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Jacobo Cortines: l’ospitale limpidezza

di Andrea Galgano 7 giugno 2017

leggi in pdf JACOBO CORTINES: L’OSPITALE LIMPIDEZZA

jacobo-cortinesLa pubblicazione, per Elliot di Roma, dell’antologia di poesia di Jacobo Cortines (1946), Passione e paesaggio (Poesie 1974-2016)[1], finalmente edita in Italia, grazie alla sapiente cura di Matteo Lefèvre, rende ragione non solo alla passione riunita della sua opera ma anche alla ospitale e fragrante limpidezza del suo gesto poetico, ravvivato e ricompattato attraverso l’esposizione di una vocazione segreta e lineare.

Nato a Lebrija, in Spagna, in Andalusia, ha insegnato per molti anni Letteratura spagnola presso l’Università di Siviglia e, oltre a saggi accademici su Felipe Cortines Murube, Luis Cernuda e Fernando Villalón, libri di prose e memorie, ha pubblicato cinque raccolte di poesia, per le quali ha ottenuto importanti riconoscimenti, sin dagli esordi di Primera entrega (1978), passando per Pasión y paisaje (1983), Carta de junio y otros poemas (1994) e Consolaciones (2004), con cui ha ottenuto il “Premio de la Crítica”, fino a Nombre entre nombres (2014).

Dal 1996 è membro della Real Academia Sevillana de Buenas Letras e da alcuni anni dirige, con Ignacio Garmendia, la collana di poesia «Vandalia» per la Fundación José Manuel Lara, che promuove l’importanza della  della cultura spagnola contemporanea.

Ha inoltre tradotto in castigliano i Trionfi (1983) e il Canzoniere (1989) di Petrarca e l’opera di Cesare Sterbini, il librettista di alcune opere di Rossini.

Leggere la sua poesia significa sperimentare una figuratività cristallina, che sfugge a ogni pietrificazione e frantumazione, e che spinge, dapprima, alla consegna di una disegnata biografia morale e poi a una intatta profondità perlustrata nella realtà, unendo l’intensità al varco unico e corposo dell’immagine.

Lo sfondo classico, che si dispone sul classicismo e sulla sfrontata nitidezza di Petrarca prima e Leopardi poi[2], raggiungendo il raffinamento di Góngora e Lorca, dipana il perpetuarsi di un dialogo inesausto e di una forma di riflessione[3] di una verità in atto che lavora, si allaccia al tessuto più profondo dell’essere e alla materia primaria del suo continuo presente, come un mormorio di gioia disperata.

Matteo Lefèvre afferma:

Nella sua poesia Cortines dialoga con se stesso e con gli altri in un rapporto costante con l’ambiente che inevitabilmente condiziona l’uomo e la sua erranza nella storia, una storia fatta di volti, momenti luoghi; privata e universale insieme. In pressoché tutti i suoi libri l’autore ricorre con sicurezza al lessico e agli stilemi cari alla tradizione – da quella estetizzante degli esordi a quella classicista – esibendo un campionario delle possibilità che si offrono all’imitatio ben  al di là dei confini della modernità e proponendo uno spettro che spazia dalla variazione sui temi più battuti dalla poesia di ogni tempo (amore, morte, solitudine, memoria ecc.) alla reinterpretazione e perfino alla demistificazione di questi ultimi alla luce di un disincanto dettato dall’esperienza, da un’intelligenza che non sembra piegarsi ad alcuna “ortodossia”, ad alcuna idea reçue. […] Cortines dipana il regesto delle immagini per metterle in discussione, squadernarle a volte, per operare su di esse un originale lavoro di decostruzione umana e letteraria.[4]

Così il gesto si plasma gradualmente, il lavoro si concentra in una sequenziale scalata di immagini che, scompongono le mete di ogni lacerato dolore e la linea di ogni chiassoso dramma interiore[5], per raggiungere la piana di ogni bellezza possibile e il suo scenario, l’impronta che ritma il mondo, la stratificazione di crepe e precipizi e la frazione della passione ritirata, come la spiaggia-specchio che riflette le palpebre serrate:

