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Sogno, mito e pensiero

di Gabriele Di Maio  24 marzo 2015

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indexSogno, mito e pensiero. Quanto se ne è parlato! Ha ancora senso farlo? Forse no, come molti credono. Ma forse si, se ci concediamo un viaggio tra le costellazioni neurali che tanti misteri ancora nascondono.
La psicoanalisi parla di inconscio anche come di una condizione a cui giungere, e per Freud il sogno ne era la via regia di accesso. E probabilmente non aveva tutti i torti.
Solitamente la domanda fatale sopraggiunge al termine di una disquisizione, insinuando l’ammiccante dubbio…ma questa volta la sua urgenza è impellente, quindi: le persone private di contatti diretti col mondo, come ad esempio i sordomuti e non vedenti dalla nascita, sognano? E’ come chiedersi: fanno parte del nostro mondo, oppure no?
Se per Freud la ormai insinuata convinzione circa la possibilità di rappresentare i processi psichici attraverso espressioni fisiologiche fu il segno e la condanna di un impasse, oggi non è più così; a differenza del lontano 1894, oggi forse é possibile rendere al padre della psicoanalisi il sogno e la aspettativa. Oggi una tomografia assiale computerizzata (TAC) può identificare alcune aree che, se danneggiate, alterano in vari modi l’attività onirica. Sto parlando delle regioni parietali inferiori di entrambi gli emisferi e la regione ventromesiale profonda. Esse, se danneggiate, interrompono la esperienza cosciente del sognare. Cosciente, appunto.
Lesioni in queste aree ci dicono che il fattore principale di cui esse sono responsabili è la capacità di rappresentarsi, concretamente, nella mente, l’informazione attraverso la modalità visuospaziale.
Ma se la esperienza visuospaziale è legata alla esperienza cosciente, in chi ha deficit percettivi nelle modalità sensoriali primarie, si verifica una cessazione della attività onirica o solo della sua parte cosciente?
Del resto, lesioni nelle aree temporo-occipitali ventromesiali comportano la perdita della immaginazione visiva nei sogni, ma ne resta preservata l’attività onirica. Un mezzo di contrasto, questa evidenza scientifica tutta nuova, che però richiama inevitabilmente alla mente la concezione ferencziana che vede il sogno declinato in un momento primario, dedicato alla ripetizione dell’evento traumatico, e in un momento secondario, dedicato alla sua elaborazione.
Lungi dal voler localizzare la attività onirica all’interno delle reti neurali del nostro universo cerebrale, si può invece dire che essa è coinvolta in una dinamica viva e attiva tra i meandri delle connessioni.
Se è vero che il sogno, durante il suo viaggio nel cervello, termina con una rappresentazione percettiva concreta, che lo rende “reale” ( e quindi raccontabile), giustificandone la qualità allucinatoria e delirante, potremmo solo concludere che chi vive una esistenza priva di contatti col mondo, ne è comunque parte integrante, è “uno di noi” ma, al massimo, non è soggetto ai deliri, e forse neanche alle nevrosi, che appartengono al mondo dei sensi che da sempre, imponendoci uno stato di coscienza, ci obbliga a scindere il bene dal male, la luce dal buio, il bianco dal nero, proiettando fuori da noi ciò che invece è esclusivamente dentro, ed è destinato a restarci, nonostante l’umano bisogno del contrario. Cosa è questo, se non un delirio e l’allucinazione di un mondo che, realmente, non esiste?

Forse si, forse è proprio vero che per riuscire a scorgere la veridicità nascosta tra la intuizione circa l’esistenza di neuroni permeabili e neuroni impermeabili legati strettamente dalla forza della conduzione sensoriale, si é reso innanzitutto necessario concepire gli archetipi come l’aspetto psichico della struttura cerebrale. Una bizzarra ironia della sorte ha voluto che Jung si ponesse nel mezzo, come tramite e ponte necessario tra Freud e le auspicate evoluzioni e forgiature scientifiche di cui si sarebbe marchiata la psicoanalisi. Jung, quindi, non ha soltanto posto il Sé al centro sradicandolo dalle profondità dell’inconscio collettivo (Gramantieri, Monti, pp. 91), ma ha posto al centro la funzione creativa del suo genio, dando piena dimostrazione della possibilità, da lui sostenuta, di poter interpretare il sogno servendosi di un atto di amplificazione, non solo di associazioni.
Quanto sono forti le correlazioni tra una simile riflessione e la visione in Freud, Jung e Bion, quindi? Direi che è questo uno di quei casi in cui una connessione, o meglio, una Proiezione ( che sia dinamica o neurale, o entrambe) fa davvero la differenza.
Lancio, quindi, non delle domande, ma l’augurio di coltivare con produttività i semi della certezza, lasciando a questa fecondità un auspicio di riconoscimento: il sogno, con molta probabilità, non è identificabile e non si esaurisce solo nella sua esperienza cosciente, ma è la prova ed il risultato di tutto ciò che c’era “prima”, di tutto ciò che è pre-verbale, pre-conscio, simbolico, risalente all’era in cui non avevamo bisogno di scindere il bene dal male e proiettare fuori persino le divinità.
La espressione della materia ancestrale che risiede nel cervello, prima che nella formazione della mente, e nella mente fatta di simboli, prima che nella formazione delle connessioni neurali di cui siamo dotati oggi. É come tornar a riprendere, nel mare limpido ma sempre vivacemente scosso della psicoanalisi, il concetto bioniano secondo cui pensare e sognare sono espressioni dello stesso meccanismo mentale, poiché il sogno é il mezzo attraverso il quale avviene la conversione in pensiero delle esperienze sensoriali. Del resto, é lo stesso Gramantieri a ricordarci, attraverso le parole di Bion, che la parte più arcaica di pensiero é costituita da preconcezioni, i cui contenuti mentali innati designano uno stato psichico di attese. Esse sono pensiero potenziale (Gramantieri, Monti, pp. 122).
Grazie anche alle neuroscienze, il sogno diviene, di diritto, il risultato e la prova di quel Linguaggio Dimenticato, conferendo maggiore forza alla concezione, sentita e vivida ora più che mai, secondo cui esso va a configurarsi come il processo di “digestione” della realtà (Gramantieri, Monti, pp. 134).
Se è vero che è possibile rintracciare delle corrispondenze tra i macroperiodi storici dell’umanità e le fasi psico-sessuali illustrate da Freud, sorge irrefrenabile l’impulso di chiedersi se ed in che misura il padre della psicoanalisi identificherebbe l’attuale periodo storico in una fase denominata “matura”. E chissà se Sandor Ferenczi, ai giorni nostri, rimprovererebbe ancora alla psicoanalisi il ricorrere ad un metodo troppo intellettuale.

Riccardo Gramantieri-Fiorella Monti, Sogno, mito e pensiero. Freud, Jung e Bion,Persiani,Bologna 2014, 196 pp., euro 16,90.

Bibliografia
Freud, S. (1899-1900), trad. it. L’interpretazione dei sogni, in Opere, 3. Torino: Boringhieri, 1966.
Fromm, E. (1951). Il linguaggio dimenticato. Introduzione alla comprensione dei sogni, delle fiabe e dei miti. Milano: Bompiani.
Gramantieri, R., Monti, F. (2014). Sogno, Mito e Pensiero. Freud, Jung e Bion. Bologna: Persiani.
Jung, C. G. (1916-1948). Considerazioni Generali sulla Psicologia del Sogno. tr. it. in Opere, Torino: Boringhieri.
Jung, C. G. (1982). Gli archetipi dell’inconscio collettivo. Torino: Bollati Boringhieri.
LeDoux, J. (1996). The Emotional Brain. The Mysterious Underpinnings of Emotional Life (tr. It. Il Cervello Emotivo. Alle origini delle Emozioni. Milano, Baldini & Castoldi, 1998).
Lurija, A.R. (1973). Come lavora il cervello. Introduzione alla neuropsicologia. Bologna: Il Mulino, 1988.
Ramachandran, V., S. (2012). L’uomo che credeva di essere morto e altri casi clinici sul mistero della natura umana. Milano: Mondadori.
Sacks, O. (1990). Vedere voci. Un viaggio nel mondo dei sordi. Milano: Adelphi.
Solms, M., Kaplan-Solms, K. (2002). Neuropsicoanalisi. Un’introduzione clinica alla neuropsicologia del profondo. Milano: Raffaello Cortina.

La funzione terapeutica della fiaba tra Archetipi e Miti-II parte

di Linda Gargelli            11 ottobre 2014

leggi in pdf La funzione terapeutica della fiaba – L. Gargelli – II^ parte

ImmagineInutile e alquanto superficiale illudersi che i nostri bambini vivano esclusivamente nell’eterna spensieratezza, immersi in una realtà ludica del tutto priva di esperienze emotive negative come angoscia, tristezza e preoccupazione. In realtà, dietro l’apparente gaiezza di un sorriso possono celarsi importanti preoccupazioni e pressanti tempeste emotive, con la differenza che l’adulto riesce meglio ad esteriorizzare i propri patemi, mentre il bambino non riesce a dare un nome a ciò che lo affligge, andando spesso incontro alla rimozione. Per rimozione si intende quel processo psicoanalitico attraverso il quale si esclude dalla coscienza determinate rappresentazioni connesse a una pulsione il cui soddisfacimento sarebbe in contrasto con le altre esigenze psichiche.
La rimozione genera angoscia e può, soprattutto nei bambini, in comportamenti difficili e di sfida o in veri e propri sintomi nevrotici, come enuresi notturna, incontinenza fecale, iperattività, bullismo, fobie, ansia di separazione, ecc.
Proprio come il cibo, alcune emozioni necessitano di essere digerite e metabolizzate. Se ciò non avviene, il carico energetico associato a tali emozioni, troppo difficili o troppo forti da gestire, non si estingue da solo, ma rimane bloccato dentro di noi.
Come disse anche Freud riguardo alla rimozione e all’inconscio: “le emozioni proliferano [lì] nel buio” (Freud, 1917, p.54); così l’angoscia emotiva repressa sfocia sotto forma di sintomi nevrotici.
Il problema come fa notare la Sunderland è che il bambino non possiede le risorse per regolare il proprio livello interno di eccitazione emotiva e da qui l’idea centrale di utilizzare e servirsi delle storie, per aiutare il fanciullo a gestire il carico emotivo.
Una storia, secondo la Sunderland, assume connotazioni terapeutiche quando aiuta il bambino a parlare delle proprie emozioni influendo positivamente sulla sua personalità e facilitando la crescita psicologica. Ma se è vero che i bambini hanno bisogno di aiuto per venire a capo dei loro stati emotivi, qual è il ruolo della fiaba in tutto questo? Per la Sunderland è proprio qui che risiede la radice del problema: i bambini non parlano facilmente delle proprie emozioni, poiché il linguaggio di tutti i giorni non corrisponde al linguaggio naturale con il quale esperiscono le proprie emozioni.
Il linguaggio naturale delle emozioni è fatto di immagini e di metafore, proprio come quello di cui si sostanziano le fiabe. Per questo “prendendo in prestito” motivi fiabeschi conosciuti o costruendone di nuovi si può entrare in sintonia con le trame interiori del bambino. Inoltre le comuni denominazioni dei sentimenti tendono a livellare e ad appiattire quello che il bambino sta sperimentando, mutandolo in qualcosa per lui di estraneo e lontano. James Hillman , psicoanalista di matrice junghiana, sottolinea che
“l’anima desidera risposte immaginative che la muovano, la delizino, la sprofondino”(Hillman,1983, p.38), così intendendo che l’adulto in cerca di una sintonia con i motivi inconsci del fanciullo deve familiarizzare con la base poetica della propria mente: “la mente è fondata sulla sua stessa attività narrativa, nel suo fare fantasia. Questo fare è poiesis. Conoscere la profondità della mente significa conoscere le sue immagini, ascoltare le storie con un’attenzione poetica, che colga in un solo atto intuitivo le due nature degli eventi psichici, quello terapeutico e quello estatico” (ibidem, p.61). Una storia terapeutica può quindi rendere il bambino capace di ascoltare, vedere, sapere e sentire con più chiarezza e, allo stesso tempo, offrire all’adulto la possibilità di sviluppare un’empatia più profonda di quanto sarebbe possibile con parole letterali. Le fiabe, inoltre, con il loro specifico codice emotivo, creano spazi di introspezione e tempi di riflessione più consoni alle modalità di apprendimento del bambino rispetto alle consuetudinarie situazioni in cui l’adulto si impone con consigli rigidi e diretti, spesso ignorati, evitati e rigettati. Il bambino, con il supporto delle immagini metaforiche contenute nella storia, è in grado di osservare i propri sentimenti da una distanza di sicurezza che gli permette di non affogare nel mare tempestoso del suo inconscio. Un’altra caratteristica peculiare delle storie con finalità terapeutiche è, come scrive la Sunderland, “avere il diritto di dire di no o mi dai fastidio, poter essere diverso, poter cambiare il modo in cui ci si sente, poter liberare l’ansia, ecc.” (Sunderland, 2000, p. 28).
Il racconto di fiabe può essere utile per rielaborare non solo emozioni complesse, ma anche veri e propri traumi. Quando le emozioni relative a un trauma sono orribili e spaventose vengono relegate nell’inconscio, ma è proprio in questo luogo che diventano ancor più dannose, poiché assillano la mente e plasmano indirettamente il comportamento dell’individuo. Se un bambino traumatizzato non racconta la storia del suo dramma, può continuare a viverlo in modo inconscio, attraverso un comportamento difficile o estremo. Possiamo dire che un trauma non è ciò che è accaduto ma il modo in cui vediamo ciò che è accaduto. La costruzione o la lettura di una fiaba offre l’opportunità di storicizzare i fatti accaduti, dare un nuovo nome al dolore ridefinendone i suoi confini. In questo modo è possibile depotenziare il ricordo traumatico, rivivendolo attraverso l’identificazione con i personaggi fiabeschi e metabolizzandolo consciamente. Un trauma per poter essere superato non va rilegato nelle cantine dell’inconscio, ma va attraversato e la fiaba offre la possibilità di fare ciò: è come un piccolo lume che, se portato nel buio più profondo, riesce ad illuminare e schiarire tutto ciò che c’è intorno in modo da permetterci di esplorare i lati più oscuri del nostro essere. La ricerca in questo ambito mostra come, nell’agire alcuni tratti dell’evento traumatico, il bambino che l’ha subito può assumere sia la parte del persecutore sia la parte della vittima. Molti bulli da cortile spesso sono stati loro stessi vittima di bullismo. L’esito è davvero triste, poiché il trauma viene ripetuto in maniera compulsiva e automatica, tramite la coazione a ripetere senza essere pienamente sentito o vissuto consciamente. Ma se i bambini hanno l’opportunità di mettere in scena le vicende che sostanziano il loro trauma e mostrarle a qualcuno che li ascolti e li aiuti a elaborare le emozioni ad esso associate, non avranno bisogno di continuare ad agire parti della storia traumatica in modo antisociale ed estremo.

