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Frontiera di Pagine Volume II di Andrea Galgano e Irene Battaglini

di Diego Baldassarre 23 settembre 2017

leggi in pdf Frontiera di Pagine Volume II di Andrea Galgano e Irene Battaglini – Diego Baldassarre

17793423_10212351437891026_650412216_nIl libro Frontiera di pagine II (Aracne editrice-2017) è un contributo critico di due autori e docenti della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm del Polo Psicodinamiche di Prato, Irene Battaglini e Andrea Galgano. Il volume raccoglie gli articoli, le recensioni e i saggi scritti dai due autori tra il 2013 e il 2016.

Una raccolta di saggi critici di psicologia dell’arte, poesia e letteratura che fa seguito al primo volume pubblicato nel 2013.

Il Testo si suddivide in cinque sezioni.

Le prime due sezioni, strettamente collegate all’arte figurativa, sono curate dalla Professoressa Irene Battaglini.

La prima sezione “L’IMMAGINALE” raccoglie tributi critici ai maestri della pittura in un viaggio di colori attentamente analizzati per lo più da Irene Battaglini ( e in minima parte da Andrea Galgano) con la lente dell’analisi psicoanalitica. Si alternano i miti della pittura come Rembrandt, Picasso, Paul Klee, Boldini, Magritte, con saggi strettamente psicoanalitici che offrono uno sguardo non comune a problematiche contemporanee come lo stalking .

La seconda sezione IL NARCISISMO NELL’ARTE CONTEMPORANEA affronta invece il rapporto tra il mito di Narciso e la pittura. Vi troviamo Andy Warhol, Francis Bacon, Lucio Fontana e altri pittori contemporanei.

Come sostiene l’autrice nell’articolo introduttivo “ Il mito di narciso e il conflitto estetico”( Pag. 163)

la psicoanalisi e tutta la psicologia moderna, senza dimenticare il contributo della sociologia e dell’antropologia, mettono a disposizione teorie e opere interamente spese a favore di una indagine il più possibile ampia e accurata del mitologema celebrato da Ovidio nella “Metamorfosi”.

L’approccio scientifico – psicoanalitico diventa quindi fondamentale per approfondire e comprendere meglio autori che hanno profondamente influenzato l’arte pittorica moderna.

Infatti, in un passaggio efficace, Irene Battaglini sostiene che

Narciso possiede l’immagine di sé come unica via della conoscenza. Egli spicca la melagrana infetta di un doloroso desiderio non di amore, ma di una gnosi della morte e della vita: dell’estremo sacrificio di sé. Guardarsi da fuori, come fosse estraneo a se stesso, o vivere nella limitazione dell’amore che è conoscenza dell’altro come condizione di conoscenza di sé attraverso l’altro? Fa ammenda della possibilità di raffigurare con religiosa aderenza al Vero, al Dio, al Mondo e all’Uomo per restare nel gioco di rimandi della rappresentazione illusoria che è, in definitiva, la sua unica “visione”: il suo orizzonte multiplo, che si moltiplica ad ogni gesto, ad ogni battito di ciglia. E il suo dolore sta nel doversi rapportare a questo orizzonte nel tentativo di scalfirlo e guardarvi dentro come uno scenario di forze anatomiche nel tentativo estremo di restituire sulla tela il mistero che sta dentro la realtà (Bacon); placarne la silenziosa inutilità resa dagli oggetti sviliti del quotidiano e celebrati nella loro immortalità (Warhol), ferire il campo proiettivo come una tela tesa e chiusa (Fontana), combattere contro quella figura che è simulacro e immagine di sé agitandone e sfocandone i contorni come un allievo privo di maestro (Twombly), ma non mai sfiorando la veste degli dei e di una qualche verità esperienziale, oltrepassando la logica della percezione e della sensazione, in un gioco di forze che stanca, che invita al “senza titolo”.

Le sezioni successive sono curate dal Professor Andrea Galgano.

La sensazione che si prova nel leggerle è molto simile a quanto riportato dall’autore in un passaggio del libro

D. Thoreau scrisse che Walt Whitman (1819-1892) «con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta, per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni »(pag. 587).

Andrea Galgano oltre ad essere un eccellente critico letterario è anche un poeta (molto apprezzata  la sua silloge Downtown, pubblicata da Aracne editore nel 2015, impreziosita dalle tavole pittoriche di Irene Battaglini). Di conseguenza questo libro è anche una ricerca di se stesso da parte dell’autore, attraverso  punti di riferimento letterari che sicuramente hanno influenzato il suo modo di scrivere e di concepire la letteratura. Non è solo una attenta analisi degli scrittori proposti ma uno slancio pieno di passione. Che colpisce il lettore invitandolo a leggere gli autori meno conosciuti e ad approfondire quelli più noti. Sono mattoni, appunto, lanciati da ogni lato che colpiscono la nostra immaginazione e il nostro intelletto.

Per comprendere quanto sia compartecipata l’analisi critica di Andrea Galgano,  a titolo esemplificativo, si potrebbe leggere il passaggio tratto da “John Keats. L’ultimo canto dell’Usignolo“ ( Pag. 695):

L’assedio delle immagini di Keats compie l’entusiasmo del suo miracolo di incanti verbali, di giochi di fantasia espressiva e di placide invocazioni alle divinità, alle quali porge il suo desiderio e i suoi simboli, e le esperienze diventano intimità fisiche e gesti creati dal tempo sensibile: gli steli affusolati sollevano i diademi delle stelle, tra le ombre inclinate nelle lontananze di cristallo e i sentieri interminabili dei boschi, il «suono senza suono» che scivola tra le foglie, le campanule e le calendule, le rugiade e i ruscelli, la gloria delle fonti e la carne della frescura del destino che enumera ogni infinità cosmica (Ero in piedi, sulla vetta sottile d’un colle)”.

Come si vede il taglio degli articoli, tutt’altro che professorale, è una analisi attenta di ogni autore attraverso la lente dello studioso che non vuole solo spiegare ma anche capire e che guida il lettore in questo percorso di conoscenza.

Le sezioni curate da Galgano partono dalla ”PARTE III, IL FUOCO DELLA CONTEMPORANEITÀ”

E già qui troviamo un mosaico di autori che chiunque ami la poesia non può non conoscere e non amare.

Si inizia con Clemente Rebora e la sua poetica espressionista; si procede con Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano dell’epoca Latina legata alle corti imperiali del IV secolo; si va avanti con salti temporali (che potrebbero creare sconcerto ma che in realtà fanno sì che il lettore non si annoi come se fosse di fronte ad una antologia scolastica), per approdare a Vittorio Sereni con il suo ermetismo sui generis; poi Giovanni Giudici, Roberto Mussapi, Dario Bellezza, Franco Fortini, Giancarlo Pontiggia, Umberto Piersanti, Giorgio Orelli, Italo Svevo, per concludere con un omaggio a Mango, il cantautore recentemente scomparso.