è così che ti incontro con le gambe fiorite, / con le spalle dischiuse, ignuda sulle labbra, / ma la fretta ti avvolge e riempie bocca e occhi / senza freni nell’ansia che il collo ti corrode. / La tua testa si rompe, i tuoi piedi si spaccano / e il tuo ventre riversa tra le ombre il suo fuoco. / Comincia l’avventura. Nuove forme emergono / e in tormenta ruotiamo col vento verso il lampo, / come pioggia tra tenebre, come tuono tra i tuoni. / Perdute le memorie stimolano i presenti / come stalle dischiuse a selvaggi destrieri. / È la spiaggia, / lo specchio che riflette le palpebre serrate / come felici fossili che la morte assaporano. (Passione fissa).

L’unione della passione e del paesaggio non è solo la chiusura e il reperto di un trauma, ma anche lo sguardo di orizzonti oltre le ortiche negli occhi, il dramma e la palpebra serena, il sogno mortale e il disvelamento di una estranea infinitudine[6].

L’immagine si allinea così in un lungo processo di racchiusa contemplazione e decostruzione, in cui la varietà stessa di un canto andato racchiude l’inquieta ricerca della realtà, il suo farsi luce, il suo denso ricominciamento, il richiamo di ogni eco e la chiarezza nuda di ogni notte (e note) di terra.

L’accadimento di questa notte di tenebra contiene il grembo di un’aurora nuova e sorgiva che recupera gli stilemi di un’antica promessa rinascimentale, attraverso

un serrato confronto con il linguaggio della tradizione classicista: «se corridoi segreti» e «labirinti» possono ben accamparsi anche nel territorio del lessico simbolico, al contrario alcuni vocaboli e sintagmi richiamano in modo esplicito importanti modelli rinascimentali, che non vengono evocati esclusivamente come serbatoio linguistico, ma per i temi e il senso profondo che veicolano. Non parliamo soltanto dell’eloquente explicit del testo, in cui i «gigli» e la «sonora solitudine» rimandano scopertamente ai versi, famosissimi, di San Juan de la Cruz e di Garcilaso de la Vega, forse i due migliori poeti del Cinquecento spagnolo, ma anche della rete di lemmi e figure che si dipanano nell’intero corpo della lirica e che in diversi casi sono veri e propri calchi degli autori appena ricordati[7]:

Ecco la Noche de tierra di Cortines:

Oscuro come seno atro di tenebra, / come di fiamma viva spento tremito, / cieco ferire che nascosto bruci / gli infami labirinti che si offrono! / Non la tua voce ascolto che innamori, / né respiro da te il suo profumo, / solo la tua tarlata invidia incontro / occulta nei tuoi corridoi segreti. / Sopito sta il mio odio nell’oblio / di una notte sì amara alle sue cure. / Sopito sta il mio pianto e quasi alieno / a questo aspro sentire che alimenti. / Non seguirò le tue orme, né i miei passi / scaleranno l’aurora che nascondi. / Spegni, allora, il tuo fuoco, non attendo / né gigli né sonora solitudine.

La propulsione della pienezza è un ritorno dopo un assedio, la vita che ritorna dopo il colmo di ogni sperduta e implacabile finestra, il dettaglio che toglie dallo scranno la profondità lucente che ritorna, nell’estate e nel suo apice rigoglioso di ricordo.

Qui la nominazione è uno sguardo che include l’aperto battito oscuro delle cose e il solco-eco tracciato come righe di un quaderno:

Con l’estate ritorna l’immagine al ricordo: / il giardino con gli archi di cipresso sfrondato, / i nardi, la bignonia, il muro rosso e bianco, / il terreno innaffiato quando viene la sera, / la cinta di eucalipti, il rumore dei pioppi, / il sentiero che porta alle dolci colline, / la luna è un’arancia rotonda in mezzo ai rami. / È luglio e la finestra piena è di gelsomini (Ritorno nell’estate).