Come il terapeuta può ideare e raccontare una storia terapeutica.

La costruzione di una storia terapeutica ha come finalità quella di parlare con empatia e precisione della questione emotiva o del problema che sta tormentando il bambino, attraverso immagini espressive ed evocative che possono abbracciare l’intero dipinto, ovvero la realtà più profonda dell’esperienza emotiva di un bambino. Per individuare il nucleo problematico del fanciullo dobbiamo cercare di rintracciarlo nei suoi giochi, nei suoi sogni, nei suoi sintomi nevrotici e nei comportamenti estremi. Possibili situazioni problematiche potrebbero essere: sentirsi solo, sentirsi escluso, sentirsi impotente, sentirsi in trappola, ecc. Fondamentale è ideare un personaggio con il quale il bambino possa identificarsi, compiendo in questo modo lo stesso viaggio del protagonista, patendo delle sue sconfitte e angosciandosi delle sue eventuali prove da superare, ma mantenendo anche lo stesso suo coraggio per andare avanti.
Per identificazione si intende quel meccanismo psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo di un’altra persona e si trasforma parzialmente o totalmente nel modello di quest’ultima. Se non c’è identificazione con il personaggio fiabesco non c’è azione terapeutica. Per favorire l’identificazione è consigliabile creare un personaggio con gli stessi affanni e tensioni emotive del bambino. Ad esempio, se il bambino si sente escluso e solo, il personaggio fiabesco dovrà contenere tratti di esclusione e di solitudine. Questi primi passaggi sono molto delicati perché richiedono al terapeuta di trasferire la situazione ansiogena provata dal bambino nel luogo e nel tempo lontano e sospeso delle fiabe, modellando un contesto metaforico che possa accogliere i conflitti e i disagi del fanciullo, che trovano corrispondenza nel mondo reale. Se, ad esempio, si individua nel bambino un problema di enuresi notturna, in seguito al quale il piccolo si sente pieno di vergogna, la possibilità di portare il tema in un contesto fantastico, che potrebbe essere rappresentato da un porcospino nella foresta che fa continuamente la pipì senza accorgersene, potrebbe fornire la protezione dal disgusto attraverso un’espressione indiretta.
Ma quali sono le immagini metaforiche che possiamo inserire nel racconto e che possono essere il più possibile evocatrici delle sofferenza del bambino? Nella tabella sottostante sono riportati alcuni scenari reali che, secondo la Sunderland, potrebbero divenire immagini metaforiche da inserire nella storia terapeutica, per dar voce in maniera indiretta al disagio del bambino.

Figura n° 1. Situazione interiore e corrispondente immagine simbolica.

La funzione terapeutica della fiaba - L. Gargelli - TABELLA

 

 

 

 

 

Il passaggio successivo e centrale per attribuire alla fiaba il potere terapeutico è quello di mostrare con calma e senza correre il percorso dal momento critico alla soluzione della crisi, creando un ponte tra i due mondi rappresentato dal range delle possibili soluzioni, che permetta al bambino di non affogare e farsi trascinare dalle correnti delle sue emozioni, ma di osservare dall’alto e da una situazione di sicurezza le possibili opzioni. Fondamentale è mostrare il protagonista mentre affronta il problema, usando delle strategie simili a quelle del bambino ed evidenziando come questo modo di affrontare il problema lo conduca in acque agitate o in un vicolo cieco con risultati distruttivi. La trama della fiaba terapeutica in questo momento deve mostrare l’errore fatale che quella modalità di reazione al problema porta il protagonista a sperimentare nella sua vita una sorta di crisi, interiore o esteriore. Dopo la crisi (da crisis = scelta), avviene il cambiamento, una sorta di lisi dalla quale il protagonista viene fuori da vincitore e rin-sanato. Questa è la parte più viva, perché suggerisce al protagonista, e indirettamente al bambino, la soluzione, la nuova rotta da prendere, il meccanismo più maturo da acquisire. La storia mira alla trasformazione dell’individuo, chiaramente visibile nel finale. Basti pensare alle fiabe classiche dove il brutto anatroccolo si trasforma in cigno, il burattino pinocchio in bambino o Cenerentola in principessa. Possiamo quindi concludere che la struttura della fiaba terapeutica si compone di tre parti: la prima, in cui viene riportato il luogo, il tempo e i personaggi principali (il contesto di vita del bambino); la seconda, dedicata alla crisi, momento culminante in cui il soggetto si trova di fronte ad eventi catastrofici ed apocalittici che possono distruggerlo (manifestazione esteriore delle problematiche che assalgono il bambino); l’ultima, caratterizzata dalla trasformazione del protagonista (potenziare e progettare nuove strategie di resilienza e offrire meccanismi difensivi più maturi). Vladimir Propp che ha analizzato in Morfologia della Fiaba (1928) migliaia di fiabe provenienti da quasi tutto il mondo, ha individuato gli elementi comuni e principali che dovrebbero essere contenuti all’interno delle storie, e quindi anche all’interno delle nostre fiabe terapeutiche. Questi elementi universali e trans-culturali sono: l’ indeterminatezza spaziale e temporale (C’era una volta tanto tempo fa, in un paese lontano lontano..), l’allontanamento dal luogo d’ origine (la povertà che spinge i personaggi ad allontanarsi, la fuga dal cattivo, le focacce da portare alla nonna, ecc, il tranello (il lupo, la fonte stregata, ecc,) con il superamento della prova supportato molto spesso da un aiutante e il lieto fine, dopo una serie di peripezie/imprese che l’eroe ha dovuto superare. Riassumendo il pensiero di Margot Sunderland, una storia per avere degli effetti terapeutici deve: offrire delle opzioni alternative al comportamento da tenere di fronte ad un possibile ostacolo, offrire nuove possibilità e soluzioni creative per fronteggiare e superare problemi apparentemente insormontabili, mostrare come trattare in modo più efficace e molto meno doloroso i più comuni problemi emotivi e infine offrire opzioni per un nuovo modo di essere.
Qui di seguito riporterò una storia terapeutica ideata da Margot Sunderland per un suo piccolo paziente fortemente traumatizzato per essere stato picchiato dal padre, così tanto da essere inserito in un istituto. Lì, malgrado si fosse fatto dei buoni amici, subiva azioni di bullismo dagli altri ragazzi, perché era ancora troppo fragile e vulnerabile.
La storia di Minuscolino nella Foresta Spaventosa.
Minuscolino era un pulcino che un giorno si trovò, invece che nella fattoria, nell’orribile sottobosco di una foresta. Improvvisamente, una scimmia gli ruggì contro e lui si raggomitolò e rimpicciolì fino a diventare una pallina. Camminò ancora un po’, ma poi le foglie scricchiolarono in modo sinistro e lui si sentì ancora più piccolo. E poi un gufo fischiò forte e lui si sentiva sempre più piccolo e poi Minuscolino vedeva che la foresta era enorme, più si sentiva minuscolo. Dopo che tutti i tipi di creature delle foresta gli ebbero ringhiato addosso, gridato in faccia, dopo che ebbero sogghignato o strillato, lui si sentì più piccolo di un corpuscolo. E siccome si sentiva un corpuscolo, il più piccolo degli insetti che viveva nella giungla voleva mangiarselo. Così minuscolino cominciò a scappare a tutta velocità e si nascose. E mentre era li nascosto pensò che voleva arrendersi. “Che senso ha vivere in un mondo tropo grande?”, pensò. E proprio in quel momento passo di lì volando un uccello con delle piume bellissime. “Ehi, ti ho visto nascosto laggiù”, gli disse.“Perché non vieni fuori di lì e non ti bevi una tazza di tè con me?” Minuscolino rispose che non poteva. “Il mondo fuori dal mio nascondiglio fa troppa paura.” “Figurati”, disse l’uccello, “Se stiamo assieme non fa per niente paura. E’ vero che fare da soli, cose coraggiose, può fare troppa paura, puoi sentirti molto solo; ma insieme può essere divertente e interessante. E, pensa un po’, qui c’è anche il mio amico Porcospino!”. E così Minuscolino, Porcospino e l’uccello meraviglioso andarono tutti insieme a casa dell’uccello meraviglioso a bere una tazza di tè. E quando per la strada incontrarono dei fastidiosi insetti, gridarono forti e tutti assieme “Buh”, e così gli insetti non li disturbarono più. E quando i gufi fischiarono forte, l’uccello meraviglioso, Minuscolino e Porcospino risposero fischiando, cosi’ i gufi dissero: “Va bene, allora andremo a fischiare da un’ altra parte”. Minuscolino non si era mai sentito bene in tutta la sua vita. Sentiva dentro di sé un bel calduccio e i tre amici, insieme, passarono proprio un bel pomeriggio a bere il tè. Dopo quel giorno che tutte le volte che Minuscolino sentiva che stava per rimpicciolirsi diventare piccolo piccolo pensava: “Ops è il momento di chiedere aiuto ad un amico” e così faceva. Non si dimenticò mai di come si stava bene insieme agli altri, e quanto invece da soli ci si sentisse terribilmente abbandonati e spaventati, e come il mondo sembrasse un posto orribile dove vivere. E cosi’ da quel giorno in poi, la vita di Minuscolino, diventò una vita molto più bella da vivere.
L’autrice in prima istanza ha individuato il nucleo problematico del bambino: l’intensa paura che tutti gli altri possano fargli del male come il padre e la forte ondata di impotenza che ne consegue. Ecco che la Sunderland crea il personaggio di Minuscolino, che ricalca fedelmente le caratteristiche del fanciullo, favorendone così l’identificazione: un pulcino spaventato e solo, che si sente così piccolo e impotente da preferire di diventare così minuscolo da essere quasi invisibile. L’invisibilità di Minuscolino sembra fornirgli un senso di protezione: se mi rendo impercettibile nessuno mi vedrà e mi farà del male. Questa è anche la strategia difensiva che il bambino metteva in atto con i compagni dell’istituto. La foresta spaventosa è il contesto metaforico che simboleggia l’istituto in cui egli vive e i numerosi animali che tentano ripetutamente di aggredirlo sono rappresentativi dei ragazzi che mettevano in atto azioni di bullismo, approfittando della sua vulnerabilità. La Sunderland mostra al suo piccolo paziente, tramite questa storia cucita appositamente per lui, che il meccanismo che egli utilizza per fronteggiare la situazione in realtà lo rende ancora più triste e solo: scappare o nascondersi non lo rende certo più felice. Il momento critico viene rappresentato dalla voglia di arrendersi di Minuscolino seguito immediatamente dalla possibilità di una nuova soluzione, rappresentata dalla comparsa del bellissimo uccello che lo invita ad unirsi a lui invece di continuare a nascondersi. Ecco che la Sunderland mostra con chiarezza la nuova opzione che Minuscolino (il bambino) potrebbe adottare: gli altri non sono tutti perfidi e malefici, ci sono persone disposte anche ad esserti amiche e che è proprio da questi legami che si può diventare forti e sicuri, impedendo agli altri di approfittarsi di noi.
Prima di cimentarsi nel racconto di una fiaba terapeutica è importante accertarsi che il bambino sia aperto e recettivo. Sarebbe opportuno creare sia all’interno dell’ambiente scolastico sia all’interno dell’ambito familiare uno spazio nell’arco della giornata adibito al racconto delle storie, in modo che il bambino associ questi luoghi a momenti in cui si sente compreso e rassicurato dalla calda sensazione di calma e tranquillità di chi interagisce con strumenti per lui naturali e alla sua portata, come la fiaba. Per captare la sua attenzione dobbiamo usare una lettura attiva, enfatizzando parole, mantenendo il contatto visivo e supportandosi anche con la gestualità, in modo da coinvolgerlo e favorire l’ identificazione con il personaggio. Ovviamente una lettura piatta e monotona, priva di ritmo e con la stessa tonalità dall’inizio alla fine, potrebbe essere utile per conciliare il sonno, ma non lavorerebbe certo nelle complesse vicende interiori del nostro piccolo ascoltatore. Importante è poi non aver fretta: bisogna lasciare il tempo che il bambino assimili le vicende dei personaggi imbevendole dei suoi significati. Per questo a volte è importante non bloccarci alla prima lettura ma rileggere il racconto più volte. Bettelheim scrive che solo dopo aver riascoltato più volte una storia, “le libere associazioni inerenti alla storia gli frutteranno il più personale dei significati del racconto, e lo aiuteranno quindi ad affrontare il problema che lo opprime” (Bettelheim, 1975, p.18). Fondamentale affinché la storia agisca nell’ordinare il caos emotivo del fanciullo è non uscire dalla metafora della fiaba stessa, evitare di dire “il coniglietto della storia è triste proprio come te, non credi?”,almeno che non sia lui stesso a offrirci in modo palese il paragone, dichiarando di sentirsi proprio come quel coniglietto.
Il potere della storia risiede soprattutto nelle sue espressioni indirette, poiché attenuano le resistenze e sbloccano inibizioni dovute al senso di vergogna e alla paura degli ostili commenti adulti. Se la storia è ben fabbricata i significati lavoreranno latentemente e probabilmente ad un livello subcosciente è quindi inutile interrogarsi in maniera compulsiva se il nostro piccolo ha recepito più o meno correttamente il messaggio fornito. Un’efficace strategia da utilizzare per potenziare gli effetti terapeutici della storia è quella di non offuscare il messaggio finale con dettagli irrilevanti, ma procedere astraendo il più possibile, cioè ridurre la storia, anatomizzarla alle sue caratteristiche fondamentali. Ornarla di eccessivi particolari potrebbe annebbiare il reale contenuto.
In conclusione, l’uso di una storia terapeutica, offerta da un adulto empatico e coraggioso nel tentativo di “perdersi” nel mondo interiore del fanciullo, si configura come una sorta di guarigione psichica che si attua fino alla trasformazione dell’individuo che torna a governare i moti della sua psiche e di conseguenza gli eventi della sua vita, pieno di nuova energia, capace ora di affrontare il mondo con serenità, con forza, con coraggio e determinazione.

