiva. […] Frank O’Hara ha composto, attraverso il dire poetico, il suo “diario intimo”. […] Motore e forza unificante della poesia di O’Hara è dunque quell’io che si fa centro di irradiazione e luogo nel quale il fenomenico viene non solo percepito ma ricreato. Di più, l’io multiforme e onnivoro di O’Hara crea se stesso attraverso il contatto con il mondo; si fa cioè luogo di rifrazione del mondo; si dà, keatsianamente, forma».

Ed ecco che l’immersione nella città, con le sue creatività caotiche, impara a cacciare la preda invisibile del tempo, l’immagine che implora e sfugge, il cosmo che si trasforma e l’incontro che mette a nudo.

La poesia di O’Hara non ama l’intellettualismo cieco perché, in esso, non trova la linfa e la sorgente. Il  magma poetico ha bisogno di scivolare come aggredito, di amalgamare suggestioni, depositarsi nel fondo dell’essere.

Pur non trovando né stabilità né protezione, sperimenta la leggerezza di un’emergenza, come scrive ancora Marisa Bulgheroni: «La metropoli è per lui un cosmo compiuto, contenente quanto occorre per sentirsi vivi, il verde sufficiente, vette e gole montane e marine, luce e uomini in movimento: tocca al poeta riscoprirla come natura, vedere nella sua eterogeneità, nella sua discontinua corporeità, un modello di linguaggio alternativo rispetto a quello della tradizione letteraria. Da un lato l’io poetico si nega e si dissolve nel caos dell’esperienza urbana, produttrice di sempre nuovi automatismi fisici e mentali e quindi di inedite associazioni di immagini, di inattese identificazioni con gli oggetti che affollano simultaneamente il campo visivo; dall’altro si rappresenta come punto di riferimento, nucleo di energia psichica, protagonista e possente cronista della velocità di cui partecipa».

L’avvenimento della sua poesia si appropria di un linguaggio che si afferma nei ritmi biologici, come rapidità sollecita e cenno di vertigini e abbandoni. La sua geografia, che attraversa New York quasi sbandando, è la memoria del desiderio che si poggia, gocciolando, sulle cose.

Nessun oggetto finito né un confine accertato, ma una traccia in divenire rapida e riprodotta che si fa colloquio e riferimento, come scrive Nicola D’Ugo: «La poesia di Frank O’Hara costituisce un fenomeno raro e prezioso. Il suo modo di scrivere è colloquiale. La sua sapienza sta nel rendere tale colloquialità priva di scosse retoriche, con andanti minimali e accostamenti di immagini che anziché esaltare l’io poetante riducono qualsiasi argomento socialmente ammaliante ad una dimensione svuotata della sua appetibilità. L’io poetante non si fa voce privilegiata della società, ma uomo, e quest’uomo che ne vien fuori, con le sue debolezze e la sua minuta dignità, è ancora più amabile degli smaglianti contesti sociali cui ha un accesso privilegiato: siano essi di cultura elitaria o d’entourage economico. O’Hara accosta la cultura di massa alla tradizione ‘alta’, alla quale fa sparsi ma puntuali riferimenti, non tanto per sminuirla, ma per mettere in luce che tutta la sua cultura mitica la si ritrova più compiutamente nell’incontro con l’uomo comune e non per questo meno affascinante, come nella celeberrima Prendere una coca-cola con te»: «Non starò sempre a piagnucolare / né riderò tutto il tempo, / non mi piace un “motivo più dell’altro. / Avrei l’istantanea di pessimi film, / non solo di quelli barbosi, ma anche del genere / di prima classe delle megaproduzioni. Voglio esser / vivo quantomeno come il volgo. E se qualcuno / appassionato alla mia vita incasinata dice: “Non è roba / da Frank!”, tanto meglio! Io / non mi metto sempre abiti grigi e marroni, / o sbaglio? No. Per l’Opera indosso camicioni da lavoro, / spesso. Avere i piedi scalzi voglio, / voglio un viso ben rasato, e il mio cuore … / non puoi programmare il cuore, ma la sua parte migliore, la mia poesia, è allo scoperto».

La polisemia dei significati non si apparta con l’io, egli si gioca la vita e l’anima scrivendo, («Quanto è successo ed è qui, un / foglio sfregato contro il cuore / e troppo fresco ancora per la cornice»), spende il lauto pasto dell’esperienza, con la cromatura delle note e dei passaggi instaura rapporti duraturi ed estremi, dove la gioia e il dolore, il pranzo e lo sgomento, toccano gli anelli della vita con trasparenza, fruizione temporale, spazi bianchi di cosmo.

La germinazione dei luoghi non viene corretta da regole e imposizioni, bensì è l’incontro aperto e crudo a divenire istinto di vita che si apre («Sono una casa piena di finestre»), come un «luogo vuoto continuamente sostituito da segni, presenze, abitanti imprevedibili» (R.Ferdani).

Nei Lunch Poems (1964), il poeta della città si immerge in New York, con il suo tocco di attrazione e repulsione, e vive il suo slancio di nervi e sangue.

Il rapimento sensuale è un approdo di latitudini, perché «Mangiare e amare, andare a pranzo e andare a letto vivono in questa poesia come i termini della stessa equazione. Amare è sentire il richiamo del pranzo; pranzare è sentire il richiamo dell’amore» (Paolo Fabrizio Iacuzzi).

Il poeta lotta con le sue parole, l’io che mangia se stesso, si separa e si riunifica (Per il capodanno cinese), rumina il torpore della sua infanzia e adolescenza, immerge il suo atto creativo nel reale: «I Lunch poems non sono soltanto il diario dell’io, ma della memoria dei pasti nel corpo, come avviene nel Diario di Pontormo» (P.F. Iacuzzi).

L’attraversamento teatrale diviene epica del quotidiano, ritorno al punto primigenio dell’infanzia orfana e abbandonata (Allen Ginsberg dirà il suo canto a Frank: «Spero tu abbia saziato il tuo amore per l’infanzia / la tua fantasia per la pubertà / il tuo marinaio per punizione sulle ginocchia / la tua bocca per ciuccio»).

La lunga rapsodia della città è una natura che fa folla del suo io, sono le sue poesie-lance, e non solo poesie di pranzo, che egli scaglia nel languore e nel tremito dell’«umidità luminosa», del suono variegato, della luce dei grattacieli, della scomparsa del tempo nelle rifrazioni e movimenti, in una scrittura di terra dinamica e mordace.

La carne, il respiro di una città che vive, irrora l’io con le sue rapide impetuose e il profumo dolce e malinconico delle epifanie. «La New York di O’Hara partecipa all’infinito dinamismo della vita», scrive Roberto Ferdani, «che non è una qualità delle cose ma un flusso che le attraversa e le sospinge. New York è presa e trasformata così come la luce aggraziata è “sospinta” da un grattacielo all’altro. Questa città è una vasta mappa emozionale; è la geoscrittura di un io che scivola attraverso librerie, cinematografi, negozi ed emozioni private. Tutta la città e i suoi abitanti sono presi da un dinamismo straordinario che O’Hara rende attraverso quell’affabulazione che ha ereditato da Whitman».

Un io che non ha paura della cancellazione delicata nel desiderio, dell’incanto che nasconde dolore e perdita, come imprinting nervoso che avvolge impressioni e precisioni lievi, odori e sapori, come l’aspirazione della sua cucina.

Si consegna al poema che dipinge, all’apocalisse che si mette il vestito della festa e non teme, appunto, i vortici dei venti, la fusione delle lontananze e l’evento sensuale delle assenze rubate, degli amori buttati, delle fusioni dei turbini.

È jazz, pittura, sguardo di caffè, alito vitale, la sua cosmogonia che omaggia gli amici (Pollock, Billie Holiday) e consegna la sua realtà vitale delle sue metafore, l’impulso grafico della sintassi, la percezione che si fa carico dell’esistenza, non per annullarsi ma per dire “io” davanti alle estremità della vita, alle profondità del cibo, alle mancanze, come «un bacio. Sensuale, misterioso, allegro, divertente e alcolico. Molto alcolico» (Allen Ginsberg).

 

O’hara F., The Collected Poems of Frank O’Hara, a cura di Donald Allen, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1995.

Id., Lunch poems, Mondadori, Milano 1998.

Id., Jackson Pollock, Abscondita, Milano 2013.  

Bulgheroni M., Chiamatemi Ismaele, Il Saggiatore, Milano 2013.

D’Ugo N., La traduzione di poesia(http://poesia.blog.rainews.it/2011/02/22/la-traduzione-di-poesia-nicola-dugo/)

Ferguson R., In Memory of My Feelings: Frank O’Hara and American Art, University of California Press, Los Angeles 1999.

LeSueur J., Digressions on Some Poems by Frank O’Hara, Farrar, Straus and Giroux, New York 2003.

Shaw L., Frank O’Hara: The Poetics of Coterie, University of Iowa Press, Iowa City 2006.

Smith H., Hyperscapes in the Poetry of Frank O’Hara: Difference, Homosexuality, Topography, Liverpool University Press, Liverpool, 2000.

Le vele di Billy Collins

di Andrea Galgano                                         8 gennaio 2014

poesia contemporanea Le vele di Billy Collins

billy collins

La tensione poetica di Billy Collins (1941), poeta laureato del Congresso degli Stati Uniti nei primi anni 2000, si dispiega in una concretezza visiva che impone altezze d’anima, sollecita slanci e agilità, impone tensioni.

Quando scrisse che scrivere versi è fare «sci d’acqua / sulla superficie di una poesia», come afferma in Introduction to Poetry, egli si attesta sul bordo ruvido e sullo sfioramento agile delle pagine, ma la scrittura è anche «la cartolina illustrata, una poesia sulla vacanza, / che ci costringe a cantare le nostre canzoni in piccole stanze, / o a pesare i nostri sentimenti col bilancino. / Scriviamo sul retro di laghi o cascate, / e aggiungiamo al paesaggio una didascalia convenzionale» (American Sonnet).

Commenta padre Antonio Spadaro:

 «L’occasione per far poesia non è mai in sé elevata né epica. La poesia scaturisce dalla vita ordinaria, dal mondo dischiuso da un dettaglio accolto senza enfasi e retoriche. Qualunque cosa sia – scrive in American Poetrydeve avere / uno stomaco capace di digerire / gomma, carbone, uranio, lune, poesie. Vale per lui l’immagine del granello di sabbia nel quale è possibile, secondo il celebre verso di William Blake, vedere un intero mondo. Si scrive sul retro della realtà, come se si scrivesse su una cartolina. Questo è ciò che ci sembra più tipico della sua poesia: essa parte da un dato concreto, semplice, ordinario, spotless, cioè candido, senza macchia, per aprire questo dato alla ricchezza dell’immaginazione».

La tensione dello sguardo non si ammaina a favore di una semplicistica immersione conoscitiva, bensì sfuma e si bagna nell’ordinario, in cui veleggiare (sailing), come dinanzi a «vaso di peonie / e accanto un  binocolo nero e un fermaglio per i soldi / proprio il tipo di cose che oggi preferiamo, / oggetti che si dispongono quieti su un verso con lettere minuscole».

A vela in solitaria intorno alla stanza (2013) rappresenta il viaggio che diventa, come scrive Franco Nasi, «l’esplorazione di un mondo qualunque, fatto di cose senza importanza, durante il quale il protagonista, un professore universitario di Letteratura, bianco, anglosassone, di formazione cattolica, di origine irlandese, sornionamente seduto nella sua barca a vela, annota gli oggetti del suo soggiorno o trascrive i sogni a occhi aperti che gli capita di fare sfogliando un’enciclopedia. Un diario di bordo redatto in una casetta tranquilla di una periferia borghese, a un’ora di treno da New York».

Gli appunti di Collins, pertanto, inseguono la linea e lo slargo di una nominazione appuntita, in cui la prospettiva trasforma la coltre ordinaria degli oggetti, degli spunti, degli orli o degli angoli, sviluppando quello che lo stesso Nasi chiama acutamente «svolte inattese»: «Qui non ci sono abbazie né affreschi che si sbriciolano o cupole / famose, e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione di re […] Quant’è più bello disporre dei semplici spazi di casa / che sentirsi schiacciato da un pilastro, un arco, una basilica».

Le sue vele scoperchiano un mondo improvviso, che solo apparentemente appare inanimato. Sembra quasi disarcionare l’inerzia, in un vivido paradosso, che se da un lato, richiama la porzione più viva delle cose, dall’altro ama la sfrontatezza delle azioni e delle vicissitudini, come il bonsai che visto da vicino sembra un enorme albero che permette di toccare l’orizzonte e scorgervi persino una balena, con accanto i fiammiferi-zattere («Guardalo dall’ingresso, / e il mondo si dilata e si gonfia. / Il bottone che gli sta accanto / è ora una ruota di perla, / i fiammiferi Minerva sono una zattera, / e la tazza del caffè una cisterna / che raccoglie la stessa pioggia / che bagna le sue piccole zolle di terra scura e muscosa. / […] Il modo in cui si piega verso l’entroterra, / m’invoglia a farmi strada / fino alla cima del suo fogliame spinoso, / a restare attaccato con tutta la forza / e guardare la furia della tempesta marina, / nella speranza che appaia una piccola balena»), oppure sognare di attraversare a piedi l’Atlantico e provare a immaginare come «debba sembrare tutto questo ai pesci là sotto: / il fondo dei miei piedi che appare, scompare», o ancora versarsi un bicchiere di vino al tramonto e accorgersi di non aver toccato mai la voce di anima viva, salvo poi ricordarsi di aver parlato con la tartaruga, incontrata durante una camminata o la sua cagna, alla quale aveva spiegato che non era ancora ora di cena.