I notturni o le sere imminenti di Cortines sono fondali che splendono e increspano ogni trama nel taciuto tremito del sangue, nel respiro e nel rumore di argento e vento, dove si afferma ogni riflesso fondo di acqua e paura, come un rinvenimento di bordi. L’agnizione screpolata delle cose è il cuore nudo della sera. Ecco la nudità esposta nella scena di Cortines, da una parte il fuoco spogliato della passione, dall’altra un legame fertile dell’apollineo con l’omaggio vivissimo dei particolari di ogni veduta. È una luce di lontananza, sia interiore sia esteriore:

Nella sera dorata il mio cuore è nero, / come una lunga notte dove s’accresce il vuoto, / freddo dell’indicibile nel candido sudario / delle ore che tessono la morte silenziosa. / Fragile fu il ricordo della blanda allegria / i cui resti dispersi sono sotto la polvere, / testardo il desiderio di quello che giammai / giunse tiepidamente come una primavera. / La sera è oro e sangue, e quasi seta il cielo, / che romperà la luna con il suo argento nudo, / e blu sarà la notte di questa lunga estate, / mentre un’altra s’annega nelle sue sporche lacrime. (Cuore nella sera).

Esiste una democritea perturbazione[8] in questa dichiarata ed estrema felicità, laddove «i piani della natura si intersecano, gli oggetti si umanizzano, e in cui risaltano ardite similitudini, metafore, analogie e sinestesie, spesso fondate su un’aggettivazione che in più di un’occasione deborda il criterio puramente descrittivo[9]».

Il biancore dell’istante penetra nella cristallina dilatazione di ogni tremore: è trasparenza, distanza, intensità, profumo che si annuncia, freschezza di ogni densità. L’invito di ciò che si manifesta è un angolare compimento del reale, dove ogni istante scrive il suo tempo e il suo diluvio:

Era bianco l’istante e il suo biancore dolce / come la mano tenera il palmo cristallino / i cristalli flessuosi e il petalo di unghie / e le piccole fragole di gemme tra le piume / sopra il becco brillante che rovescia all’indietro / testa ali e anche la coda fino a lasciarla andare / come nube nell’aria e scatenare il vento / ricordare la brezza tremante sulla spiaggia / la schiuma l’arenile sdraiati dolcemente / come il fiore caduto solitario sul marmo / dimentico del ramo che il suo biancore intenso / combina con il verde sopra il vetro e sull’acqua / ed esala profumo come quando è tra i rami / o nella sera stanca per il caldo del giorno / come un corpo assopito su lenzuola pulite / il cui fresco biancore invita ad allungarsi / a fermare la notte e accogliere la luna / il pallido silenzio che percorre le labbra / l’avorio di ogni dente la carne impallidita / distante ed impalpabile come rose lontane (Biancore dell’istante).

In Carta de junio y otros poemas, Cortines unisce la speranza dell’elegia al disincanto della nostalgia. È il frutto di una inedita commistione di scenari che insediano i luoghi perduti e le lettere di giugno, il paradiso dell’infanzia e l’intricato ricordo[10].

Gli angoli non riposano prima di ogni splendore di cielo e prima di ogni vanità silente. La scrittura, pertanto, segue ciò che si è perduto come sparpagliata vita da rivivere e commossa inesorabilità. Questo sguardo ricambiato e ricolmo di amore custodisce ogni paura e buio, fino alla pace dell’anima.

Ogni tormenta cessa se i tuoi occhi / spargono il proprio azzurro. Che serena / diventa l’aria allora e quanto pura / la nuova luce. Quando tu mi guardi / le nubi del mio pianto, la tristezza, / come la notte, nera, l’incuranza, / i venti dell’angoscia, i dispiaceri / rochi come il tuonare sordo, il tedio / devastatore e freddo, l’amarezza / come pioggia di fiele, le aspre ire, / che rodono il mio cuore, si dissolvono / e tutto è pace nel profondo, e nasce / come un fiore silente l’allegria / di sapersi guardato nel tuo sguardo. (Nel tuo sguardo).

 

Il solitario e pensieroso autoritratto riflesso alla finestra scheggia la lingua rarefatta della morte e i fogli concentrano il loro biancore dove dipanare lo sguardo di amore e fiele. Poi ancora il silenzio di ombra e di notte, l’armonia dell’oscurità sulla linea carbone di commiato e inazione, sopravvivono al fondo dell’oscurità irrespirabile e incrinata. L’istante di ombra si propone in modo continuo: «La morte è nel rintocco di quei passi / che avanzano dalla tastiera al tavolo, / dalla sedia al balcone, alla strada, / ad un cielo di nubi bianconere, / al fondo screpolato e silenzioso / delle ore che oscure e stanche passano. / Una morte tenace, il cui sudario / sono i fogli che in bianco sopravvivono» (Fogli in bianco).