Quando il bambino diventa l’autore: la storia terapeutica come test proiettivo.

La Sunderland, oltre ai motivi fiabeschi costruiti dall’adulto per il bambino, si avvale di un’altra metodologia: le storie che il bambino inventa all’interno del setting terapeutico, per entrare in contatto con le sue emozioni più profonde. Con questa seconda modalità il prodotto fantastico che il bambino crea e dona all’adulto funziona come un vero e proprio test proiettivo. Nella storia che egli produce proietta nella trama stati d’animo, intenzioni, desideri, paure ed altre tematiche inconsce che potrebbero, se escluse totalmente dal campo della coscienza, originare conflitti intrapsichici, interferendo negativamente sullo sviluppo psicologico. La funzione terapeutica della fiaba, in questo caso, si sostanzia nel tentativo di riuscire a far comunicare al bambino le problematiche represse che lo tormentano, proiettandole nelle trame che egli costruisce.
Quando si passa dal ruolo di inventori di storie terapeutiche a quello di ascoltatori empatici di una storia narrata da un bambino, diventa fondamentale, come scrive Margot Sunderland, “cercare i temi emotivi centrali e ricorrenti e non i dettagli e il significato delle singole immagini” Sunderland,2000, p.71). La stessa Sunderland illustra il caso di Giudit , bambina di cinque anni, che narrava una storia apparentemente criptica e incomprensibile, in cui compariva ripetutamente il motivo di una bomba che veniva lanciata su un uovo, rendendolo infecondo, e di una tartaruga che salendo su un pisello lo schiacciava fino a tritarlo. In questo caso i temi nevralgici che emergono sono il sentirsi abusati, impotenti ed intrappolati; basti pensare alla differenza di potenza tra una bomba e un uovo ed una tartaruga e un pisello. Per rispondere in maniera efficace a questo racconto, bisogna, come già precedentemente suggerito, rimanere all’interno della metafora, ovvero evitare esortazioni come “povera Giudit, la bomba che si imbatte sull’uovo potrebbe forse essere tuo padre quando ti picchia?”, e al tempo stesso colludere quasi con il suo dolore dicendo: “Deve essere molto angosciante per quel piccolo uovo vivere continuamente nel terrore che la bomba possa esplodere da un momento all’altro su di lui”. Solo così la bambina può sentirsi compresa e può continuare ad aver fiducia in noi. Non bisogna poi soffocare il significato “in embrione” della storia, spingendo il bambino ad andare nella direzione in cui vogliamo noi, né imporre la nostra trama sulla sua. Qualsiasi tentativo di modificare, suggerire e reindirizzare non è supportivo, ma semplicemente dannoso, in quanto oscura la vera entità della storia. Questo è un problema molto frequente: spesso quando gli adulti cercano (di solito senza esserne consapevoli) di scappare da un loro proprio senso di sconforto sentono il bisogno di rendere la storia del bambino una bella storia, con sentimenti buoni e a lieto fine. Il paradosso è che al bimbo viene trasmessa più speranza se trova qualcuno in grado di ascoltare e di condividere la sua mancanza di speranza. Nell’ascoltare e interpretare la storia di un bambino il pericolo in cui molte persone incorrono è quello di giocare a fare lo psicoanalista, usando esclusivamente significati chiusi, soffocando molte volte la vera essenza delle immagini interiori del fanciullo. Quando si attribuisce un significato ad un’ immagine che emerge da un racconto bisogna sempre considerare il contesto di vita reale del bambino. L’analisi del contesto e l’attribuzione di significato sono due processi inscindibili; infatti, all’interno di una fiaba, la comparsa dell’elemento “serpente strisciante” potrebbe rappresentare per un bambino una creatura che sta lentamente progettando una morte sinistra mentre per un altro un simpatico e colorato verme. Questo dipende dalla storia personale di ogni soggetto, che è unica e irripetibile. Un’ulteriore istruzione è quella di evitare di trarre deduzioni da una sola storia: sono i temi e i paesaggi psicologici ricorrenti che formano un disegno più chiaro del mondo interno del bambino. Infine, quando si lavora con la storia di un bambino la Sunderland dice di “incoraggiare il bambino a mettere in scena nuove possibilità”(ibidem, p.25), così il bambino, con l’ausilio della storia, può sperimentare un modo più efficace e creativo per stare al mondo; anche se, spesso, quando i bambini sono sul punto di desiderare di sperimentare una possibilità attraverso una storia, se non sufficientemente incoraggiati, si tirano indietro. Da qui l’importanza di premiare il coraggio con entusiasmo.
Qui di seguito verrà riportato un esempio di alcuni frammenti di storie, con le relative interpretazioni effettuate dal terapeuta, inventate da un piccolo paziente di Margot Sunderland, durante le sue sedute di psicoterapia. L’autore di queste storie viene presentato dalla Sunderland con le testuali parole: “Eddie è un bambino di sette anni che ha visto più volte suo padre colpire la madre. Era così terribile che ha scelto di dimenticare l’esperienza. Ma dai quattro anni in poi, è diventato un bambino tremendo nell’ambito dei giochi in cortile. Una volta ha spinto a lungo la testa di una bambina sulla ghiaia. Stava mettendo in scena la storia del suo trauma” (ibidem p. 54).
“il poliziotto, il pompiere, il dottore e la vigilessa muoiono e rimane lo spazzino a scoparli via” (ibidem p. 54). Il significato psicoanalitico è che tutti i “protettori”, ovvero tutte quelle figure che dovrebbero offrire aiuto, sono rese impotenti, poiché il bambino ha sofferto il dolore atroce di non ricevere aiuto da nessuno e di non vedere nessuno che aiutasse sua madre mentre guardava suo padre che la picchiava. In questo caso Eddie proietta il suo senso di solitudine e di non protezione in quelle figure, che invece di offrire aiuto come usualmente fanno vengono improvvisamente spazzate via.
“Questa è la storia di un giardino crudele. L’albero grande picchia l’albero piccolo, e cosi’ l’anno dopo non ci sono fiori su di lui. Tutte le Margherite guardano. Vogliano fermarlo ma sono troppo piccole per fare qualsiasi cosa” (ibidem p.54). Il messaggio che Eddie vuole darci è che nutre un grande dolore verso se stesso poiché ogni volta si trova nel ruolo di spettatore impotente. Il bambino proietta se stesso nell’immagine della piccola margherita che vorrebbe fermare la violenza dell’albero grande, figura che rappresenta la proiezione del padre, ma essendo troppo piccola non riesce a far altro che guardare la scena in maniera passiva. L’albero piccolo che viene percosso dall’albero grande rappresenta la proiezione della madre maltrattata dal padre e l’immagine del giardino crudele è proiezione dell’ambiente violento familiare
− “Il piccolo verme piange e grida: “Mamma, mamma, c’è un corvo grandissimo!”. Il piccolo verme sta chiamando la sua mamma, ma la mamma verme scappa perché anche lei ha paura. La mamma verme finisce finisce mangiata dal grande corvo. Molte cose stanno strisciando sulla terra” (ibidem pp.54-5). Eddie, con la trama della sua storia, vuole comunicare il desiderio che la mamma lo salvasse dal vedere l’orribile spettacolo, anche se non poteva aiutarlo, perché lei stessa era colpita e spaventata. Il particolare dello strisciare sulla terra potrebbe corrispondere alle sue emozioni di disgusto per quello che vedeva, ma è difficile da stabilire. Il piccolo verme è la proiezione che il bambino fa di sé stesso, mentre il corvo che si avventa sulla mamma verme rappresenta il padre.

Cenni su alcune tecniche proiettive che utilizzano temi fiabeschi.

