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Le rifrazioni di Elio Pecora

di Andrea Galgano 22 marzo 2018

leggi in pdf LE RIFRAZIONI DI ELIO PECORA

Il nuovo lavoro di Elio Pecora (1936), Rifrazioni[1], appena edito da Mondadori, restituisce  un assorbimento originario e uno stupore frammentato di splendore che afferma la cristallinità umbratile e lucida di un movimento di memoria, adesione al presente, scena cromatica.

Attraverso i lembi dell’essere, è nell’ombra[2] che si situa la parola incrunata, l’attesa azzardata, l’esplosione di colori nudi, la voce che ansima, come l’istante racchiuso nelle palpebre chiuse, nella lampada accesa fino all’alba, nella corrispondenza dei nomi.

L’esergo che apre il testo è del grande poeta esule Josif Brodskij. Un debito, un’apertura, una fessura riflessa: «Che funzione abbia la poesia davvero non lo so. È semplicemente, per così dire, il modo in cui per te la luce o il buio si rifrangono».

Questo passaggio è lo sbocco che intitola un gesto di origine, nato nel reale e nel reale custodito. Attraverso la densità profonda, Pecora attinge il repertorio luminoso dell’attesa, del silenzio incontaminato e dell’ultimità munifica dell’essere: «E tutto sarebbe perduto se dal cuore chiuso / non affiorasse inattesa una nube violetta, / l’odore di un cibo, una voce al telefono, / il libro lasciato sul tavolo ancora da leggere. / Così il mondo intero si popola di storie concluse, / di passaggi, di soste, e un dio munifico / disegna nel cielo vasto e chiaro un arcobaleno».

Vediamo la pienezza dei brandelli, occhi, passi, vigilanze, abbandoni invigilati, ombre scalzate dalla memoria, vicinanze interrotte: queste sono le rifrazioni, le incidenze, le deviazioni luminose di una grazia screpolata. L’ombra tesse la sua diacronia, il suo silenzio, l’attimo aggrappato alla necessaria incorporazione della bellezza:

«Dice che se un quarto è soltanto luce / e la verità iniziale, se ce n’è una, va cercata / nel buio: che poi è il niente non più niente… / Dice che se così poco ha finora compreso / e in quel poco nemmeno può più giovarsi del nulla… / Dice, e insiste a dire, che sente di galleggiare / in uno spazio intoccato e pure continua / ad avere fame e sete e non desiste la paura / del soffrire. E ancora s’innamora di un fiore, / del profilo minuto dell’adolescente / che gli siede a fianco nell’autobus affollato, / e ancora guarda estatico la luna sui giardini, / lo inebria la pioggia scrosciante sui tigli. / Dice che il vuoto, il niente, il buio / – quelli sui quali vanno indagando nello sprofondo / e da minaccia sono divenuti un’immensa promessa – / sa di portarseli dentro, cosmi e particole, / e di esserne traversato e abitato / mentre li abita e li traversa».

La consegna relazionale delle immagini addensa una complementarità contrastante. L’intima relazione tra luce ed ombra costituisce il senso, il conflitto, il contrasto intenso, il lato origliato di splendore, come il solco di una terra scura che ritorna al lampo della sua origine, che annaspa nel fango occhieggiando le stelle: «Dove sono finiti i giorni, le ore, / quando, chiuso in un solco di terra scura, / attese parole, sillabe, giri di frase / che finalmente significassero / la consegna inspiegabilmente promessa? / È smisurato il silenzio che succede al rumore, / è il niente, il vuoto privo di voci di echi, / e, se prima è la paura e l’orrore, dopo / è l’incognita di una nuova salute».

L’osservazione di Pecora, dunque, prepara al viaggio nell’ombra, al fondo del rumore, al colloquio dell’arsi della parola che fa vedere scorci minimi e zone finissime che scandagliano, proteggono, assillano l’anima dolorosa e splendente delle cose, la manifestazione del tempo, la soglia tattile degli antri come degli accordi emersi, come da un’eternità immisurabile o un’attitudine di meraviglia:

«Sa che se molto accade nella sua mente / – un gioco misto a paura, idee a cento watt / e infervorati scandagli – molto, ma molto di più / accade di fuori, in quel che chiama mondo / ed è un immenso rimescolio di crescite, / sparizioni, feste, ruberie, delitti, progetti, prospetti, / rovine e tanto altro. E sopra e intorno / e sotto cieli ruotanti, vuoti da perlustrare, / spaventose minacce, strepitose promesse. / E lui qui, vestito del suo poco, rinchiuso / nei suoi sonni che sognano. È questo / il tempo in cui passa, l’ora in cui sosta […]».

Adriano Napoli afferma:

«Poesia è osservare il tempo nell’assenza di ciò che continuiamo a vedere: nella memoria, nel nome che ci chiama da una distanza, nelle ore perdute, colme di redenzione. Guardare il tempo è in fondo una metamorfosi. Per questo l’immagine del giardino che ci accoglie fin dalla soglia di questo libro screziato di colori e umori, persuadendoci con sensazioni tattili (quasi una fisica della percezione, antidoto alle astrazioni incolori dell’impoetico modernariato attuale), ci appare come l’emblema materico di una realtà che si avvera tutt’intorno nel suo incessante fluire, nell’attimo del suo trascorrere che è al contempo forma, manifestazione – l’unica possibile – dell’Eterno. Il giardino è l’angolo in sé conchiuso, non dissimile dalla coscienza umana, da cui guardiamo immobili (con Pitagora e con Proust; con Ovidio e Bergson) la forma esatta ed effimera delle cose trascorrere, rifrangendosi, in un altrove. E la poesia stessa, altro non è che questo incanto, tenero e malinconico, di sentire il tempo, da un angolo silente e ombroso («quel che chiamiamo Sublime / sta nell’ombra»), da un’ansa della coscienza esposta ad esso, fino a percepirne (come ci ricorda in un bellissimo saggio Pietro Citati) la liquidità».[3]

Attraverso la proiezione, la ricognizione, la scissione e l’identificazione, il gesto del magma poetico frequenta ogni volto o parola che si immerga nel reale e ne viene toccato: dal dolore, dalla morte, dall’assenza, dalla allegria del respiro, dal buio dello specchio e dalle chiamate delle vicinanze.

