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Hilde Domin: L’idillio spodestato

di Andrea Galgano 26 settembre 2015

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l’articolo sul sito di Del Vecchio editore

L’idillio spodestato di Hilde Domin

La trasparenza espressiva di Hilde Domin (1909-2006) condensa margini lirici di esilio. Una poesia che si afferma, accade, si attesta in una coltre che si innerva nel magma della realtà, cerca di scostarsi dalle macerie, implora il recupero umbratile di una dimensione di appartenenza, allo stesso tempo, schiva e sorgiva.
Nata a Colonia nel 1909, figlia dalla agiata borghesia ebrea, Hilde Löwenstein (lo pseudonimo Domin fu scelto come ossequio alla Repubblica Dominicana che le diede rifugio per quattordici anni dopo l’esilio) studiò dapprima giurisprudenza ad Heidelberg, poi scontenta decise di iscriversi al corso di Teoria economica e Sociologia, seguendo le lezioni di Jaspers e Mannheim, dove conobbe di Erwin Walter Palm, studente di archeologia, nonché futuro coniuge e compagno di esilio.
L’avvento del Nazionalsocialismo la costrinse a fuggire prima a Roma, poi in Inghilterra e nella Repubblica Dominicana, dove iniziò a lavorare come lettrice di tedesco. Il successivo contatto con la madrepatria decretò il suo ritorno che sarà definitivo solo dal 1957 e toccò vari punti della sua geografia biografica: Brema, Amburgo, Colonia, Francoforte, Monaco.
La vita della sua odissea linguistica, come recita un suo importante saggio, conosce frontiere straniere e strappi spodestati, cerca l’appartenenza nell’affanno, il tempo in cui la crisi della poesia, connessa allo sviluppo della Repubblica Federale, si impone come decisivo problema su cui far lavorare l’anima, a cui destinare l’origine cambiata del sangue, il valore della lingua che deve dettare la realtà e «soffermandosi con attenzione sulla necessità e sul significato della “scelta”, dell’eliminazione del superfluo, per giungere alla riflessione su ciò che si deve o non si deve dire (“i criteri della necessità e del vero”), senza tralasciare un’analisi più puntuale dell’uso dell’immagine, della metafora e del paradosso» (Paola Del Zoppo).
Laddove il limite del ritorno in Germania rappresenta, come scrive Nadia Centorbi, «un fattore fortemente catalizzante sul versante dell’ispirazione letteraria. Di conseguenza, la produzione poetica, saggistica e autobiografica, concepita a distanza di tempo dagli eventi traumatici della guerra e della persecuzione, pur essendo attraversata dal filo rosso dell’esilio, sembra trarre linfa vitale da un’altra esperienza, sorella germana della precedente, che per la poetessa fu ancora più cruciale: quella del ritorno in Europa, e poi in patria, dopo lunghi decenni di assenza».
Sostiene acutamente Viviana Scarinci: «Ma più che la bufera che imperversava in Europa in quegli anni su ebrei, minoranze etniche e oppositori al regime, Domin sosteneva che fosse stata sopratutto la poesia a entrare inaspettatamente nella sua vicenda personale come una seconda vita o come dovrebbe fare l’amore, del tutto inaspettatamente e senza invito. È una seconda vita quella che l’avvento della poesia impone secondo Domin, non sul piano metaforico ma bensì su quello temporale. Quindi la poesia può arrivare a dividere la vita in due parti anzi in due vite separate e differenti, quella della donna di prima e quella della seconda donna».
Quali sono allora i confini, se tali possono essere chiamati, dell’iter poematico? A quali decisive linee deve rivolgersi la parola per toccare, con radicalità, il lettore fino all’interpretazione e, come sosteneva Gadamer, lasciarlo libero? Domin affronta il duro agone della possibilità della lirica di concentrarsi sul fine della creazione poetica, ossia offrire agli uomini qualcosa che sia compiuto e inesauribile.
Come già recita il titolo della prima raccolta, Qui (1964), l’hic et nunc dell’avvenimento poetico promette la nudità di una tensione nella quale, come commenta Nadia Centorbi, «l’io, in collisione sgomenta con la realtà, rinviene una possibile, seppur paradossale, collocazione fenomenica» e in cui il non detto e l’indicibile ispessiscono sbandamenti smisurati: «Lirica / la non parola / tesa / tra / parola e parola» (Lirica).
Avvertire le contraddizioni del reale, sperimentare il potere mai neutrale della libertà di tempo e spazio significa vivere la densità dell’istante in tutta la sua sproporzione: «Il tempo esiste solo quando è terminato, per dirla con un paradosso […] lo chiamo, con Brecht, il “minimo per l’imprevedibile”. Non c’è da prendere la parola minuto letteralmente. Questa pausa, la pausa attiva, ha una durata indefinita. Per questo lo chiamo “istante”. Fermati momento – e lo fa: irripetibile, congelato».