In un articolo su “Avvenire” del 10 dicembre 2011, Roberto Mussapi scrive: «I suoi versi non manifestano alcuna pulsione conoscitiva, ascensionale, nessun senso della finitudine, da cui nasce la poesia. […] Per riempire i teatri e ricevere la corona d’alloro, come è riuscito lui, bisogna scrivere una poesia semplice e fruibile. Come? Abbandonando la grande linea del Novecento americano, Eliot, Pound, Hart Crane, Stevens. Cioè abbandonando monumenti di poesia che da americani sono diventati universali: la grande poesia moderna parla elio tese, poiché eliotianamente pratica il “correlativo oggettivo”: parlare di realtà immateriali e atemporali attraverso immagini concrete».

La dilatazione e il rigonfiamento del mondo spesso acquisiscono non solo humour intenso e geniale, ma anche la sovrapposizione di suoni, l’indizio surreale e lo scarto improvviso.

Ecco cosa racconta in Un altro motivo per cui non tengo una pistola in casa: «Il cane dei vicini non smette di abbaiare. / Abbaia sempre lo stesso alto, ritmico abbaio / che abbaia ogni volta che vanno fuori. / Si vede che lo accendono quando escono. / Il cane dei vicini non smette di abbaiare. / chiudo tutte le finestre di casa / e metto una sinfonia di Beethoven al massimo / ma lo sento ancora ovattato sotto la musica, / che abbaia e abbaia e abbaia, / e ora lo vedo seduto nell’orchestra / a testa alta e sicura come se Beethoven / avesse inserito una parte per cane che abbaia. / quando alla fine il disco finisce abbaia ancora, / seduto là, nella sezione degli oboe, abbaia, /  con gli occhi fissi sul direttore che lo / guida con la sua bacchetta /  mentre gli altri musicisti ascoltano in rispettoso / silenzio il famoso assolo per cane che abbia, / coda infinita e causa prima dell’affermarsi / di Beethoven come genio innovativo ».

L’acutezza di Collins ama questa sovrapposizione e dilatazione per scrivere la realtà, nell’arguzia di un wit fruibile intenso, che afferma e sollecita misura e discrezione. Se è vero, come egli sostiene, che «Il candore è nipote dell’ispirazione», il suo tratto è una spoliazione e una continua ripulitura: «[…] non esitare a prendere / per i campi e a sfregare il fondo / dei sassi o a spolverare sui rami più alti / della buia foresta i nidi pieni di uova. / Quando ritroverai la strada di casa / e riporrai spugne e spazzole sotto il lavello / vedrai la luce dell’alba / l’altare immacolato della tua scrivania, / una superficie pulita al centro di un mondo pulito» (Consiglio agli scrittori) o come avviene in Purezza: «Mi tolgo i vestiti e li lascio in un mucchio / come se fossi morto sciogliendomi e il mio lascito fosse solo / una camicia bianca, un paio di pantaloni, e una teiera di tè non più caldo. / Poi mi tolgo la pelle e l’appendo a una sedia. / La sfilo dalle ossa come fosse un vestito di seta. / Lo faccio perché quel che scrivo sia puro, / completamente sciacquato dal carnale, / incontaminato dalle preoccupazioni del corpo. / infine mi tolgo tutti gli organi e li dispongo / su un tavolino accanto alla finestra. / non voglio sentire i loro ritmi antichi / mentre cerco di battere a macchina il mio intimo battito».

La sua spoliazione, pertanto, è un nudo slittamento che insegna a percepire il fitto folto di vita e morte. Scrive Charles Simic: «A un poeta come Billy Collins una poesia offre l’opportunità di distanziarsi dalla “Poesia”. Il mai-visto-prima, il mai-sentito-prima è ciò a cui aspirano i poeti del suo tipo. Essi si affidano al loro senso del comico per difendersi da una retorica d’accatto. Per quel che li riguarda, è meglio sentirsi accusare di fare i buffoni o i matti che non avere la taccia di pappagalli e indossare il costume di una qualche antiquata moda letteraria».

Il vestito di Collins non è una «corda legata a una sedia», come certi critici o professori tentano di fare della poesia, per «torturarla finchè non confessi», colpirla con un tubo di gomma «per tirar fuori che cosa davvero vuol dire», anzi, come avviene in Balistica (2011), la sua tensione originaria mira alla linearità dei bersagli, alla primordialità dei passaggi e degli spazi nuovi, alla voce non sovra strutturata, come approdo, tregua e scandaglio di abisso.

Chiede ai lettori di unirsi a lui per iniziare una fitta sassaiola contro gli insegnanti che domandano cosa stesse cercando di dire il poeta (cita a tal proposito Thomas Hardy e Emily Dickinson imbrigliati nella loro incapacità di dire bene ciò che volessero dire), ma alla fine «noi nella classe di Inglese della terza ora della prof Parker / qui al liceo di Springfield ce la faremo».

La sua poesia mal sopporta questa imbrigliatura, l’interpretazione come sponda di senso. Il suo gesto poetico ama le ospitalità, i transiti aperti del mistero, l’accessibilità che introduce a inattesi spostamenti verso «reami di inscrutabilità, dove ci si può avvicinare alla verità solo con un gesto. Se ogni verso in una poesia fosse chiaro allo stesso modo, saremmo privati delle ambiguità e dei segreti di cui la poesia, da sempre, è stata il mezzo migliore di esplorazione; se ogni verso fosse illeggibile non avremmo terreno su cui stare in piedi, non avremmo un posto da cui guardare il grande enigma al centro delle nostre esistenze».

Ecco il fuoco di Billy Collins che porta in giro la sua voce nel mondo, allontanandola dalla vivisezione dell’anatomista. Il suo microcosmo compare per mettere in scena un proiettile che corre preciso, come quello che ha perforato un libro di un poeta non amato, facendo esplodere le pagine. La pallottola perfora ogni anfratto di carta delle poesie della sua infanzia, fino alla foto dell’autore «attraverso la barba, gli occhiali rotondi, / e quello speciale cappello da poeta che gli piace indossare».

Lo humour serve l’ordinario in una grande arguzia associativa, in cui i connubi della sua arte realizzano teatro e abisso, voce aperta e sintassi accesa, poesia di linee e quadro scrostato.

In una intervista rilasciata a Franco Nasi, al quale si deve il merito di aver fatto sfociare la sua poesia in Italia, Collins ricorda le sue influenze. Dal latino imparato senza particolare attenzione, quando serviva messa e poi risultato essere un’ arcana espressione sensoriale, alle rubriche di bridge delle riviste che hanno scoperchiato in lui un orizzonte e un linguaggio quasi esoterici, che riportano a Stevenson e al Settimo Sigillo di Bergman, persino in frasi come «Sud vince con l’asso del morto, prende l’asso di picche e taglia quadri», infine  ai cartoni animati di Warner Brothers.

La suggestione dell’abisso è la sua coperta apertura di una narrazione scomposta e poi continuamente ricomposta, come la morte di un suo vicino di casa con un figlio, che mescola indirizzi e numeri in una strana pioggia di maniche vuote, «Il peso dei miei abiti, non dei suoi / potrebbe essere appeso nell’oscurità di un armadio oggi».

La sua vocazione diviene segno e fenditura di una rivelazione che svolta nell’esistenza, come scelta dell’essere: «Se mai ci fosse un giorno di primavera così perfetto, / reso ancor più bello da una calda brezza intermittente, / da spingerti a spalancare / tutte le finestre di casa, / e ad aprire la porticina della gabbia del canarino, / anzi, a rimuoverla dallo stipite, / un giorno in cui i vialetti di freschi mattoni / e il giardino che scoppia di peonie / sembrassero incisi nella luce del sole / da farti venir voglia di prendere / un martello per il fermacarte di vetro / del tavolino del salotto / e liberare così gli abitanti / dal cottage coperto di neve / perché possano uscire / tenendosi per mano e ammirare / questa cupola più grande azzurra e bianca, / be’, oggi sarebbe proprio un giorno così» (Oggi).

  

Collins B., Balistica, Fazi, Roma 2011.  

Id.,  A vela in solitaria intorno alla mia stanza, Fazi, Roma 2013.

Antonelli S. (ed.), Ritratti americani. 15 scrittori raccontano gli Stati Uniti, Elleu Multimedia, Roma 2004.

Darlin R., Billy Collins: Sailing alone around the room: New and selected poems, «http://www.expansivepoetryonline.com/journal/rev112001b.html».

D’Orrico A., Billy Collins senza humour non c’è poesia, in “Corriere della Sera”, 25 settembre 2011.

Hilbert E., Wages of fame: The case of Billy Collins «http://www.cprw.com/Hilbert/collins2.htm».

Simic C.,  recensione a A vela in solitaria intorno alla stanza, trad. di P.F. Paolini. in «La rivista dei libri», 11, 2006.

Spadaro A., Nelle vene d’America, Jaca Book, Milano 2013.

La velatura di Vittorio Sereni

di Andrea Galgano                                         30 novembre 2013

poesia contemporanea La velatura di Vittorio Sereni

vittorio-sereni

«Sereni nasce come un ermetico sui generis, che corteggia il racconto esistenziale e non crede nel primato della letteratura sulla vita; è un evocatore di spiriti, ma tiene lontani gli spiritualisti e Freud; s’inventa uno stile magmatico, ma mai avanguardista o espressionista; è un poeta di oggetti concreti, ma al tempo stesso di trasalimenti e indefinibili umori; abbozza affreschi storici, ma malgré lui, perché la storia gli si impone coi contraccolpi che determina nella vita interiore: dà conto della crisi del soggetto, ma non rinuncia a dire «io», oscillando tra polo lirico e prosastico […]; infine, è a suo modo socialista: però si tratta di un socialismo privo delle coperture ideologiche marxiste, che fa tutt’uno con un illuminismo lombardo d’antan aggiornato dall’eclettica fenomenologia di Banfi» (Matteo Marchesini, da «Sereni,  mito esile e prezioso», “Il Sole 24ore”, 27 gennaio 2013).

La poesia e la moralità di Vittorio Sereni (1913-1983) risiedono nella purezza dell’intesa o in quello che Alfonso Berardinelli chiama «attesa ansiosa, nel suo essere sorpreso e strappato a se stesso dalle “visitazioni della poesia”».

Era poeta della guerra, Sereni. Una guerra strappata, vertiginosa e perduta. Ma anche poeta-funzionario editoriale. Egli stesso considerava, infatti, questa professione una espressione di concretezza e di rigore, un lavorìo che parte da lontano, investe l’esilità reticente e il pudore della sua pagina, con l’estremo riserbo di una conversazione che tende via via sempre più al monologo, alla trama della perdita e dell’assenza a bassa voce.

Se in molti videro, in lui,  l’uscita della poesia italiana dall’Ermetismo, egli rappresenta una sorta di enclave poetica, uno spazio vibratile e lirico che canta la terra d’Algeria o espone il suo canto al senso segreto del verso.

Scrive Roberto Mussapi: «La dimensione orizzontale di Sereni, così felice nel suo incanto addolorato per i paesaggi albari e serali, per gli istanti di passaggio che segnano la vita della comunità umana, non esclude una sua esplorazione verticale, in profondità. Semmai la prospettiva si sposta dall’uomo in toto, dalla realtà antropologica, all’uomo Sereni, al poeta che fa della propria cronaca doloroso e luminoso campo di esplorazione della vita. Il dominio del chiaroscuro, della tenuità, la mancanza di visionarietà, generano una poesia misteriosa proprio nella sua nitida leggibilità, tremante e nello stesso rivelante». 

La rivelazione, se da un lato conduce all’agglutinamento espressivo, dall’altro condensa la pagina in una registrazione e in una pressione d’attesa: «Programmare una poesia “figurativa”, narrativa, costruttiva, non significa nulla, specie se in opposizione di ipotesi letteraria a una poesia “astratta”, lirica, d’illuminazione. Significa qualcosa, nello sviluppo d’un lavoro, avvertire un bisogno di figure, di elementi narrativi, di strutture: ritagliarsi un milieu socialmente e storicamente, oltre che geograficamente e persino topograficamente, identificabile, in cui trasporre brani e stimoli di vita emotiva individuale, come su un banco di prova delle risorse segrete e ultime di questa, della loro reale vitalità, della loro effettiva capacità di presa. Produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore… Non abbiamo sempre pensato che ai vertici poesia e narrativa si toccano e che allora, e solo allora, non ha quasi più senso il tenerle distinte?».

La fame di realtà tocca il mondo nei sui punti e nei suoi slarghi, spesso umbratili ed fantasmatici, ma egli, come scrive Daniele Piccini su «Poesia» del settembre 2013, «rimase fedele a quel mondo, per molti aspetti: all’opposizione tra una solarità agognata e il senso di una limitazione oscura e angosciosa (insomma al «cortocircuito fra vitalità e morte costitutivo della poesia sereniana», come si esprime Mengaldo); alla presenza, soprattutto, di una “frontiera”, termine e tema massimamente polisemico».

La vita e la morte in limine, così come lo spazio di percussione tra sogno e veglia, come una peripezia del poeta nello spazio urbano, si appropriano di un punto in movimento che conosce l’esilità fissa della gioia e la dolorosa cronaca della morte, la nullificazione minacciosa e la magia fascinosa dei luoghi.

La partenza e l’arrivo identificano il suo tempo e la concreta esperienza poetica, ossia, come afferma Lanfranco Caretti, «il tempo della lampeggiante chiarezza entro l’aggrovigliato flusso dell’esistenza, nel tempo “presente”».