La poesia ricerca i frammenti per rinnovarli e avvertire il segno del mondo, la sua crittografia e la sua contrazione. Ma il mondo del poeta non è un cosmo di frantumi, poichè lo sguardo pienamente umano vigila la densità dell’istante, per vivere la compiutezza intera di ogni tensione, come pagina leggera in un pugno o specchio accordato di lunghezze epifaniche.

L’oralità trepida sfiora l’inattendibilità di ogni richiamo e abisso, come urgenza, innanzitutto, e poi come confronto instancabile con l’esistenza e la poliedrica nudità di ogni forma («Al crepuscolo la luce è uniforme, / ogni cosa si mostra nella sua nudità. / Ma che resta all’uomo del suo crepuscolo: / che del suo entrare nella vita, / che del suo uscire nella morte?»): «L’ora è ferma e lucente, un pigolio / si spande fra i castagni e gli ulivi; / al desiderio basta il desiderio / di una felicità solo sfiorata».

La sparizione delle cose, innervate nel loro limite buio e luminoso, confrontate nel passato perduto e nelle soglie dei ritorni, non è, quindi, un enigma rovesciato, o una annichilente rapsodia inconsistente, è pausa del tempo, che, nella poesia, trova il suo ritmo di lingua e di relazione e di appartenenza. In definitiva, la sua luce ultima e verbale riconosce e mostra tutto il suo vigore stremato che non si nasconde, bensì si offre, porge il suo ordinario mistero del vivente che risillaba ogni speranza, nonostante l’ora precipiti, mentre corre un altro tempo in questo tempo («è l’ansa dove il sogno della mente / non conosce durata, / la parola che tenta se stessa / esatta, svelata»):

«V’è un’ora della notte quando il sonno, che fino allora / ha retto il suo oscuro governo, d’improvviso si squarcia / nella veglia. Subito, uno dietro l’altro, come torme / di cani affamati si presentano i pensieri più cupi, / le minacce più funeste. E ogni ardire si sfalda. / Del passato non resta nemmeno una stilla di bene, / non v’è rimedio al peggio che spinge da ogni parte: / cova in ogni parola, si nasconde dietro ogni faccia. E solo / se riesci a trovare la forza di accendere la lampada, / di tornare alla pagina del libro lasciato prima / che il sonno t’avvolgesse, solo allora arriverai / a risillabare la speranza. (Trapela dalle imposte / socchiuse la prima luce dell’alba, livida, incerta.)».

È il tempo della scrittura arresa, il sogno vivo e riflesso, come se tutto possa essere placato, i segni smisurati, l’attesa amante che ritorna, il pianto che punge gli occhi, le torme e il grido che scorge l’abisso chiaroscurale e i cumuli delle ombre e «sa che da questi verrà un frutto, un fiore, / una foglia minuscola. Sa pure / che la parola non è più di un cenno, un avvio / per un altrove nemmeno ancora intravisto».

C’è nella poesia di Pecora questa tensione sorgiva per la parola emersa, non sottratta e rifratta, appunto, nelle categorie dell’anima, che rimandano a una appartenenza unica e, a volte, infeltrita dal rumore taciturno ed esploso che strappa, incaglia, arreca discordanza.

Come se essa dovesse risalire dalla nostalgia, dalla memoria confusa, dal bagliore dentro l’addio, e dal legame di conquista e perdita, si fa giardino concluso che non nutre disfacimenti e oblio nella sua luce striata di ombre.

Come una testarda voglia di restare attraversa l’amore, il vento tenue della gioia e le incrinature dei sogni:

«È solo un recinto il giardino / di verdi che svariano, / e i bianchi e gli azzurri degli ibischi, / il rosso tenero dei lillà, / le dalie gialle e amaranto… / E un tempo senza ore, / una luce striata di ombre. / Solo un recinto il giardino / dove il cuore e la mente si alleano / in una chiusa dimenticanza. / Qui è intero lo stare, / un punto di tutto, / la grana taciuta di una voce / che non si conosce».

Nella dimensione onirica, poi, tutta la lava delle impressioni e delle percezioni, così come il fiato delle parole slegate e delle veglie, tornano in un cenno di spazi, in una figuratività sconosciuta o forse confusa, ma sempre generativa nei suoi luoghi anteriori (come il testo dedicato a Roberto Deidier) e nei crepuscoli venati.

La scena del testo riporta ancora l’affresco dell’ombra. Ne Lo spessore dell’ombra, sezione decisiva e importante del libro, dove gli addii agli amici divengono la dimora della parte oscura. Amano frequentare l’Ombra ma allo stesso tempo riemergono in un incontro vivo. Essi «svariano nel giardino d’estate», si mostrano nella sospensione e nella luce che declina.

Tornano vivi in un assedio, avanzano come sommessi nel loro passo e nel loro respiro, come sponde di sogno o scaglie lacerate, «un’ansa, uno specchio nel tempo immisurabile», perché l’aria è piena di anime in una città senza nome: il padre Arsenio, andato per mare, la madre Elena («le labbra carminio, il bracciale di perle e smalto, / il sorriso trattenuto di chi ha vinto») e la sorella di lei Maddalena, il fratello Osvaldo, raccolto nella stupefazione o le care figure, attinte nella dimensione familiare e della sua terra, gli amici poeti Luciano Erba, che tra le ombre parla incagliando e ride del suo nome lucente, e Dario Bellezza («Non fu facile soprattutto / per quel suo dio truce e vendicativo / che minacciava gli inferni al fanciullo / incantato dalle parole e invaghito / da un bene colmo, eccessivo»).

E poi ancora Elsa Morante, «la manichea dagli occhi di agata / l’aspra dispensatrice di sentenze, / l’amica tenera che poteva mutarsi / nella più spietata nemica, / e nemmeno la padrona irridente / la serva che storpiava i cognomi / del manipolo curvo dei fedeli», Aldo Palazzeschi in una danza chiara di parole, Amelia Rosselli nella sua musica incomparabile di incagli, cieli segreti e farfuglii, Elsa de Giorgi, Alberto Moravia nella sua energia raggrumata, Juan Rodolfo Wilcock, Francesca Sanvitale e infine il pianto interrotto di Sandro Penna che splende nell’allegria dell’essere.