Come già accennato nel paragrafo precedente, la favola può essere utilizzata come strumento proiettivo per indagare le dinamiche della personalità infantile. Le tecniche proiettive fanno riferimento ad una classe specifica di misure che hanno come scopo quello di rilevare le caratteristiche intrapsichiche, le intenzioni, i processi, gli stili, le tematiche e le fonti alla base dei possibili conflitti di personalità. L’ambiguità dello stimolo e la minimizzazione del materiale sono le caratteristiche peculiari che permettono all’individuo, nel nostro caso il bambino, di proiettare liberamente nella situazione presentata i processi che sottostanno e strutturano la personalità.
Il bambino, ancor più dell’adulto, ha difficoltà a prendere coscienza della molteplicità di emozioni, paure e conflitti che investono la sua sfera soggettiva e ad esprimerli all’esterno in tutta libertà, sia per la difficoltà a verbalizzare i concetti sia per il timore della critica adulta, una volta che questi sono espressi. Il materiale ludico-simbolico rappresentato dalla fiaba permette al bambino una più facile esteriorizzazione e proiezione dei propri problemi, grazie alla sua attitudine ad animare e a rendere partecipi dei propri stati d’animo oggetti e personaggi esterni. Uno di questi strumenti proiettivi è il “Test della famiglia fatata”, dove si chiede al bambino di immaginare che tutte le persone della sua famiglia siano trasformate in un personaggio delle fiabe, invitandolo a traslare i membri del nucleo familiare in oggetti, persone o animali magici. Solitamente prima dell’inizio dell’attività pittorica si suggerisce una serie di personaggi, animali, doni fatati, ostacoli materiali che si presentano maggiormente nei racconti per l’infanzia, come principi e principesse, orchi, draghi e rospi, montagne e castelli incantati, con lo scopo di incentivare e stimolare il soggetto all’ideazione grafica. Il disegno permette in questo modo di accedere direttamente alle rappresentazioni mentali del bambino. Tilde Giani Gallino (2008), autrice del test, sceglie l’attività grafica come strumento privilegiato di analisi della rappresentazione simbolica dello spazio reale ed emotivo del bambino, focalizzandosi sul significato psicologico delle immagini magiche-simboliche e sulle loro correlazioni con quelle familiari e parentali. Gli scenari familiari, di qualsiasi tipo siano, vengono continuamente interiorizzati e inglobati dal bambino; mettere su carta personaggi a carattere magico-simbolico consente di proiettare su di essi quelle tensioni interiori che non avrebbero altrimenti modo di essere allentate ed esteriorizzate all’esterno, pur agendo in modo latente. E’ bene ricordare che le diverse fantasie sui personaggi familiari con la loro universalità e complessità sono ben conosciute in psicoanalisi come fenomeno che va sotto il nome di “romanzo familiare”, tipico dei ragazzi in età pre-puberale. Per la Giani Gallino, quindi, l’attività grafica fondata su temi fiabeschi si pone come strumento privilegiato di analisi della rappresentazione simbolica dello spazio emotivo e reale infantile.
Dalla ricerca si evince che nell’esame delle figure magiche spicca notevolmente la quantità di “gnomi e nanetti” disegnati dai maschi contro “principesse e re” delle femmine per rappresentare il proprio sé (self) e talvolta anche padri e fratelli. Interpretando questa trasformazione come un giudizio di valore espresso dai disegnatori nei confronti degli altri e di se stessi non possiamo fare a meno di cogliere in questa proiezione un tentativo di ridicolizzare e sminuire certi membri della famiglia verso i quali si prova sentimenti di rivalità. Nei soggetti che disegnano se stessi come un nanetto o uno gnomo è evidente una svalutazione della propria immagine psichica e o sociale, che può essere portavoce di gravi complessi nel corso dello sviluppo psicologico. Nell’analisi dei disegni delle bambine emerge un gran numero di “regine e principesse, di “re e principi azzurri”; da questo si rileva la presenza di una certa persistenza del senso di autorità (i monarchi visti come simbolo dell’autorità parentale). Nei casi di gravi compromissioni dello sviluppo psico-sociale del soggetto si assiste alla totale eliminazione del self (sé): nel disegno i soggetti non si auto-raffigurano in nessun modo, negando la proiezione con i personaggi.
Un ulteriore test proiettivo basato su temi fiabeschi, per l’indagine psicologica dei problemi affettivi con la relativa oggettivazione dei conflitti ad essi implicati, sono le “Storie da Completare” di Madeleine Thomas (1953). Con questo metodo semplice e anche rapido, la Thomas propone di minimizzare il più possibile la soggettività dell’intervistatore e ridurre al tempo stesso le resistenze del bambino durante la prestazione. Questo metodo di valutazione intrapsichica si compone di una batteria di 15 favole, dove si parla della vita familiare, dei sogni e dei desideri di bambini immaginari della stessa età e con la stessa situazione familiare degli esaminati: ogni favola schematizza una situazione e lascia un problema sospeso. Una delle quindici storie è la seguente: “Un bambino va a scuola, durante la ricreazione egli non gioca con gli altri compagni ma resta tutto solo in un angolino. Perché?” (Psicologia Contemporanea n°35, Carini, 1993 p.53 in The Madeleine Thomas completion stories test). Proposto il tema della favola, si chiede al bambino di svolgerlo a suo gradimento: supponendo che ogni soggetto interpreterà e proietterà il racconto attraverso il prisma deformante dei suoi pensieri, sarà possibile, analizzando le sue risposte, risalire alle tematiche inconsce che sostanziano le modalità di reazione al problema. Alla base vi è l’ipotesi che “ogni creazione immaginaria obbedisce a un certo determinismo, per cui è possibile, essendo in possesso di una tale creazione, risalire induttivamente alle cause psicologiche da cui deriva” (ibidem, p.53). L’ autrice del metodo “storie da completare” fa notare l’impossibilità di applicare il materiale fiabesco a bambini di età inferiore ai 4 anni e mezzo, a causa del pensiero principalmente dominato dall’egocentrismo che renderebbe difficile l’adattamento ai quadri delle favole. L’identificazione con gli eroi della favole (e quando c’è identificazione c’è reazione affettiva) può assumere forme diverse: può presentarsi come una reazione indiretta di difesa, per cui il bambino si oppone a qualsiasi tipo di esteriorizzazione conscia o inconscia, con atteggiamenti di mutismo o espressioni monosillabiche; oppure può configurarsi come una reazione diretta quando i problemi vengono enunciati senza deviazioni o travestimenti. La reazione diretta si perfeziona nell’obiettivazione totale, in cui il bambino proietta i suoi conflitti nella finzione proposta. Quando emergono resistenze come rifiuti o difficoltà a parlare, molto probabilmente si è toccato un punto nevralgico dell’individuo e questo rappresenta l’obiettivo primario.
Infine, citerei le “favole” di Louisa Düss, pubblicate negli anni quaranta con il titolo “La metohode des fables en psychanalyse infantile” (1957). Il test si compone di dieci storie con finale aperto da leggere al bambino. Nel costruire le sue favole, la Düss parte dal presupposto che se il soggetto è colpito da una storia e fornisce una risposta simbolica o al contrario manifesta una certa resistenza a rispondere, significa che la condizione del protagonista in questione determina in lui una catena di associazioni, che risveglia il complesso al quale è fissato. La Düss detta alcune condizioni fondamentali per procedere con il metodo da lei sistematizzato, quali la brevità e la semplicità del testo tale da essere compreso anche da un bambino di 3 anni, ma allo stesso tempo capace di incuriosire anche l’adolescente, l’eliminazione di situazioni scolastiche o familiari specifiche dove si corre il rischio che il bambino rintracci la sua realtà e dove può intervenire la paura di essere giudicato; si devono inoltre celare sufficientemente i conflitti, affinché la consapevolezza del soggetto non sia risvegliata ed egli possa facilmente identificarsi col personaggio della fiaba. Infine, non è consigliabile presentare le favole in un ordine qualsiasi, ma bisogna iniziare con le storie che celano il complesso a cui è legata la minor consapevolezza.
La somministrazione di questo test prevede di dire al bambino che gli racconteremo una storia e che egli dovrà costruirne il seguito a suo piacimento. La storia viene narrata direttamente mettendo enfasi e vita, ma senza eccedere nella drammatizzazione che potrebbe suggestionare il bambino provocando resistenze e allontanando il terapeuta dallo scopo perseguito. Per ogni favola l’autrice presenta un elenco di risposte ritenute “normali” ed altre definite “patologiche”, che sono utilizzate nell’elaborazione dei protocolli di valutazione. In conclusione, la Düss afferma di poter supporre la presenza di un complesso quando il comportamento dell’esaminato presenta le seguenti caratteristiche: “persistenza del complesso anche in altre favole, risposta immediata e inattesa, risposta sussurrata rapidamente, rifiuto di rispondere e silenzio, desiderio di ricominciare da capo” (Psicologia Contemporanea n°35, Carini, 1993 p.53 in La methohode des fables en psychanalyse infantile).
Alcuni esempi delle dieci favole della Düss sono:
− Favola della paura (per indagare sull’angoscia e l’autopunizione): “C’è un bambino che dice piano piano ciò di cui a paura. Di che cosa ha paura quel bambino?” (ibidem p.55)
− Favola dell’elefante (per indagare il complesso di castrazione): “Un bambino ha un piccolo elefante che gli piace tanto e che è tanto grazioso con la sua lunga proboscide. Un giorno tornando a casa da una passeggiata, il bambino entra nella sua stanza e trova che l’elefante è cambiato in qualche cosa. Che cosa è cambiato in lui? E perché è cambiato?” (ibidem p.55)
− Favola dell’oggetto costruito (per indagare sul carattere possessivo e ostinato, complesso anale): un bambino è riuscito a costruire qualcosa per terra (una torre) che gli piace tanto, proprio tanto. Che cosa ne farà lui? La sua mamma lo prega di darla a lei; lui può dargliela se vuole. Gliela darà?
− Favola dell’uccellino (per indagare l’attaccamento del bambino a uno dei genitori, oppure la sua indipendenza): “un babbo e una mamma uccelli e il loro bambino uccellino dormono nel nido, sul ramo di un albero. Viene a un tratto un forte vento, stronca l’albero e il nido cade a terra. I tre uccelli si svegliano di colpo. Il babbo svelto vola su un abete, la mamma vola su un altro abete; il bambino uccellino cosa farà allora? Sa già volare un poco”. (ibidem p.54)

Conclusioni.

Il mio interesse per questo tema nasce dal desiderio di recuperare il racconto di motivi fiabeschi, che sembrano ormai, da anni, giacere addormentati nel “dimenticatoio delle cose perdute”, sostituiti da tecnologici giochini monotoni propagati dagli schermi di computer, I-Pod e quant’altro di simile il mercato moderno compulsivo possa offrire. Questa generazione di bambini annoiati, passivi e smaniosi, incapaci di tuffarsi nel proprio mondo interiore per conoscersi e “costruirsi”, necessita di riscoprire la fiaba, poiché ottimo strumento pedagogico dotato di forti effetti terapeutici che favoriscono un sano sviluppo psichico. Credo che sia necessario ispirarsi alla vecchia “cultura del focolare”, quando il racconto di fiabe rientrava tra le attività ludiche principali e i bambini, con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta, si sedevano insieme, intorno al fuoco scoppiettante o all’aperto sotto la cupola stellata del cielo nelle aie dei contadini, smaniosi di sentire le fiabe narrate dagli adulti. Non è forse questa situazione appena descritta più stimolante e costruttiva di quella in cui i bambini si ritrovano ipnotizzati davanti a qualsiasi tipo di schermo piatto presente in casa? Non credo neanche sia giusto appellarsi alla scusa del tempo che i genitori non hanno più a disposizione come una volta, a causa del lavoro che li tiene impegnati quasi tutto il giorno. La lettura di una fiaba implica non più di quindici minuti e credo fermamente che questo quarto d’ora sia qualitativamente importante per la vita del piccolo. L’obiettivo del mio elaborato è quello di illustrare, avvalendomi della letteratura scientifica presente nel panorama internazionale inerente a questo tema, la funzione terapeutica della fiaba, dove per funzione terapeutica intendo la capacità di questo strumento di contribuire e facilitare la costruzione di una sana personalità in sintonia con l’ambiente circostante.
Tra gli autori del panorama internazionale che hanno affrontato questo tema ho scelto di concentrarmi su quelli che a mio avviso sono i più rappresentativi: Bruno Bettelheim e Marie-Louise von Franz. Pur avendo entrambi una formazione di stampo psicoanalitico, appartengono a due scuole di pensiero differenti: il primo segue la corrente freudiana, mentre la seconda quella junghiana. Così ho avuto la possibilità di comparare i due diversi modi di intendere la funzione terapeutica della fiaba a più ampio spettro. Entrambi, seppur in maniera differente, confermano la mia ipotesi di partenza: la fiaba ha una natura terapeutica. Per Bettelheim il potere terapeutico sta nel fatto che la fiaba porta il bambino alla conquista dell’integrazione delle varie istanze intrapsichiche Io, Es e Super-io. La fiaba mostra in forma simbolica il conflitto che le pressioni di queste istanze provocano e successivamente illustra anche le possibili modalità risolutive, con le quali il bambino impara a domare e gestire i moti del proprio inconscio. Ecco perché la fiaba ha una connotazione terapeutica: aiuta il bambino a costruire una sana ed equilibrata personalità. Per Marie-Louise von Franz la funzione terapeutica della fiaba si concretizza nel mostrare come raggiungere e sviluppare a pieno il Sé, grazie al processo di individuazione che la fiaba stessa permette di compiere. La fiaba consentirebbe all’individuo di arrivare a quella condizione ottimale nella quale il complesso dell’Io agisce in sintonia con il Sé, producendo una quantità minima di disturbi nevrotici. Con l’ausilio dei messaggi terapeutici che trapelano dai motivi archetipi fiabeschi, il Sé viene portato alla luce dalle profondità cavernose dell’inconscio. Per la von Franz i personaggi e gli ambienti fiabeschi sono pura espressione degli archetipi dell’inconscio collettivo; per questo l’analisi dettagliata delle fiabe ci permette di conoscere molto sul funzionamento dell’uomo.
Riassumendo, per Bettelheim l’obiettivo terapeutico si sostanzia nella conquista dell’integrazione delle istanze intrapsichiche Io, Es e Super-io, mentre per la von Franz questo si sostanzia nella conquista del proprio Sé. Ma in ambedue i casi sempre di “conquista si tratta”. All’interno di entrambi i paradigmi la funzione terapeutica della fiaba viene saldamente confermata.
Nel secondo capitolo ho scelto di basarmi sulle idee e sulle metodologie di Margot Sunderland, direttrice del Institute for Arts in Therapy and Education di Londra, che si è a lungo dedicata all’educazione affettiva infantile tramite l’utilizzo di storie. La Sunderland parla di “storie terapeutiche”, intendendo con questo termine quei motivi fiabeschi, letti o costruiti dall’adulto o strutturati dal bambino stesso, che hanno l’obiettivo di alleviare o far emergere gli stati ansiogeni e conflittuali del fanciullo influenzando positivamente la sua crescita psicologica.
Emerge che, se scelta accuratamente, la fiaba ci permette di abbracciare empaticamente il mondo interno del fanciullo senza invadere la sua sensibilità, oltre che a fargli comunicare in maniera indiretta la natura delle sue emozioni. Il linguaggio simbolico e figurato delle storie permette al bambino di conoscere e gestire la sua caotica realtà emotiva senza rimanerne sopraffatto, inoltre offrono il tempo e lo spazio per poter riflettere, in tutta sicurezza e tranquillità, sulla “situazione problematica” che assilla la sua mente, mostrandogli che il meccanismo che utilizza per fronteggiare il problema non lo libera da angosce o minacce, ma lo tiene prigioniero delle sue stesse emozioni. Le storie terapeutiche della Sunderland, che l’adulto crea appositamente per il bambino, contengono nelle sue trame un nuovo meccanismo più maturo e creativo che il bambino dovrebbe imparare ad utilizzare per far fronte al problema, funzionando così come una sorta di campo di battaglia dove ci si allena per sconfiggere nemici e superare prove.
Si evince inoltre che la terapia effettuata per mezzo delle fiabe permette non solo di rielaborare emozioni difficili, ma anche veri e propri traumi. La costruzione o la lettura di una storia offre l’opportunità di storicizzare i fatti accaduti, osservandoli da un luogo sicuro e protetto, che il mondo incantato della fiaba offre. Con il suo lato ludicofantastico, ben lontano dalla realtà, la fiaba invita il bambino a rivivere parti dell’esperienza traumatica in maniera conscia così da depotenziarne gli effetti che avrebbero se segregate nell’inconscio. Quest’ultimo effetto terapeutico si realizza soprattutto nelle storie strutturate dal bambino, in quanto esse, avendo una natura proiettiva, permettono al bambino di traslare nei personaggi e negli eventi fantastici, che egli crea, i drammi che popolano il suo inconscio. Il caso di Eddie, illustrato nel secondo capitolo, mostra infatti come la costruzione di una storia, effettuata dal bambino stesso, possa addirittura smorzare pesanti ricordi traumatici raggiungendo aspetti del dramma rimossi nell’inconscio, che vengono così trasferiti sui personaggi tramite identificazioni e proiezioni.
Mi è sembrato utile riportare poi alcune informazioni fondamentali da adottare sia per costruire sia per raccontare e ascoltare una buona storia terapeutica. Per “confezionare” un’ efficace trama terapeutica bisogna, in prima istanza, individuare il tema nevralgico che preoccupa il bambino e poi traslarlo in forma “camuffata”, con metafore e simbologie nel contesto narrativo della storia. Questo passaggio si è rilevato fondamentale e il più complesso, perché è quello che permette di accedere alle rappresentazioni interiori del fanciullo e di capire come egli percepisce e costruisce il proprio essere nella realtà che lo circonda. Quando invece raccontiamo una fiaba, diventa fondamentale utilizzare una lettura attiva e coinvolgente che sappia rapire il bambino nel mondo della fantasia. Dalla ricerca emerge inoltre che spesso una sola lettura non è sufficiente per evocare le associazioni necessarie per raggiungere lo scopo prefissato. Rilevante è anche non uscire mai dalla metafora, poiché il potere delle fiabe risiede soprattutto nelle espressioni indirette e nel linguaggio dell’immaginazione. Quando invece da inventori e lettori di storie abbiamo l’immenso privilegio di diventarne gli ascoltatori, ovvero il pubblico di una storia narrata da un piccolo, l’orecchio e il cuore devono impregnarsi di empatia e bisogna soprattutto stare molto attenti a non filtrare il contenuto latente del motivo fiabesco con le nostre esperienze soggettive adulte. Bisogna riattivare il fanciullino che c’è in noi e giocare con la base poetica della nostra mente, per entrare in sintonia con le trame dei bambini.
Secondo il mio parere, sarebbe auspicabile abbinare alle storie terapeutiche di Margot Sunderland piccole rappresentazione tramite giocattoli, come pupazzi o burattini, che il bambino potrebbe mettere in scena dopo aver ascoltato o raccontato la storia.
La rappresentazione di ciò che ha ascoltato o raccontato potrebbe costituire un vero atto catartico, un momento liberatorio che potrebbe potenziare ulteriormente i benefici della storia. Sarebbe interessante creare dei laboratori di psicodramma per l’età evolutiva in quanto essendo lo psicodramma un metodo d’ approccio psicologico che consente alla persona di esprimersi attraverso la messa in atto sulla scena di esperienze di vita, potrebbe aiutare il bambino a stabilire un intreccio più armonico tra le esigenze intrapsichiche e le richieste della realtà. Il laboratorio psico-drammatico potrebbe fornire uno spazio di condivisione e di ascolto in cui si sollecitano le capacità creative del bambino e la libera espressione delle emozioni. Questa integrazione potrebbe essere di spunto per direzionare nuove ipotesi di ricerca.
Infine, nel mio elaborato, ho voluto riportare altre metodologie valutative, di natura proiettiva, che utilizzano temi fiabeschi per l’indagine della personalità e dei pattern conflittuali, a conferma del fatto che le fiabe sono uno strumento utile per l’indagine intrapsichica e non semplici racconti irrazionali, colme di sciocchezze, come purtroppo qualcuno sostiene.