Il rapporto del tempo presente, pertanto, «porta costantemente in sé il proprio passato: non come ingombro o museo memoriale, bensì come attualità, o per dirla con lui stesso, come una somma di “sostanze, ossia di qualcosa di ben più fondo, ben più inamovibile e inalienabile dei ricordi».

La densità e la complessità del presente illumina porzioni di passato sempre in atto, slanci sperduti, fallite assenze, come «toppe d’inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce».

L’esistenza, quindi, slancia la sua paratia in un recupero patrimoniale di esperienze e visioni che si sovrappongono, le sfumature riprendono il vertice dei suoni per dare vita a un gioco di specularità e iterazione, dissolvenza e ricorrenza.

Nell’esordio poetico Frontiera (1941), il caleidoscopio sereniano declina le sue pitture e i suoi idilli in un’ombra sfacelante (molto simili al Coleridge de La ballata del vecchio marinaio), dove il delineamento di figure incerte che si attardano e il viaggio acquoso (Luino e il suo paesaggio di confine-limbo) percorrono la sua linea d’ombra originaria, che transita solo per dissolversi e scomparire, per abbandonarsi nella luce e nello strazio di un congedo sfasato («La svelata bellezza dell’inverno»). Un tentativo di accordare immagini minacciose e silenti con il sotteso delle rotture e della fissità sfumata, in ciò che Silvio Ramat definisce come «passione trepida di romanzo»: «Un altro ponte / sotto il passo m’incurvi / ove a bandiera e culmini di case / è sospeso il tuo fiato, / città grave […] Maturità di foglie, arco di lago / altro evo mi spieghi lucente, / in una strada senza vento inoltri / la giovinezza che non trova scampo».

La donna-lago, che chiude l’opera, ammalia e nullifica, colloca l’immagine bianca e invernale del tempo in un rapimento inquietante e immobile, in cui la pienezza vivente si sorprende nell’abito mortale dell’inverno e della sua sospensione tacita: «S’imprimeva in me un senso di diffuso biancore, con riflessi metallici, ghiacciati, invernali, quasi avessi a che fare con una metafora dell’inverno; e già questo era fuorviante, quanto più una giustificazione e una caratterizzazione di ordine visivo mi offriva una scappatoia semplicemente sensoriale rispetto alla reale,e fin lì impenetrabile sostanza del testo».

La stessa atmosfera si riscontra in Diario d’Algeria (1947), dove il diarismo culmina nella dolorosa esperienza personale. Catturato a Trapani col suo reparto dagli Angloamericani nel 1943, venne trasferito nell’Africa del Nord nei campi di prigionia di Orano e Casablanca.

È l’esperienza-limite dei fantasmi della Storia, l’essere margine escluso di qualcosa che si svolge altrove, per essere «morto alla guerra e alla pace», sull’orlo indicibile del tempo, sul trabocco metafisico «tra due epoche morte / dentro di noi». Partecipe e inadatto: «Vado a dannarmi e insabbiarmi per anni» o ancora «Ora ogni fronda è muta / compatto il guscio d’oblio / perfetto il cerchio».

Afferma Daniele Piccini: «Sereni, al contrario di Luzi, è il poeta del cimento, della paziente e difficile conquista di un verso, di una scena, di una figura: non procede con la miracolosa facilità che possiamo riconoscere nel fiorentino e, in modo diverso, in Bertolucci, ma con studio, per filtraggi, per condensazioni».

La sua rarefazione è frutto di uno sforzo ed è sempre minacciata dalla paura del silenzio, dell’angoscia di non poter scrivere, da una permanente perplessità. Egli muove da questi limiti interiori, da questi assilli e trova il modo di superarli, anche attraverso una stratificazione di voci e di registri, di suggestioni e di spunti combinati in organismi complessi e sfuggenti».

La sostanziale purezza lirica che si unisce al suo precedente libro fa spazio all’isolamento e all’inazione, al trauma che scocca i suoi segni, alle ferite partecipate. L’essenziale raspamento, che quell’esperienza porta con se, determina un graduale passaggio viandante e poi prigioniero. Il vento, il sole, le nubi sono legati a una dura sostanza corporea, a una geografia incolore, a uno straziato ed esule cromatismo.

Il residuo della vitalità si richiama nei ricordi, quasi salvati, e allo stesso tempo sfumati, perché «la voce più chiara non è più / che un trepestio di pioggia sulle tende». La mancanza, il vuoto, l’isolamento giacciono nel fondo umano la loro immobilità larvale e purgatoriale, «Sereni», scrive Giulia Raboni, «costruisce nella prigionia un guscio protettivo che finisce per rinchiuderlo in una sorta di limbo, non troppo duro da sopportare ma insieme, anche per questo, tanto più colpevolizzante».

Lo scatto e l’affondo distinguono nuove sovrapposizioni, affermando l’esigenza di difendere i tratti degli istanti significativi, per «produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore». È l’esito di una pronuncia nascosta che cerca salvezze antiche, l’io che sceglie in modo privilegiato.  

La trasformazione e l’ampliamento del lessico di Saba e Montale, se da un lato impongono una modernità verso il basso, precipui a un territorio vastissimo, dall’altro contestualizza l’espressione in un movimento preciso e quotidiano, come testimonia Laura Barile nel suo saggio Amore e memoria, ripercorrendo ciò che lo stesso Sereni afferma: «Un istinto incorreggibile mi indusse a riprodurre momenti, a reimmettermi in situazioni trascorse al fine di dar loro seguito, sentirmi vivo […] Perché facilmente una forma di presunta fedeltà alla propria immaginazione si pietrifica nell’inerzia, in una stortura».

La fase di attraversamento nel tempo del dolore e della perdita diviene esperienza vissuta e coltre d’amore: «ama dunque il mio rammemorare / per quanto qui attorno s’impenna sfavilla e si sfa: / è tutto il possibile, è il mare».

La sovrapposizione di piani, pertanto, accende la sua umbratile luminosità, Ancora sulla strada di Zenna testimonia il riflesso di una esclusiva immanenza; Il muro persegue un dialogo notturno con il padre, mentre osserva una partita di calcio davanti al cimitero di Luino («Dice che è carità pelosa, di presagio / del mio prossimo ghiaccio, me lo dice come in gloria / rasserenandosi rasserenandomi / mentre riapro gli occhi e lui si ritira ridendo / – e ancora folleggiano quei ragazzi animosi contro bufera e notte- lo dice con polvere e foglie da tutto il muro / che una sera d’estate è una sera d’estate / e adesso avrà più senso / il canto degli ubriachi dalla parte di Creva»), La spiaggia condensa passaggi epifanici attraverso una conversazione al telefono.

La perlustrazione del vuoto esprime un movimento inconsolabile, il sigillo di qualcosa di inespresso e perduto: «e dopo / dentro una povere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai», o ancora «E quante lagrime e seme vanamente sparso», «Ancora non lo sai / – sibila nel frastuono delle volte / la sibilla, quella / che sempre più ha voglia di morire – / non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?».

Eppure in Sereni permane, afferma Daniele Piccini «struggente e lucida, direi virile, la suggestione di una gioia che si oppone a quelle ombre e che ne è istantanea e non metafisica risposta. […] La compressione dolente, propriamente angosciosa del discorso di Sereni determina il liberarsi di forze in senso contrario, di fioriture fortunose, che non si attentano a rovesciare il discorso, a risolverlo, ma a tenerlo in una drammatica tensione, in una dinamica aperta a più significati, scaturiti dalla frizione e dalla clausura».

Negli Strumenti umani (1965), l’aggressione alla pienezza della prima persona sembra richiamarsi al silenzio, alla sovrapposizione dei gorghi di voce, all’eloquenza e alla moralità, attraverso «un tentativo», come afferma Franco Loi, «di sfuggire al Narciso, di cogliere, attraverso la poesia, “gli strumenti umani”, le “minime” verità della sua vita, “i minimi atti”, e nel tentare questo la moralità traspariva come specchio, rigoroso varco e “tornasole” per la sprezzata-amata, e tuttavia ovunque riemergente, compiacenza dell’Io».

L’estremo sforzo di riallacciarsi alla necessità delle fatiche, degli amori, della storia degli ignoti diventa il riflesso sulla propria condizione precaria e oscura, in quelle «toppe di inesistenza» che culminano come solitari emblemi e punti ciechi di assenza: «I morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe d’inesistenza, calce e cenere / pronte a farsi movimento e luce». L’immanenza trema di gioia, come sperpero di disseminata grazia: «con che fermezza che forza quelle mani / tendevano al sonno gli arbusti / strappati all’ultima riva».

Non esiste, in Sereni, un colore lugubre, né un soprassalto metafisico o una lamentazione, ma la materia del mondo è la sorvegliata misura della morte, che accetta la prigionia in un campo senza cromatismi: «L’anima, quella che diciamo anima e non è / che una fitta di rimorso, / lenta deplorazione sull’ombra dell’addio».

Gli asettici inferni delle fabbriche, l’essere visitatori del mondo, la mimesi del paesaggio toccano il buio della mente, il rumore che si somma per divenire straniero, per credere, come sostiene Mengaldo: «alla funzione rappresentativa anche per altri di una sua particolare esperienza, e della “morale” che ne scaturisce; e in questo senso crede ancora, problematicamente, alla poesia».

Il decorso biografico si appropria dei riflussi, della estrema esiguità di un mito esile: «Siamo passati come passano gli anni, / Altro di noi non c’è qui che lo specimen anzi l’imago / Ma ero / io il trapassante, ero io / perplesso non propriamente amaro».

L’agguato e l’insidia della realtà negativa abita la pagina, come comparsa di lacuna e referto estranei, ma non ammutina la serenità vitale della protezione dell’amicizia, dello scoscio sonoro e del lievito quotidiano, volti a eternare, cristallizzare e conferire la transizione vertiginosa e memorabile del passaggio multiforme dell’esistere: «Niente ha di spavento / la voce che chiama me / dalla strada sotto casa / in un’ora di notte: / è un breve risveglio di vento, una pioggia fuggiasca», oppure «Confabula di te  laggiù qualcuno: / l’ineluttabile a distesa / dei grilli e la stellata / prateria delle tenebre».

La rimarginazione tessuta fino all’osso di Stella variabile (1981) compone il suo referto in una spoliazione estrema: «non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile (/ è il colore del vuoto?».

La trasparenza emorragica dei giorni impone il suo ritardo e il suo rimorso per una mancanza, un’omissione, un ricordo riportato in vita, come aria popolosa. Aveva ragione Fortini, quando scrisse che la poesia di Sereni si muoveva tra indugi elegiaci e scatti di impazienza, quasi a farsi permeare da una crucialità di palcoscenici di varia esistenza e di incertezza.

«Ma da queste situazioni spettrali, prive del risarcimento ideologico che hanno in Montale» sostiene Matteo Marchesini, «Sereni riesce a difendersi. Capita quando intravede un riflesso di quella pienezza vitale che è il suo vero mito. Questa pienezza si rivela nell’amore: ma soprattutto nell’amicizia, e nella grazia dell’efficienza fisica».

Dagli strumenti umani, attraversatori di vita, alla straziata prospettiva stellare, proiettata e dislocata in un ambito memoriale di sogni e trapassi, che trascolora di rinunce, commozioni e stravolgimenti, finisce per «Stringersi / a un fuoco di legna / al gusto morente del pane alla / trasparenza del vino / dove pensosamente si rinfocola / il giorno da poco andato giù / dalle rupi col grido dei pianori / nel vello dei dirupi nel velluto / delle false distanze fin che ci piglia il sonno?».

Il baleno che vive a ridosso della gioia è la stella variabile di un armistizio, verso una memoria che non sfama mai, come il nudo stupore, ricolmo di brivido, verso se stesso, che abbandona e si avvicina alla vita, si sporge dal sogno e dal paesaggio inafferrabile di quel «viandante stupefatto / avventurato nel tempo nebbioso».

 

Sereni v., Poesie e prose, Mondadori, Milano 2013.

Id., Materie prime, in «La Rotonda», Almanacci Luinese 1981, F. Nastro, Luino 1980.  

Aa.Vv., Per Vittorio Sereni. Convegno di poeti, Luino 25-26 maggio 1991, a cura di Dante Isella, All’insegna del Pesce d’oro, Milano 1992.

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Baffoni Licata M.L., La poesia di Vittorio Sereni, Longo, Ravenna 1986. 

Barile l., Amore e memoria. Il rammemorare e il mare di Sereni, «Autografo», vol.V, n.s., n.13, febbraio, 1988.

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Schuerch R., Vittorio Sereni e i messaggi sentimentali, Vallecchi, Firenze 1985.

 

 

 

Walt Whitman e la fecondità dell’essere

di Andrea Galgano                                         20 novembre 2013

Poesia moderna Walt Whitman e la fecondità dell’essere

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H.D. Thoreau scrisse che Walt Whitman (1819-1892) «con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta, per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni», e in questa visionaria tessitura si può scorgere come Whitman, con il suo Foglie d’erba, rappresenti il crinale estremo di un canone che racchiude un popolo in un poema, lo accarezza nelle linee storiche e, infine, lo pronuncia: «Gli americani, di tutti i popoli che sono mai apparsi su questa terra, possiedono forse la natura poetica più piena. Gli Stati Uniti in sé, nella loro essenza, sono il più grande dei poemi. […] Qui finalmente troviamo nell’umano operare qualcosa che risponde all’operare maestoso del giorno e della notte».

La voce di Whitman non si nasconde nella prosopopea retorica, bensì, nelle sfumature profonde, insegue la sua freschezza vitale, come «i poeti del cosmo» che «avanzano attraverso tutte le interferenze, gli occultamenti, i turbamenti e gli stratagemmi verso i primi principi».