Il tutto per dimostrare che la letteratura è un flusso continuo che attraversa la poesia, la prosa e la canzone senza spazio temporale o di genere

Ogni autore è attentamente analizzato con rimandi a note esplicative di altri critici letterari, a estratti poetici o letterari degli autori stessi, ai rapporti epistolari , a intuizioni dello stesso autore. Il risultato è un profilo completo di ogni scrittore. E proprio perché tale profilo risulta così ben espresso spinge il lettore alla curiosità di approfondire ulteriormente le opere degli scrittori e dei poeti citati.

La parte IV, “CONTINENTI”, è indubbiamente quella più ponderosa. Uno splendido viaggio tra Europa ( comprendendo in essa anche la Russia), America Latina e , soprattutto, Nord America.

Un viaggio che non è solo culturale, ma che dimostra come la letteratura sia interconnessa pur nelle differenze. Splendido il triangolo che si viene a formare tra  Anne Sexton,  Sylvia Plath e Ted Hughes incrociando i testi di Andrea Galgano relativi ad ogni autore.

Illuminanti le differenze che si colgono tra gli autori Europei strettamente legati alla loro plurimillenaria storia  e quelli Americani votati al futuro. E’ esemplare un verso di  Billy Collins (classe 1941) che sfacciatamente si pone in rottura con la poesia europea : “Qui non ci sono abbazie né affreschi che si sbriciolano o cupole / famose, e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione di re”.

Quasi tutti gli autori, forse non è un caso, vivono in periodi storici di confine. A partire da Alexander Blok (1880-1921) che vive sulla  propria pelle il trapasso dal regime zarista a quello della rivoluzione d’Ottobre, o quello di John Steinbeck (1902-1968) e William Faulkner (1897-1962) che subiscono e descrivono la spaventosa crisi del ’29; Miguel Hernández (1910-1942), combattente antifranchista e vittima del regime; o gli autori dell’esilio come il poeta  Hans Sahl (1902-1993) costretto a vagabondare tra Praga, Zurigo, Parigi e New York a causa delle persecuzioni della Germania Nazista; la poetessa Hilde Domin (1909-2006), pseudonimo di Hilde Löwenstein, poetessa ebrea rifugiatasi, sempre durante il periodo nazista, nella repubblica Domenicana ( da qui lo pseudonimo); o i poeti “viaggiatori”, come il premio nobel Octavio Paz.

Come se Andrea Galgano volesse sostenere implicitamente che l’arte, quella che fa la storia, deve nascere dalla rottura, dal tormento non solo interiore ma anche del corso degli eventi. E che la frontiera non ferma la parola, così come non la ferma la repressione.

L’ultima sezione (“PARTE V:SOSTE”) rappresenta un momento di riposo. Dopo il sudore della ricerca, finalmente Andrea Galgano può sedersi in poltrona e rilassarsi. Gli articoli che fanno parte di questa sezione conclusiva sono meno perfusi di rimandi bibliografici. Rinviano ad una lettura di puro piacere.

Così troviamo il poeta e critico letterario Davide Rondoni;  la recensione del romanzo The touch di Randall Wallace (già sceneggiatore di Braveheart (1995) e Pearl Harbor (2001) oltre che regista della La maschera di Ferro con Leonardo Di Caprio e We were Soldiers con Mel Gibson); l’articolo sul libro Poesie 1986-2014 del poeta “metropolitano” Umberto Fiori, edito da Mondadori; una attenta analisi della silloge Il posto (Mondadori 2014) della poetessa e Premio Pulitzer Jorie Graham; l’articolo su Leif Enger ( romanziere del Minesota , classe 1961), all’interno del quale troviamo riportata una splendida intervista rilasciata ad Andrea Monda su “L’Osservatore Romano” che tratta dello “scrivere” e di cui si consiglia caldamente la lettura; la recensione al libro Tersa morte del poeta Mario Benedetti, edita da Mondadori, tutta incentrata sulla memoria; la nota critica alla raccolta  poetica di Valerio Magrelli “Il sangue amaro”, al cui interno troviamo richiami della grande poetessa contemporanea Maria Grazia Calandrone e del giornalista del “sole  24 ore “ Gabriele Pedullà che, assieme al contributo dell’autore, aiutano a comprendere a pieno la silloge.

Pregevolissimo l’omaggio al critico letterario e poeta Giuseppe Panella, peraltro spesso utilizzato da Galgano a supporto di molti suoi scritti critici; e poi gli articoli sui poeti Thomas Merton e Michel Houellebecq che meritano una lettura attenta in quanto “poeti del silenzio”. E cosa si intenda per “poeti del silenzio” trova in questo testo una spiegazione mirabile.

Verso la fine di questo lungo viaggio letterario troviamo un articolo su Francesca Serragnoli e il suo ultimo libro Aprile di là edito da Lietocolle. Questo testo, come si comprende fin dall’inizio,  è una vera e propria dichiarazione di amore letterario:

 La nuova silloge di Francesca Serragnoli (1972), tra le più importanti poetesse italiane, Aprile di là, edita da Lietocolle, nella preziosa collana curata da Gian Mario Villalta  , apre la conoscenza del tempo in una accensione vitale e scoperta. È incontro,tessuto, vita che scorre, dolore che apre le vene, grazia che incombe, terrena partecipazione alla realtà ma anche librata trascendenza di forma.

Il ponderoso lavoro di Andrea Galgano si conclude con l’articolo sul libro di poesie “Sinopie smarrite” di Diego Baldassarre edito da Lietocolle ( pag. 867). Ringrazio infinitamente l’autore di avermi posto come sua ultima sosta. L’attenta analisi del libro è per me motivo di grande orgoglio.

A conclusione di questa breve nota, che mi auguro serva comunque da invito a leggere un così importante lavoro critico, vorrei riportare un passaggio citato nell’articolo relativo a Leif Enger  ( Pag. 805) affinché possa essere di augurio per un nuovo lavoro: «è strano, quando raggiungi la tua meta: pensavi di arrivare lì, fare quello che ti proponevi e andare via soddisfatto. Invece, quando ci sei, ti accorgi che c’è ancora altra strada da fare».

Hilde Domin: Il taglio del ricordo in esilio

di Andrea Galgano 1 giugno 2016

leggi in pdf HILDE DOMIN. IL TAGLIO DEL RICORDO IN ESILIO

domin2aIl progetto di pubblicare l’intero corpus poetico di Hilde Domin (1909-2006) trova in Il coltello che ricorda, a cura di Paola Del Zoppo, terzo capitolo edito da Del Vecchio, una traccia, per così dire, attesa e pronunciata che raccoglie una parte delle poesie, dal 1951 al 1985, che ella stessa aveva scelto per l’intensa raccolta Gesammelte Gedichte (Poesie in raccolta) del 1987, così come le liriche di Der Baum blüht trotzdem (Eppure l’albero fiorisce) del 1999, alcuni testi sparsi e le Poesie dal lascito.