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1 James Hillman è uno psicoanalista americano, nato nel 1926, che ha diretto lo Jung Institute di Zurigo e ha fondato il Dallas Institute of Humanities and Culture.

2Per coazione a ripetere si intende quella tendenza dell’individuo a ripetere il contenuto rimosso nella forma di un’esperienza attuale,anziché, a ricordarlo come parte del proprio passato.

3Vladimir Jakovlevičeskij Propp ( Pietroburgo 1895- Lenigrado 1970) compì gli studi di filologia slava nell’università della sua città, in cui, a partire dal 1923, insegnò prima lingua tedesca, e folclore poi.

4Questo esempio di storia terapeutica strutturata dall’adulto per il bambino è tratta dal libro di Margot Sunderland “Raccontare storie aiuta i bambini. Facilitare la crescita psicologica con le favole e l’intenzione”

5L’esempio sovrascritto è tratto dal libro di Margot Sunderland “Raccontare storie aiuta i bambini. Facilitare la crescita e l’invenzione con le favole e l’invenzione”.

6Con questo termine si intende un gruppo di pensieri o immagini con notevole valenza emotiva.

7Gli esempi riportati sono tratti dall’articolo di Carini, M. (1993) Le favole: una tecnica proiettiva per l’esplorazione delle dinamiche della personalità infantile. Psicologia Contemporanea N° 38, p. 40-45

Bibliografia.

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Carini, M. (1993). “Le favole: una tecnica proiettiva per l’esplorazione delle dinamiche della personalità infantile”. Psicologia contemporanea n°35, 40-45.
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Giani Gallino, T. (2008). Il mondo disegnato dai bambini. Il test della famiglia fatata, p.158-166
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Jung, C.G. (1936). “Die Archetypes und das Kollektive unbewusste”. (Traduzione italiana 1977) “Gli archetipi dell’inconscio collettivo”. Torino: Bollati Boringhieri. Propp, V.J. (1928). “Morfologija skazki”. (Traduzione italiana 1966) “Morfologia della fiaba”. Torino: Einaudi.
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La funzione terapeutica della fiaba tra Archetipi e Miti-I parte

di Linda Gargelli            4 ottobre 2014

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rackhamNegli ultimi anni la cultura occidentale, soprattutto dopo l’avvento di tecnologie sempre più avanzate, sembra aver perduto una modalità pedagogica importante per favorire lo sviluppo psicologico del bambino: il racconto di fiabe. Ciò che è andato perduto non sono tanto le fiabe di per sé, che si ritrovano oggi trasposte nei numerosi film per bambini, ma quel prezioso ed intimo momento in cui adulto e bambino entrano reciprocamente in contatto tramite un’interazione diretta, costituita dal racconto.
Per fiaba si intende una narrazione caratterizzata da racconti medio-brevi e centrati su avvenimenti e personaggi fantastici come fate, orchi, giganti e così via. Esse, di origine popolare, sono state tramandate oralmente di generazione in generazione per descrivere la vita della povera gente, le sue credenze, le sue paure, il suo modo di immaginarsi i re e i potenti e venivano raccontate da contadini, pescatori, pastori e montanari attorno al focolare, nelle aie e nelle stalle. Questo mio progetto nasce dal desiderio di recuperare il racconto di fiabe come potente strumento pedagogico poiché esso può costituire una sorta di addestramento alla vita. I bambini sentono il bisogno di una preparazione, di un’iniziazione, di un insegnamento e le trame fiabesche possono rappresentare una sorta di supporto, facendo sentire il piccolo meno solo e inadeguato di fronte agli ostacoli che la vita presto o tardi gli porrà.
Calvino considera la fiaba come: “una spiegazione generale della vita; il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna, soprattutto per la parte di vita che è il farsi un destino: la giovinezza, che poi vede la sua conferma nella maturità e nella vecchiaia” (Calvino, 1956, p.17). Privando i nostri figli del comune retaggio fantastico, cioè della fiaba popolare ma anche delle fiabe più moderne, il bambino non può trovare da solo trame efficaci che lo aiutino ad affrontare i problemi della vita. Il materiale fiabesco offre queste trame che ricalcano fedelmente i passaggi basilari dell’esistenza di ogni individuo. Bettelheim sottolinea che la fiaba fornisce al bambino ciò di cui ha maggiormente bisogno: “essa inizia esattamente dove il bambino si trova dal punto di vista emotivo, gli mostra dove andare, e come procedere”(Bettelheim, 1976 p.120) . La fiaba diventa una sorta di “fidata consigliera” che suggerisce al bambino come muoversi nel percorso ad ostacoli della vita stessa.

L’ intento di questo mio progetto è quello di illustrare come il racconto di fiabe, sia quelle tradizionali1 sia le storie fantastiche di autori più moderni, siano un potente strumento educativo con forti implicazioni terapeutiche, che possono influire positivamente sul raggiungimento di un sano e completo sviluppo psicologico.
Molti studiosi si sono occupati delle valenza psicologica delle fiabe, ma per affrontare questo mio progetto, ho scelto di basarmi sul contributo di due autori che hanno vivamente sostenuto i benefici e gli effetti terapeutici che si possono trarre da esse: Bruno Bettelheim (1903-1990) e Marie-Louise von Franz (1915-1998).

Bettelheim, psicoanalista infantile di matrice freudiana, si è a lungo dedicato alle fiabe, soprattutto a quelle dei fratelli Grimm, ritenendole rappresentazioni dei miti freudiani, ossia quelle idee basilari che sostanziano la teoria di Freud, come, ad esempio, le fasi dello sviluppo psico-sessuale, le istanze intrapsichiche Io, Es e Super-io, il complesso di Edipo, ecc., mentre Marie-Louise von Franz, psicoanalista svizzera di matrice junghiana, ne ha esplorato l’espressione degli archetipi2 contenuti nella struttura della fiaba.
L’importanza che le fiabe assumono nella vita mentale del bambino fu sottolineata già da Freud nel suo scritto “Materiale fiabesco nei sogni” (1913), in cui egli afferma che elementi derivanti da racconti fiabeschi possono essere frequentemente ritrovati nell’analisi dei sogni. Le fiabe rientrano, pertanto, nella complessa elaborazione dei simbolismi onirici inconsci, assieme ai miti, ai motti di spirito, ecc. Saper interpretare analiticamente il materiale fiabesco permette di raggiungere i contenuti segreti che popolano l’inconscio del fanciullo.

Nella seconda parte dell’elaborato svilupperò le idee di un’autrice più contemporanea, Margot Sunderland, psicoterapeuta infantile e direttrice del Institute for Arts in Therapy and Education di Londra, che utilizza la fiaba come strumento terapeutico, avvalendosi di due modalità: la prima è la costruzione da parte del terapeuta di una storia che ricalchi la situazione emotiva del bambino, mentre la seconda è la costruzione di una storia che il bambino stesso inventa e crea. In ambedue i casi si tratta di storie terapeutiche, ma seguendo il primo approccio, la storia creata dal terapeuta per il fanciullo ha come finalità l’esplorazione delle dinamiche emotive del bambino, aiutandolo a sentirsi più compreso e meno solo di fronte ai propri disagi e proponendo all’interno della trama possibili vie di uscita dalla situazione che lo tormenta.
Mentre nel secondo caso il bambino diventa l’autore di racconti fantastici e le storie che crea riflettono nelle trame e nel susseguirsi degli eventi i nuclei nevralgici delle sue vicende interiori. I protagonisti e le vicende fantastiche create dal piccolo si configurano come una proiezione del suo mondo interno. In questo modo la fiaba assume valore terapeutico, poiché essa si struttura come uno strumento proiettivo che può aiutarci ad indagare le dinamiche inconsce ovvero quei conflitti e quei pattern comportamentali che risiedono sotto il livello di consapevolezza e possono tormentare il bambino.

Per la Sunderland il materiale fiabesco ha connotazioni terapeutiche quando il racconto di storie può facilitare la crescita psicologica del bambino aiutandolo nell’esteriorizzazione delle vicende interiori. Ma perché il racconto di fiabe è stato messo al bando e sempre più ignorato dai genitori di oggi, che considerano la fiaba una letteratura di serie “B” e talvolta perfino dannosa per i propri bambini? Perché tanti genitori preoccupatissimi del felice sviluppo dei loro figlioletti tengono così di poco conto il valore della fiaba, privando i bambini di quanto queste storie hanno da offrire? La prima risposta che sorge a questi interrogativi è che il mondo occidentale, impregnato di razionalismo, non può offrire né spazio né tempo alle fiabe poiché, considerate quadri non veritieri della realtà, sono percepite inutili e malsane.
Alcuni genitori temono che raccontare ai loro piccoli gli eventi fantastici contenuti nelle fiabe significhi dir loro delle “bugie”, poiché questi non trovano corrispondenza nel mondo reale. Questa loro preoccupazione trova spesso alimento nella domanda del bambino: “È vero quello che mi racconti?”. Molte fiabe offrono una risposta a questo interrogativo ancora prima che il quesito possa essere posto: cioè proprio all’inizio della storia. Spesso l’incipit delle fiabe viene trascritto come “C’era una volta..” o “Tanto tempo fa… in un regno lontano ..” e questa indeterminatezza spaziale e temporale fa intuire al bambino che i racconti sono veri “nell’antica e remota epoca del regno della fantasia”, poiché la verità delle fiabe è la verità della nostra immaginazione, non quella dei normali rapporti di causa-effetto.