La celebrazione scolpita, come forza e abbandono, della materia vivente, l’aspetto numinoso della realtà e la sospensione rappresentano il suo territorio unico, laddove «qualunque possa essere stato nel passato, il vero uso della immaginazione nei tempi moderni è quello che vivifica i fatti, la scienza e la vita comune, dotandoli di quello splendore, quella gloria e quella fama che appartengono a ogni cosa reale, soltanto alle cose reali. Senza questa definitiva vivificazione – che solo il poeta o l’artista può mettere in atto – la realtà sembrerebbe incompleta,e la scienza, la democrazia, la vita stessa alla fine, cosa vana».

Se il suo canto si sofferma sull’abbandono alle forme di «cameratismo», «allegria», «soddisfazione», «speranza», la furiosa scultura del vivente e la calura del suo magma introducono, come scrive Giuseppe Conte: «la pulsante istantaneità della vita nella poesia e nel verso. Il vivo del Tempo, l’immanenza, ciò che di misterioso e palpabile lega l’io all’universo. Se esiste una poesia inafferrabile, del puro presente, quella di Whitman è la migliore del genere».

Nato in un villaggio di Long Island nel 1819, tipografo, carpentiere, giornalista, Whitman ha assaggiato le grandi masse democratiche dell’America, come un grande fiume che trascina forze commiste, nei giorni in cui stava diventando una grande Nazione, da New Orleans a Chicago, fino a New York, passando per il Mississippi, i Grandi Laghi e il fiume Hudson, in un’estatica virulenza fiduciosa, nelle forze dell’uomo, nel canto-bardo universale, come «Adamo nel primo mattino, che usciva di sotto il riparo di fronde, ristorato dal sonno» (Figli d’Adamo).

La felice brillantezza del mattino dell’umano impone la sua purezza senza peccato, racchiude il gemito e l’ardimento di una imprescindibilità valoriale, assoluta e primigenia: «Io dico che l’intera terra e le stelle universe nel cielo esistono per la religione. / Dico che nessun uomo è mai stato abbastanza devoto, neppure la metà del necessario».

È la religione che permette l’unione inclusiva e fulgida dello sforzo umano, nell’ Amore e nella Democrazia: «Noi non consideriamo divine le bibbie e le religioni – e io non dico che non siano divine, / Ma dico che sono nate da voi, e da voi altre volte possono nascere ancora».

La lettura del Vecchio e del Nuovo Testamento, come analizzato acutamente da G.W. Allen, di Shakespeare, di Omero, di Eschilo, del Canto dei Nibelunghi, hanno innalzato il pinnacolo della poesia stuporosa e ampia dell’uomo e del suo definitivo istante, come afferma David Herbert Lawrence: «Senza principio né fine, senza né base né frontone, continua a passar vicino superbamente, come un vento che trascorre senza posa né si può incatenare. Whitman in realtà guardava al prima e al dopo: ma non sospirava per ciò che non è. La chiave di tutto il suo segreto espressivo sta nella stima del momento istantaneo e nient’altro, della vita che si gonfia essa medesima in espressione alla sua reale sorgente».

La feconda prosodia partecipa alla elencazione scandita del mondo. Le novità della scrittura rinomina il mondo in un nuovo parto di energia originaria, come ritmo e pazienza di splendore.  

La poesia è l’Evento del destino, in cui la complicanza, grezza ed entusiasta del suo ritmo panteistico e democratico, apre la sua recitazione.

G.K. Chesterton, soffermandosi sulla «materia per poetare misticamente» che valorizza l’umano in Whitman, in L’umanesimo è una religione? scrive: «Ciò che apprezzavo era quella proposta di una nuova eguaglianza, che non consisteva in uno squallido livellamento, ma in un entusiastico guardare in alto; un grido di gioia sul semplice fatto che gli uomini erano uomini. […] ognuno di essi possedeva quella maestà e quella mistica propria degli dei, pur essendo nello stesso tempo franco e confortante amico», e continuando afferma che «La gloria apparteneva agli uomini in quanto tali; il culto comune andava cercato nell’amicizia e anche la persona meno importante deve poter far parte di questa fratellanza; un negro gobbo mezzo scemo, orbo da un occhio e con tendenze omicide, deve anche lui avere la sua aureola dorata e illuminata».

La poesia che abbraccia, esonda, diviene coraggiosa, che guarda alla gente comune, all’interezza di un popolo, fatta di falegnami, boscaioli, calzolai, diviene immagini di un grido barbarico fresco e spontaneo: «Io canto il sé, la semplice singola persona, / E tuttavia pronuncio la parola Democratico, la parola En masse».

Commenta Giuseppe Conte: «C’è un che di fluido, organico, tempestoso, innocente, progettante, esclamativo in lui, un’enfasi, una volontà predicatoria, un pioneristico respiro vitale, una corporeità selvatica che fonda una saldissima, idealistica fede nella democrazia, una visione attiva del mondo e del linguaggio, […] la poesia di Whitman si pone da un lato come forza eversiva, energia che libera energie, pratica che scardina il conformismo di ogni ordine, dall’altro come canto che celebra, glorifica il presente, la realtà nei suoi aspetti ora minimi, un filo d’erba che nasce, ora solenni, un eroe che cade».

È nel popolo che la Musa trova dimora, il luogo oltre tempo dove esaltare la presentificazione del reale e radicarla in esso, parlando a chiunque: «Ecco, io ti presento, qui oggi, o Musa, / Le occupazioni tutte, i doveri grandi e modesti, / Il lavoro, il sano lavoro e il sudore infiniti, incessanti».

La semplicità gioiosa si affaccia allo spirito del Paese, per «esprimersi letterariamente con la perfetta rettitudine e insouciance dei movimenti degli animali e l’incontestabilità del sentimento degli alberi nei boschi e dell’erba ai margini delle strade».

Ecco la vastità dell’io che tocca il mondo, la sua avventura, la sua dilatazione ricettiva: «Dentro me le latitudini si ampliano, le longitudini si allungano», per essere «Una snella nave che gonfia le vele, piena di ricche parole, piena di gioie» e dove inalare, aspirare con avidità «lunghi sorsi di spazio, / l’est e l’ovest sono miei e il nord e il sud sono miei, / Più grande, migliore son io di quello che pensassi, / Io non sapevo di avere in me tanta bontà. / Tutto mi sembra bello».

La fulgida corrispondenza tra corpo e io, nazione a terra, compone il suo gemito: «Fate che possa contenere tutti i suoni (io grido come un folle) / Riempitemi di tutte le voci dell’universo, / datemi i loro palpiti, anche quelli della Natura, / E le tempeste, le acque, i venti, le opere e i cori, le marce e le danze, / Cantateli, versateli in me, perché io tutto vorrei contenere».

Commenta padre Antonio Spadaro: «Le visioni whitmaniane mai si fermano ad una tensione visiva astratta o vagamente fantasiosa perché il poeta si fa subito veggente del concreto e del reale. Dunque lo appassionano non solo la natura, i suoi campi aperti, le tempeste, le montagne e il mare, ma anche «l’opera dell’uomo» che ”è egualmente grande nell’artificiale – in questa profusione di brulicante umanità – in queste prove di ingegnosità, strade, merci, case, navi – queste frettolose, febbrili, elettriche, masse d’uomini”».

L’ebrietudine della pienezza soffia sulle strade, sulle linee compiute e infinite, sui lacci che sfiorano gli spazi: «Su, anima, non scorgi tu subito lo scopo di Dio? / Che la terra è percorsa e congiunta da reti di strade e di ferro, / Le razze, i vicini sono congiunti perché si sposino e siano sposati, / Gli oceani sono attraversati per avvicinare chi è distante, / E per cucire insieme le terre». La maestà della vita e la maestà del reale in un unico vertice di vertigini esplose.

La pulsazione, la potenza, la passione congiungono la loro visione metaforica, finendo per cogliere il «filo che connette le stelle, gli uteri e il seme paterno» e, come commenta ancora Conte, «per questa visione, tutto è divino, il poeta è divino dentro e fuori di sé, e così santifica tutto ciò che tocca, ed è santificato da ciò che lo tocca».

Il respiro di Whitman cerca la inaugurale vibrazione, la vorace estasi, l’incarnazione della cosa pensata, come barbarico battito dispiegato che insegue la chiarezza materica, la fragranza che sboccia, per giungere, come commenta Spadaro, «alla natura vera delle cose, per vedere le cose con occhi vergini»: «Tutte le verità attendono in tutte le cose, / Esse né affrettano la propria liberazione, né resistono, / Non richiedono il forcipe dell’ostetrico: / L’insignificante è così grande per me, come ogni altra cosa».

Scrive Harold Bloom: «Whitman divideva se stesso (o riconosceva se stesso come diviso) in «my self», «my soul», e «real Me» non è per nulla un Es. […] Questo «Me myself» non è esattamente «bramoso, grezzo, mistico, nudo» e nemmeno «turbolento, carnale, sensuale, che mangia, che beve e procrea». Aggraziato e in disparte, assolutamente equilibrato, affascinante oltre misura, questo strano «real Me» è maschile e femminile, molto americano per quanto non rude, stimolante e in accordo con se stesso. Qualunque cosa sia l’anima di Whitman, questo «Me myself» non può evidentemente avere con essa alcuna relazione egualitaria». Quando l’ «Io» di Whitman si rivolge all’anima, sentiamo un avvertimento».

La sua catalogazione è la declamazione dell’essere, pensato, ricreato, innovato, persino guardato con sfrontatezza, come un cosmo dilatato che si presenta. La maschera del suo io ideale che fronteggia il suo io reale e vero. È in se stesso che ogni uomo è tutto: «Walt Whitman, americano, uno dei duri, un kosmos / turbolento, fatto di carne e ossa», perché ciò che costituisce la sua idealità «non costituisce il mio Io. Ciò che io sono in disparte sta da quanto mi attira e trascina, / Se ne sta divertito, compiacente, compassionevole, inattivo, in se conchiuso, / Guarda dall’alto in basso, eretto, o piega il braccio su un punto di impalpabile quiete, / Guarda col capo reclinato, curioso di ciò che accadrà, / Partecipe e fuori del gioco, osserva e stupisce».

Lo stupore conosce. Cosicchè «Deluso, respinto, piegato a terra / Oppresso da me stesso, che ho osato aprir bocca, / Conscio ora che tra tante vane parole, i cui echi ricadono su me, non ho mai avuto la minima idea di chi o che cosa io sia, / Ma che di fronte a tutte le mie arroganti poesie il mio vero Io resta intatto, inespresso, tuttora inattinto, / e, ritiratosi lontano, mi irride con beffarde congratulazioni e inchini, / Con scrosci di lontane risate ironiche per ogni parola che ho scritto, / in silenzio indicando questi canti, e poi la sabbia che m’è sotto i piedi, / m’avvedo che non ho mai nulla capito, neppure una cosa, e che nessuno vi riesce, / La natura, qui, in vista del mare, approfittando di me per scagliarsi su me e ferirmi, / Perché ho avuto l’audacia d’aprir bocca e cantare».

Il prodigioso vortice dell’essere si attesta in una radicale novità originaria che esalta l’individuo, il singolo, ma anche la massa e l’eguaglianza, per essere una istintiva e ubertosa libertà, farsi natura, concepire la vitalità come prodromo di desiderio, allegoria sognante di abbagli, larga e piena di moltitudini.

L’esperienza della guerra civile rappresenta la trama ferita di una stagione che apre il sentiero della fatalità e del mistero inesplicabili, ma che scoperchia anche una pietà intensa, visiva, sofferente, persino scolpita, come avviene nella cristica morte di un giovane.

Quasi un vagito che cambia prospettiva: «Dovrò dunque mutare i miei canti trionfali? Mi chiesi, / dovrò imparare a cantare le fredde nenie dei vinti? / e i cupi inni degli sconfitti?».

Oppure geme nella preghiera sofferta di affidamento e di bacio, come tempio di anima navigante che percepisce il nome delle onde lontane: «Prossima è la mia fine, / le nubi già si serrano su me, / il viaggio è contrastato, dubbio, smarrito il corso, / i miei vascelli ecco li affido a Te. / Le mani, le mie membra son divenute inerti, / Il mio cervello, sotto le torture si smarrisce, / si sfasci pure la vecchia mia carcassa, io non mi sfascio, / Mi stringo stretto a Te, mio Dio, mi colpiscano pure le onde, / Te, Te almeno so».

Una foglia d’erba non è meno di un giorno di lavoro di tutte le stelle.

 

whitman W., Foglie d’erba, a cura di Giuseppe Conte, Mondadori, Milano 1991.  

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Il dettato amoroso di Edmund Spenser

di Andrea Galgano                                         20 ottobre 2013

Poesia moderna

pdf 96 (23) 20 10 2013 IL DETTATO AMOROSO DI EDMUND SPENSER

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Edmund Spenser (1552-1599) rappresenta una traccia ambiziosa nell’epoca elisabettiana. Di lui si è detto che fosse “il nuovo poeta” o “il poeta dei poeti”, secondo le definizioni di epoca romantica, ma, sicuramente, fu colui che meglio incarnò lo spirito della sua epoca e che riuscì a fondere le diverse anime della letteratura a lui coeva, nell’alto esempio di scrittura, nel fitto fondo petrarchesco e nel suo discorso d’amore che si attesta sulle prossimità ultime.