Nell’interno della sua estensione poetica, il recinto diviene sia la forma di un riconoscimento dettagliato e sia una appropriazione di alito disparso. L’appropriazione è una custodia e una sottrazione, uno svolgimento di ferite che cerca un nuovo gemito di sicurezza e un atto smisurato verso la totalità, nella strenua ricerca di un approdo oltre il vuoto, la domanda dischiusa, il labirinto dei suoi mostri e il suo lutto:

«Qui conoscemmo l’amore e le sue disfatte, / amico che torni a chiamarmi, è quieta la voce, / da chi sa quali distanze, e ancora domanda / se il bene fu rimanere nel cerchio che stringe, / se il canto fu solo un motivo fiacco, stonato. / Pure la sola durata è in questa luce scarna / che al dolore resiste, anche dove più fortemente / colpisce e infetta (meno grave la resa), / invece prosegui incontro a un altro mattino, / ancora aprile, ancora un febbraio di vento: / una fatica e un’ebbrezza fin dentro la norma / di questo restare, fin dentro il lutto e l’assenza. / Prima il teatro sublime del tramonto viola / – geometrie di continuo composte e scancellate / ora con strida infernali l’inarrestabile orda / di storni va occupando ogni ramo, ogni foglia: / i platani hanno radici che spaccano l’asfalto».

Ecco la genesi della sua architettura, della sua resistenza e della sua preghiera. L’osservazione del mondo è la rifrazione. Aspettare che le cose si rivelano e si disseminino, quando la luna falcata sui terrazzi porterà l’esagerata destinazione del desiderio e del supremo registro dell’anima. Tutta la vastità della vita, nella meta dei dettagli e nei processi di conoscenza, si situa in questa urgenza che lega passato e presente:

«C’è un momento la notte, / subito avanti l’alba, / quando, spente le luci, / ogni forma dispare: / è la città che sogna / il suo sogno iniziale, / l’aratro traccia il solco / della rifondazione: / gli storni fra le nubi / disegnano promesse, / boschi dovunque e selve, / tutto è da cominciare. / È un momento. L’aurora / dei centomila watt / risolleva il sipario / sull’immenso teatro. / Lo spettacolo ha inizio, / va crescendo il rumore, / una folla in cammino / si trova, si disperde».

La tessitura di questa poesia si compone di tracce vissute e di materia viva che diviene, a sua volta, densità lessicale, fisicità di nomi, metafora chiara. Non c’è esibizione di nomi, bensì piuttosto un canto assimilato alla vita e alla morte, come un territorio che ritrae la testimonianza di un canto accostato al mondo, in attesa di una parola che strappi un sì, che non si mutili, e che si pronunci in modo chiaro e definitivo.

[1] Pecora E., Rifrazioni, Mondadori, Milano 2018.

[2] Mauri P., Il destino di ogni poeta è l’elogio dell’ombra, in “La Repubblica”, 21 febbraio 2018.

[3] Napoli A., «Rifrazioni» di Elio Pecora, (https://www.sololibri.net/Rifrazioni-Elio-Pecora.html), 20 marzo 2018.

Pecora E., Rifrazioni, Mondadori, Milano 2018, pp. 147, Euro 18.

Pecora E., Rifrazioni, Mondadori, Milano 2018.

Mauri P., Il destino di ogni poeta è l’elogio dell’ombra, in “La Repubblica”, 21 febbraio 2018.

Napoli A., «Rifrazioni» di Elio Pecora, (https://www.sololibri.net/Rifrazioni-Elio-Pecora.html), 20 marzo 2018.

Frontiera di Pagine Volume II di Andrea Galgano e Irene Battaglini

di Diego Baldassarre 23 settembre 2017

leggi in pdf Frontiera di Pagine Volume II di Andrea Galgano e Irene Battaglini – Diego Baldassarre

17793423_10212351437891026_650412216_nIl libro Frontiera di pagine II (Aracne editrice-2017) è un contributo critico di due autori e docenti della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm del Polo Psicodinamiche di Prato, Irene Battaglini e Andrea Galgano. Il volume raccoglie gli articoli, le recensioni e i saggi scritti dai due autori tra il 2013 e il 2016.

Una raccolta di saggi critici di psicologia dell’arte, poesia e letteratura che fa seguito al primo volume pubblicato nel 2013.

Il Testo si suddivide in cinque sezioni.

Le prime due sezioni, strettamente collegate all’arte figurativa, sono curate dalla Professoressa Irene Battaglini.

La prima sezione “L’IMMAGINALE” raccoglie tributi critici ai maestri della pittura in un viaggio di colori attentamente analizzati per lo più da Irene Battaglini ( e in minima parte da Andrea Galgano) con la lente dell’analisi psicoanalitica. Si alternano i miti della pittura come Rembrandt, Picasso, Paul Klee, Boldini, Magritte, con saggi strettamente psicoanalitici che offrono uno sguardo non comune a problematiche contemporanee come lo stalking .

La seconda sezione IL NARCISISMO NELL’ARTE CONTEMPORANEA affronta invece il rapporto tra il mito di Narciso e la pittura. Vi troviamo Andy Warhol, Francis Bacon, Lucio Fontana e altri pittori contemporanei.

Come sostiene l’autrice nell’articolo introduttivo “ Il mito di narciso e il conflitto estetico”( Pag. 163)

la psicoanalisi e tutta la psicologia moderna, senza dimenticare il contributo della sociologia e dell’antropologia, mettono a disposizione teorie e opere interamente spese a favore di una indagine il più possibile ampia e accurata del mitologema celebrato da Ovidio nella “Metamorfosi”.

L’approccio scientifico – psicoanalitico diventa quindi fondamentale per approfondire e comprendere meglio autori che hanno profondamente influenzato l’arte pittorica moderna.

Infatti, in un passaggio efficace, Irene Battaglini sostiene che

Narciso possiede l’immagine di sé come unica via della conoscenza. Egli spicca la melagrana infetta di un doloroso desiderio non di amore, ma di una gnosi della morte e della vita: dell’estremo sacrificio di sé. Guardarsi da fuori, come fosse estraneo a se stesso, o vivere nella limitazione dell’amore che è conoscenza dell’altro come condizione di conoscenza di sé attraverso l’altro? Fa ammenda della possibilità di raffigurare con religiosa aderenza al Vero, al Dio, al Mondo e all’Uomo per restare nel gioco di rimandi della rappresentazione illusoria che è, in definitiva, la sua unica “visione”: il suo orizzonte multiplo, che si moltiplica ad ogni gesto, ad ogni battito di ciglia. E il suo dolore sta nel doversi rapportare a questo orizzonte nel tentativo di scalfirlo e guardarvi dentro come uno scenario di forze anatomiche nel tentativo estremo di restituire sulla tela il mistero che sta dentro la realtà (Bacon); placarne la silenziosa inutilità resa dagli oggetti sviliti del quotidiano e celebrati nella loro immortalità (Warhol), ferire il campo proiettivo come una tela tesa e chiusa (Fontana), combattere contro quella figura che è simulacro e immagine di sé agitandone e sfocandone i contorni come un allievo privo di maestro (Twombly), ma non mai sfiorando la veste degli dei e di una qualche verità esperienziale, oltrepassando la logica della percezione e della sensazione, in un gioco di forze che stanca, che invita al “senza titolo”.