Altri genitori temono che i loro piccini si possono lasciar trasportare dalle loro fantasie finendo per credere nella magia, ma questi trascurano il fatto che ogni bambino crede nella magia avendo un pensiero prevalentemente animistico3 e che cessano normalmente di farlo quando diventano grandi. Altri ancora temono che la mente di un bambino possa fare una tale indigestione di fantasie fiabesche da trascurare d’imparare come si affronta la realtà. Ma questa erronea convinzione è smentita anche da Bettelheim il quale ne sostiene l’impossibilità: “Per quanto una persona sia complessa – piena di conflitti, ambivalenze, contraddizioni – la personalità umana è indivisibile. Quale che possa essere un’esperienza, coinvolge sempre tutti gli aspetti della personalità. E la personalità totale, per essere capace di affrontare la vita, deve poter essere sostenuta da una ricca fantasia combinata con una ferma coscienza e una chiara comprensione della realtà” (Bettelheim, 1976, p.117). Espresso in altri termini, affidarsi e usare la fantasia non esclude il fatto di vigilare sulla realtà tangibile.

Ci sono poi coloro che mettono al bando le fiabe tradizionali poiché ricche di personaggi mostruosi e terrificanti, così eliminando personaggi salienti o ancor peggio tramutandoli da malefici a bonari e trascurando, allo stesso tempo, il mostro che il bambino conosce meglio e lo preoccupa di più. Seguendo Bettelheim, in questo modo il bambino non è in grado di viversi “il mostro che sente o teme di essere, e che a volte arriva a perseguitarlo” (ibidem p. 119) . Tenere questo mostro all’interno del bambino, inespresso e nascosto nel suo inconscio può essere molto più pericoloso; mentre dargli vita con l’immaginazione significa alleggerire il fanciullo da massicce ansie e preoccupazioni, insegnandogli a dominarlo e a conoscerlo senza averne timore, tramite l’identificazione col personaggio.
Ma le fiabe popolari o le più generiche storie moderne lette o inventate dai bambini hanno davvero funzioni terapeutiche per il sano sviluppo psicologico?

1. La funzione terapeutica della fiaba secondo Bruno Bettelheim e Marie-Louise von Franz: significati psicoanalitici a confronto.

1.1 Due diversi modi di attribuire significati alle fiabe.

In questo secondo capitolo verrà illustrato e comparato il pensiero di due autori che hanno prodotto opere fondamentali sulla comprensione psicologica e sul valore terapeutico delle favole: Bruno Bettelheim (1903-1990), illustre psicoanalista infantile di matrice freudiana, e Marie-Louise von Franz (1915-1998), allieva e collaboratrice di Jung nonché grande esponente della psicologia analitica del XX secolo.
Per Bettelheim la fiaba permette di risolvere i problemi psicologici annessi al processo di crescita del bambino. La sua funzione è quella di illustrare in forma simbolica i tipici conflitti interiori, come superare delusioni narcisistiche, dilemmi edipici e rivalità fraterne, mostrando come questi possono essere risolti riuscendo ad abbandonare dipendenze infantili, conseguendo il senso della propria individualità e del proprio valore. Le favole, con le parole di Bettelheim, si occupano soprattutto di quei problemi “che preoccupano la mente del bambino, e quindi parlano al suo Io in boccio e ne incoraggiano lo sviluppo, placando al contempo pressioni preconscie e inconsce.
Le storie, nel loro svolgimento, ammettono a livello conscio e manifestano le pressioni dell’Es, e indicano dei modi per soddisfare quelle che sono in accordo con le esigenze dell’Io e del Super-io”. (Bettelheim, 1976, p.14)
Ad esempio la fiaba “I tre porcellini” illustra in maniera simbolica il conflitto tra il principio di piacere e il principio di realtà. In maniera indiretta la fiaba insegna al bambino che non bisogna essere pigri e prendercela comoda, perché altrimenti potremmo morire. Le case che i tre porcellini costruiscono simboleggiano il progresso dell’uomo nella storia. Il comportamento dei primi due porcellini rappresenta il modo di vivere secondo il principio di piacere (Es), senza darsi pensiero per il futuro e preoccuparsi dei pericoli della realtà. Solo il terzo porcellino ha imparato ad agire secondo il principio di realtà (Io); è in grado di rinviare il momento del piacere e agisce conformemente alla sua capacità di prevedere il futuro. Le azioni dei porcellini riflettono un progresso da una personalità dominata dall’Es a una personalità sotto l’influenza del Super-io, ma controllata dall’Io. Difatti, vivendo in accordo con il principio di piacere, i porcellini più piccoli cercano una gratificazione immediata. Il porcellino più grande ha imparato ad agire in conformità con il principio di realtà, rimandando il desiderio. Il lupo rappresenta le forze inconsce da cui l’individuo deve imparare a proteggersi e che possono essere sconfitte tramite la forza dell’Io.
La fiaba, in sintesi, cerca di far capire al bambino che è possibile raggiungere la soddisfazione, rispettando al contempo le esigenza della realtà.
L’obiettivo terapeutico della favola è quindi la conquista dell’integrità, perseguibile equilibrando le istanze intrapsichiche Io, Es e Super-io, in modo da placarne le pressioni che esercitano sull’inconscio del bambino, provocando conflitti difficilmente gestibili se lasciati giacere indisturbati nel serbatoio inconscio. Bettelheim utilizza dunque le categorie freudiane di Super-io, Io e Es per analizzare il contenuto delle fiabe, permettendo lo scontro tra le varie istanze intrapsichiche necessario per raggiungere un buon livello di maturità e soprattutto una sana personalità. Bettelheim, nel suo saggio “Il mondo incantato”, illustra la funzione pedagogica della fiaba e scrive: “ Il processo di sviluppo del bambino inizia con una fase di resistenza ai genitori e con la paura di crescere e termina quando il giovane ha realmente trovato se stesso, raggiungendo l’indipendenza psicologica e la maturità morale”( ibidem p.17). La fiaba permette al bambino di dialogare con i propri contenuti inconsci, poiché parla un linguaggio simbolico ed evocativo, non invadendo la sua intimità. Non va dunque detto al bambino il significato che la favola suscita in lui: la favola letta non va spiegata:
“è sempre un atto di invadenza interpretare i pensieri inconsci di una persona, per rendere conscio ciò che desidera mantenere preconscio e questo è particolarmente vero nel caso del bambino” ( Bettelheim, 1976 p.23). Fondamentale è che il bambino entri “indirettamente” in contatto con i propri motivi inconsci, poiché se totalmente negati alla coscienza o totalmente repressi la personalità subisce un danno. Il supporto offerto dal materiale fiabesco permette all’inconscio di affiorare alla coscienza e di rielaborarlo attraverso l’immaginazione, così da renderlo meno pericoloso e più malleabile. La fiaba, in quanto opera letteraria, mentre intrattiene il fanciullo, gli permette di evocare significati profondi in relazione al suo stadio di sviluppo. Afferma l’autore: “[…] le fiabe hanno un valore senza pari: offrono nuove dimensioni all’immagine del bambino, dimensioni che egli sarebbe nell’impossibilità di scoprire se fosse lasciato completamente a se stesso. Cosa ancora più importante, la forma e la struttura delle fiabe suggeriscono immagini per mezzo delle quali egli può strutturare i propri sogni ad occhi aperti e con essi dare una migliore direzione alla propria vita” (ibidem pp.12-13). I racconti presentano problemi umani universali (il bisogno di essere amati, la sensazione di essere inadeguati, l’angoscia della separazione, la paura della morte ecc.). La funzione terapeutica delle storie all’interno di questa cornice concettuale sta nel fatto che la fiaba si propone come una sorta di auto-cura, permettendo ai processi interiori di venire esteriorizzati tramite l’identificazione con i personaggi e la proiezione sulle trame narrate; il fanciullo trasla sul personaggio, con il quale si identifica, le proprie trame sentendosi meno solo, più rassicurato e soprattutto compreso. L’ esteriorizzazione è incoraggiata dalla fiaba, poiché essa parla di verità che non hanno a che fare con la quotidianità routinaria del bambino. L’incipit della storia come “c’era una volta”o “mille anni fa” introduce un altrove che non è il luogo e il tempo in cui siamo ma suggerisce che stiamo per lasciare il mondo della realtà, per entrare in un luogo antichissimo e remoto, simile allo spazio onirico dove la logica con la sua casualità viene sospesa lasciando spazio all’immaginazione e alla fantasia.
Un elemento che favorisce il processo di identificazione è la non ambivalenza dei personaggi, in quanto essi si presentano o come del tutto buoni o come del tutto cattivi. Prima e durante il periodo edipico, il bambino divide ogni cosa in opposti, scinde il buono dal cattivo, sia nel mondo esterno che in quello interno. La presentazione delle polarità del carattere, contenuta nei personaggi fiabeschi, permette al bambino di comprendere con meno difficoltà la differenza fra i due aspetti e al contempo di familiarizzare con la propria parte “oscura”, come l’aggressività, la rabbia, la gelosia, l’odio, ecc. che generalmente vede riflessa nei personaggi negativi. Quando il bambino si identifica con il personaggio fiabesco l’interrogativo che egli si pone non è “voglio essere buono?” ma “chi voglio essere?” ricalcando una questione esistenziale molto profonda che va ben oltre una semplice questione di preferenza e implica un’ ardita ricerca di significato per la costruzione della propria personalità.
Inutile tentare di tener i fanciulli sotto una campana di vetro illudendoli che tutto ciò che incontreranno e vivranno sarà roseo e meraviglioso, ma più utile e sensato è mostrargli che nella vita esistono anche gravi difficoltà e ostacoli, che possono essere superati con il coraggio e la determinazione. La struttura della fiaba assolve anche a questa funzione: oltre alla fata buona si può trovare anche la matrigna cattiva, ma quest’ultima può essere depotenziata e resa innocua, mettendo in atto le opportune strategie. Le fiabe per Bettelheim non sono semplici storielle per addormentare i fanciulli la sera, ma sono più profonde di quanto noi pensiamo. Ad esempio la formula finale “e vissero tutti felici e contenti” non implica un’illusoria credenza nella vita dopo la morte, bensì suggerisce al fanciullo che formando una relazione interpersonale, che nella fiaba può configurarsi, ad esempio, con l’unione della principessa con il principe, l’individuo può sfuggire all’angoscia di separazione e che è necessario uscire dalla “stretta dei genitori” senza che ciò implichi morte interiore e distruzione.
Alcuni motivi fiabeschi oltre a quello primario che è la conquista dell’integrazione, secondo Bettelheim, che possiamo trovare nelle fiabe possono essere:
– le trasformazioni dei personaggi che permettono di scindere una persona in due per mantenere incontaminata l’immagine buona, con questo espediente tutte le numerose contraddizioni sono improvvisamente risolte. (vedi il personaggio della matrigna che permette di scindere la madre nell’oggetto cattivo e malefico)
-il romanzo familiare: può contenere l’idea che i propri genitori non siano realmente i propri genitori e che il bambino è figlio di qualche altro individuo. Questa fantasia è utile perché permette al bambino di nutrire un’autentica collera contro il “falso genitore” senza avvertire sensi di colpa, ad esempio la figura della matrigna cattiva permette di proiettare i sentimenti negativi su di essa preservando l’immagine della madre buona.
-la sostituzione dell’ordine al caos: i personaggi essendo unidimensionali sono incarnazioni di aspetti tra loro diametralmente opposti, questo permette di sistematizzare il caos interiore del bambino e di isolare e separare tra di loro i diversi e contraddittori aspetti dell’esperienza proiettandoli anche su personaggi diversi.
-Conflitti edipici e risoluzioni: in alcune fiabe, ad esempio in Cenerentola o in Biancaneve, l’esistenza beata della fanciulla edipica con il padre viene interrotta dall’entrata in scena della perfida matrigna, raffigurata come un personaggio più anziano e malintenzionato che minaccia la coppia padre-figlia. I bambini edipici, grazie alla fiaba, possono godere pienamente di soddisfazioni edipiche a livello fantastico e mantenere buoni i rapporti con i genitori nella realtà.
Infine, mi pare utile riportare la distinzione che Bruno Bettelheim compie tra fiaba, mito e favola. Si definisce mito la narrazione di eventi fantastici o leggendari, in qualche modo legati a credenze religiose, su divinità e antichi eroi o sui rapporti tra l’uomo e la natura. Anche il mito, come la fiaba, rappresenta un conflitto interiore ma presentando il tema in forma grandiosa i personaggi acquisiscono tratti con i quali è difficile identificarsi, poiché noi umani rimarremo sempre inferiori agli dei. I miti riguardano le richieste del Super-io in perenne conflitto con le richieste dell’Es e le esigenze di autoconservazione dell’Io ma per quanto ci possiamo sforzare non riusciremo mai a vivere completamente all’altezza di quanto il Super-io, così come è rappresentato dai miti degli Dei, sembra chiederci. La fiaba contrariamente al mito non pone richieste, non fa sentire inferiori cosicché anche un bambino piccolo può identificarsi con facilità con i personaggi. Le favole diversamente dalle fiabe sono racconti brevi e semplici, per lo più di carattere morale, che hanno come protagonisti gli animali.
Secondo Bettelheim, la funzione terapeutica della favola è assai limitata rispetto ai benefici che si possono trarre dalle fiabe. Le favole presentano anch’esse un difficile conflitto interiore ma suggeriscono, in forma figurata, quello che le persone dovrebbero fare, imponendo o minacciando in modo moralistico la soluzione da adottare suscitando così ansia e timore che bloccano la discesa conoscitiva del bambino nel proprio inconscio.
In altri termini, parlano con il linguaggio autoritario e critico dell’adulto, dicendo cosa è giusto fare e cosa non fare, scartando così tutto il range di possibilità che il bambino dovrebbe consultare quando si trova in conflitto o in situazioni problematiche.
Per Marie-Louise von Franz, l’azione terapeutica delle fiaba mira alla descrizione e al potenziamento di un unico evento psichico estremamente complesso, che Jung definisce Sè, perseguibile tramite il processo di individuazione4.