Nonostante la controversa, per molti aspetti, carriera politica, segnata dalla fedeltà al trono d’Inghilterra e dalla vicinanza a lord Arthur Gray, responsabile dell’eccidio di seimila cattolici, la sua vocazione fu preminentemente poetica, al servizio della forma e dell’espressione. Essere “poeta dei poeti” significa percorrere non solo la tradizione (Chaucer e le sue possibilità dialogiche, oltre che Petrarca), ma anche definire la soglia di visione di autori che a lui e alle sue famose stanze (un’ottava ariostesca con un alessandrino finale) hanno guardato, come Keats, Shelley, Byron, fino a Tennyson.

La sua Faerie Queene rappresenta la prima visione epica che l’Inghilterra abbia avuto, come programmatica, visionaria e irriducibile celebrazione della Vergine che veglia sull’Impero britannico, e un omaggio eroico alla Corona sulla scorta dell’Eneide. «è un poema cavalleresco», scrive Luca Manini, perché i suoi protagonisti sono cavalieri erranti che si muovono in un territorio indefinito, a tratti coincidente con l’antica Bretagna, e in cui il tempo e lo spazio rispondono a istanze fantastiche».

Doveva includere dodici libri, ma ne riuscì a scrivere solo sei e un settimo incompiuto. Dodici come le virtù aristoteliche (Santità, Temperanza, Castità, Amicizia, Giustizia, Cortesia), canonizzate cristianamente da San Tommaso d’Aquino. Ogni libro è suddiviso in dodici canti e, recuperando l’impianto virgiliano attraverso l’exemplum e l’iniziazione di un gentiluomo alla gentile disciplina, testimonia l’ascensione al trono della regina. Protagoniste, pertanto sono, una principessa cristiana che si chiama Una e la sua avversaria, Duessa. Attorno a loro una schiera di più di duecento personaggi, sotto il comando, da una parte del negromante Arcimago e dall’altra, del Cavaliere della Rossa Croce che affronta e sconfigge Errore, dalle cui viscere oltre a «rane ributtanti e rospi senza occhi», contiene anche libri e documenti. In alto, la regina Gloriana, sovrana di virtù e specchio morale, che abita nella Terra Fatata e che si aggira nel poema come una sorta di sfondo menzionato in dissolvenza.

E, infatti, lo scopo del poema, come scrive Spenser, è quello di «formare un gentiluomo o una persona nobile nella disciplina della virtù», come forma in divenire, come erranza di un mondo caduto inafferrabile e ininterpretabile, come, ad esempio, avviene nell’immagine di Arthegall: «E subito le fu porto allo sguardo un bel cavaliere, armato di tutto punto, con la scintillante visiera sollevata, sotto la quale appariva un volto virile, che faceva tremare i nemici e invitava gli amici a stringere con lui tranquille tregue; era pari al volto di Febo quando questi, ad oriente, si leva tra due ombrose montagne; era pieno di dignità nella persona, e ancor di più lo pareva per la grazia eroica e il portamento fiero. Sul cimiero aveva un segugio accucciato, e l’armatura sembrava di foggia antica, straordinariamente solida e massiccia, tutta tempestata d’oro; v’era scritto, in lettere antiche: Le armi di Achille che Arthegall a sé vinse. Sullo scudo dai sette strati portava un piccolo ermellino incoronato, che, con la candida pelliccia, risaltava sul campo azzurro».

La descrizione delle scene, filtrate attraverso la finzione storica e il riflesso, come in questo caso, porta al dettato poetico una struttura armonica e musicale di realtà e di ombra, che fa di quest’opera un grande orizzonte epico, in un flusso senza fine e in una prospettiva di meraviglia e varietà. Basti pensare alle storie meravigliose di Belfebe e di Amoretta, all’amore di Florimell per Marinell o ancora al matrimonio del Tamigi e del Medway.

Afferma Thomas P. Roche, jr: «è mia congettura che Spenser vide nelle oscillazioni della storia tra Elisabetta e Leicester la possibilità di un poema epico inglese che ancora non era stato scritto, con Elisabetta come Gloriana e Leicester come Artù. Sarebbe stata un’ottima mossa politica ed economica, e sarebbe stato completato prima che Elisabetta e Leicester fossero regina e re. Ma, naturalmente, le cose non andarono così».

Il passato mitico e il presente tendono ad unirsi in una unità fiabesca che mira a una funzione storica, per accreditare la piena veridicità della vicenda arturiana. Gli autori che lo hanno preceduto condensano, nella loro arte, la storia e la via di Spenser, attraverso le deviazioni, e il complesso impianto strutturale, il gesto sovraccarico di emblemi e arazzi, si spinge alla creazione di un poema cavalleresco, in cui i cavalieri, britannici e fatati, abitano il tempo irreale e immaginifico dello spazio, come epica trasmutata, percussione eroica e cristiana e lotta.

Scrive Luca Manini: «Spenser è l’osservatore consapevole della varietà infinita delle vicende umane, della natura come inesausta generatrice, del passaggio inevitabile, e irrefrenabile, dalla generazione al decadimento e alla sparizione; è il poeta della transitorietà delle umane cose, delle virgiliane lacrimae rerum, dell’incerto confine tra essere e apparire, della maschera e della metamorfosi; è l’artista sorretto da un mai esaurito anelito alla stabilità delle cose, stabilità impossibile qui, sulla terra,e possibile solo in una dimensione ultraterrena; e se passiamo a chiederci cosa affascinò Spenser nei poemi di Ariosto e Tasso, dobbiamo dare risposte diverse […]».

Il finto disordine ariostesco, se da un lato non permette una unidirezionalità di visione, dall’altro impone una netta partecipazione alla creaturalità, al suo limite indicibile, all’inseguimento del suo compimento e allo spostamento della piena realizzazione della sua sfuggente e inafferrabile felicità.

La precarietà umana abita il mondo ariostesco come tematica di rapporto e acuto stridore di stabilità, dai comportamenti, ai gesti, ai codici, fino alla frattura e al contrasto dell’ideale e perfetto mondo cavalleresco e la realtà mutevole del presente.

Il pieno ordine tassiano richiamava, invece, alla «storia della nascita dell’unità» (specie nel rapporto conflittuale tra l’Uno, Sommo Bene, e la mutevolezza del creato, in Spenser quasi una ferita), alla discreta ed evidente linea narrativa, con le strutture logiche, teleologiche e, non ultime, teologiche, la coincidentia oppositorum, e la fede come riconoscimento di una presenza che svela e “fa” il mondo: il Cavaliere della Rossa Croce (san Giorgio d’Inghilterra) che, come Goffredo combatte per liberare Gerusalemme, si muove per liberare la terra di Una da un drago demoniaco, finendo, dopo incidenti erranze, per liberare i genitori di Una o Sir Guyon che tenta di distruggere il Giardino del Piacere, quasi alciniano archetipo di Circe, dove vive Acrasia, la maga lussuriosa contenuta nel fato potente della sua bellezza e simbolo dell’intemperanza o Arthegall che libera il regno di Irena dal gigante Grantorto, compongono il sentiero di una redenta e finale meta, approdo che disegna ed è funzionale al disegno simbolico, narrativo ed allegorico del poema.

L’allegoria continua che permane, come accostamento di temi e di stile, e la volontà di rendere esemplare ogni episodio, invita il lettore a prender coscienza di un atto poetico che possa formare, educare e infine scuotere nell’intimo: «Io sono l’uomo la cui Musa, un tempo, indossò, come il momento le dettava, le umili vesti di un pastore, e al quale ora è imposto un compito che non sento mio: mutare le zampogne in trombe severe e cantare le nobili gesta di cavalieri e dame; troppo a lungo, nel silenzio, ha dormito la loro fama, e ora la sacra Musa invita me, che non ne sono degno, a diffonderla tra i suoi seguaci; guerre feroci e fedeli amori saranno materia e esempio del mio canto».

Commenta Manini: «Come in Ariosto, Spenser unisce le lezioni marziali del ciclo carolingio con l’amore del ciclo arturiano, ma egli qualifica gli amori di cui canterà con l’aggettivo “fedeli”,e, nel nono verso che aggiunge all’ottava italiana, usa il verbo moralize, ovvero rendere morale ed esemplare le storie che narrerà, introducendo un piano assente in Ariosto, e sottolineando la propria volontà di trasmettere, mediante la composizione del poema, un messaggio chiaramente diretto all’educazione del lettore».

L’erranza dei cavalieri, i quali deviano la loro rotta in spazi angusti e labirintici (foreste, imi, caverne, spelonche) e vittime di peccati ed errori, tende sempre a una finale ricostituzione unitaria e singola di redenzione ed elezione, in una lotta strenua ed estrema che unisce integrità fisica e integrità morale.

Nel canto III del libro VI, il protagonista Calidore, modello di cortesia, finisce per trovarsi in un luogo pastorale, deviando dal suo compito che è quello di distruggere la Bestia Berciante (Blatant Beast), vera allegoria della calunnia, che un giorno si libererà, pervertendo di nuovo la verità, creando, nuovamente, disordine, disomogeneità e degenerazione. Nella contrapposizione e caratterizzazione positive e negative di vita attiva e contemplativa, egli si arrampica sul monte Acidale, sacro a Venere, dove assiste, non visto, alla danza delle ninfe accompagnate dal pifferaio Colin Clout, (controfigura e alter ego di Spenser). Appena uscito dal nascondiglio, Calidore interrompe l’incantesimo, mettendo in fuga le damigelle.

Colina dice all’eroe che le tre donne che compongono il cerchio, circondate dalle fanciulle, sono le tre Grazie, le quali porgono doni per il corpo e la mente (offrire, accettare e infine restituire i benefici), mentre la donna al centro del cerchio simboleggia l’Amore, in una sorta di quadratura armonica e cosmica, richiamata dalla poesia. Ecco la trama di Spenser che riluce nei contrasti: il dicibile e l’indicibile, l’informe o il difforme che alla forma piena, lo smisurato alla contorsione malvagia.

L’uomo ha il compito, pertanto, di leggere il mondo, osservarlo, guardarlo, indagarlo e rivelando la propria lettura, può giudicarlo. Ogni evento, stratificato e complesso, ama svelarsi in una fantasia data, impastata con il reale, fucinata in forme sempre nuove.

In Spenser, sembra non affermarsi l’ironia ariostesca, anzi, la precisa linearità della sua espressione conferisce una serietà continuata e dottrinaria e una moralizzazione estesa.

La sequela ad Ariosto e Tasso permette di affermare, con maggiore vigoria, l’impeto dell’ambiguità immaginifica. L’immagine è lo specchio della sua anima, apparentemente artificiosa, ma intimo richiamo e sentiero di una tensione che non si risolve nel concetto, ma lo amplia e lo fa vivere, mettendosi al suo servizio, come colore della parola e delizia di stanza, evocatrici di emblemi e simboli. L’inganno di Duessa ai danni del Cavaliere della Rossa Croce si incastona in un groviglio di dubbi, spiriti e false immagini, come quando egli si imbatte in un albero nel quale vive lo spirito di Fradubbio, il quale narra del suo abbaglio dinanzi all’apparenza splendente della maga e di come lei lo abbia poi tramutato in albero, dopo essersi reso conto della verità. Il cavaliere segue il racconto di Fradubbio e Duessa, come signum della sua erranza cieca, del suo asservimento sensuale e della mancata distinzione, mescolata e non cosciente, tra falso e reale, dal momento in cui egli ha abbandonato Una, la Verità, e si è abbandonato ai piaceri di una donna duplice.

Ma la salvezza non appartiene alla singola volontà dei personaggi, bensì a qualcosa di superiore che è in grado di ridare vita e fortezza di spirito, come purificazione redentrice e nuovo battesimo.

In aggiunta alla formidabile proliferazione di vicende e intrico di personaggi fanno la loro comparsa i Mutability Cantos (1609), i canti della fuggevole e negativa Mutevolezza «che esige d’esser sovrana degli dei e degli uomini», ma alla quale non appartiene la consistenza ontologica, costretta ad appoggiarsi al suo contrario come presupposto.

Luca Manini, facendo riferimento al passaggio della Mutevolezza e all’episodio di Una che cavalca assieme al cavaliere della Rossa Croce (Asinus portans mysteria), scorge una stretta vicinanza alla Cabala del cavallo pegaseo di Giordano Bruno e afferma che però: «Al di là di queste suggestioni, però, ampio resta il divario tra la visione cosmologica e teleologica di Bruno e di Spenser, né Spenser avrebbe potuto fare propria l’idea di una natura e di un universo che fossero uno e infinito; per lui, la visione del mondo naturale della caducità e della peribilità si accompagna alla credenza di un perfetto e immobile (e distinto) mondo divino, meta finale dell’uomo».

Nel transito e nelle soste dei canti, Spenser compone la sua umanità in cerca di verità. Mai arresa impara a convivere con il limite, la caduta, il peccato e l’errore, ridisegnando, nella prospettiva del mondo incaduto, la sua coltre immobile che sosta, in una eterna attesa e promessa, fino alla visione dell’eterno bene.

Gli Amoretti, una raccolta di 89 sonetti dedicati a Elizabeth Boyle sua seconda moglie, rappresentano un canzoniere cristallino e netto allo stesso tempo, che vive di giustapposizioni ed echi precisi, non solo nella dicitura del nome Elizabeth, facilmente sovrapponibile, ma anche nella ipostasi amorosa, vista nella parabola non finita e cadenzata del ritmo delle stagioni.

Il dettato amoroso di Spenser, tende ad allontanarsi dalla secreta ironia di Astrophil and Stella di Sidney, giungendo, attraverso i suoi cupidi verbali, a una liquidità armonica e corposa, attraverso un personale intreccio di sostanza vissuta e trama del mondo («the lesson that the Lord us taught») e fusione di agape ed eros.