Le sezioni successive sono curate dal Professor Andrea Galgano.

La sensazione che si prova nel leggerle è molto simile a quanto riportato dall’autore in un passaggio del libro

D. Thoreau scrisse che Walt Whitman (1819-1892) «con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta, per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni »(pag. 587).

Andrea Galgano oltre ad essere un eccellente critico letterario è anche un poeta (molto apprezzata  la sua silloge Downtown, pubblicata da Aracne editore nel 2015, impreziosita dalle tavole pittoriche di Irene Battaglini). Di conseguenza questo libro è anche una ricerca di se stesso da parte dell’autore, attraverso  punti di riferimento letterari che sicuramente hanno influenzato il suo modo di scrivere e di concepire la letteratura. Non è solo una attenta analisi degli scrittori proposti ma uno slancio pieno di passione. Che colpisce il lettore invitandolo a leggere gli autori meno conosciuti e ad approfondire quelli più noti. Sono mattoni, appunto, lanciati da ogni lato che colpiscono la nostra immaginazione e il nostro intelletto.

Per comprendere quanto sia compartecipata l’analisi critica di Andrea Galgano,  a titolo esemplificativo, si potrebbe leggere il passaggio tratto da “John Keats. L’ultimo canto dell’Usignolo“ ( Pag. 695):

L’assedio delle immagini di Keats compie l’entusiasmo del suo miracolo di incanti verbali, di giochi di fantasia espressiva e di placide invocazioni alle divinità, alle quali porge il suo desiderio e i suoi simboli, e le esperienze diventano intimità fisiche e gesti creati dal tempo sensibile: gli steli affusolati sollevano i diademi delle stelle, tra le ombre inclinate nelle lontananze di cristallo e i sentieri interminabili dei boschi, il «suono senza suono» che scivola tra le foglie, le campanule e le calendule, le rugiade e i ruscelli, la gloria delle fonti e la carne della frescura del destino che enumera ogni infinità cosmica (Ero in piedi, sulla vetta sottile d’un colle)”.

Come si vede il taglio degli articoli, tutt’altro che professorale, è una analisi attenta di ogni autore attraverso la lente dello studioso che non vuole solo spiegare ma anche capire e che guida il lettore in questo percorso di conoscenza.

Le sezioni curate da Galgano partono dalla ”PARTE III, IL FUOCO DELLA CONTEMPORANEITÀ”

E già qui troviamo un mosaico di autori che chiunque ami la poesia non può non conoscere e non amare.

Si inizia con Clemente Rebora e la sua poetica espressionista; si procede con Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano dell’epoca Latina legata alle corti imperiali del IV secolo; si va avanti con salti temporali (che potrebbero creare sconcerto ma che in realtà fanno sì che il lettore non si annoi come se fosse di fronte ad una antologia scolastica), per approdare a Vittorio Sereni con il suo ermetismo sui generis; poi Giovanni Giudici, Roberto Mussapi, Dario Bellezza, Franco Fortini, Giancarlo Pontiggia, Umberto Piersanti, Giorgio Orelli, Italo Svevo, per concludere con un omaggio a Mango, il cantautore recentemente scomparso.

Il tutto per dimostrare che la letteratura è un flusso continuo che attraversa la poesia, la prosa e la canzone senza spazio temporale o di genere

Ogni autore è attentamente analizzato con rimandi a note esplicative di altri critici letterari, a estratti poetici o letterari degli autori stessi, ai rapporti epistolari , a intuizioni dello stesso autore. Il risultato è un profilo completo di ogni scrittore. E proprio perché tale profilo risulta così ben espresso spinge il lettore alla curiosità di approfondire ulteriormente le opere degli scrittori e dei poeti citati.

La parte IV, “CONTINENTI”, è indubbiamente quella più ponderosa. Uno splendido viaggio tra Europa ( comprendendo in essa anche la Russia), America Latina e , soprattutto, Nord America.

Un viaggio che non è solo culturale, ma che dimostra come la letteratura sia interconnessa pur nelle differenze. Splendido il triangolo che si viene a formare tra  Anne Sexton,  Sylvia Plath e Ted Hughes incrociando i testi di Andrea Galgano relativi ad ogni autore.

Illuminanti le differenze che si colgono tra gli autori Europei strettamente legati alla loro plurimillenaria storia  e quelli Americani votati al futuro. E’ esemplare un verso di  Billy Collins (classe 1941) che sfacciatamente si pone in rottura con la poesia europea : “Qui non ci sono abbazie né affreschi che si sbriciolano o cupole / famose, e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione di re”.

Quasi tutti gli autori, forse non è un caso, vivono in periodi storici di confine. A partire da Alexander Blok (1880-1921) che vive sulla  propria pelle il trapasso dal regime zarista a quello della rivoluzione d’Ottobre, o quello di John Steinbeck (1902-1968) e William Faulkner (1897-1962) che subiscono e descrivono la spaventosa crisi del ’29; Miguel Hernández (1910-1942), combattente antifranchista e vittima del regime; o gli autori dell’esilio come il poeta  Hans Sahl (1902-1993) costretto a vagabondare tra Praga, Zurigo, Parigi e New York a causa delle persecuzioni della Germania Nazista; la poetessa Hilde Domin (1909-2006), pseudonimo di Hilde Löwenstein, poetessa ebrea rifugiatasi, sempre durante il periodo nazista, nella repubblica Domenicana ( da qui lo pseudonimo); o i poeti “viaggiatori”, come il premio nobel Octavio Paz.

Come se Andrea Galgano volesse sostenere implicitamente che l’arte, quella che fa la storia, deve nascere dalla rottura, dal tormento non solo interiore ma anche del corso degli eventi. E che la frontiera non ferma la parola, così come non la ferma la repressione.