Rifacendosi alla psicologia analitica junghiana, l’autrice sostiene che le fiabe consentono di studiare approfonditamente l’anatomia comparata della psiche in quanto esprimono in forma simbolica i processi dell’inconscio collettivo riproducendo alcuni modelli archetipici del comportamento umano. La von Franz abbraccia e condivide la tesi junghiana secondo la quale oltre ad un inconscio individuale che Jung chiama “inconscio personale” composto principalmente dai cosiddetti “ complessi a tonalità affettiva”, propri della vita psichica di ogni individuo, vi è anche un inconscio definito “ inconscio collettivo” dove risiedono gli archetipi, di cui la fiaba ne è pura espressione. L’inconscio collettivo può essere immaginato come un grande serbatoio comune e identico per tutti gli uomini che costituisce un substrato psichico universale di natura sopranaturale presente in ogni uomo. Con le parole di Jung: “un certo strato per così dire superficiale dell’inconscio è senza dubbio personale. Esso poggia però sopra uno strato più profondo che non deriva da esperienze e acquisizioni personali e che è innato. Questo strato più profondo è il cosiddetto inconscio collettivo” (Jung, 1936, pp. 15-16). Ma che cosa sono questi archetipi di cui la fiaba ne costituirebbe un autentico riflesso?

Il termine archetipo (da archè, principio, origine, e typos, forma ma anche immagine) indica le “immagini primordiali”, esse sarebbero autoctone, capaci cioè di generarsi in forza autonoma, percepibili nella coscienza ma provenienti da una matrice inconscia comune a tutti i popoli. Il sé, al quale mira ogni fiaba, rappresenta l’archetipo fondamentale della psiche, l’obiettivo primario dell’intero corso della vita: la completezza umana, la compenetrazione delle forze opposte che da sempre influenzano il nostro comportamento. Marie-Louise von Franz definisce il Sè come “la totalità psichica dell’individuo, ma anche, paradossalmente, il centro regolatore dell’inconscio collettivo. Ogni individuo e ogni popolo vive a suo modo questa realtà psichica”(von Franz, 1969 p.2 ). La totalità psichica, di cui parla l’autrice, fa riferimento alle varie componenti che strutturano la personalità, esse devono essere integrate tramite il processo di individuazione, per poter raggiungere il Sè. Con il termine individuazione, si intende quel lento e quasi impercettibile processo di sviluppo psichico che conduce, nel corso della vita, verso l’unificazione e la fusione delle varie istanze dell’apparato psichico, che per la psicologia analitica junghiana sono:
– Io: il complesso centrale nell’ambito della coscienza, rappresenta la mente conscia – Ombra: è la parte inconscia della personalità caratterizzata da tratti e comportamenti che l’Io cosciente tenta di rimuovere o ignorare.
– Anima/Animus:secondo Jung, ognuno di noi porta in sé l’immagine dell’altro sesso, l’inconscio dell’uomo porta in sé un elemento femminile complementare e così dicasi per la donna che porterebbe un elemento maschile complementare.
-Persona (dal latino “maschera dell’attore”): si riferisce al proprio ruolo sociale, derivato dalle aspettative della società e dell’educazione.

Nei sogni, così come nelle fiabe, le varie istanze possono manifestarsi sotto forma di personaggi: l’anima, in quanto principio dell’eros, può venir rappresentata con immagini di donne che variano dalla prostituta e seduttrice alla guida spirituale (saggezza). Sono personaggi dai tratti effeminati, ipersensibili e talvolta melanconici, mentre i personaggi che incarnano l’Animus, essendo il principio del logos (razionalità), presentano caratteristiche di rigidità, intransigenza e spirito polemico. L’ombra si configura in quei personaggi più istintivi, selvaggi e primitivi, spesso nei sogni è rappresentata da una persona dello stesso sesso che sogna.

Nel volume “Le fiabe del lieto fine, Psicologia delle storie di redenzione” (von Franz, 1987), l’autrice sviluppa il concetto della storia a lieto fine attraverso la redenzione concepita come una liberazione, con la suprema possibilità di arrivare a conoscere e sviluppare il proprio Sè. Le fiabe non sono esclusivamente rilevatrici dello stato di salute psichica ma si propongono anche come metodo terapeutico, per ottenere un processo di guarigione, addestrando il soggetto all’individuazione, per raggiungere la percezione cosciente della propria e unica realtà psicologica, tenendo conto di potenzialità e limiti. Analizzando la struttura archetipica della fiaba, la psicoanalista svizzera scrive: “ al di sotto della superficie delle nostre vite quotidiane esiste uno strato della vita psichica dove gli eventi scorrono proprio come nelle fiabe. I grandi miti emergono e si sviluppano a partire da tale livello per poi ridiscendere nuovamente nel profondo dell’inconscio e trasformarsi in fiabe” (von Franz,1977 , p.22). In altre parole, le fiabe rappresentano gli archetipi in forma chiara e coincisa, offrendo preziosi contributi ed indizi per comprendere i processi che si attuano nelle psiche collettiva. Secondo la von Franz, l’interpretazione della fiaba non è altro che la traduzione della storia in un linguaggio psicologico. Il motivo e la ragione, che conducono a tale lavoro analitico, sono gli stessi che spingevano a raccontare fiabe e miti: l’effetto vivificante che se ne trae e la pace con il substrato inconscio istintivo che ne consegue. Attraverso il racconto è possibile leggere un processo personale e culturale: un tentativo di riconoscersi nelle fiabe. Nel suo libro Le fiabe interpretate (1969), l’ autrice arriva ad illustrare le fasi da seguire per una corretta interpretazione della storia archetipica. La fiaba per essere interpretata deve essere divisa nei suoi vari aspetti5:

1. Introduzione: l’introduzione più comune che generalmente si ritrova nelle fiabe è
“C’ era una volta…”. Questa formula indica una collocazione temporale e spaziale fuori dal tempo, in un non-tempo, in “nessun luogo dell’inconscio collettivo” (Ibidem, p.40).

2. Personaggi: contare il numero di personaggi all’inizio e alla fine può essere utile per cogliere un elemento archetipico della fiaba stessa: von Franz illustra l’esempio di reintegrazione del principio femminile, in un racconto dove all’inizio “il re aveva tre figli”, quindi va sottolineato che ci sono quattro personaggi e la madre assente. La narrazione, però, può finire con una disposizione diversa dei vari personaggi anche se il numero è invariato: il figlio, la sua sposa, la sposa del fratello e un’altra sposa, tre donne che erano totalmente assenti.

3. Esposizione o inizio del problema: all’inizio della storia vi sono sempre delle difficoltà, perché altrimenti non vi sarebbe la storia stessa, le crisi e le difficoltà vanno attentamente analizzate per centrarne il significato e captarne l’essenza.

4. Peripezia e Lisi: segue la peripezia che può essere una sola o molte e può durare anche parecchie pagine fino a giungere all’apice della tensione dopo la quale “avviene una lisi o, talvolta una catastrofe, una soluzione positiva o negativa, un esito finale”(Ibidem p.36)

5. Formule conclusive: dette anche “rite de sortie” per non rimanere nel mondo onirico dell’inconscio collettivo dove siamo stati condotti nel racconto della fiaba. Una caratteristica della conclusione in una fiaba che non troviamo in altri generi come miti e leggende è che essa alle volte può essere ambigua, cioè una conclusione felice seguita da un’osservazione negativa del narratore.

Per concludere la panoramica sui motivi fiabeschi di matrice junghiana portata avanti da Marie-Louise von Franz è utile illustrare alcuni personaggi con i relativi archetipi che rappresentano che possiamo trovare nelle fiabe. Ogni archetipo è scisso in due polarità opposte, tranne l’archetipo del vecchio sapiente (vecchio saggio) e della magna mater (la Grande Madre) che esprimono, il primo, la totalità del principio maschile e spirituale mentre, il secondo, la totalità del principio femminile e materiale. Il vecchio sapiente (vecchio saggio) che compare spesso come aiutante del protagonista è il più tipico archetipo dell’integrità dell’Io maschile, incarna il suo potenziale che gli fa cenno dal futuro ma soprattutto le sue forze vitali che vengono ad un compromesso con lo spirito cosciente. Quando esso compare nelle fiabe, indica un indizio della saggezza e della superiorità che l’individuo vorrebbe acquisire per sé, infatti esso compare quando il protagonista si trova in una situazione critica dove per poter uscire dalla situazione disperata necessita di attingere dalle riserve energetiche dell’inconscio per poter raggiungere lo scopo. La magna mater è l’equivalente del vecchio sapiente e presenta la totalità nella donna o la sua potenziale integrità. Non bisogna confonderla con quella parte del potenziale femminile che è la maternità.

Tra gli archetipi maschili possiamo trovare il personaggio del padre/orco, questa figura è la personificazione dell’autorità, della legge, dell’ordine, delle convenzioni sociali, oltre ad essere anche figura maschile protettiva. Questo archetipo nella polarità di orco simboleggia il padre oppressivo che tenta di manipolare la personalità in modo conformistico mentre al vertice opposto il padre buono che addestra il figlio al processo di individuazione. Il personaggio del giovane vagabondo o cacciatore è l’equivalente maschile della Principessa; dotato di giovinezza e gaiezza, ha in sé il seme della potenziale trasformazione nell’eroe e successivamente nel vecchio saggio, incarnando a tutto tondo i molteplici aspetti dell’Io; poiché egli è anche il Cercatore. L’aspetto del vagabondo rimanda a un personaggio privo di altre influenze se non quelle provenienti direttamente dal suo inconscio, il suo errare privo di obiettivi indica il rifiuto di diventare adulto rischiando così di rimanere un eterno fanciullo anche nella vecchiaia negandosi la condizione di uomo; l’aspetto del cacciatore simboleggia invece la passione piena di curiosità e di spirito avventuriero che contrasta con la pazienza, il sacrificio e la dedizione.

L’archetipo dell’eroe/cattivo raffigura l’audacia e lo spirito d’iniziativa dell’individuo. Se le attitudini di volontà e di potere di comando vengono esaltate ed estremizzate in tutti i campi possono sfociare in tendenze aggressive di natura antieroica facendo così emergere la parte negativa dell’archetipo, ovvero la figura del cattivo. Il cattivo rappresenta le radici dell’inconscio e questo archetipo ha una forte propensione all’egoismo che può portare alla megalomania, soprattutto se si trascura il versante emotivo.
La figura archetipica dell’imbroglione (o mago bianco) / (mago nero), è inafferrabile e alquanto complessa: i lati luminosi e quelli oscuri si compenetrano e sembrano molto meno differenziati che negli altri archetipi. Questa figura dapprima può essere utile ma diventare pericoloso in un secondo tempo (o viceversa). Tuttavia quando le difficoltà sono state affrontate e gli ostacoli superati, allora tutti gli sforzi avranno una ricompensa, qualunque cosa sia successa nel frattempo.
Anche gli archetipi che riguardano la sfera del femminile, come quelli maschili si presentano scissi in due polarità tra loro opposte uno tra i più comuni è quello della madre/madre terrificante (matrigna).

La polarità madre incarna l’aspetto materno e protettivo della donna: la creatrice del focolare, colei che dà cibo e rifugio mentre quella della madre terrificante è l’aspetto divorante, castrante e distruttivo della maternità che può anche sorgere in una madre comprensiva, iperprotettiva che inizia improvvisamente a minacciare la crescita, lo sviluppo e l’indipendenza dell’individuo, la madre che tiene i figli legati a sé con un amore e una dedizione abnorme può apparire anche in queste sembianze. Il personaggio archetipico della principessa/seduttrice, da una parte incarna le qualità eternamente giovani della spontaneità e del calore umano, mentre dall’altra incorpora l’immagine della fantasia erotica, la fatale sirena incantatrice e distruttrice di ogni autentico rapporto. L’amazzone/cacciatrice è l’archetipo che rappresenta le qualità intellettuali femminili dove nella prima metà compaiono tratti come la forte determinazione, tenacia, impegno e ambizione e nella seconda metà accanimento e frustrazione per le ambizioni irrealizzate. In ultima analisi, l’archetipo della sacerdotessa/strega indica, nella polarità di sacerdotessa, le qualità di saggezza, conoscenza, guarigione mentre nella polarità opposta di strega caratteristiche come la sensitività, l’estasi, l’occulto e l’extrasensoriale. Dopo questa descrizione non sarà difficile rintracciare molti personaggi tipici delle fiabe più note: il Re e la Regina, come Padre e Madre, l’Orco e la Matrigna, che rappresentano i loro aspetti negativi, il Principe (o Giovane) e la Principessa, la Fata (o sacerdotessa) e la Matrigna (strega), il Mago (Bianco) o lo Stregone (Mago nero), l’ Eroe e l’antagonista (il cattivo), il Vagabondo spesso rappresentato nella fiaba come il fratello minore disprezzato da tutti, l’eroina(o amazzone) e il suo aspetto negativo (la Cacciatrice o Assassina) e cosi via.