La caducità delle cose non tocca l’amore e la fama, perché esse sembrano proporre una meta immortale ed infinita. L’amore che guarda l’intensità del suo teatro, che nella sua innata fragilità sospesa, come l’arte, si fa terreno quando aspira al cielo, come unione acuta e imperitura.

Elizabeth rappresenta l’esito di una fusione ideale e carnale, come Stella polare di una firmamento acceso, in cui egli «parla di lei non a lei» (Giorgio Melchiori) e molto vicina all’eco del Cantico dei Cantici, si appropria del passaggio sensuale della verità, come fulgore e risveglio del tempo: «Venendo a baciare le sue labbra (tale grazia ho trovato) / mi sembrava di sentire l’odore di un giardino di dolci fiori».

Il suo io vive attraverso la voce dell’amata, in un dialogo di anime che si impregnano del verso fluido e armonioso dell’esistenza, come incanto e la delizia, marriage poem che abbraccia la realtà e che passa nella cruna del frammento e della riconciliazione. L’io si salva perché ama e anticipa l’eternità, con il suo movimento di archi sottesi: «Io scrissi, un giorno, il suo nome sulla spiaggia / ma vennero le onde a cancellarlo; / lo scrissi di nuovo, con l’altra mano; / ma vanne la marea a depredare le mie fatiche. “Uomo sciocco – mi disse Lei – che tenti invano / d’immortalare una cosa mortale: / poiché io stessa perirò allo stesso modo, / e persino il mio nome sarà cancellato”. “No – risposi – lascia che siano le cose meschine / a morire e farsi polvere; tu che invece vivrai nella gloria: / i miei versi terneranno le tue rare virtù / e scriveranno nei cieli il tuo nome glorioso. / E nei cieli, mentre la morte abbatterà il mondo intero, / vivrà il nostro amore, rinnovano un’altra vita».

Il canzoniere ha calma torrenziale e intimo prodigio. Conosce la bellezza sovrana e la rapsodia delle figure, la pace e la pena di un unico sospiro, di un unico bisbiglio donato alle porte del tempo.

 

spenser e., La regina delle fate, a cura di Luca Mainini, Bompiani, Milano 2012.

id., Amoretti, La Vita Felice, Milano 2003.

bertinetti p., Storia della Letteratura inglese. Dalle origini al Settecento, vol.I, Einaudi, Torino 2000.

manini l., Dal caos al cosmos: il canzoniere di Edmund Spenser, Bulzoni, Roma 2006.

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Andrea Galgano 20-10-2013 Il dettato amoroso di Edmund Spenser

Ausonio,Claudiano,Rutilio Namaziano: La vela obliqua della latinità

di Andrea Galgano                                         12 ottobre 2013

Poesia Latina

pdf Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano: La vela obliqua della latinità

Ausonius

Le corti imperiali della seconda metà del IV secolo portano il nido di una interessante produzione poetica. La presenza di un pubblico importante e colto, la possibilità di una intensa carriera poetica dopo un carme ben composto, l’interesse suscitato dall’imperatore e dalla sua famiglia che nella pagina degli autori potevano diffondere la loro ideologia soprattutto ai ceti dominanti, rappresentavano, per i poeti e gli scrittori del tempo, una decisiva visibilità espressiva.

Uomini di ogni estrazione, dall’otium dei ricchi signori, fino a rispettabili maestri di scuola o uomini viandanti, componevano in modo variegato, intrisi di tradizione e vicinanza ai classici e fermi nell’immagine di Augusto, imperatore illuminato e uomo di pace.

Decimo Magno Ausonio (Burdigala, odierna Bordeaux, ca. 310- dopo il 393), insegnante di retorica prima a Tolosa e poi nella città di origine per trent’anni, amico e corrispondente di Simmaco, fu il più celebre tra i grammatici di Gallia, percorse una splendida carriera di onori.

Fu chiamato nel 365 dall’imperatore Valentiniano I alla corte di Treviri come precettore di Graziano che, quando fu imperatore, lo volle questore del palazzo imperiale, prefetto per Gallia, Italia e Africa, e console per l’anno 379. Morto Graziano nel 383, si ritirò nella sua città. L’imperatore Teodosio (379-395) lo considerava al pari dei grandi letterati dell’età augustea, chiamandolo parens (padre).

Scrive Luca Canali: «Intanto il Cristianesimo pervadeva la società, entrava nelle corti, conquistava gli imperatori, ma con ciò stesso si snaturava, diveniva lassista, a volte si corrompeva, perdeva lo slancio evangelico, si faceva opzione opportunistica per la carriera, o peggio, come scrisse impietosamente Salviano, il retore gallico fattosi poi monaco rigorista, si abbrutiva in «ricettacolo di tutti i vizi», «contro i quali ci si scaglia in pubblico per poi praticarli in privato». All’interno del cristianesimo la crisi morale – prima ancora di quella teologica e intellettuale delle eresie – spinge al monachesimo ascetico “grandi intellettuali” come Paolino da Nola, che ripudierà l’intera sua formazione culturale classica, mentre san Girolamo continuerà a coltivare la tradizione letteraria latina ma sentendosi dolorosamente “diviso” fra Cristo e Cicerone»

L’anima cristiana di Ausonio era imbevuta di ispirazione profana. La sua abbondantissima produzione, dai Versus Paschales, chiusa degli Epigrammi, fino all’Ephemeris, ai Parentalia, all’artificio del Technopaegnion, alle sofferenze d’amore del Cupido cruciatus o alla Bissula e alla Mosella, e la tensione poetica verso la tradizione, a lui precedente, rappresentano lo sfondo di una intensa ispirazione, concentrata sul lavorio verbale e sulla polimetria, che danno vita a un accentuato e un virtuosistico sperimentalismo di carte affastellate.

La transizione tra il mondo antico e quello tardo medioevale, già percorso dai barbari, segna in lui un vortice prezioso e debole, il limite del vissuto che, però, ha sempre bisogno di riflettersi in sfoggio retorico, misura, spregiudicatezza.

L’originalità del suo gesto, ricolmo di interessanti forme grafiche, assume su di sé il domino della lingua, l’originalità dell’espediente che scoperchia la tradizione, per assumere freschezza di ombre e ambiguità di apparenze.

Bissula è il nome privato e intimo dell’amore, «forse la prima figura germanica vista da vicino, senza deformazioni prospettiche», come scrive Francesco Arnaldi, che si unisce all’amore «per i suoi e per la sua terra fanno di Ausonio un romantico provinciale, in cui, se è vano cercare una grande arte, il lettore attento può sempre trovare una vena di sentimento poetico. Di fronte a questo, merita appena d’essere rilevato il fatto che dalle svariatissime produzioni poetiche di Ausonio, noi possiamo farci una chiara idea delle opere dei neoterici, poeti latini del sec. II che amavano dire di ogni argomento in versi rari. E se c’è nell’ammirazione per Ausonio dei suoi protettori e nel suo cattedratico orgoglio molta ingenuità da Medioevo, noi oggi possiamo, pur sorridendo, comprendere quell’entusiasmo».

Uno schizzo, un bozzetto e un invito a decretarne la bellezza, l’incarnazione racchiusa di un volto che si apre e si svela: «Né cera né colore possono rappresentare il volto di Bissula / la sua nativa bellezza non si presta agli artifici della pittura. / Vermiglio e bianco possono riprodurre altre fanciulle: / la mano del pittore non conosce la proporzione giusta dei toni per rendere il volto. E dunque, pittore, / mescola alla porpora della rosa una vena di giglio, / e quel chiaro color d’ari che ne verrà, quello sia il colore del suo viso».

Ma è nel poemetto Mosella (satura odeporica, epibaterion, encomio, epillio o idillio, ecfrasis?) che Ausonio offre la sua visione narrativa e descrittiva: «egli sa giocare come pochi con le ombre capovolte, con i riflessi trascoloranti degli alberi nelle acque dei fiumi, con le brevi e rapide composizioni sui sessi incerti o doppi e incompleti nella loro castrante duplicità, gli innamoramenti impossibili e mortali, le disperazioni inconsolabili risolte in autodistruzioni liberatorie». Il grande fiume che nasce sui Vosgi, si getta nel Reno e sulle cui rive si sporgeva la capitale Treviri (Trier) è un transito di freschezza, in cui il paesaggio arioso e libero, dove Satiri e Ninfe abbandonano il loro corpo alla danza tattile nella canicola solitaria.

Pur nella abbondante misura retorica, l’ispirazione è levità che si poggia sulla limpidità, sulla pienezza dei vigneti e dei declivi e sull’ariosità del cielo.

Aveva trascorso molti anni a Treviri, lì aveva svolto la funzione di precettore al figlio dell’imperatore Valentiniano e alla Mosella porge il suo canto mai sfiorito, come passo di danza inattesa e dipinto di suono: «Salve, o fiume elogiato per i campi che ti costeggiano / lodato per i tuoi coloni; / a te i Belgi sono debitori delle mura degne della sede imperiale, / i cui colli sono coltivati a vigneti dal succo fragrante, / o fiume verdissimo che scorri fra le rive erbose! (vv.23-26).

I riflessi sono ombre ricolme e piene: «quando il glauco fiume riflette l’ombra dei colli e sembra / che le sue acque frondeggino e nella corrente siano piantati tralci di vite. / Quale colore nei flutti quando Vespero sospinge le sue tarde / ombre e soffonde la Mosella del verde dei monti! / Gli interi gioghi nuotano negli increspati movimenti dell’acqua / trema l’immagine dei pampini e i grappoli sembrano più turgidi / nelle vitree onde. / l’illuso battelliere conta le verdi viti, / quel battelliere che sulla barca scavata in un tronco d’albero oscilla / sulle acque in mezzo alla corrente là dove il profilo d’un colle / si confonde col fiume, e il fiume intreccia fra lori i confini delle ombre (vv.189-199)».

È una freschezza flessibile ed evocatrice che cadenza il ritmo vitale, come il pescatore che si curva e i cui ami spazzano frotte di pesci impigliati nei nodi delle maglie e sentono la ferita mortale delle esche.

L’angolatura prospettica condensa tutte le possibili intensità visuali, che riuniscono mondo umano e mondo vegetale e animale, come vivente trama e sbocco poetico, come navigazione fanciulla e stuporosa verso i rapimenti dei transiti, l’affetto dei paesaggi, l’incontro.

L’abbandono, che pur ama frequentare la catalogazione erudita, deve abbracciare l’evasione crepuscolare, la metafora maestosa e serena del fischio del tempo, dell’ironia, del battito lieve e non ancora rassegnato. Qui la sua forza e la sua perdita, come il limite di un ristoro momentaneo.

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La poesia di Claudio Claudiano (370-404 d.C.) è erranza itinerante. Nato ad Alessandria d’Egitto, attivo alla corte d’Occidente dopo Ausonio, celebra il suo imperatore, all’interno dell’amministrazione imperiale (fu tribunus et notarius). Egli, giunto dall’Egitto, bilingue scaltrito di cultura greca, come una voce lontana che disegna la romanità, si trova nel quadro della celebrazione di Roma e di Stilicone (De bello Gildonico, De consulatu Stilichonis, De bello Gothico, così come le lodi alla benefattrice Serena, moglie di Stilicone), in uno di quei scrinia, tempio di decisioni segrete e di fedeltà incrollabili. Si trasferì poi a Milano, entrando nelle grazie di Onorio, imperatore di Occidente.

L’esametro dei panegirici, delle invettive, contro Rufino ed Eutropio, dei poemi storici e mitologici, degli epitalami, dei carmi in greco (la Gigantomachia tanto cercata da Poliziano nelle sue missive a Bembo) è la sua coltre prigioniera che inquadra il tempo, tenta di sforarlo, scompaginarlo, viverlo.

«Il genio di Claudiano», scrive Laura Micozzi, «è allusivo, assimilativo e consapevole; la sua poesia non è certo “ingenua”, ma fondata piuttosto sul lucido governo della tradizione precedente. Il suo stile è un raffinato prodotto di riflesso, saturo di esperienze culturali, fedele all’egemonia dei modelli della grande poesia latina. Tutta la cultura pagana del tardo impero tende del resto a coltivare una letteratura colta, nata nel laboratorio di poeti professionisti (che all’occorrenza si guadagnano da vivere, anche come maestri ed insegnanti), e lo studio dei classici dà in quel periodo frutti rilevanti anche nella lettura e nell’interpretazione dei testi».

«Il primo e più inquietante dei poeti moderni» che suona l’ultima fanfara incompiuta all’Impero, come scrisse Coleridge, getta le sue carte sul tavolo e sono i segni virgiliani e ovidiani di un a Christi nomine alienus (Agostino).

Oltre alla Gigantomachia, anche il De raptu Proserpinae, che narra il mito di Prosèrpina, rapita, nel caldo lussureggiante della Sicilia, da Ade, dio degli inferi, che la sposa nell’Erebo e Demetra, la madre della fanciulla, si mette sulle sue tracce.

I dibattiti sulla datazione dell’opera hanno aperto scenari di composizione che prediligono ora la storia a danno del mito o viceversa, ma di sicuro la sua stesura ha aperto una posizione privilegiata di una elisione e di un enigma. Un fatto di letteratura che racchiude l’inclusione di motivi antichi, varia i modelli, colloca suggestioni nuove.