L’intensa nervatura poetica si accompagna ai saggi e alle interviste (Libertà nella scrittura), unendo l’impronta autobiografica (Vita come Odissea linguistica) alla fervorosa concentrazione di indagine e di lettura del reale (Fermare tempo e scopo – Le fasi della poesia tedesca del dopoguerra viste dal Paese e da chi vi ritornò).

Lo sguardo aperto sulle contraddizioni temporali e la ricostruzione della propria vicenda autobiografica, immersa nelle peregrinazioni e negli esili forzati, come il soggiorno in Italia, a Londra e nella Repubblica Dominicana, contraddistinguono la cifra della sua odissea e della sua Resistenza, dove presentare «la fuga permanente come permanente sfida linguistica» e permeare la sua scrittura nella salvazione: «Vengo riconosciuta come un essere della Resistenza, come qualcuno che nuota controcorrente, che si butta avanti ai treni in corsa, come se li potesse fermare, e che trova davvero difficile non sedersi in punta di sedia», o ancora tratteggiando la sua genesi scritturale scrive:

«Quando, dopo la morte di mia madre, di cui qui non parlerò, giunsi al limite, ecco che all’improvviso avevo la lingua che per tanto tempo mi era servita. Sapevo cosa fosse una parola. Mi liberai tramite la lingua. Se non mi fossi liberata, non sarei sopravvissuta. scrivevo poesie. Scrivevo in tedesco, ovviamente. Ma le poesie avevano appena visto la luce che le traducevo in spagnolo per vedere come reggevano in quanto testi. Per guadagnare distanza. Pubblicare, all’epoca, non era in questione. Scrivere era salvarsi».

Nella dimensione di salvazione dall’abisso e di affioramento la parola di Hilde Domin cerca la sua dimora, il nome di ciò che ospita l’identità, dove la semplicità odora di essere umano e ritorna alla lingua, e l’esilio, come afferma Anna Ruchat, «non è vissuto da Hilde Domin come un ripiegamento, bensì come una scelta che continuamente si rinnova e la riconferma come persona il cui radicamento è nella lingua, la sola cosa «permanente» nel continuo cambiamento».

Il lavoro interpretativo sulla parola è l’inizio indiziario di un approdo che sollecita la materia poetica in cui l’autrice muove i suoi passi e in cui il rapporto dialettico tra autore, testo e lettore dimostra che, come sostiene Paola Del Zoppo, «la lettura interpretativa sia di fatto in sé generatrice e non solo relatrice di verità poetica, e come il valore di una poesia non sia limitato alla comprensione dell’intenzione originaria dell’autore».

L’attimo di libertà permesso concede la sua connessione verbale e sociale. Hilde Domin scova il gesto vivente di un approdo nella lettura del tempo e delle sue connessioni sociali, nella consonanza poetica e biografica, e nella disossata verbalità espone la sua stretta ribellione e il suo vorticoso esilio, come condizione e migrazione, innanzitutto, ma soprattutto come genesi edenica espulsa che si attesta sulla lingua originaria e sul plurilinguismo acquisito.

Scrive Roberto Galaverni:

«Diversamente  da altri scrittori esuli, che hanno approfondito il rapporto con la propria lingua soltanto attraverso la sua perdita, sembra che per lei il contatto più stretto, la consanguineità tra parola e cosa, tra lingua e mondo, e dunque l’esultanza per il riconoscimento della loro reciproca appartenenza, costituiscano la condizione stessa della poesia. Anche da questo punto di vista il suo percorso appare piuttosto singolare. «La gioia di poter dire liberamente quello che voglio, come voglio», afferma la Domin, «di respirare liberamente e di sentire la cadenza della lingua in concordanza con il proprio respiro, questa è una delle gioie più grandi dell’essere di nuovo a casa, per uno scrittore». La lettura dei suoi versi risulta così un’esperienza alquanto contraddittoria. Da un lato questa poesia – quanto mai lirica, non c’è che dire – colpisce per  freschezza, immediatezza, evidenza, dall’altro tante volte sorprende per la semplicità, la prevedibilità delle soluzioni, scorrendo via facile facile, troppo facile».

L’immediatezza non sconfina nell’ingenuità, anzi sorprende come la sua parola debba essere pura, scolpita nella essenzialità dilagata, come misura e libertà. La scrittura diventa, quindi, il momento di verità, perché scommette, continua Galaverni, «sulla riconquista di un’alleanza tra la forma e la vita, tra l’uomo e la sua lingua».

Tale centralità, pertanto, ritorna e riconsegna la poesia al suo spazio assottigliato, «non per tornare a chiuderla in una irraggiungibile torre, ma per restituirla al lettore. […] Il lettore e il poeta, accomunati dal pericolo costante di etero direzione, di spersonalizzazione e in ultima istanza di una disumanizzazione, rischiano di ridursi a essere solo esseri umani menomati dall’immagine che se ne crea funzionalmente» (Paola Del Zoppo).

Nominare direttamente l’avvenimento della realtà significa, per Hilde Domin, ritornare all’elementare porzione delle cose, del creato, di ciò che amiamo, e significa, altresì, arrestarsi sull’attrazione umana basica davanti alla datità dell’essere e alla fraternità del Tu, alla ricostruzione di una speranza menomata e franta che diventa necessaria e imminente nella sua pausa attiva: «Meno della speranza di lui / questo è l’uomo / un solo braccio / sempre / Solo colui che è crocifisso / le braccia / spalancate / dell’Io-sono qui» (Ecce Homo).

Commenta Paola del Zoppo:

«Nel primo gruppo di versi Hilde Domin fa i conti con la realtà della natura umana nella sua realizzazione contemporanea. L’essere umano, che si rivela manchevole in due direzioni, è meno di ciò che si credeva di lui, e meno di ciò che Hilde Domin crede possa o dovrebbe essere, perché è un uomo con un solo braccio, unidimensionale. A questa rappresentazione umana fa da specchio ancor più che da contrasto, l’uomo con le braccia spalancate sulla croce, il “crocifisso”, laddove gekreuzigt è qui un aggettivo: l’intenzione di Hilde Domin non è quella di esortare all’obbedienza (richiamando la presentazione di Mosè sul Sinai), né al sacrificio di sé come speranza dell’umanità (il sacrificio di Cristo), né tantomeno, però, con l’inevitabile richiamo al testo nietzschiano, di annullare nel nichilismo una possibilità di esistenza metafisicamente orientata. L’impostazione scettica di Hilde Domin viene qui – e solo poeticamente – formulata e negata in favore di una speranza di segno maggiore. Appiattirsi su un ideale di sacrificio, sia esso anche di grande portata religiosa o antropologica quanto la rappresentazione biblica o evangelica dell’umanità, è comunque pericoloso perché comporta la riduzione della vera possibilità di umanità: «solo l’Io può essere fratello del tu». Il crocifisso è garante di questa possibilità, perché iconograficamente mostra due braccia, e dunque la facoltà di abbracciare, subordinata però alla rinuncia alla condizione di “crocifisso”, all’uscita dalla definizione di sé data dal simbolo».