È in questa attualità di tempo e luogo che si svolge l’approdo dell’esilio che invoca rinascite e transizioni risorte attraverso la «gioia dell’esserci nel tempo della realtà e quello relativo a una dimensione più ampia, sempre in dialogo con la prima: la dimensione sacra della parola lirica, la parola profetica che sempre trova una bocca che la pronunci. La coesistenza di questi due momenti apparentemente lontani tende a confermare la realtà della lirica come realtà dell’impossibile» (Paola Del Zoppo).
Come sull’altro lato della luna abita la verità dei giorni, intessuta di nostalgia e di inappartenenza: «Sull’altro lato della luna / vanno / avvolti in abiti d’oro / i tuoi giorni veri / abitano / come te sempre / nella luce / scacciati da qui / cacciati via / lì passeggiano / sai che sono tuoi. / tu invece accogli / giorno dopo giorno / i loro sostituti: / più stranieri / di ogni Paese straniero. / Sai che i tuoi / mutano nella luce / si avvicinano a te / giorno dopo giorno / ma sull’altro lato della luna».
Oppure questa declinazione nostalgica celebra la rappresa spirale della vita appresa: «Ogni ricordo soffriva / troppo lontano / troppo lontano oltre la meta / di nostalgia. / Ma la tenerezza / del cotiledone / senza cui non esiste crescita / il riparo di una mano. / L’alta spirale / su cui / troppo tardi / impariamo tutto».
La palpebra mutilata e strappata che guarda il mondo decreta la ferita insanabile tra l’io e la realtà storica, ricuce la prospettiva di un altrove sognato e inesprimibile dove attingere luoghi dischiusi di promessa: «Strappa la palpebra: / spaventati. / Ricuciti la palpebra: sogna» (Strappa la palpebra).
La poesia che, come Sisifo, celebra la sua resistenza, si sforza di fare l’impossibile, di crearlo, facendone materia di una trasmissione irripetibile, avverte il peso di una attualità profuga, scandita dalla fragilità assassinata di Abele, che continua ad essere battuto e ucciso: «E il giardino sempre / sotto alberi in fiore / sempre / la colazione / sotto terra / popolo immaginario / gli impiccati / i nostri figli» o ancora il grido di una parola che dice ciò che c’è, lo afferma, lo cambia nell’aria che sale, compone il nome di una parola indomabile e lo «obbliga / per un battito di cuore / a essere nostro»: «Questa è la nostra libertà / dire i nomi giusti / senza paura / con voce flebile / chiamare l’un l’altro / con voce flebile / chiamare per nome il mostro / con nient’altro che il nostro fiato / salva nos ex ore leonis / lasciare aperte le fauci / nelle quali non viviamo / per nostra scelta» (Salva nos).
È questo tremore di polvere che «non tornerà mai terra» a riconoscere la coniugata libertà dell’essere che rammaglia il tenero fallimento di racchiudere il reale e che non scolpisce nemmeno la “definitività” di ogni interpretazione, come un paradossale balbettio sugli steli o come una sommersione emersa di case, come accade in Colonia: «Sono più belle le poesie della felicità / Come il fiore è più bello dello stelo / che lo sostiene / più belle sono le poesie della felicità. / Come l’uccello è più bello dell’uovo / come è bello quando viene la luce / più bella è la felicità. / E più belle sono le poesie che non scriverò mai».
È l’esilio come «La bocca morente / si affanna / per la parola / pronunciata correttamente / di una lingua / straniera», è la notte dei fiumi dell’io senza moneta tra i denti che galleggia più inutile di un tronco, è l’estate che pende sui giorni bastonati, è, infine l’espatrio delle punte calde delle dita che avvertono lo straniamento insorto, l’essere scalzi di fronte agli oggetti che ci vedono partire e tornare, oramai pronti a collezionarci nel loro pieghevole labirinto, come scrive Gadamer: «I versi di Hilde Domin ci fanno capire in modo diverso ciò che davvero è la poesia. Chi con lei realizza cosa sia il ritorno, comprende contemporaneamente che la poesia è sempre un ritorno».