La finitezza della lettera di giugno ha latitudini oraziane e paterne, si ricollega al passato letterario ma è anche domanda di una vivida traiettoria esistenziale, colma fino al singhiozzo e mescolata

all’irruenza del ricordo personale con l’olimpica necessità di fare ordine, con la misura che l’epistola richiede pur nel dolore, nel tradimento o nell’incomprensione. E  il tutto è filtrato da un linguaggio che è, sì, sempre sorvegliato, ma non sfocia mai nella gravitas, come pure in certi casi il genere richiederebbe; un linguaggio che ha in sé l’immediatezza e la pacatezza del colloquio, poiché ciò che prevale è l’amore profondo, anche se in parte disatteso, per il genitore giunto al termine dei suoi giorni, la solidarietà tra anime che si sanno simili per tanti aspetti, dalla vocazione artistica all’insoddisfazione e alla depressione.[11]

 

Ecco lo sprofondato inizio della lettera. Lo splendore di cenere saccheggia la patina del tempo e il piccolo universo, l’amore dei colori, i suoni, i desideri, la solitudine. Le infinite domande di Cortines impolverano ogni inquietudine e strazio, perpetuando la lotta come l’abbandono, il pianto e le ferite della verità nuda.

È un mondo chiaroscurale che conduce a ogni affilamento di sorpresa e di mondo, ricoprendo ogni curva di tempo. La vita, che si impone e si dispone in tutte le sue tracce e entusiasmo, è l’indice che nomina ciò che ci appartiene e che lasciamo, è orma ritornata, è stellata chiara, è cuore, stuporoso e silente, negli assetati campi dell’estate, come una voce che implora o il sonno che si sveglia.

Torna il paesaggio e la casa, gli oliveti, la torre, la luna tra i pioppi e il corso del cielo, i frutti e l’abisso. Cortines recupera una dimensione e, allo stesso tempo, la affranca, la desidera e la riempie di speranza. Attraverso lo sguardo paterno e la tensione, risana speranze, abiti e stanze, poi sguardi e erranze estreme, poiché «Non è stato un errore la tua vita, / e la speranza che per te ora chiedo / è in te se vuoi vederla. Apri gli occhi / e guarda il tuo dolore che può essere / cura migliore di ogni altro rimedio. / La verità è dolore, tu lo sai; / con la verità nuda puoi raggiungere / la più alta pace che hai mai immaginato»:

Dov’è la tua illusione, i sogni dove? / Odi le mie domande oppure il tempo / ha ormai chiuso il tuo cuore e il tuo sentire? / È un’altra sera di un mese qualsiasi. / In poltrona, abbattuto, te ne stai, / o ti trascini goffo alla tua stanza / per scordarti del giorno con l’aiuto / del farmaco efficace che ti immerga / nel corposo riposo della notte. / Vorresti non svegliarti, ma il domani / arriva uguale a ieri, imperturbabile, / alieno alla stanchezza e al tuo volere.

 

Con Consolaciones (2004), vincitore del prestigioso “Premio de la Crítica”, partendo da Liszt, Cortines torna, compiutamente, alla discrezione dell’origine che riporta l’amore all’amore, la natura arcadica[12] al mito domestico, la sperdutezza intensa del tempo alla fecondità di una «religio non rivelata, forse solo intravista, senza dubbio vitalistica, una speranza che, pur con tutte le cadute a cui va incontro, si fonda sulla dolcezza del ricordo, sulla necessità di godere appieno della vita e di quello che offre, dagli affetti della natura[13]».