La poesia lirica e la sua crisi ridestano l’attenzione della poetessa verso una capacità di connessione alla germinazione dell’Io e all’apertura verso l’Altro in tutta la sua peculiare differenziazione, volgendosi alla tensione trascendentale come intima testimonianza che vuole distogliersi dall’annullamento, e al valore della scrittura come difesa che non si piega all’istantanea di consumo per farsi impegno e lotta, rifugio e confessione come «allenamento per la vita», per usare un’espressione cara a Hans Magnus Enzensberger:

«Quando ci si sente molto oppressi, si può trovare rifugio nella lirica. La lirica permette di sfogarsi di più rispetto alla prosa. La lirica si accende come una lampadina. La lirica è costituita più da sofferenza che da gioia. L’essere umano può liberarsi attraverso la scrittura poetica. Sebbene sia ovviamente qualcosa di diverso, l’unico paragone possibile è con la confessione o con una chiacchierata con lo psicoterapeuta. Si ha la possibilità di esprimere ciò che si sta vivendo. Con la lirica si può fare ancora meglio. Io dico che è una benedizione se si può diventare creativi».

È la sua semina, il singolare barbaglio di luce che diventa oggetto fisico e nuove palpebre: «Nell’aiuola / dei miei fianchi / voglio seminare i tuoi occhi / prima che le foglie dorate / cadano e ci ricoprano. / Perché in primavera / con i narcisi e i giacinti / si schiudano le nuove palpebre».

La realtà fratturata segue la sua fascinazione perlacea, giungendo da lontano, si presentifica in una lingua di cieli e carezze scintillanti,, mietendo il cuore con il coltello che ricorda gioie ferite e stelle fidate (Un luccichio, che non si arresta, una lama / a creare un ampio arco, / falce di sole. / Lì giaccio come il prato / e sento il tuo coltello, / mietitore, / Inarrestabile e gelido, / che sutura):

«Il mare, solcato placidamente di perle / e color argento come le ali di una colomba, / giunge da lontano / fino a me e mi lecca / con minuscole onde / ancora e ancora / e non si placa / come fossi il suo cucciolo. La sua lingua morbida / sui miei occhi, / senza sosta / di fronte al cielo bianco, / mi ipnotizza / dal vetro della terrazza / con questi scintillanti carezze / finchè mi lega / con le braccia a penzoloni / alla mia sedia / e di fronte a me / resta sola / la mia macchina da scrivere».

Il focus oggettuale ed esistenziale di Domin si lega alla sua valenza prodromica che attua dinamiche basilari e nodali. L’avvenimento della parola segue all’accadere della realtà e la lirica, portata sul valore esperienziale, compone i suoi scettri emigranti ed esiliati, radicandosi in una scelta lessicale immediata, come immediato è il pronunciamento, in successione, della sostanza vivente e della caccia muta e luminosa, nella genesi depredata della morte e dell’aria assottigliata: «Già alla porta / sollevasti lo sguardo. / Ci guardammo. / Un grande fiore sbocciò / pallido e raggiante / dal mio cuore» (Già alla porta).

Paola Del Zoppo sostiene che: «Proprio tramite la messa a fuoco dei suoi contorni, la parola poetica può liberarsi e restare oggetto universale, e quindi presentarsi al lettore come slegata: è contemporaneamente oggetto pre e a-razionale, ed espressione lucida di una visione del mondo. La lirica più potente è quindi, secondo Domin, una lirica che può rivelarsi quotidiana e innalzarsi a un livello di essenzialità significativa che rende possibile la sua collocazione anche in altri e molteplici contesti».

La fusione con l’esistente, in Hilde Domin, non si risolve nell’annullamento ma rivela e disvela la superficie delle cose, la materia ricoperta dai filamenti dorati, dischiude lo splendore fradicio della sua mineralità dispersa, visitata nella festa o nell’urlo di gelsomino come luce sui seni: «Ah, vorrei uscire / e sdraiarmi sul prato / con le vene aperte / e la pioggia potente / come un treno / deve scorrermi addosso / e farmi bianca / come il letto vuoto di un fiume / o gli anemoni / sulla tomba di mia madre».

La celebrazione della realtà scopre il suo istante corposo attraverso la fuga in uno specifico equilibrio librato di macchie umide e oli rovesciati, persino la stessa sovrabbondanza grida la sua solennità tormentata e frammentata, il miracolo soffice, la prominenza dell’umano come sbocco e vertigine di significato.

Sono i suoi segnali che, come i fiori bianchi, «succhiano una scorta di sole / per la notte», aprono le ferite dilatate e amate del cuore cardinale e sottovoce combattono il superfluo. Nella distanza vergine si scoprono rose e magie, come se la parola, riempiendo ogni fessura del tempo resistente, riuscisse a essere pietra vivente, oracolo luminoso, arazzo germogliato nelle radici, e polvere di sogni: «[…] e il cuore / diventa pesante di dolcezza / come un frutto pieno di zucchero. / Dopo viene trapiantato / come semi di grano dai fossati / al solco dolorante / e la ferita viene curata con la saliva / di baci leggeri. / E il grano / una felicità morta / mette radici e germoglia. / Tutte le vene ne hanno l’odore / finchè le punte delle mie dita / sono rosee / come quelle di un bambino».

L’esigenza esistenziale di comunicazione della parola ricerca l’anticipo delle fioriture, dove denudare segreti e partecipazioni all’intimità dell’essere, dove porgere la propria vociata lingua, calligrafare l’autentico, determinare la scelta esatta del volto di ciò che c’è, determinare il perimetro del territorio del linguaggio nell’attrazione indifesa e raccolta come immagini chiarificate per una seconda nascita («Chiedo alle parole di tornare da me / attiro tutte le parole / indifese / Raccolgo le immagini / i paesaggi vengono da me / gli alberi le persone / Nulla è lontano / tutti si riuniscono / c’è tanto chiarore»), e, infine, soggiogare le lacrime nello iato insanabile di gioia e mancanza, pelle e orlo: «Le parole sono melagrane mature, / cadono al suolo / e si aprono / Tutto l’interno si volta all’esterno / il frutto denuda il suo segreto / e mostra il suo seme, / un segreto nuovo».