L’attualità non disciolta è l’esito di una vocazione imprescindibile che non nega la realtà, non la semplifica, ma anzi, si afferma anche attraverso la possibilità di impegno che, come scrive Paola Del Zeppo «non è annullata dall’assurdità della realtà, e l’annullamento della morale dicotomica è ancor più necessario se rapportato direttamente alla politica»: «Anche qui gli alberi / stanno crescendo / tronchi chiari tronchi blu / hanno la chioma: foglie fiori frutti / senza alcun dubbio. / Gli uomini / chinati / verso il capofila / il sole / senza alcun dubbio. / Se battessero le tredici / e ognuno si / chiedesse / chiedesse a se stesso. / Specchi oscurati / in questo Paese. / Sono già le cinque / senza alcun dubbio. / La parte posteriore del capofila / il sole. / E se anche le cinque fossero le quattro / ubbidientemente / non batterebbero le tredici / nessuno domanda / nessun Io» (Contro la supremazia).
La stessa frammentazione evidenzia una tensione essenziale, uno spazio ricurvo e porto che germoglia nelle varie rappresentazioni, come lo spasimo concreto e la transizione permanente del cuore che è come una civetta che sbatte gli occhi, una sfera che lanciata rotola per un centimetro, un granello, la sfera delle sfere.
Il più grave rischio è la mancanza di approdo, la meta trascurata che non trova ripari per l’umanità franta che percorre a piedi nudi la lunga strada che allarga le braccia per dire Io, tenta di proseguire, porta in giro il suo spogliato lancio: «Chi potrebbe / a lanciare in aria / il mondo / affinchè il vento / ci passi attraverso».
Commenta Paola Del Zoppo: «Nel complesso, un’immagine che gioca sulla contraddizione per restituire le infinite possibilità del reale. Hochwerfen, “lanciare in aria”, si colloca al centro del componimento. È la scintilla che accende il fuoco dell’immagine complessiva, una speranza incontenibile e gioiosa che investe il peso della realtà (il mondo) e viene alimentata dal soffio che la attraversa. […] I contrasti si illuminano a vicenda: la densità contro la trasparenza, la pesantezza contro la leggerezza. Bisogna lanciare il mondo in aria affinchè il vento abbia la possibilità di attraversarlo: è “qualcuno” a dover trattare il mondo stesso come se fosse leggero, tanto leggero da essere lanciato, affinchè si riconosca che il vento può effettivamente attraversarlo».
Il grido della parola pronuncia apocalissi affermate, accarezza le piume della lingua ma esse si riscoprono «piumate di nostalgia / senza nido», perché «un tempo contro un sorriso / nessuno regge la vita da solo / volteggiando e volteggiando», come un sacrificio che chiede salvezza, nomina il sacro e la dignità del loro assurgere innocente nel mondo smerigliato: «Vivevo su una nuvola / su un piatto volante / e non leggevo i giornali. / I miei piedi delicati / non percorrevano più le strade / che non sapevano percorrere. / Consolandosi l’un l’altro / come due colombe / rimpicciolivano ogni giorno di più. / Certo ero inutile. / Il piatto di nuvole si spezzò / caddi nel mondo / un mondo di carta smerigliata. / I palmi delle mani mi fanno male / i piedi si odiano l’un l’altro. / Piango. / Sono inutile» (Alternativa).
Esiste sempre una distanza tra l’impronunciabile destinazione delle parole e i sogni dischiusi, come una sfumatura di stanze sconosciute e metafisiche che si vedono, si offuscano, si dimezzano e si allontanano come scambi prospettici inconciliabili e inconoscibili di un centimetro irripetibile di pelle, di un dito-seme: «L’uomo questo animale domestico / sogno-meteco / anfibio / i piedi in un sogno / le mani in una stanza / camminano in sogni estranei / sempre nel Paese sconosciuto / degli altri / mai / il proprio occhio che vede / solo in sogno / solo da lontano / solo nell’occhio dell’altro».
È il suo continente la rafferma autenticità di proseguire la parola verticale, il canto sperduto, la mano che tocca le spalle, che cerca le braccia aperte, Euridice trovata e perduta, la sfera inarcata, il proprio guscio di luce e la sua galleria fiorita: «Non guardarti intorno / per cercarmi / Euridice / sempre con te / la mano / che tocca le tue spalle / sotto gli alberi esotici».
In Figure rupestri (1968) e in Ti voglio (1970-1995), l’esigenza di una libertà irruvidita e speciale chiede autenticità senza manipolazioni, l’impegno politico e poetologico dirama il suo profumo che anela all’intuizione terna, alla restituzione non riparata di una bellezza gremita: «Parola libertà / che voglio irruvidire / ti voglio riempire di schegge di vetro / così è difficile tenerti sulla lingua / non diventi la palla di nessuno / Te e altre / parole vorrei riempire di schegge di vetro / come comanda Confucio / il vecchio cinese / La coppa quadrata / deve / essere quadrata / dice / altrimenti va in rovina lo Stato / Null’altro dice / è necessario / chiamate / il tondo tondo / e il quadrato quadrato» (Ti voglio).