L’ultima sezione (“PARTE V:SOSTE”) rappresenta un momento di riposo. Dopo il sudore della ricerca, finalmente Andrea Galgano può sedersi in poltrona e rilassarsi. Gli articoli che fanno parte di questa sezione conclusiva sono meno perfusi di rimandi bibliografici. Rinviano ad una lettura di puro piacere.

Così troviamo il poeta e critico letterario Davide Rondoni;  la recensione del romanzo The touch di Randall Wallace (già sceneggiatore di Braveheart (1995) e Pearl Harbor (2001) oltre che regista della La maschera di Ferro con Leonardo Di Caprio e We were Soldiers con Mel Gibson); l’articolo sul libro Poesie 1986-2014 del poeta “metropolitano” Umberto Fiori, edito da Mondadori; una attenta analisi della silloge Il posto (Mondadori 2014) della poetessa e Premio Pulitzer Jorie Graham; l’articolo su Leif Enger ( romanziere del Minesota , classe 1961), all’interno del quale troviamo riportata una splendida intervista rilasciata ad Andrea Monda su “L’Osservatore Romano” che tratta dello “scrivere” e di cui si consiglia caldamente la lettura; la recensione al libro Tersa morte del poeta Mario Benedetti, edita da Mondadori, tutta incentrata sulla memoria; la nota critica alla raccolta  poetica di Valerio Magrelli “Il sangue amaro”, al cui interno troviamo richiami della grande poetessa contemporanea Maria Grazia Calandrone e del giornalista del “sole  24 ore “ Gabriele Pedullà che, assieme al contributo dell’autore, aiutano a comprendere a pieno la silloge.

Pregevolissimo l’omaggio al critico letterario e poeta Giuseppe Panella, peraltro spesso utilizzato da Galgano a supporto di molti suoi scritti critici; e poi gli articoli sui poeti Thomas Merton e Michel Houellebecq che meritano una lettura attenta in quanto “poeti del silenzio”. E cosa si intenda per “poeti del silenzio” trova in questo testo una spiegazione mirabile.

Verso la fine di questo lungo viaggio letterario troviamo un articolo su Francesca Serragnoli e il suo ultimo libro Aprile di là edito da Lietocolle. Questo testo, come si comprende fin dall’inizio,  è una vera e propria dichiarazione di amore letterario:

 La nuova silloge di Francesca Serragnoli (1972), tra le più importanti poetesse italiane, Aprile di là, edita da Lietocolle, nella preziosa collana curata da Gian Mario Villalta  , apre la conoscenza del tempo in una accensione vitale e scoperta. È incontro,tessuto, vita che scorre, dolore che apre le vene, grazia che incombe, terrena partecipazione alla realtà ma anche librata trascendenza di forma.

Il ponderoso lavoro di Andrea Galgano si conclude con l’articolo sul libro di poesie “Sinopie smarrite” di Diego Baldassarre edito da Lietocolle ( pag. 867). Ringrazio infinitamente l’autore di avermi posto come sua ultima sosta. L’attenta analisi del libro è per me motivo di grande orgoglio.

A conclusione di questa breve nota, che mi auguro serva comunque da invito a leggere un così importante lavoro critico, vorrei riportare un passaggio citato nell’articolo relativo a Leif Enger  ( Pag. 805) affinché possa essere di augurio per un nuovo lavoro: «è strano, quando raggiungi la tua meta: pensavi di arrivare lì, fare quello che ti proponevi e andare via soddisfatto. Invece, quando ci sei, ti accorgi che c’è ancora altra strada da fare».

L’eternità imprendibile di Dario Bellezza

di Andrea Galgano 17 marzo 2015

leggi in pdf L’ETERNITÀ IMPRENDIBILE DI DARIO BELLEZZA

11054360_1587600471483713_4618579255528510578_nLa recente pubblicazione che raccoglie tutta l’opera poetica di Dario Bellezza (1944-1996), a cura di Roberto Deidier, scandaglia la poderosa e verbosa poesia di un poeta che ha abitato con estremità la scena letteraria romana degli anni 50-90, arrischiando l’ipotesi, come scrisse Silvio Ramat su «Poesia» del maggio 1996, poco tempo dopo la morte del poeta a causa dell’AIDS «[…] che in Dario Bellezza s’incarnasse, con un orgoglio più forte del turbamento e degli sbandamenti, la figura del Poeta, al quale, ieri come oggi, le Istituzioni concedono poco o nulla; mentre appunto lui solo, il Poeta, persegue implacabilmente una sua verità, un ideale di cui la sua natura vorrebbe far dono a tutti […]».
Ma il dono di Dario Bellezza è la fuga dal proscenio dell’io lirico attraverso la rottura (o meglio il sipario franto), la trasgressione e la passione amletica, come scrive Roberto Deidier:

«Da qualsiasi punto la osserviamo, la poesia di Bellezza appare in fuga, o meglio si costruisce e si atteggia come una fuga. Come un tentativo di fuga, a vedere bene, se una certa pesantezza della struttura impedisce movimenti troppo verticali, sollevamenti repentini del senso, scarti ritmici, almeno fino agli ultimi due libri, L’avversario e Proclama sul fascino. Eppure, nonostante il suo movimento più autentico sembri essere quello del nascondimento orizzontale piuttosto che quello dello scandaglio, in un’incessante altalena di simulazione e dissimulazione, nessuna prospettiva è in grado di incorniciarla e comprenderla, e inevitabilmente qualcosa si sottrarrà, come alla visuale in procinto di una curva, di una svolta inattesa e in ogni caso sorprendente, quanto una voluta barocca. Tale tortuosità non è un limite, ma è semmai la forza, la materia più autentica di questo poeta. […] Così Bellezza è rimasto prigioniero dello stesso cortocircuito che ha provocato: l’Amleto che cerca di corrodere dall’interno, con la sua sola ma rumorosa presenza, la sonnolenta borghesia romana, è in realtà l’effigie della stessa dissoluzione in atto di quest’ultima. Ciò che il poeta vuole rappresentare nel vissuto e nella poesia, in una coazione al presente, ad agire nell’attualità del presente, è già avvenuto. La strada dell’eversione, che passa anzitutto attraverso l’affermazione dell’alterità sessuale, è percorsa già fuori tempo massimo, mentre l’onda d’urto della contestazione inizia a perdere il suo potere corrosivo e la scena nazionale è occupata da più tragiche tensioni».