L’esilio domestico si realizza in finestre piene di luce per trovarsi, dar respiro al cuore nelle case, svegliare la profonda nudità dell’essere che apre il mondo, facendo terminare l’estraneità delle stagioni che scuriscono e imbiancano e le corride dei frammenti: «Le teniamo strette / queste chiavi, / viaggiamo con esse, / noi esiliati, / anche noi. / Il cuore, la tua vecchia / casa, / ha finestre piene di luce, / i volti all’interno / sono estranei. / Solo nel sogno / potresti entrare / con queste chiavi / che da sveglio / pesano così tanto nelle tue mani» (Chiavi di casa), come le strade che accumulano bellezza: «Violette orlano la strada, / occhi di fiori di fragola, / mughetti. / Il cuculo m’accompagna / di richiamo in richiamo / lungo una strada / che non è la mia. / Bordata di fiori sì / ma non la mia. / Guardando gli altri / mai mi sono chiesta / se la strada sotto i loro piedi / fosse la loro», o  attraverso l’approdo proscritto che inventa la destinazione, per farsi promessa di nome eterno e “necessarietà” oltre la distruzione: «Mi sono data il nome / mi sono chiamata / con il nome di un’isola. / È il nome di una domenica / in un’isola sognata. / Colombo scoprì l’isola / una domenica di Natale. / Era una costa / a cui approdare / si può sbarcare / qui gli usignoli cantano a Natale. / Si dia il nome, disse qualcuno / quando sbarcai in Europa, / dalla sua isola» (Poter approdare).

La dinamica del nostos permea il tracciato della sua tensione attraverso riferimenti biblici, letterari e autobiografici, designando l’odissea cifrata dell’esistenza, come avviene in Nell’antro di Polifemo, in cui, «nella personalissima mitopoiesi di Domin», scrive Anna Maria Curci,

«Ulisse che fugge con i suoi compagni si affianca a Sisifo che si oppone alla coazione e ad Abele invitato a rialzarsi dopo essere stato ucciso da Caino. È la dimensione plurale della fuga che emerge chiaramente nelle tre quartine di Nell’antro di Polifemo,  precedute, a loro volta,  da un distico che fa invece preciso riferimento all’io lirico: «Der blinde Riese greift wieder nach mir», «Il gigante cieco torna a ghermirmi». Lo scenario torna a essere una Höhle, un antro, una caverna, una cavità – […]. Le immagini proposte attingono a quanto narrato nell’Odissea: Ulisse e i suoi compagni sono aggrappati al vello dei capi del gregge del ciclope, che, oramai accecato, ne tasta il ventre man mano che questi, varcando l’ingresso, si recano al pascolo.  Il verbo «fortgehen», che ricorre, sempre nella grafia «fortgehn», per ben tre volte nella prima e nella seconda delle tre quartine, la prima volta all’infinito («Andarsene») e nelle due ricorrenze successive, in una anafora, alla terza persona plurale («se ne vanno»), lancia la fune allitterativa a «fliehen» («fuggono») e «Flucht» («fuga») della terza e conclusiva quartina. Il procedere per anafore che caratterizza tutto l’impianto ritorna anche nella conclusione della prima e della seconda delle quartine, «unter der zählenden Hand», «sotto la mano che conta». La condanna si ripete, la minaccia della coazione, come per Sisifo, incombe costantemente, la fuga è condizione permanente. Solo la coscienza di tale condizione, sembra suggerire Domin, è antidoto al soccombere, all’essere schiacciati proprio da quell’obbligo alla coazione contro il quale il “suo” Sisifo si era ribellato».

Il dolore confonde i contorni degli anni, nei giorni che gridano la loro pretesa e le loro gocce, dove solo l’ostinato ha bisogno di essere solo nell’attimo del tulipano morente, dove le porte chiuse e dischiuse accendono luci, e gli stessi occhi toccano l’attimo smisurato e rimpicciolito del cuore in viaggio su lontananze distese e germogli di silenzio, tesi all’estremo: «Eppure l’albero fiorisce / Sempre gli alberi sono fioriti / anche per l’esecuzione capitale / Fiori di ciliegio e / farfalle / il vento li trasporta / anche nel letto del / condannato / Proseguono / portatori di fioritura / senza voltare il capo / con i filari luminosi / Più d’uno ti dice una parola / oppure sei tu a credere che parli / passando / Perché c’è così tanto silenzio» (Eppure l’albero fiorisce).

È la scelta che celebra le cose, le ricorda, le inscena, traccia il solco amoroso degli orli smussati piantati nel fondo e delle perdite come chiare ombre, si abbandona alla caduta e alla forza dello splendore vagante delle quotidianità azzurre, per essere in fuga, e dissolti, da ogni vento, e dove «le voci dure / e colme dei resistenza / quando il giorno finisce / e tu dolcemente / rinunzi allo splendore».

Nella raccolta La pelle del pianeta, Hilde Domin precisa lo scorrimento lento e poroso della sua striscia di carta, come un urlo che dà forma all’umano, pretendendo l’ “impossibile” coraggio civile, conoscendo la familiarità del «con- dolore» che annulla ogni perspicace distacco, e come afferma Paola Del Zoppo,

«ci conduce attraverso tutto il suo mondo poetico strappando la pelle del pianeta che ci contiene, in una successione di fasi di riappropriazione ed esaltazione della propria umanità. […] Attraversando la Storia sul Tokaido Express, Hilde Domin rielabora poeticamente e ripiega il tempo e lo spazio per trovare una sincera relazione con se stessi nella doppia “casa” dei poeti, il cui «paese si fa sempre più grande» e accogliente. La superficie terrestre si contrae i confini si ritraggono per far sì che si va via e si rimane, perché si vive nella parola «persino in parole di diverse lingue», o per scelta ci si impegna con fatica per avere residenza nella «parola tedesca». Ma se questo ritorno diventa una chiusura, l’acquisizione di un punto di vista univoco, perde il proprio valore di apertura all’altro. L’uomo tornato al presente è parte della storia e del dolore del luogo in cui si trova, e vi deve imprimere attivamente la propria umanità, «aprendo le braccia», per abbattere un lungo di muri che inevitabilmente hanno radici nel bisogno degli esseri umani di costruire la propria identità tramite somiglianze e differenze e non nella consapevolezza profonda della propria forza individuale».

La spodestata libertà smerigliata da riempire con schegge di vetro, la chiarità della scrittura che trascina detriti e macerie ma segnando «il sempre e il comunque di ogni lettera», la nostalgia che fa scorrere la terra tra le dita e delimita il nomadismo del tempo buio raccolgono la sopravvivenza di un’orma instancabile che tiene stretta i lembi delle ferite, rammenda e strappa il fiato mai stanco della luce posteriore della storia, per abitare la parola e aggrapparvisi.