È una precaria condizione che però offre il fianco alla naturalezza del poeta che insegue il generoso incanto naturale, la polvere delle estati, i ricordi rotti e le spiagge. La sponda dei trapassi fa brillare la verità nuda, la compassione, il canto d’amore e la tenebra sfolgorano («Se abito la tenebra o nel fango / consumo le mie ore, non per questo / dispero di vederti. So che un giorno / io vedrà la tua gloria, che i miei occhi / si apriranno alla luce e la mia carne / rimarrà pura al tatto della tua. […] Nel fango io ti penso. Nella tenebra / aspetto lo splendore del tuo arrivo»):

Non la sera di maggio chiara e fresca, / nella pace del parco, tra le rose / fiorite per far sì che grate fossero / della vecchiaia le ore condivise. / Non sul sentiero con tranquilli passi / per vedere disfarsi tra le spighe / lo splendore del sole rosso e d’oro / che diffonde la bruma sopra i colli. / Non l’uno accanto all’altro o faccia a faccia / ricordando con calma i più felici / momenti di una vita, i comuni / frutti sbocciati da una stessa carne. / Non così, ma distanti, silenziosi, / tra quattro mura spente e solitarie, / come tanti che non sono mai giunti / a scacciare da sé colpa e delitto (Tramonto con figure).

Oppure le acque silenziose (della vita, del tempo, dell’essere) allargano le rive nel tempo fertile delle scene. La memoria compone il suo transito e rivela la spogliata melodia degli istanti smarriti. Contro il dolore rimane ciò che gli sopravvive e gli vive come pace, ripetendo forse un passato perpetuo lungo la deriva:

Bianche colline di dorate viti, / blu la macchina di questo lungo fiume / nell’oscura palude, vaga bruma / la sorpresa dell’aria in lontananza. / Come riposa l’anima alla vista! / Qui sono nato io, e qui dimentico / di lotte, di doveri e di castighi, / voglio seguire il corso della vita / per percepire il tempo ad ogni passo / con tutto il suo dolore e l’allegria / giù fino al mare come queste acque / che silenziose allargano le rive (Beatus ego).

È il compito della poesia, rintracciare le istanze lontane, il decisivo soccorso del segreto, il grido unico nella penombra delle albe e nell’aria secca dei deserti. Vibrare, per Cortines, equivale a vivere fino a essere «sfumatura, impulso, vincolo, battaglia, fino a essere esplosione, occaso, ombre». Anche tra le rovine e le ellissi, anche nei ritrovamenti dell’eternità fugace della gioia.

Il luogo è la densità dell’essere: la città, la campagna, il mare, l’alba rappresentano l’agonia e la resurrezione di un tempo doloroso e florido che gustano gli sfarzi e i respiri. Il pericolo è l’estraneità. L’essere esclusi dalla festa del mondo e del suo ricordo vivo come ombra errante.

Il poeta registra ogni sfondo e trasparenza, il contrappunto, la preghiera muta che sono «i passi / che ascolta un dio nel sole che declina», la terra che diventa carne della propria carne: «Giungo a te, terra mia, per sapermi una terra, / per essere una terra, come terra è la carne. / Umilmente divento un’altra volta sogno, / un po’ più che silenzio, giacchè fummo anche amore».

Perdita e recupero insieme, tratti dal sogno, che include ogni spostamento e deviazione e dà leggerezza alle ceneri. Esso è «il luogo in cui i morti tornano a visitare i vivi, a incontrarli fisicamente a volte; Cortines lo sa, sa quanto l’universo onirico rappresenti una distesa di dubbi tra due rive lontane, lo scenario transitorio del rimpianto ma anche del colloquio e della visione fugace […][14]»:

 

Di nuovo l’acqua copre la laguna / e un cielo grande in essa si riflette. / Ma tu, dolce sorella, tu che tanto / amavi l’iniziare dell’inverno, / altra laguna più estesa attraversi / altro e più grande cielo a te si offre. / Fuggisti così muta che silenzio / tutto si è fatto senza la tua voce / o il riso, e tutto in arida ombra giace / senza la ricca luce dei tuoi occhi. / Gli oleandri, l’orto, anche gli acanti, / i sentieri che portano alla valle, / il seminato, i picchi, la boscaglia, / tutto ciò che curavi qui è rimasto / come in attesa ancora dei tuoi passi / tra i nostri che di te le orme seguono. / Un sogno sogni assai profondo e noi / ben svegli sopportiamo le inclemenze / di un inverno senza te crudele. / Ora solchi le acque senza fine. / Naviga in pace nel ricordo nostro, / vivi il tuo sogno e sognaci con te (Inverno).