Pertanto, lo scandaglio e lo smalto del suo disarmo fa i conti, all’inizio della sua rappresentazione, con la straripante ombra di Pasolini, come vocazione, come grigia e indiscussa tendenza non solo alla morte nel presente, ma al morire, come annota Davide Rondoni su “Avvenire” del 5 marzo 2015:

«Intendo la sua durissima temperie, o anima o meglio fissa idea, o forse ancor meglio dire smalto – chè d’anima no, non si parla se non per negarla e vituperarla, in nome di lui, del corpo o meglio del sesso, che demone borghesissimo ricorre nel disarmato Bellezza, tra le case di poetesse e di letterati molto impegnati. Voglio dire che la verbosa ossessione della morte nel geniale poeta romano indica quale fosse la lastra grigia, gelida, la cardarelliana tinta di quella comunità letteraria – preda di maggiori o minori esaurimenti di energie e di fobie, sublimate in alcuni casi nel potere, o nella sicurezza data dal salotto o dal partito o da entrambi (partito / salotto dei migliori). Una carnale, potente, fiorentissima paura della morte. Un barocco senza fede».

L’eros compone il suo teatro, lo condensa, lo proclama, ne dirama la sua coltre inespressa, nella fissità mobile delle notti romane, con le esili disperazioni e degradazioni. E nell’amore orfano, sviato e disilluso, Bellezza compie il suo rito di coazione e sacrificio, che lo conduce fino a Penna, ma ne priva la portata innocente, comprimendo il margine, la sessualità precaria e maledetta che si dilata fino all’incontrastabile regno della morte, esibita in una nitida delazione di mente e corpo, per non giungere mai «al compimento di un proposito e formula reprimende sul suo stato, formula di un desiderio assoluto e in parte inespresso, dove proprio amore e morte coincidono come fine di qualcosa che non è mai stato posseduto del tutto» (Alessandro Moscè): «Ma quale sesso ha la morte? / È ragazzo. È ragazza. Spaventosamente / materna mi abbraccia al limitare del sonno, / quando l’alba affretta la sua agonia / e il giorno calza i suoi occhi di malinconia…», o ancora «Ho paura. Lo ripeto a me stesso / invano. Questa non è poesia né testamento. / Ho paura di morire. Di fronte a questo / che vale cercare le parole per dirlo / meglio. La paura resta, lo stesso. / Ho paura. Paura di morire. Paura / di non scriverlo perché dopo, il dopo / è più orrendo e instabile del resto. / Dover prendere atto di questo: / che si è un corpo e si muore».
«La bestia che è in me e latra» condensa la parola poetica in una agonizzante corpo a corpo, come un io abbandonato e intossicato che discende «nelle regioni della creaturalità, di un universo offeso dalla Storia» (Roberto Deidier), come un amante estatico o un osceno trasgressore di forma e figura. Ecco che il provocatore-cantore di una rovinosa visione che declina e apre la sua fisicità in una performance che la conduce nell’abisso di un consunto lamento elegiaco, descrive il mondo in un epicedio: «Se un poeta, io, regalo al cupo silenzio / della notte metà del tempo che m’incalza / ostinato inquisitore di un corpo / sbalordito dall’abitudine, decomposto, / in ansia perpetua di non lasciare traccia / di sé nei corpi altrui o stampo caldo / nelle fresche leggere menti adolescenti / né la Storia, l’ordalia infernale / dei tiranni assetati di sangue e morte / non considero, ne viene anzi, rabbia, / sgomento, urlo lontano nella gola secca, / pianto sommesso o gridato, abbiate pietà!».
Scrive Maeba Sciutti:

«Dario Bellezza sa di essere il proprio avversario, di portarlo nel corpo come un male inguaribile. Impossibile ipotizzare un dramma più grande e infatti il poeta tracima, sviene, si rialza, barcolla ma resta sempre sull’orlo pericoloso della dissolvenza. Anche quando grida la rabbia verso «altri moribondi normali», contro le «segrete immense rivalse della invidia poetica», quando dice l’indicibile per l’uomo civilizzato e “contabile” che ha ancora qualcosa da perdere e cerca nella mediazione la sua salvezza personale, paradossalmente il lettore sente che Dario Bellezza può farlo perché non ha nessun futuro da barattare, perché ha raggiunto il culmine della sincerità nel culmine della disperazione (e forse il lettore-uomo medio non eroico pensa, con intima indignazione, che effettivamente il culmine della sincerità può esserci solo nel culmine della disperazione quando questa è intesa nel suo modo più pieno, più concreto e fatale: assoluta mancanza di speranza, assoluta assenza, certezza del non futuro)».

Il sangue dell’assenza, la consunzione, la pronuncia antagonista della voce proclama una tentazione smisurata e fanciullesca che comprime l’io, che si spegne in un tramonto assorto di speranze, «cercando la vita smarrita, il sole funesto / e sporco di un pomeriggio invernale: / la luce negli occhi di un Dio che è sparito»: «Dura legge sapere che niente / potrà consolare il niente assoluto».

E il mondo sguaiato e lucente, da cui proviene Bellezza, è una «vecchiaia recente» che si rivela nello smarrimento e nella mancanza, nell’insonnia illusa e nella ferita ingrigita, come scrisse Pasolini nel risvolto di copertina di Invettive e licenze (1971), «che una nuova prospettiva schiaccia contro la vecchiaia vecchia e antica. […] Quindi si è messo a descrivere le forme e gli oggetti delle sue angosce (che ogni buon collega e semplice lettore non può che considerare abominevoli) come se fossero forme e oggetti dell’assoluto: come le bottiglie e i vasi di Morandi. Nessun compromesso, nessuna complicità, nessuna facilitazione, nessuna concessione, nessuna deroga: nemmeno il sollievo di un sottotitolo gradevole, di una nuda citazione».

L’avviluppo del proprio io sente il peso della colpa e della mancata libertà, del vizio (e dello scandalo) della morte, in cui «il derelitto produttore di parole» segue un destino precipitato nella lacerazione, disprezzando, come avviene in Morte segreta (1976) i valori di una società costituita, finendo per celebrare la dismissione e l’acuto segreto del proprio essere, della propria intima finitudine.
Scrive Roberto Deidier: «Nei suoi versi la fisicità assume le denotazioni più disparate, fino a recitare il ruolo antagonistico più volte evocato e infine temuto, quello di richiamo di malattia e di morte. Ma prima di quest’ultimo, fatale intreccio, in una sorta di carpe diem che riporta la temporalità di questo poeta negli angusti confini di un eterno presente che non vuole e non sa guardare al futuro, né costruirlo, il corpo e la scena primaria di felicità fugaci ed effimere e ben più reali tripudi. Quella stessa fisicità non tarda infatti a mostrarsi nei caratteri alterni, e ovviamente ossessivi, della ricerca e dell’incontro, del distacco e dell’assenza».