Nella sillabazione della classificazione delle mura (Classificando mura), dai disegni sui tessuti, alla muraglia cinese di porcellana, fino alle mura di Avila e quelle senza porte di Ettore e di chi è senza documenti, Hilde Domin «traccia in pochissime sillabe una linea attraverso la storia della narrazione del mito e delle religioni connotando tragicamente la figura di chi è scacciato o non accolto, per associare a essi un muro che assume i contorni dell’assurdità, il muro di Berlino, un muro tra fratelli, «ognuno dalla sua parte». La dolorosa realtà viene scarnamente presentata superando ogni possibile giustificazione simbolica o narrativa: i muri più ripidi, resistenti e lunghi sono gli invisibili muri dell’indifferenza umana muri di schiene, veri e propri Mauern aus Menschenfleisch («muri di carne umana»)» (Paola Del Zoppo).

La scarnificazione della superficie e del superfluo serve alla poetessa per entrare nel mistero del reale, proferendo il suo discorso elementare, la sua tensione inesorabile non inerte che attraversa il tempo e lo spazio per riempirli di verità e senso, la sua altalena che si alza sui fuochi che bruciano, per cadenzare la lingua in un fiato che riporta a casa.

domin_il_coltello_che_ricordaDOMIN H., Il coltello che ricorda, a cura di Paola Del Zoppo, Del Vecchio editore, Bracciano (Rm) 2016, pp.461, Euro 19.

 

DOMIN H., Il coltello che ricorda, a cura di Paola Del Zoppo, Del Vecchio Editore, Bracciano (Rm) 2016.

CURCI A. M., Più scettica di Brecht, più fiduciosa di Benn: Hilde Domin (http://www.senzazuccheroblog.it/maggio-di-poesia-1-anna-maria-curci/), 5 maggio 2016.

DE MARTIN M. P., Hilde Domin: viaggio verso la parola, in «Miscellanea 3» (1996), pp. 225-230.

GALAVERNI R., La «seconda vita» di Hilde Domin, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2016.

RUCHAT A., Hilde Domin, «Il coltello». Una odissea linguistica, compagna dell’esilio, in “Alias Domenica, supplemento de Il Manifesto”, 14 febbraio 2016.

 