Il contrasto dei simboli, la loro differenza, la profonda vertigine che lotta contro il tradimento e lo snaturamento dell’essere e quindi del linguaggio, sceglie alternative, sembra quasi richiamarle nella potenza struggente di un corpo-fazzoletto liso che riscopre la lucentezza dell’amore: « Il mio sesso trema / come un uccellino / nella presa dei tuoi occhi. / Le tue mani una brezza leggera / sul mio ventre. / Tutte le difese mi abbandonano. / Apri l’ultima porta. / Sono così spaventata / dalla gioia / che tutto il sonno si fa sottile / come un fazzoletto liso».
Ma la ferita dei tempi bui, l’abbandono degli uomini su coste straniere «che chiedevano perdono di esistere», continua a sanguinare nelle rimozioni feroci, nella memoria infranta e dilaniata, nell’orrore che solca gli occhi: «A volte ti vedo / dilaniato da bestie feroci / da esseri umani animali / Forse ridiamo / La tua paura che io non vidi mai / questa paura / io vedo voi» (Tempi bui).
La denuncia contro l’esistenza ridotta a gelido brandello di stoccaggio avviene nella composizione Abolizione dell’obbligo di obbedienza agli ordini: un punto di vista, dove una colomba stordita aziona lo smistamento di granaglie di una fabbrica statunitense, perdendo la sua dinamica fertile e la sua valenza simbolica di possibilità e di perdono, finendo per restituirci la sua negata sopravvivenza: «Niente mi ha confuso più di una colomba / il becco di una colomba aziona la leva / per un chicco / per un piatto di lenticchie / Esaù / per una lenticchia / Il suo collo era verderame / la colomba ignara / bruciavano i fuochi di Abele / arrostì colombe / Dio mangiò le colombe / Le colombe sacrificate di Abele / ingrassate come il grano di Caino / Ingrassate come il grano di Caino / colombe / premono la leva / dell’elet-/tronica / grano di Caino / becchi di colombe / ordine elettronico».
L’esattezza poetica deve conciliarsi con l’umanità vista e contemplata per la sua stessa essenza e in cui la lotta dei simboli e la forma dell’essere vivono in tutta la loro profonda peculiarità come la verità della parola innalzata: «Perché i neri / hanno paura / perché i bianchi / hanno paura / le mie parole hanno paura di / una semplice virgola / chiusa tra segni di punteggiatura / finestre aperte / righe aperte / le mie parole temono / il tradimento / dell’uomo / all’uomo / non / provarlo / lascia tutte le porte / aperte / non spingerci dentro / noi nuvole».
La lotta contro la rassegnazione, la coincidentia oppositorum, la custodia della sacralità della parola che dice l’umano, fa affiorare, nel ricominciamento, la gemmazione sisifica di una domanda infinita che ha radici, si mischia nello sforzo di entrare nella realtà per obbedirvi e per essere speranza in rivolta. Come la mano che trova il sostegno di una rosa e tenderla al «miracolo / piano / come a un uccello».

14189861019923-dominletteraHILDE DOMIN, Lettera su un altro continente, Del Vecchio editore, Bracciano (Rm) 2014, pp.412, euro 16,50.

DOMIN H., Lettera su un altro continente, a cura di Paola Del Zoppo, traduzione di Ondina Granato, Del Vecchio Editore, Bracciano (RM), 2014.
ID., Alla fine è la parola, a cura di Paola del Zoppo, traduzione di Ondina Granato, Del Vecchio Editore, Bracciano (RM), 2012.
ID., Con l’avallo delle nuvole. Poesie scelte, a cura di Paola Del Zoppo e Ondina Granato, Bracciano (RM), Del Vecchio Editore, 2011.
BERNARDI D., La soglia della manipolabilità, in “Azione”, Settimanale della cooperativa Migros Ticino, 50, 9 dicembre 2014.
CENTORBI N., Domin. L’istante teso della non-parola, “Il Messaggero, 2 novembre 2014.
GADAMER H.-G., Hilde Domin. Dichterin der Rückkehr, in Bettina von Wangenheim, Ilseluise Metz (a c. di), Vokabular der Erinnerungen zum Werk von Hilde Domin, Fischer, Frankfurt am Main 1998, pp. 29-35.
MAURIZI D., Hilde Domin. L’esilio come destino, in «Poesia», aprile 2011.
SCARINCI V., Nella prima camera: su una poesia di Hilde Domin (http://vivianascarinci.com/2015/02/19/nella-prima-camera-su-una-poesia-di-hilde-domin/).