La fragilità iconica e oggettuale non si concentra su una figuratività scrupolosa e animata, bensì fonda un limbo indeterminato, congiunge il processo creativo a un annuncio di colloquio estremo e scisso che condiziona la mitologia e la fisiologia di ogni incontro con la realtà, con il corpo/amante, con la amletica figuratività fisica: «Dentro / il cuore si agita invano la parola chiave, morte, / morte terrena, morte eterna, ed è il corpo trionfante / bestia che si accalda a dimostrarlo in attesa / di diventare freddo come un marmo. / Questo corpo che vesto e nutro e lavo / e accordo ai separati corpi altrui, costringo ad amare, / manometto, chiedo il perdono della sua putrefazione / perenne in una erezione instabile e impotente, sterile, / senza figli severi e solari per confortare vecchiaia».
La straziante scena della sua anima ciba la visione temporale degli eventi accaduti di un antagonismo che concede sdoppiamenti e figurazioni sbilenche, in cui la scrittura del Corpo assurge a parola lirica, a ferita, a passione che risorge.
In Libro d’amore (1982), il disincanto della vocazione si spinge verso una rifiutata dolenza, verso un amore sbiancato che diventa, come si legge nella quarta di copertina, «non-acquisto e non-conoscenza, perdita totale, senza compensi, di sé e dell’altro, recupero cruento e fatale del buio originario».
L’unione degli opposti e la loro sregolatezza scenica, se da un lato richiama alla scissione del sentimento sospingendolo fino all’estremità e all’affanno, dall’altro invoca dolcezze e fisionomie care ed accennate che diano respiro alla corporalità e alla creaturalità sfiorata e sfiorita, depredata dalla ferocia della Morte («Ascoltavo la morte nel mio sogno / di pazzo dirmi all’orecchio soave: «Ti trascuro. Non verrò mai da te». / Allora mi ricordai di te e mi svegliai. / La morte mi era a lato. La notte / riempiva la stanza di silenzio. / alla finestra la luce della luna. E / nel mio cuore un presentimento»), in un amore che si opponga, non come pasoliniana disperata vitalità ma come concreta oltre-rappresentazione di una colma felicità.
Il labirinto segreto del suo essere si confronta con la contorsione di una commedia tragica, in cui la sua voce scoperta addita piazze, luoghi, strade e luci stagionali, dove la folla spiata si afferma nella disillusione e nella consumazione: « Forse mi prende malinconia a letto / se ripenso alla mia vita di tempesta e di / mattina alzandomi s’involano i vani / sogni e davanti alla zuppa di latte / annego i miei casi disperati. / Gli orli senza miele della tazza / screpolata ai quali mi attacco a bere / e nella gola scivola piano il mio / dolore che s’abbandona alle / immagini di ieri, quando tu c’eri. / Che peccato questa solitudine, questo / scrivere versi ascoltando il peccatore / cuore sempre nella stessa stanza / con due grandi finestre / un tavolo / e un lettino di scapolo in miseria. / E se l’orecchio poso al rumore solo / delle scale battute dal rimorso / sento la tua discesa corrosa / dalla speranza».
La guarigione del mondo passa attraverso il passaggio dentro questo ampio gesto di esistenza, in cui «L’umile stato diseguale del poeta», aggredito, assediato, temuto, celebra il suo segreto singhiozzo, il suo monologo precipitante, il profondo canto della sua raucedine: «”Il mondo non è più quello di una volta”. / Risuona il vecchio mondo di suoni nuovi / ma la novità non porta che terrore / e silenzio. / Laggiù nel nuovo mondo che io guardo / c’è poca speranza, molta violenza / ma guardando si risale il tempo / e gli anni si volatilizzano: / e tutto può dalla sua cenere risorgere / meno la nostra voglia di vivere / che intoccabile resterà intoccata».
La soglia senza salti che fa convergere assenza e presenza ha l’odore agrodolce di una rivolta perduta e persa, del retroscena derivato che esibisce la sua tragedia attraverso la lotta con il Nulla, che proietta il baluginìo del Dio-distante-occulto in un caleidoscopio scisso di disamore.
Il destino del poeta è affrontare questa lotta sfumata di decisione radente e di buio paesaggio «di lingua pesta», di omosessualità dolente e di disagio: «Ma il quotidiano insiste. Ed io volo / verso il tarlo segreto della notte / per non saperne di più. Insiste così / il quotidiano, e stinge addosso la sua pece / o pace perduta, incontrando i mostri / attigui dell’eros metropolitano / che ormai costano troppo sul mercato / degli schiavi. Insiste dunque il quotidiano: / la poesia è merce o merda, voli di gabbiani / in tempesta mentre si pensa a sorella Morte, / o la Musa vagante in clinica, in crisi / di astinenza, / l’astinente essendo io / gioioso immondo testimone di un giorno / di pioggia: calamitoso e sventurato giorno / solfeggiando in mortale voragine il buio / di domani o ieri o il tempo che scorre / verso eternità imprendibili».
Scrive ancora Alessandro Moscè: «La condizione dell’inappartenente e dell’inadatto compie quella serie di vagheggiamenti che fanno il paio con l’atteggiamento che ripiega sulla stagione all’inferno, sull’amore che coinvolge e sconvolge. L’esibizione del male e l’inibizione all’amore riproducono l’idea della fallibilità che mangia l’esistenza, che distrugge l’uomo e il tempo. In Io il personaggio evita di sorprendere, di farsi attore, e l’esperienza relazionale prende il sopravvento».
L’andatura deragliata di Serpenta (1987), inscritta nelle apparizioni romane («Ormai non resta che battere / la trafficata città / in cerca di chi non c’è più. / Non c’è più nel tempo solitario / degli addii»), nelle ouverture di fuga onirica e nei suoi emblemi, rammenta il passato divorato della felicità intravista e impossibile, come ricordo e memoria, per un antico corpo amato e ora scomparso, per i sensi celebrati nella passione che ora hanno partitura ombrata, come grido ferito e lancinante («La mia religione dunque non fu / amore in questo dopo millennio di paure / scontate che di notte fanno capolino / nei sogni di un malato; / o fughe verso il nulla / nulla cenere, nullo destino / o legge primordiale del pensiero / che scateni simmetrie giuste al Paradiso / Paradiso confuso di ricordi / vissuti in mezzo al guado di Caronte»).
È la solitudine imperfetta e fracassata di un «tempo alabastrino» irreparabile, in cui persino Dio diventa l’ossessione di una voce roca e assoluta: «La tua anima bisognosa di Dio / abbiamo umiliato. Ma è Dio / che dobbiamo cercare – Dio che è in noi, / insieme, votati alla distruzione / per rinascere santi. / Siamo due in uno: separati / soffriamo; – non possiamo dividerci: / nuove attese ci aspettano -: / viaggi, legami fino allo svincolo / finale che sarà di amore e morte. / Noi siamo la morte; e dobbiamo / diventare vita. Dobbiamo farcela: / per questo ciò che è tuo è mio / e basta. Per l’eternità».
Il ritmo di Libro di poesia (1990) raccoglie un lungo smalto molecolare tradito, si appropria di una partitura irregolare dove, come annota Franco Brevini nel risvolto di copertina, «il desiderio erotico si fa contorcimento e gesticolazione. Attraverso gli inferni della devianza metropolitana, tra interni asettici e mortuari, caserme e stazioni, il poeta trascina un disperato desiderio di abbattere il muro di una solitudine che si richiude ogni volta su di lui».
Lo psicodramma messo in atto, da un lato sottende al dramma dell’io e alle sue posture, con il pronunciamento della perdita e della sua presenza d’ombra, dall’altro l’apocalissi penitente dell’amore si fa straziata invocazione ed esclusione: «Credo, morte aspettando, di rifare / il già fatto nel mondo in salvazione: / volteggiando innocuo devo la sorte / ricostruire così come la volle / nel cuore la mia favola perduta: / spavento non è fuga, o liquido / scivolare sulla perdita d’ombra». Ecco il barocco imperfetto, la dismisura che volge verso un cuore desolato e assente, la desolazione assorta e abolita, il tragico territorio di anime assiderate e in esilio, laddove la notte avvolge nel suo «inesausto regno sotterraneo» e poi «spengo in avventure e litigi infiniti / catastrofi pellegrine, l’eco di memoria / da abolirsi nella notte oscura; / buio della vita se fu un’altra, / in cerca di passato».
Il forte contrasto interno che alimenta la sua poesia, come accade in L’avversario (1994) è il tralucere della sua identità che affronta il Male corrosivo e sfiancante di un fantasma e di uno strazio incombente, fino alla sottigliezza fragile della poesia, che rappresenta il richiamo e la vertigine («[…] s’invertigina / la vita passata e ne muore») della sua testimonianza.
Estraneità (esclusione) e consapevolezza in un unico ponte di sguardo e rimpianto avventizio («Poveri, pochi anni / sono rimasti, gelidi, limitati; / li dubito e li annuso sperando / di moltiplicarli e cedo deluso / al rimpianto calunnioso»), come cuore in disuso: «Nessuno / sa che cosa sono diventato. / Spauracchio sepolto, gattone celeste / o grigio affossatore d’avventure».
Il suo unico canto rimasto è il sillabario della sorte. La sua povera irresolutezza che si imbatte nei detriti di una quotidianità franta: «Come terrore di elevarsi a cime / più alte del bisogno del creato / le sterminate strade ma finite / percorro nel mio umile stato / diseguale, chiedendo ai pochi / l’errore di sapere chi vorrà / suonare il più bel piffero / di tanta gioventù sfuggita / e perduta nel sogno di una vita!».
Commenta Alessandro Moscè:

«Ecco, allora, che la morte non funge più da ossessione onirica. I serpenti che strisciano prima del colpo che avvelena e uccide, trovano terreno fertile per riprodursi. Proprio la malattia segnerà il destino di Dario Bellezza. Un’atroce malattia, che sembra, a posteriori, anche un presagio. Ma c’è qualcosa che sembra peggiore della morte, che è estraneo perfino alla fine: è la convenzionalità dell’indifferenza comune, l’inferno quotidiano di un tempo lascivo, oltraggiato. Questo è il senso compiuto dell’opera di Bellezza, che genera crudeltà e compassione per i soggetti più deboli e indifesi. L’esilio è nel tempo, tra individualità e storia. Lo scontro sul piano ideale porta ad inquadrare un universo nero, irrecuperabile. La sconfitta dell’uomo è l’estremo sentire nella screpolatura delle cose. E con esse il singulto segna il passo dolente verso l’addio per un destino comune».

Persino il rifugio nell’innocenza animale dei gatti, come «purezza della natura vittoriosa», diventa enclave esclusiva e riparata. Bellezza diventa il passeggero di soglie e proiezioni, in cui raccontare il proprio flatus drammatico senza tracce, la sua intuizione che permane in una breve concessione e in un tradito spazio lucente: «Non si muore subito. / Si muore poco a poco / in ogni giornata, / impercettibilmente / in attesa di Lei / ci si copre la testa / per entrare nella Chiesa / in espiazione di peccati / mai commessi o tentati».
L’abisso viene sollevato dalla forza della parola poetica e dalla violenza alla propria scrittura. In esso, la corrosione e l’aggressione alla scena rappresentano l’esito di una contraddizione che aspetta nel buio con il suo verbo sincopato e il suo Sacro reso casto.
La riscossione del passato nel presente non ha più orma nel transito dell’eternità passeggera, «la fine dell’amore dopo l’amore» compone la dimensione magmatica dell’esistenza e la sua forma che, come scrive Pasolini, «Bellezza puntigliosamente cerca di distruggere anche la forma del magma, facendo del magma poltiglia. Ma ciò è messo in scacco dalla sua stessa natura di scrittore, in cui il senso della forma è invincibile. Così, apprestata la poltiglia ecco da questa poltiglia filtrare nettari e narcotici di grande qualità. Come la sete di vita – in questo clericale ingordo – è ben più forte di ogni sofisma di morte, così il senso della forma è più forte della scandalosa e insincera voglia di distruggerla».

coverDario Bellezza, Tutte le poesie, a cura di Roberto Deidier, Mondadori, Milano 2015, 767 pp., euro 20.

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