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1Con questo termine si intendono quelle fiabe legate alla tradizione orale e patrimonio del popolo che molti autori hanno raccolto e trascritto. Tra i trascrittori di fiabe di matrice europea più noti si possono citare: Charles Perrault (Francia) e i fratelli Grimm (Germania) e i più recenti Italo Calvino ( Italia), Alexander Afanosiev (Russia) e William Butler Yeats (Irlanda). Fra gli inventori di fiabe più celebri che non hanno trascritto fiabe popolari ma inventate di nuove riprendendo creativamente gli stilemi della tradizione popolare troviamo il danese Hans Christian Anderson, l’italiano Collodi e il britannico James Matthew Barrie.
2 La parola archetipo deriva dal greco antico ὰρχέτυπος col significato di immagine: tipos (“modello”, “marchio”, “simbolo” e archè (originale). Nella concezione junghiana il termine viene usato per indicare le idee innate e predeterminate dell’inconscio collettivo.
3I bambini, soprattutto dai due ai sei anni, attribuiscono “vita” sia ad oggetti inanimati. Questa tendenza del fanciullo a considerare i corpi come vivi e dotati di intenzionalità, è stata definita da Piaget “animismo infantile”.
4 Il termine “individuo significa “non divisibile”. L’individuazione, secondo il pensiero junghiano, è il processo attraverso il quale l’individuo diventa se stesso, un essere umano intero e inscindibile. Esso tende alla realizzazione della totalità psichica e cioè dell’integrazione delle varie componenti della psiche: tale tendenza è espressione dell’archetipo del sé.
5Le fasi della struttura della fiaba sopraelencate sono tratte dal volume di M.L. Von Franz, Le fiabe interpretate, 1996.

Il gesto in piena di Cy Twombly

di Irene Battaglini

Prato, 30 settembre 2013

Cy Twombly

 

«Art is the triumph over chaos». John Cheever,  The Stories of John Cheever (1978)

articolo in pdf  IL GESTO IN PIENA DI CY TWOMBLY

 
 
 
 

The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 2The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 3The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 4

The Four Seasons: Spring, Summer, Autumn, and Winter. 1993-94, Synthetic polymer paint, oil, house paint, pencil and crayon on four canvases

L’arte di Cy Twombly è un grido sull’America. Un richiamo di sangue e di cieli densi di fiori che si rompono in un boato crespo di farfalle contaminate. La sua pittura è un fiotto che rompe gli argini dell’armonia, è un soffio che imprime voli per mete non raggiunte, non possibili. La pittura di Twombly (Virginia, 1928-Italia 2011), esprime il fallimento delle utopie moderniste. Illeggibile, incoerente, improbabile. Eppure è vera e bellissima. Bisogna capire come sia stato possibile creare questa unione violenta e irreversibile, come un aereo in velocissima precipitazione che prende fuoco sulla coda, e nell’atto di avvolgersi su di sé diventa una stella cometa. Quadri di una straordinaria epifania cromatica, di luce che esplode. In cui segni, colori e forme sono gli strumenti dell’agrimensore in un pianeta desertico di cui scongiura l’imminente deflagrazione. Sono il canto e la preghiera di un ultimo uomo verso Dio i cui occhi, che per dirla con McCarthy, un altro americano dignitario della più alta contemporaneità, «tradivano non disperazione, ma soltanto quell’insondabile, profonda solitudine che è l’impronta più tipica di questo mondo». (da Oltre il confine)

Tutta l’arte di Cy Twombly (pittore, incisore, disegnatore, scultore) è notte inoltrata che deflagra nell’aurora, è il “linguaggio dimenticato” di Erich Fromm su una lavagna stridente, è ardesia che si sbriciola a creare forme improbabili, è gemmazione di scarabocchi di luce bruciante dalle forme svelte, come le braccia di un nuotatore esperto che farfugliano nell’abisso e che nell’inconscio tumulto non smarriscono – nello smarrirsi – l’eleganza di quanto hanno appreso.

Il “quadro” deciso da Cy Twombly è una forma concreta di non-pittura, è una decisione spasmodica di andare verso la crisi linguistica e di immergersi in questo spasmo come all’imbocco della neoplasia che ha corroso velocemente l’universo percettivo del cui declino siamo attori, costretti alla visione monoculare della realtà dell’emarginazione o alla confusione conglobante e regressiva dei social-network. È una pittura di voci che si affollano ad un crocevia, dove è obbligato a stare l’artista contemporaneo che deve organizzare e riorganizzare continuamente immagini, metafore e rappresentazioni nella stanza della propria coscienza, che si affligge del proprio paradosso esistenziale, per dover essere nello stesso tempo figlio e dio, creatura e creatore.

Cy Twombly sembra aderire, per far fronte allo stress della devastante mitologia unilaterale del mondo contemporaneo, ad una tradizione “anticreativa”, come se il suo atelier fosse una prestigiosa accademia in cui lo scranno più alto è perennemente disabitato. La sua originalità è così potente che deve per forza nascondersi a se stesso, per capire qualche cosa della sua stessa talentuosa e indisciplinata arte del segno. La tecnica che lo vuole maestro nello sfocare la linea del contorno dal disegno è l’espressione di una strategia di attacco ai fianchi dell’ortodossia, è un modo per dire che l’infante è più indipendente del dio e più arrogante, più violento, più demoniaco. Del resto, il desiderio di unione deve essere spostato in una fuga in avanti verso la dimora della perfezione, verso la quale il puer muove con incessanti cadute e inappagato desiderio.

La proiezione sul futuro, su quello che sarebbe stato un disegno di Cy Twombly se egli ci avesse donato le forme belle del suo immane talento pittorico a detrimento della sua scelta di uomo autentico che decide di farsi scenario del mito della luce del mondo post-industriale, comincia già a costellarsi nel controverso ambiente del ventre materno dell’espressionismo, in cui nascono le sue prime opere, non in ordine ad una casualità, ma ad un divenire in prospettiva mitica del dramma della propria vita lacerata in cui segno e disegno, contorno e ombra, sono scissi eppure appaiati in un affiancamento in cui sembrano alloggiare danzatori solitari. Dice Adolf Guggenbühl-Craig nel libro Il bene del male. Paradossi del senso comune (Moretti&Vitali, 1998, pp. 27 e 28):

«Abbiamo [quindi] a che fare con due tradizioni: da un lato la creatività viene fatta oggetto di ammirazione, dall’altra essa viene ritenuta un attributo esclusivo di Dio e, per quanto riguarda gli uomini, la si considera soltanto una forma di hybris, di tracotanza. Sia quel che sia, con la creatività noi giungiamo faccia a faccia con Dio. E che cosa succede con l’indipedenza? Sicuramente possiamo ritenere che l’unico essere davvero indipendente in questo mondo sia Dio. Per definizione Dio è indipendente da tutto e da tutti, e tutto è dipendente da lui. Egli è l’inizio e la fine, alfa e omega del creato; […]. Noi stessi cerchiamo di raggiungere questo tipo di divinità, cadiamo vittima del complesso di Dio».

La prospettiva mitica fu, per Twombly, forza e sembianza, significato e bellezza. Il pittore amava nutrirsene, e fare dei suoi disegni “veicoli per contenuti letterari”,[i] dai quali cercava di liberare le figure.

L’opera di Twombly, se fosse tutta ordinata su piani paralleli, mostrerebbe una morfologia simile ad una stratificazione geologica intra-psichica in cui sembrano essersi fissati i marcatori del processo alchemico. Gli esordi, agli inizi degli anni ’50, sono connotati dall’influenza di Kline e Paul Klee, e sono prevalentemente pennellate gestuali-espressioniste, in un originale e morbido intreccio di tratti, parole, numeri e porzioni (“frazioni”) di oggetti. È molto attratto dall’Italia, dove si stabilisce definitivamente nel 1960, anno in cui allestisce la prima mostra alla Galleria di Leo Castelli.

Leda and the Swan, 1962, Cy TwomblyGli anni ’60 sono caratterizzati dai cosiddetti “Quadri della Lavagna”, opere di grande dimensioni in cui usava la tecnica calligrafica dei graffiti su sfondi solidi di colore grigio, marrone o bianco (una tecnica a metà tra la pittura e l’incisione), in cui la scrittura viene svestita del suo ruolo comunicativo e trasferita nel campo semantico del gesto, fino a costellare appieno l’action painting, ricco di citazioni come Leda e il cigno (1962, fig.1) o la famosa battaglia di Lepanto. In questo periodo, che è estremamente proficuo, comincia a creare le sue prime sculture astratte, le quali, sebbene varie nella forma e nel materiale, erano sempre ricoperte di pittura bianca. Twombly utilizzerà (e sarà scultore di quest’arte povera per tutta la vita) materiale preso a prestito dal fabbro, dal maniscalco, dal falegname, per dare altezza a forme semplici dalla struttura assemblata, a ricordare l’arte dei mastri antichi nel forgiare gli strumenti del lavoro: un omaggio alle cose, che si liberano della condizione di oggetti utili (come le lettere e la parola scritta) per diventare il simbolo del proprio servilismo: l’oggetto svilito dalla sua destinazione strumentale diventa un soggetto di bellezza silenziosa e perenne, come  in un processo di mummificazione, in cui gesso, vernice, legno, cartone, metallo, carta, stoffa, spago, matite, diventano elementi del lavoro manuale che, ricoperti di vernice bianca e opaca, subiscono l’ultimo trattamento immortale.

Nella metà degli anni ’70 Twombly realizza opere “multistrato”, vere e proprie creature che rappresentano la piena realizzazione del suo repertorio anticonvenzionale, costruite assemblando il collage di fogli ad altri media pittorici.

Gli spazi “vuoti” sono il collante necessario al dipanarsi di una creatività splendente, che attinge spietatamente alla linguistica, piratandone i sistemi di base. Il segno diventa “lemma” e spesso è contratto in un calco filologico: come se un bambino geniale avesse la capacità improvvisa di comunicare attraverso un linguaggio in cui verbo e immagine convergono in una bocca vulcanica fatta di meraviglie e di delicatezze, che vengono alla luce con estrema cura, a  volte con riferimenti geografici, come la serie dei quadri Bolsena (il lago vulcanico vicino a Viterbo).

Apollodoro from the portfolio Six Latin Writers and Poets, 1976-76, Cy TwomblyIn questi lavori, gli elementi grafici si fondono con forza tecnica sempre più rilevante in una sorta di dissoluzione vorticosa, di totale imprendibilità, ma sono talvolta caratterizzati da un nitore fantasmatico, come una sorta di alfabeto decifrabile dalla perizia di pochi eletti, come ad esempio in Apollodoro, (fig. 2), fino a raggiungere negli anni ’90 l’acme estetico di eleganti esemplari floreali che in qualche modo lo ricongiungono, in una sorta di re-unione con il principio, ai Fauve che ne connotarono gli inizi del percorso mezzo secolo prima, nel periodo americano, in cui fu della scuola dei grandi Robert Rauschenberg e Jasper Johns.

Un esempio folgorante è quello delle Quattro Stagioni, giganteschi pannelli che sembrano dimorare tra lo spazio scenico e quello architettonico, in una sorta di danza dei colori che si raccordano in chiazze in perenne tentativo di scendere verso il basso, trattenute contro la tela da invisibili fili, come mani che tentano di mitigare l’urlo di una dea di bellezza arcaica, maestra delle pitture rupestri.

L’ interno delle tavole è carico di una fortissima tensione, di una conflittualità invadente e di una cripticità linguistica che rimanda alla costante alternanza tra violenza e silenzio, tra sessualità e gioco, tra luce e fondale, in un rapporto emotivamente coinvolgente con lo spettatore: al quale non è difficile desiderare di balzare dentro il quadro e affondare gli occhi in quel coacervo di colore.

I fiori sono, in alcuni lavori, vere e proprie esplosioni e non è un caso se appartengono all’ultima parte del viaggio pittorico di Twombly. Artista ricchissimo e avido, così viene descritto, non fu mai collocato dalla critica americana nella Pop Art; questa sua ostinata originalità stilistica fu la sua fortuna: i suoi quadri sono valutati milioni di dollari e ambiti dai maggiori galleristi.

Non essendo “schematico”, si può solo ripercorrere a ritroso il suo progetto e intercettarne alcune coordinate, con una visione dall’interno, che sembra l’unica via percorribile, proprio come farebbe quello spettatore curioso e invadente. E tornando a quel processo alchemico stigmatizzato nella geologia delle opere, non è difficile individuare un alternarsi di strati di bianco, di rosso, di nero. La qualità dinamica dell’opera di Twombly si interseca con quella statica di depositaria del messaggio, è quindi un’opera magistrale che separa l’oro dal fango, e aggiunge un’aura di mistero e di sapienza, per quella inusuale competenza del maestro a rendere coscienti e ricchi sia il nero che il rosso l’uno dell’altro, stretti al confine tra il simbolico e l’astratto, uniti dall’invisibile catena dell’espressione del colore in piena luce, che sembra poter dire tutto, ma che di fatto rimanda sempre ad altro in un infinito specchio di rappresentazioni.

La catalogazione in “espressionismo”, infatti, è sempre relativizzante, perché non fa altro che dire continuamente che sotto l’espressione c’è una volontà di manifestare, di dire, di esprimere. Il messaggio “espresso” da Twombly è ancora totalmente indecifrato. Un’idea, un desiderio, di destituire il mito restituendo al sogno gli eroi e le anfore di un tempo passato.