Dall’invocazione solenne della prima scena, ai sogni e presagi premonitori, la fedeltà alla memoria poetica è un tratto saliente e un gradiente di espressività, che riflette la precarietà del presente con le angosce, le riflessioni, gli sguardi opachi: «I destrieri del rapitore, signore dell’abisso, e le stelle, incalzate dall’ansare del occhio tenario, e il talamo cinto di tenebra di Giunone infernale: questo mi spinge a svelare con l’audacia del canto la mente che trabocca. Fatevi indietro profani! Già il furore divino mi ha sgombrato dal petto ogni senso umano e il cuore è colmo dell’ispirazione di Febo» (vv.1-6).

La scomposizione di elementi diversi, la coerenza, la decadenza che scompagina il testo si afferma in Claudiano, come accensione molteplice di figura.

La scena isolata che profuma splendente, che afferma i dettagli e contorsioni verbali, porta dentro il sentore della perdita, dell’ossessione frequente e infine della lacerazione che indugia, come una irruzione di tempo sparpagliato e cialtrone.

La narrazione dilatata del rapimento si appende al mondo e ne esplora le rifrazioni, i segni sparsi e «come l’Achille staziano, il suo Plutone sperimenta infatti l’amore (non la guerra), e l’eros introduce una dinamica nuova nella caratterizzazione del personaggio, che nei modelli aveva una fisionomia piuttosto stereotipata» (Laura Micozzi).

L’etica mitologica rimane incompiuta, pur cercando di colmare i vuoti del distacco e del tempo lontano della tradizione, per finire nell’ultimo scrigno di una civiltà in declino.

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Nella stessa atmosfera culturale è immerso il poeta gallico Claudio Rutilio Namaziano, altissimo dignitario dell’Impero d’Occidente e praefectus urbi nel 414, di famiglia illustre e pagano convinto.

Quando nel 410, c’era stato il sacco di Roma, compiuto per tre dai Goti di Alarico, queste popolazioni erano risalite in Provenza e in Aquitania, saccheggiando e devastando, il poeta si vide costretto a ritornare in Gallia per sovrintendere alle necessarie riparazioni delle sue terre.

Lo storico Camille Jullian scrive: «[…] Che cos’erano diventati quei templi, quelle terme, quei teatri rurali, dove nei luoghi di fiera o di pellegrinaggio della Gallia romana, da tre secoli si erano distribuiti tanti piaceri e accumulate tante ricchezze? Senza dubbio non erano più che resti di muri a metà calcinati, e non serviranno più che a rifornire di pietre o di marmi i villaggi vicini, il giorno in cui questi si potranno ricostruire. […] Sui colli vicini alle sorgenti, al riparo di boschi profondi, molte ricche villae erano crollate, e nessuno pensava di utilizzarne i resti. A poco a poco la foresta si avvicinava ad essi: essa finirà, poiché nessuno le oppone resistenza, con il ricoprire queste vestigia miserevoli e far sparire e dimenticare sotto le sue fronde rinnovate i ricordi della ricchezza e delle calamità romane».

Il viaggio autunnale di Rutilio Namaziano per mare verso la Gallia, dal porto di Augusto ad Ostia, costeggiando le rive del Tirreno fino a Luni, alla foce del Magra, si avvale di brevi tappe e brevi scali in località in cui egli ne approfitta per descrivere luoghi e ricordare amici celebrandoli, lanciare invettive contro gli avversari e i nemici.

Le sfiorenti rovine occupano gli occhi, come commenta Alessandro Fo: «Il mondo che Rutilio ritrae è quello di un’Italia ferita dalle scorribande barbariche, in cui singole località destano memorie storiche o mitologiche, e più spesso offrono l’occasione di segnalare il passaggio o la presenza di amici e nemici. Gli amici sono nobili esponenti di quella aristocrazia senatoria in cui Rutilio ravvisa ancora il baluardo dell’antico valore romano. I nemici sono avversari politici o ideologici: famoso è il suo attacco allo stile di vita monastico, praticato nelle isole di Capraia e Gorgona, davanti alle quali si trova a passare. Rutilio appare fermamente arroccato nel paganesimo della tradizione: vede in Roma personificata una dea, accenna con sguardo partecipe ai culti di Osiride, mentre per il suo poemetto, se si esclude l’aggressione ai monaci, il cristianesimo – di recente assurto a religione ufficiale dell’impero – non sembra neppure figurare nei registri dell’esistenza».

Lo spopolamento, la rovina morale e la distruzione (Ambrogio dirà che gli edifici in rovina «semirutarum urbium cadavera», sono cadaveri di città semidistrutte) di luoghi come Castro Nuovo o Alsio e Pirgi, in passato fiorite d’oro, o Populonia distrutta dal tempo, non portano la resa di un’affezione a Roma, alla quale innalza il fervore di un inno di fede e resurrezione assorta, come proclamazione di un’antica gloria che vale anche per il presente: «fecisti patriam diversis genti bus unam» o ancora «Urbem fecisti quod prius orbis erat».

I monaci che fuggono la luce, rintanati nell’angustia degli occhi e degli spazi, rappresentano, per lui, la coltre di una umanità rinnegata, responsabili del declino dell’Impero.

Un mondo chiuso sottratto al presente rattrappito in una nostalgia che frequenta le ferite e le devastazioni e persino sulla fuga in una illusione antica prigioniera di una sottrazione civile evidente, aleggia l’ombra del multiforme Stilicone, colui che ha aperto le porte dell’Italia ad Alarico e Ataulfo.

il viaggio di un viaggio, condensato nelle divagazioni, nelle chiose, nella trama non sempre fertile dei giorni, apre il suo exitus finale a un tempo che si appropria di esistente e inesistente, come fragile membrana di una promessa irrisolta.

Alessandro Fo, analizzando la complessità dello sguardo rutiliano, commenta ancora: «Oscilla fra dolente constatazione degli insulti del tempo e un ottimismo propositivo fondato sulla fiducia nell’eternità di Roma e nella capacità ricostruttiva dei Romani – da quella dei cittadini che, sotto gli auspici di Costanzo hanno ricostruito Albingaunum a quella di chi, come lui stesso, si accinge a provvedere di persona al restauro dei propri beni.»

La necessità di ritornare alle proprie terre, distrutte dai barbari, rapporta il testo al gemito di una franta umanità, che nel diletto, strappa il mantello della Fortuna e si attesta al tradizionalismo celebrativo: «è tempo di costruire, dopo feroci incendi, su fondi laceri / anche soltanto casette di pastori. / Che se le stesse fonti, anzi, dare voce, / se i nostri arbusti potessero parlare, / con giusti pianti mi stringerebbero mentre tardo / mettendo al mio desiderio le vele».

Il desiderio di vele ama sostare sulla morbida delicatezza del ritratto velato e viandante, come il porto di Centocelle, la rugiada dell’alba sulla porpora, il riflesso della costa sull’orlo dei flutti, l’aurora secca di saline, il nembo tagliato: «La prima luce brillò rugiadosa nel cielo purpureo: / tendiamo le vele inclinate in una piega obliqua. / Per un tratto evitiamo il fondale basso lungo le foci del Mignone: / anguste imboccature vi agitano onde infide. / quindi avvistiamo i tetti sparpagliati di Gravisca, / oppressa spesso in estate, da odore di palude, / ma i dintorni boscosi verdeggiano di fitte foreste / e sull’orlo del mare tremola l’ombra dei pini. / Scorgiamo le antiche rovine, senza alcuna custodia, / e le squallide mura di Cosa abbandonata. / Quasi ci si vergogna a rivelare, in mezzo a cose serie, la ragione / ridicola della disfatta, però mi spiace mascherare il riso (vv.277-288)».

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Rafael Alberti e l’immagine che freme

di Andrea Galgano                                         10 luglio 2013

Poesia Contemporanea

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Rafael Alberti

La poesia di Rafael Alberti (1902-1999) è una grazia colorata. Come l’Andalusia che ha dato origine al denso filtro onirico del suo spasmo, in linea con la tragica contadinità di Lorca, ma che ha sviluppato i prodromi di una allegria briosa, dinamica, in un clima che è «un disegno che iscrive le cose in una luce mattutina, una luce senza ombre né tramonti» (Vittorio Bodini).

Nel sacro fuoco della pittura Rafael Alberti ha albergato, ne ha penetrato l’essenziale e l’indefinibile, con la luce, ricolma di ardore, di quadro fervido, di nostalgia per la sua baia di Cadice, che nei suoi spostamenti, come accadde nel 1917 a Madrid, rimane fremente spazialità di infanzia originaria, e che si assesta in un decoroso spazio visivo, «per dipingere la poesia col pennello della pittura» (Alla pittura, 1945-1952).

In una intervista Marìa Asunciòn Mateo ricorderà che «a Rafael bastavano un pennarello, un quaderno e una camicia sgargiante per essere felice, seduto nel giardino a disegnare e scrivere poesie. Non chiedeva niente di più. Era questa la sua grandezza».

È nella traccia visiva, esiliata e primigenia, che riemerge il suo approdo, essenziale e parco di colori. Il suo cromatismo conosce il tempio della fedeltà, mai recisa, con l’assetto antico e acceso del mare meridionale, grembo di azzurri e bianchi, come le spume, le vele, le saline.

È il suo luogo che diventa sostanza di osservazione e abbandono, dalle «dune di sabbia calda», al «rubino che arde tra le mani» «nell’abbandono di un sogno».

È il volto di Alberti che rappresenta la sosta e i passaggi di stazioni invisibili. È l’invisibile, stregato nelle visioni, come scrive ancora Vittorio Bodini:

«Vi è fra il mondo interno e il mondo esterno di Alberti, fra la sua emozione soggettiva e la porzione di realtà oggettiva che investe, un grandissimo equilibrio affatto insolito nella poesia spagnola, che approda non al realismo ma a una realtà artistica, o a una immaginazione formale (come dice L.F. Vivanco) lievemente idealizzante, quanto basta per far parlare la critica di un Alberti italianizzante, di un italianismo che ha profonde radici in due avi, il nonno materno e il nonno paterno, entrambi toscani. Questo italianismo di Alberti è un filone non trascurabile, concordemente ammesso dalla sua critica, ma contrastato e sopraffatto da altri caratteri, come l’indole andalusa – allegria di vivere, scherzosità, grazia – e un’educazione letteraria esclusivamente ispanica».

Se il suo “ulissismo” da marinaio dell’Atlantico, fornisce il segno di una ricerca di spasmo, il forte miracolo della sua architettura visiva, fornisce l’impronta di una rara freschezza invasiva.

Marinaio a terra (Marinero en tierra 1924), che ottiene il Premio nazionale di letteratura, scolpisce il suo giovane autoritratto, impregnato della nostalgia del simbolo.

La realtà è simbolica perché unisce i vessilli e i rimpianti marini alla sua condizione di abitante della Sierra di Guadarrama, in un concerto di presenza-assenza che finisce per inventare le linee intermedie di sogno o di scalmana, per gridare il cielo della stanza della sua geografia ansiosa e rigogliosa, come la neve che pattina sulla luna: «è caduta la neve sulla luna. / Pattinano gli abeti sopra il gelo; / la tua sciarpa arricciata ascende il cielo / come un addio che il chiaro cielo stria. […] Un brinato silenzio ti corteggia, / si stesse nella luce dei fanali, / mentre tu incrini il candido cristallo. / Addio, pattinatrice! / Il sole albeggia / le gelate terrazze siderali, / dietro a te, Malva-luna, pattinando».

La danza astrale della donna «ardente-e fredda» che conduce nell’universo o l’inconducibile isola, segnano il cammino del mare, con «l’onda sempre si spegne sulla spiaggia», come lotta della vita nell’arena del tempo, come l’appartenenza alla sua origine marina o sottomarina, o l’immagine di un immaginario venditore subacqueo che grida e offre la sua mercanzia: «ah, come starei bene / in un orto del mare, / con te, ortolana mia! Su un carretto, tirato / da un salmone, che allegria / vendere sotto il mare salato, / amore, la tua mercanzia! / – Alghe, fresche di mare, / alghe, alghe».

Scrive Josè Bergamín su Marinero en tierra: «Quando diceva le sue canzonette, mettendosi la mano a bucina davanti alla bocca, come per bandirle, tutto s’empiva di allegria, dell’allegria del banditore mattutino: un’allegria fruttale, verde e fresca; allegria di mercati, di fiere, di vessilli; l’allegria di un cielo radioso in cui esplode un clarinetto stonato; l’allegria del suo volto giovanile e umano, che traboccava da tutto e tutto colmava nella sua follia…».

Ernesto Gimenez Caballero ha insistito sulla natura giullaresca di Alberti, in una prospettiva vigorosa e surreale che spodesta il vuoto, per insediarsi in un mare alto e naufrago, flessibile ed elegante:

«Il futurismo ti ha rifornito. Alberti, maglione bianco, pantaloni larghi, macchina da scrivere per i suoi versi, innamorato di Charlot; poesie assonanti e poliritmiche, entusiasmo per il non convenzionale: vagabondi, mascalzoni, toreri, sportivi, ricchi tenutari che ti portano in giro in macchina di tanto in tanto come facevano i cavalli dei magnati medievali con i giullari e i divi eletti. Di corte in corte, di dama in dama Alberti, sei un poeta cortese, cortigiano. Picaro. Dall’Andalusia hai tirato fuori lo scandinavismo, quello romantico di Bécquer e il lunatismo di Juan Ramón (non dimenticare che ti doleva il petto e che sul cuore ti sono cresciute violette). Ma hai anche ereditato uno splendido suddismo, non sempre valutato come merita. E la sensibilità per la norma, per la disciplina, per la raffinatezza dell’essenza poetica, sensibilità della migliore Andalusia» (p. 170).