Hilde Domin: L’idillio spodestato

di Andrea Galgano 26 settembre 2015

leggi in pdf  L’esilio spodestato di Hilde Domin

l’articolo sul sito di Del Vecchio editore

L’idillio spodestato di Hilde Domin

La trasparenza espressiva di Hilde Domin (1909-2006) condensa margini lirici di esilio. Una poesia che si afferma, accade, si attesta in una coltre che si innerva nel magma della realtà, cerca di scostarsi dalle macerie, implora il recupero umbratile di una dimensione di appartenenza, allo stesso tempo, schiva e sorgiva.
Nata a Colonia nel 1909, figlia dalla agiata borghesia ebrea, Hilde Löwenstein (lo pseudonimo Domin fu scelto come ossequio alla Repubblica Dominicana che le diede rifugio per quattordici anni dopo l’esilio) studiò dapprima giurisprudenza ad Heidelberg, poi scontenta decise di iscriversi al corso di Teoria economica e Sociologia, seguendo le lezioni di Jaspers e Mannheim, dove conobbe di Erwin Walter Palm, studente di archeologia, nonché futuro coniuge e compagno di esilio.
L’avvento del Nazionalsocialismo la costrinse a fuggire prima a Roma, poi in Inghilterra e nella Repubblica Dominicana, dove iniziò a lavorare come lettrice di tedesco. Il successivo contatto con la madrepatria decretò il suo ritorno che sarà definitivo solo dal 1957 e toccò vari punti della sua geografia biografica: Brema, Amburgo, Colonia, Francoforte, Monaco.
La vita della sua odissea linguistica, come recita un suo importante saggio, conosce frontiere straniere e strappi spodestati, cerca l’appartenenza nell’affanno, il tempo in cui la crisi della poesia, connessa allo sviluppo della Repubblica Federale, si impone come decisivo problema su cui far lavorare l’anima, a cui destinare l’origine cambiata del sangue, il valore della lingua che deve dettare la realtà e «soffermandosi con attenzione sulla necessità e sul significato della “scelta”, dell’eliminazione del superfluo, per giungere alla riflessione su ciò che si deve o non si deve dire (“i criteri della necessità e del vero”), senza tralasciare un’analisi più puntuale dell’uso dell’immagine, della metafora e del paradosso» (Paola Del Zoppo).
Laddove il limite del ritorno in Germania rappresenta, come scrive Nadia Centorbi, «un fattore fortemente catalizzante sul versante dell’ispirazione letteraria. Di conseguenza, la produzione poetica, saggistica e autobiografica, concepita a distanza di tempo dagli eventi traumatici della guerra e della persecuzione, pur essendo attraversata dal filo rosso dell’esilio, sembra trarre linfa vitale da un’altra esperienza, sorella germana della precedente, che per la poetessa fu ancora più cruciale: quella del ritorno in Europa, e poi in patria, dopo lunghi decenni di assenza».
Sostiene acutamente Viviana Scarinci: «Ma più che la bufera che imperversava in Europa in quegli anni su ebrei, minoranze etniche e oppositori al regime, Domin sosteneva che fosse stata sopratutto la poesia a entrare inaspettatamente nella sua vicenda personale come una seconda vita o come dovrebbe fare l’amore, del tutto inaspettatamente e senza invito. È una seconda vita quella che l’avvento della poesia impone secondo Domin, non sul piano metaforico ma bensì su quello temporale. Quindi la poesia può arrivare a dividere la vita in due parti anzi in due vite separate e differenti, quella della donna di prima e quella della seconda donna».
Quali sono allora i confini, se tali possono essere chiamati, dell’iter poematico? A quali decisive linee deve rivolgersi la parola per toccare, con radicalità, il lettore fino all’interpretazione e, come sosteneva Gadamer, lasciarlo libero? Domin affronta il duro agone della possibilità della lirica di concentrarsi sul fine della creazione poetica, ossia offrire agli uomini qualcosa che sia compiuto e inesauribile.
Come già recita il titolo della prima raccolta, Qui (1964), l’hic et nunc dell’avvenimento poetico promette la nudità di una tensione nella quale, come commenta Nadia Centorbi, «l’io, in collisione sgomenta con la realtà, rinviene una possibile, seppur paradossale, collocazione fenomenica» e in cui il non detto e l’indicibile ispessiscono sbandamenti smisurati: «Lirica / la non parola / tesa / tra / parola e parola» (Lirica).
Avvertire le contraddizioni del reale, sperimentare il potere mai neutrale della libertà di tempo e spazio significa vivere la densità dell’istante in tutta la sua sproporzione: «Il tempo esiste solo quando è terminato, per dirla con un paradosso […] lo chiamo, con Brecht, il “minimo per l’imprevedibile”. Non c’è da prendere la parola minuto letteralmente. Questa pausa, la pausa attiva, ha una durata indefinita. Per questo lo chiamo “istante”. Fermati momento – e lo fa: irripetibile, congelato».
È in questa attualità di tempo e luogo che si svolge l’approdo dell’esilio che invoca rinascite e transizioni risorte attraverso la «gioia dell’esserci nel tempo della realtà e quello relativo a una dimensione più ampia, sempre in dialogo con la prima: la dimensione sacra della parola lirica, la parola profetica che sempre trova una bocca che la pronunci. La coesistenza di questi due momenti apparentemente lontani tende a confermare la realtà della lirica come realtà dell’impossibile» (Paola Del Zoppo).
Come sull’altro lato della luna abita la verità dei giorni, intessuta di nostalgia e di inappartenenza: «Sull’altro lato della luna / vanno / avvolti in abiti d’oro / i tuoi giorni veri / abitano / come te sempre / nella luce / scacciati da qui / cacciati via / lì passeggiano / sai che sono tuoi. / tu invece accogli / giorno dopo giorno / i loro sostituti: / più stranieri / di ogni Paese straniero. / Sai che i tuoi / mutano nella luce / si avvicinano a te / giorno dopo giorno / ma sull’altro lato della luna».
Oppure questa declinazione nostalgica celebra la rappresa spirale della vita appresa: «Ogni ricordo soffriva / troppo lontano / troppo lontano oltre la meta / di nostalgia. / Ma la tenerezza / del cotiledone / senza cui non esiste crescita / il riparo di una mano. / L’alta spirale / su cui / troppo tardi / impariamo tutto».
La palpebra mutilata e strappata che guarda il mondo decreta la ferita insanabile tra l’io e la realtà storica, ricuce la prospettiva di un altrove sognato e inesprimibile dove attingere luoghi dischiusi di promessa: «Strappa la palpebra: / spaventati. / Ricuciti la palpebra: sogna» (Strappa la palpebra).
La poesia che, come Sisifo, celebra la sua resistenza, si sforza di fare l’impossibile, di crearlo, facendone materia di una trasmissione irripetibile, avverte il peso di una attualità profuga, scandita dalla fragilità assassinata di Abele, che continua ad essere battuto e ucciso: «E il giardino sempre / sotto alberi in fiore / sempre / la colazione / sotto terra / popolo immaginario / gli impiccati / i nostri figli» o ancora il grido di una parola che dice ciò che c’è, lo afferma, lo cambia nell’aria che sale, compone il nome di una parola indomabile e lo «obbliga / per un battito di cuore / a essere nostro»: «Questa è la nostra libertà / dire i nomi giusti / senza paura / con voce flebile / chiamare l’un l’altro / con voce flebile / chiamare per nome il mostro / con nient’altro che il nostro fiato / salva nos ex ore leonis / lasciare aperte le fauci / nelle quali non viviamo / per nostra scelta» (Salva nos).
È questo tremore di polvere che «non tornerà mai terra» a riconoscere la coniugata libertà dell’essere che rammaglia il tenero fallimento di racchiudere il reale e che non scolpisce nemmeno la “definitività” di ogni interpretazione, come un paradossale balbettio sugli steli o come una sommersione emersa di case, come accade in Colonia: «Sono più belle le poesie della felicità / Come il fiore è più bello dello stelo / che lo sostiene / più belle sono le poesie della felicità. / Come l’uccello è più bello dell’uovo / come è bello quando viene la luce / più bella è la felicità. / E più belle sono le poesie che non scriverò mai».
È l’esilio come «La bocca morente / si affanna / per la parola / pronunciata correttamente / di una lingua / straniera», è la notte dei fiumi dell’io senza moneta tra i denti che galleggia più inutile di un tronco, è l’estate che pende sui giorni bastonati, è, infine l’espatrio delle punte calde delle dita che avvertono lo straniamento insorto, l’essere scalzi di fronte agli oggetti che ci vedono partire e tornare, oramai pronti a collezionarci nel loro pieghevole labirinto, come scrive Gadamer: «I versi di Hilde Domin ci fanno capire in modo diverso ciò che davvero è la poesia. Chi con lei realizza cosa sia il ritorno, comprende contemporaneamente che la poesia è sempre un ritorno».
L’attualità non disciolta è l’esito di una vocazione imprescindibile che non nega la realtà, non la semplifica, ma anzi, si afferma anche attraverso la possibilità di impegno che, come scrive Paola Del Zeppo «non è annullata dall’assurdità della realtà, e l’annullamento della morale dicotomica è ancor più necessario se rapportato direttamente alla politica»: «Anche qui gli alberi / stanno crescendo / tronchi chiari tronchi blu / hanno la chioma: foglie fiori frutti / senza alcun dubbio. / Gli uomini / chinati / verso il capofila / il sole / senza alcun dubbio. / Se battessero le tredici / e ognuno si / chiedesse / chiedesse a se stesso. / Specchi oscurati / in questo Paese. / Sono già le cinque / senza alcun dubbio. / La parte posteriore del capofila / il sole. / E se anche le cinque fossero le quattro / ubbidientemente / non batterebbero le tredici / nessuno domanda / nessun Io» (Contro la supremazia).
La stessa frammentazione evidenzia una tensione essenziale, uno spazio ricurvo e porto che germoglia nelle varie rappresentazioni, come lo spasimo concreto e la transizione permanente del cuore che è come una civetta che sbatte gli occhi, una sfera che lanciata rotola per un centimetro, un granello, la sfera delle sfere.
Il più grave rischio è la mancanza di approdo, la meta trascurata che non trova ripari per l’umanità franta che percorre a piedi nudi la lunga strada che allarga le braccia per dire Io, tenta di proseguire, porta in giro il suo spogliato lancio: «Chi potrebbe / a lanciare in aria / il mondo / affinchè il vento / ci passi attraverso».
Commenta Paola Del Zoppo: «Nel complesso, un’immagine che gioca sulla contraddizione per restituire le infinite possibilità del reale. Hochwerfen, “lanciare in aria”, si colloca al centro del componimento. È la scintilla che accende il fuoco dell’immagine complessiva, una speranza incontenibile e gioiosa che investe il peso della realtà (il mondo) e viene alimentata dal soffio che la attraversa. […] I contrasti si illuminano a vicenda: la densità contro la trasparenza, la pesantezza contro la leggerezza. Bisogna lanciare il mondo in aria affinchè il vento abbia la possibilità di attraversarlo: è “qualcuno” a dover trattare il mondo stesso come se fosse leggero, tanto leggero da essere lanciato, affinchè si riconosca che il vento può effettivamente attraversarlo».
Il grido della parola pronuncia apocalissi affermate, accarezza le piume della lingua ma esse si riscoprono «piumate di nostalgia / senza nido», perché «un tempo contro un sorriso / nessuno regge la vita da solo / volteggiando e volteggiando», come un sacrificio che chiede salvezza, nomina il sacro e la dignità del loro assurgere innocente nel mondo smerigliato: «Vivevo su una nuvola / su un piatto volante / e non leggevo i giornali. / I miei piedi delicati / non percorrevano più le strade / che non sapevano percorrere. / Consolandosi l’un l’altro / come due colombe / rimpicciolivano ogni giorno di più. / Certo ero inutile. / Il piatto di nuvole si spezzò / caddi nel mondo / un mondo di carta smerigliata. / I palmi delle mani mi fanno male / i piedi si odiano l’un l’altro. / Piango. / Sono inutile» (Alternativa).
Esiste sempre una distanza tra l’impronunciabile destinazione delle parole e i sogni dischiusi, come una sfumatura di stanze sconosciute e metafisiche che si vedono, si offuscano, si dimezzano e si allontanano come scambi prospettici inconciliabili e inconoscibili di un centimetro irripetibile di pelle, di un dito-seme: «L’uomo questo animale domestico / sogno-meteco / anfibio / i piedi in un sogno / le mani in una stanza / camminano in sogni estranei / sempre nel Paese sconosciuto / degli altri / mai / il proprio occhio che vede / solo in sogno / solo da lontano / solo nell’occhio dell’altro».
È il suo continente la rafferma autenticità di proseguire la parola verticale, il canto sperduto, la mano che tocca le spalle, che cerca le braccia aperte, Euridice trovata e perduta, la sfera inarcata, il proprio guscio di luce e la sua galleria fiorita: «Non guardarti intorno / per cercarmi / Euridice / sempre con te / la mano / che tocca le tue spalle / sotto gli alberi esotici».
In Figure rupestri (1968) e in Ti voglio (1970-1995), l’esigenza di una libertà irruvidita e speciale chiede autenticità senza manipolazioni, l’impegno politico e poetologico dirama il suo profumo che anela all’intuizione terna, alla restituzione non riparata di una bellezza gremita: «Parola libertà / che voglio irruvidire / ti voglio riempire di schegge di vetro / così è difficile tenerti sulla lingua / non diventi la palla di nessuno / Te e altre / parole vorrei riempire di schegge di vetro / come comanda Confucio / il vecchio cinese / La coppa quadrata / deve / essere quadrata / dice / altrimenti va in rovina lo Stato / Null’altro dice / è necessario / chiamate / il tondo tondo / e il quadrato quadrato» (Ti voglio).
Il contrasto dei simboli, la loro differenza, la profonda vertigine che lotta contro il tradimento e lo snaturamento dell’essere e quindi del linguaggio, sceglie alternative, sembra quasi richiamarle nella potenza struggente di un corpo-fazzoletto liso che riscopre la lucentezza dell’amore: « Il mio sesso trema / come un uccellino / nella presa dei tuoi occhi. / Le tue mani una brezza leggera / sul mio ventre. / Tutte le difese mi abbandonano. / Apri l’ultima porta. / Sono così spaventata / dalla gioia / che tutto il sonno si fa sottile / come un fazzoletto liso».
Ma la ferita dei tempi bui, l’abbandono degli uomini su coste straniere «che chiedevano perdono di esistere», continua a sanguinare nelle rimozioni feroci, nella memoria infranta e dilaniata, nell’orrore che solca gli occhi: «A volte ti vedo / dilaniato da bestie feroci / da esseri umani animali / Forse ridiamo / La tua paura che io non vidi mai / questa paura / io vedo voi» (Tempi bui).
La denuncia contro l’esistenza ridotta a gelido brandello di stoccaggio avviene nella composizione Abolizione dell’obbligo di obbedienza agli ordini: un punto di vista, dove una colomba stordita aziona lo smistamento di granaglie di una fabbrica statunitense, perdendo la sua dinamica fertile e la sua valenza simbolica di possibilità e di perdono, finendo per restituirci la sua negata sopravvivenza: «Niente mi ha confuso più di una colomba / il becco di una colomba aziona la leva / per un chicco / per un piatto di lenticchie / Esaù / per una lenticchia / Il suo collo era verderame / la colomba ignara / bruciavano i fuochi di Abele / arrostì colombe / Dio mangiò le colombe / Le colombe sacrificate di Abele / ingrassate come il grano di Caino / Ingrassate come il grano di Caino / colombe / premono la leva / dell’elet-/tronica / grano di Caino / becchi di colombe / ordine elettronico».
L’esattezza poetica deve conciliarsi con l’umanità vista e contemplata per la sua stessa essenza e in cui la lotta dei simboli e la forma dell’essere vivono in tutta la loro profonda peculiarità come la verità della parola innalzata: «Perché i neri / hanno paura / perché i bianchi / hanno paura / le mie parole hanno paura di / una semplice virgola / chiusa tra segni di punteggiatura / finestre aperte / righe aperte / le mie parole temono / il tradimento / dell’uomo / all’uomo / non / provarlo / lascia tutte le porte / aperte / non spingerci dentro / noi nuvole».
La lotta contro la rassegnazione, la coincidentia oppositorum, la custodia della sacralità della parola che dice l’umano, fa affiorare, nel ricominciamento, la gemmazione sisifica di una domanda infinita che ha radici, si mischia nello sforzo di entrare nella realtà per obbedirvi e per essere speranza in rivolta. Come la mano che trova il sostegno di una rosa e tenderla al «miracolo / piano / come a un uccello».