In Nombre entre ombres (2014), Cortines

dipana una specie di privatissimo epos, che vede implicati come personaggi tanto l’autore quanto i suoi familiari più vicini, dai genitori ai fratelli e ai nipoti, e che ha per centro tematico e ambientazione la campagna andalusa. Si tratta della terra dell’infanzia, di casolari, stalle, poggi e campi appartenuti alla sua stirpe più prossima, perduti e riconquistati nell’arco di un paio di generazioni; si tratta di questioni che vanno al di là del discorso didascalico, e più ancora di quello economico, poiché tali possedimenti hanno principalmente un valore affettivo, racchiudono l’essenza stessa dell’appartenenza a un territorio che è anche un mondo. È un universo fatto di legami ancestrali che la poesia è come sempre chiamata a “eternare”, un universo senza tempo, come l’età bambina e la prima giovinezza, quando ogni luogo, ogni vincolo sanguigno appare come fonte di unità[15].

 

Ancora una volta il recupero esistenziale di ciò che è perduto cerca rifugio in una natura antica e primordiale che si spinge fino a Virgilio e Varrone, ma ricostruisce una sostanza di gesto e genesi, immanenza e sostrato originario.

Il corso del tempo cinge la precisione pascoliana dei dettagli, la pienezza memoriale si dispone nei frammenti rurali[16] attraverso la radicale tensione poetica di un diorama[17] di figure che abitano il tempo e lo sfuggono, scomparendo in un eden prospettico e figurativo e in un’infanzia che spezza le tenebre, inondando la memoria di colline, pianure, gelsomini, lentisco e palme nane. La voce del fanciullino esplora un tempo ricostruito e strappato, avviluppato dal groviglio del tempo disarmato, arreso ed escluso nel mito trasfigurato:

E osserva la sua infanzia, e sorge il nome / come spezzando un’ampia e densa tenebra / e di luce inondando la memoria: / un patio con la ghiaia e i gelsomini, / una fitta foresta / con giumente e cavalli sotto, all’ombra. / Lentisco e palme nane sul pianoro / che nel torrente muore. Bianche groppe / di orizzonti stanchi. Ampie stalle, / scuderie e recinti. Ed il carretto / pieno di verdi giunchi che dei buoi / trasportano per tappezzare i viottoli.

L’elencazione della realtà non serve tanto riempire quanto a rinvenire un germoglio astrale remoto e scomparso. Il sogno prima risanato non basta e il nome sembra dissolversi:

La divisione ha inizio. / Ogni nome andrà ormai per proprio conto / per sbriciolarsi senza alcun consiglio / che lo possa impedire. / Così quel nome, il più amato un tempo, / quello della tua infanzia e giovinezza, / lo vedi demolito / senza salvare muri né finestre, / né passaggi, né entrate, né uscite. / Addio sognato sogno, addio per sempre.

Si avverte, ad un certo punto, come Cortines voglia rifondare la realtà partendo da ciò che già c’è. Un rifugio, un ritiro, o più semplicemente, un nido che diviene destino e trionfo, non già un’oasi, quanto piuttosto un mondo che nasce e risorge come dono commosso. Vita che si proclama e si designa, nonostante la sporcizia e l’abbandono, le crepe e le finestre senza vetri. Il terreno di spini e sterpaglie del presente porge di nuovo il suo incrinato frantume:

Il nome in me! Che irrompe nel presente, / come nube che scende e insieme avvolge / tutta la superficie mia, e mi lascio / impregnare al suo interno / per irrigare gli anni di arsura, / di aneliti infiniti, / di assenze e di penuria di speranze. / Il nome che si annida nel ricordo / e che vuole gettarsi nel futuro / per mutarsi, impaziente, / in sogno ormai compiuto.