In un articolo su «Vuelta», Octavio Paz evidenzia la potenza seduttiva e fascinosa del repertorio poetico di Rafael:

«Una delle mie prime letture è stato Alberti. Leggendo le sue poesie sono penetrato in un mondo in cui le cose vecchie e le realtà consumate, pur essendo le stesse, erano diverse. Avevano cambiato pelle e sembrava che fossero appena nate, animate da un entusiasmo contagioso. Lessi quelle poesie – anche le più tristi e misteriose – con gioia, come se stessi cavalcando un’onda verde e rosa sulla pianura del mare, popolata di tori, delfini, sirenette, tritoni e ragazze cadute dal cielo, intrepide nuotatrici di tutti i maridell’amore- per non parlare delle naiadi delle stratosfera, come Miss X, sotterrata dal vento dell’est. È stato un esercizio vitale: imparare a bere la luce di ogni giorno, pensare con la pelle, vedere con la punta delle dita».

L’inquadratura poetica e visiva di Alberti si insedia nell’eclettismo fecondo che lucida la tensione creativa in un tracciato di radice e verità che si fa inquieta quando ricorda e rammenda le linee del suo vertice emotivo. Il passato acquista la dinamica del recupero della materia vivente, in cui la luna, le pianure, le donne amate, i viaggi magici e i paesi di sabbia e deserto, sollecitano il remoto anelito di un infinito presente, come ricorda Ernesto Sábado:

«quante volte hai decantato la bellezza della tua terra gaditana, il tuo mare, il tuo cielo, i tuoi imponenti tori destinati a quel sacro sacrificio che viene dal profondo della storia mediterranea. E quanto abbiamo apprezzato quelle tue visioni, perché l’arte è a volte, la cosa più individuale e più universale che esista, perché il cuore dell’uomo, in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi epoca, è fatto delle stesse cose. E tu, così profondamente andaluso, hai destato ammirazione nei luoghi più remoti della terra ed hai incitato i popoli alla fratellanza così come solo l’arte può fare».

La ricerca della patria paradisiaca e infantile si accompagna, sin dall’inizio, alla discreta e fremente presenza femminile (La amante, 1956) che conferisce freschezza profonda alla minuta e umanissima realtà albertiana, popolare e dotta, come afferma José Hierro:

«quello che fa Alberti non è, alla maniera di Manuel Machado, imitare una voce popolare viva ma, interpretare una voce popolare che è stata e che non è più; condivide, probabilmente, il punto di vista di Juan Ramón Jiménez e viaggia verso il passato per impregnarsi dell’incanto della raffinatezza perdute. Le brevi poesie dei primi libri, Marinero en tierra e El alba del alhelí, sono strettamente collegate con le raccolte rinascimentali: espressioni, accenti, libertà metrica e a volte quella rottura finale che si fa beffa della rima perché riappare un verso quando non ce lo aspettavamo, un verso di cui avevamo dimenticato il suono finale che chiude la canzone a mo’ di ritornello. Come in questo passo del Cancionero de Barbieri che potrebbe benissimo appartenere a La amante del nostro Rafael Alberti: “No pueden dormir mis ojos, / no pueden dormir. / Y soñaba yo, mi madre, / dos horas antes del día / que me florecía la rosa: / el vino so el agua fría: / no pueden dormir”».

In L’alba della violacciocca (Alba del Alhelí, 1925-1926) e in Cal y canto (1926-1927), il romance fornisce ampiezza alla descrizione di una società rurale che è come se fratturasse la festosa ricchezza marina, per assegnare alla pagina il dramma e il mistero.

L’esperimento del futurismo, dell’ultraismo e del creazionismo, si impasta del recupero di Gòngora, per celebrare l’ambizione di un linguaggio ironico e complesso, che celebra, irrora, solleva il mondo a nuovi cieli e gioca con le penombre rapide:

«Biondi, lucidi seni di amaranta, / limati dalla lingua d’un levriero. / Portici di limoni, fuorviati / dal canale che monta alla tua gola. / Rosso un ponte di riccioli che avanza / fa ardere gli avorii tuoi ondulati. / curvo, morde e ferisce i denti esangui, / librandoti nel vento che ti innalza. / dorme la solitudine nel folto, / calza il piede di zeffiro e poi scende / dall’alto olmo al mar della pianura. / Ecco il suo buio corpo che s’accende / e, gladiatrice, come brace impura, 7 fra Amaranta e il suo amante si distende».

Annota José Bergamín:

«C’è castità nella poesia di Rafael Alberti – limpidezza, purezza – sicura, decisa, dura, duratura, severa: di calce e canto. I suoi angeli – o il suo angelo Andaluso (arcangelo tutelare) – gli costruirono quel muro così profondamente andaluso. Di Cal y canto, la poesia di Alberti si innalza e si afferma, verticale, tocca terra, guarda il mare tra due cieli. Rompe e definisce la luce stessa come il muro imbiancato di un compasso o di un cortile di una casa andalusa di tradizione romana. La Siviglia del Rinascimento, Santa Clara, San Lorenzo, non del quartiere ebreo o musulmano. Siviglia becqueriana».

Nel 1927 una crisi violentissima, poetica, amorosa, politica ed esistenziale invade i suoi angoli fioriti e luminosi, producendo un cambiamento repentino di tenebra folta, che diventa un crampo febbrile e rivoltato. Da questo sconvolgimento nasce, nel notturno delle stesure, Sobre los ángeles.

Commenta Vittorio Bodini:

«Gli angeli di Alberti non hanno nulla a che vedere coi begli angeli cristiani, corporei e decorativi: sono enigmatiche sostanze, per lo più periferiche, dell’anima, che trovano nel poeta una perfetta oggettivazione: staccate dalla matrice, esse vivono la loro sintetica esistenza nel modo più autonomo e indipendente. I gesti che compiono sono di una straordinaria nitidezza, senza una sbavatura, sicchè non ultimo fra i pregi di questo libro è il contrasto fra la natura larvale dei suoi soggetti e la pulitissima precisione delle azioni che compiono, e in cui danno a conoscere la loro acuta diversità».

L’allegoria delle figure sintetizza lo strato più oscuro della coscienza che si impone nella fantasmatica crisi interiore. Angeli sconosciuti, angeli dei numeri e senza fortuna, angeli dei colori muti e disillusi, del dolore rappreso e della rabbia, «stelle erranti come bambini che ignorano la matematica», accompagnano i segreti e i sogni più umani e affondano nel loro prato incollocabile ed acre: «Tu non sei sola, dice l’angelo d’amore e morte a Maddalena nell’Andrea Chenier, io raccolgo le tue lacrime, sto sul tuo cammino e ti sorreggo. Che importa se tutto intorno è fango e sangue? Io sono la vita, sono quello che fa della terra un cielo. Sono l’amore…».

Il successivo Sermones y moradas (1929-1930) si appropria dello strepito delle ombre esangui, per confluire nell’umanità in lotta contro il fascismo franchista, in una poesia rivoluzionaria e marxista (Con los zapatos puestos tengo que morir).

L’appartenenza politica e il matrimonio con María Teresa León (con i viaggi successivi, dopo aver ricevuto dalla Junta para la Ampliación de Estudios, una borsa di studio per l’analisi del movimento teatrale europeo) segnano un’ansia di cambiamento che dirompe sulla scena.

La sua poesia si pone al servizio della rivoluzione sociale, della resistenza e dell’esilio, lanciando la sfida non solo da un verso civile, ma dalla grande aspirazione umana che invoca la strada (El poeta en la calle 1931-1935), in una precisione esatta e lucente: «Non è più profondo il poeta rinchiuso nel suo buio sottosuolo. Il suo canto raggiunge il profondo allorché, aperto al vento, è ormai di tutti gli uomini».

La semplicità della voce popolare ed eroica scopre la dignità davanti al mistero della morte, alla dignità lucente che cavalca l’aria, all’irrompere dell’avvenimento umano come soglia e legame.

Durante la guerra civile, Rafael Alberti milita nelle file repubblicane e poi fugge in esilio, prima a Parigi, poi in Argentina e infine a Roma. Al dolore per i morti della guerra civile si unisce la lontananza dalla Spagna, dai luoghi della sua anima che «nessuno può risarcire»:

«Fra realtà e fantasia, fra realtà e sogno, fra verità storica e una poesia che chiamano impegnata o non impegnata, io ho cercato di spiegarlo in un libro che si intitola Fra il garofano e la spada. Io credo che un poeta non nasca per parlare della guerra o di politica o di tanti fatti orribili che ci circondano quando apriamo gli occhi al mattino. Allora il dramma è questo, mio e di tanti altri, noi viviamo fra il garofano e la spada, fra la spada e il muro… Viviamo incalzati da una orrida realtà che ogni mattino distrugge i pensieri belli e giocosi, ci spazza via dagli occhi le cose grandi che possiamo vedere, facendo di tutti noi tanti schiavi di situazioni così drammatiche e spaventose che bisogna essere fatti davvero di pietra per non parlarne, perché non si riflettano in quello che si fa… Perché a me piacerebbe parlare del mare che mi ha sempre dato tanta gioia, del mare limpido e puro, incontaminato, libero da navi da guerra, del cielo terso, con le stelle, senza voler sapere che viene attraversato da aerei che lanciano bombe e riempiono la terra di morti, l’aria di grida strazianti… Ci si sveglia al mattino pensando che il mondo è bello, un mondo in cui la gente è buona, i rapporti umani perfetti, e subito ti accorgi che tutto è diverso. Ma davanti alla guerra, un essere umano con un minimo di sensibilità, quale poeta soprattutto, può avere lo spirito, la coscienza di mettersi a parlare d’un uccellino che sta cantando su una rosa. Ecco l’origine di questa durezza che di quando in quando si fa sentire, di questa amarezza, di questi accenti talvolta pieni di coltelli. Sono un poeta che al mattino vorrebbe guardare il vecchio mare di Cadice, dipingere le barche che dipingevo quando ero bambino, i gabbiani, seppellire nella sabbia i testi di geometria, di storia, di latino e pescare: invece… non posso farlo… devo scrivere una poesia tremenda».

L’albero divelto, le cui foglie scoperte e nude gli impediscono di ricevere dalla terra il nutrimento vitale, dal suo golfo di ombre («Cerco di non trovare l’uscita, / di restare sprofondato / nel tuo definitivo, arenato, naufragato/ per sempre,/ Golfo d’ombre») promana il suo grido spezzato: «Certo il mio canto / può essere di qualsiasi luogo. / Ma queste radici spezzate, / ahimè, queste radici spezzate / a volte non me lo lasciano / esser del mondo, e neanche / di quella terra, soltanto di quella / piccolissima parte della Terra». Che è il suo tempio strenuo e felice che affluisce alla luce delle immagini e dei miti perduti, nell’approdo esiliato di una lontananza energica e dura, ma sfrondato di gracile grazia, come le sponde del Paranà (Ballate e canzoni del Paranà, 1953-1954), fresche e allegre nella loro dimensione fruttale, che riportano il baluginio delle terre agli occhi, in una luce irreale che sfronda l’infanzia: «Resta pur sempre la fortuna, il dono / infinito di poter tornare sui remoti / passi che demmo un dì in quei luoghi / che il nostro amore andò creando / come in un sogno» o ancora: «Il fiume appende alla cintura / una scimitarra blu di navi / E sopra, il cielo: un turbante / azzurro con uccelli bianchi».

I luoghi di esilio e esilianti, come Roma, ad esempio, (tornerà in patria solo nel 1977 e sarà anche eletto deputato), in cui diventerà parte del quartiere trasteverino, lamentandosi dei pericoli del traffico in Roma, pericolo per i viandanti (1968) («Lo si chieda al gatto / lo si chieda al cane / e alla scarpa rotta. / Al fanale perduto […]. / E all’ acqua corrente / che scrive il mio nome / sotto il ponte») e sperimenterà l’espressione “lirico grafica”, divengono tappe di un incendio esistenziale e vocalico che tenta di catturare la spazialità dell’essere, per divenire respiro, comporsi di respiro, farsi elegia di atlante perduto (come era già accaduto in Fra spada e garofano (1939-1940), Alta marea 1942-1944, Poesie da punta dell’Est (1945-1946), Ritorni della vita lontana (1948-1956)) e attesa consunta: «Non aveva la rosa compleanni o l’arcangelo. / Tutto, anteriormente al pianto e al belato. / Quando ancora la luce non sapeva/ se il mare nascerebbe maschio o femmina. / Quando il vento sognava chiome da pettinare / e garofani il fuoco e gote da infiammare / e l’acqua, delle labbra ferme a cui abbeverarsi. / tutto, anteriore al corpo, al nome e al tempo, / Allora, io ricordo che una volta nel cielo…».

Dopo ave ricevuto nel 1983 il premio Cervantes, e successivamente esser entrato nella Real Academia de Bellas Artes di San Fernando e in quella di Bellas Artes di Santa Cecilia perde la sua María Teresa León, nel 1988, vittima di una grave malattia.

Nelle liriche amorose Canzoni per Altair, la donna-stella illumina la vita e la via dell’uomo-poeta, «sei scesa, / stella rivelata dei miei occhi perduti, / e sei caduta su di me, fuoco d’amore / e nel mio sangue hai preso dimora fin da allora», come il confine e la visione che superano il tempo, coltre incantata e «energia astrale».

È interessante notare, come questa ultima finale produzione albertiana, si imponga in modo epifanico e frenetico, nell’attesa del giorno improvviso e nuovo e nel raggio sulla vita nuova poiché «sai bene che in me non muore la speranza, / che gli anni in me non sono foglie ma fiori, / che non sono mai passato, ma sempre futuro». Fino all’abbandono ultimo: «Entra tutta nel mio respiro e portami in volo nei tuoi cieli. Per sempre».

 

 

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