14189861019923-dominletteraHILDE DOMIN, Lettera su un altro continente, Del Vecchio editore, Bracciano (Rm) 2014, pp.412, euro 16,50.

DOMIN H., Lettera su un altro continente, a cura di Paola Del Zoppo, traduzione di Ondina Granato, Del Vecchio Editore, Bracciano (RM), 2014.
ID., Alla fine è la parola, a cura di Paola del Zoppo, traduzione di Ondina Granato, Del Vecchio Editore, Bracciano (RM), 2012.
ID., Con l’avallo delle nuvole. Poesie scelte, a cura di Paola Del Zoppo e Ondina Granato, Bracciano (RM), Del Vecchio Editore, 2011.
BERNARDI D., La soglia della manipolabilità, in “Azione”, Settimanale della cooperativa Migros Ticino, 50, 9 dicembre 2014.
CENTORBI N., Domin. L’istante teso della non-parola, “Il Messaggero, 2 novembre 2014.
GADAMER H.-G., Hilde Domin. Dichterin der Rückkehr, in Bettina von Wangenheim, Ilseluise Metz (a c. di), Vokabular der Erinnerungen zum Werk von Hilde Domin, Fischer, Frankfurt am Main 1998, pp. 29-35.
MAURIZI D., Hilde Domin. L’esilio come destino, in «Poesia», aprile 2011.
SCARINCI V., Nella prima camera: su una poesia di Hilde Domin (http://vivianascarinci.com/2015/02/19/nella-prima-camera-su-una-poesia-di-hilde-domin/).