Il nuovo patto tra le cose risanerà i nostri frammenti. Credere in ciò che c’è è la sfida oltre la contingenza e il rimpianto, per ravvivare la speranza dell’umano e il suo basamento, per affermare la fede nella realtà che non delude e riscattare il nome perduto e le notti ritrovate:

Credere in questa luce, in questi cieli / limpidi dove passa / un uccello che in musica trasforma / la mattinata, il pomeriggio o il vespro. / Credere nelle notti / punteggiate di stelle, misteriose, / non viste con le luci / delle cieche città contaminate. […] E mi sento legato stretto al tempo,
però in nessun passato, in un presente / che al contempo è vecchiaia, infanzia, tutto, / somma di eternità / fatta di istanti identici e distinti.

Il tempo che vive cerca il desiderio del riscatto, l’ordine dei giardini, la lunga estate, il fango primigenio e l’esodo dei giorni in una anteriore messe del nome tra i nomi, El Labrador, ultima coltre di un amore immenso:

Solitudine è pure il tempo nuovo, / e nella lunga estate / di crepuscoli rossi quante volte / a loro io ho pensato, a chi ormai giace, / Adamo ed Eva, accanto a questo nome / che non siamo riusciti a pronunciare e a riscattare insieme. / Che nostalgia impossibile / di un abbandono che non ha altra fine / che il comune riposo / sotto la stessa terra amata, eppure / senza vedersi né parlarsi o udirsi. / Frutti entrambi di un’anteriore messe / come anche noi di questa. Frutti tutti / del fango primigenio a cui torniamo. / Parti di una medesima catena, / di cui non conosciamo inizio e fine, / come pure il momento / del segnato passaggio all’altro lato.

 

9788869933295_0_0_0_80 CORTINES J., Passione e paesaggio (Poesie 1974-2016), a cura di Matteo Lefèvre, Elliot, Roma 2017, pp. 128, Euro 17,50.

[1] CORTINES J., Passione e paesaggio (Poesie 1974-2016), a cura di Matteo Lefèvre, Elliot, Roma 2017.

[2] Matteo Lefèvre scrive: «Da Petrarca, ad esempio, con Orazio sullo sfondo, l’autore riprende da un lato la padronanza degli strumenti retorici e il rigore della versificazione, dall’altro l’attenzione alla natura e al paesaggio – quello andaluso nel suo caso – e la costante indagine psicologica, che declina l’umano in tutte le sue sfumature. E a ciò si aggiunga anche un innato istinto filosofico, che sfiora l’inquietudine pensosa e insieme lucidissima di certo Leopardi, uno degli autori più ammirati dal poeta, del quale sfrutta altresì certe sinuosità del verso», (cit., La traiettoria di un “classico” del xxi secolo, in Cortines J., cit., p. 8).

[3] LUCAS A., El verso despacio de Jacobo Cortines, in “El Mundo”, 1 maggio 2016.

[4] LEFEVREM., cit., p.9.

[5] (http://www.20minutos.es/noticia/2709432/0/poeta-jacobo-cortines-reune-su-obra-pasion-paisaje-mirada-al-interior-ser/), 30 marzo 2016.

[6] (http://sevilla.abc.es/cultura/libros/20141104/sevi-jacobo-cortines-poemario-201411032044.html), 4 novembre 2014.

[7] LEVEFRE M., cit., pp.12-13.

[8] LUQUE A., Jacobo Cortines: “Escribir poesía en Sevilla es una forma de felicidad”, (http://elcorreoweb.es/historico/jacobo-cortines-escribir-poesia-en-sevilla-es-una-forma-de-felicidad-MIEC792538), 27 ottobre 2014.

[9] LEFEVRE M., cit., p. 10.

[10] Cfr. LAMILLAR J., El desorden del canto: notas sobre poesía española del siglo xx, Editorial Renacimiento, Sevilla 2000, pp. 131-132.

[11] LEFEVRE M., cit., p. 14.

[12] DIAZ DE CASTRO F., Consolaciones. Jacobo Cortines, in “El Cultural”, 3 marzo 2005.

[13] LEFEVRE M., cit., p. 16.

[14] ID., cit., pp. 17-18.

[15] ID., cit., p. 21.

[16] ALBERT M. J., El paso del tiempo de “Nombre entre nombres”, en “Cordopolis”, 17 febbraio 2015.

[17] RIVERO TARAVILLO A., Nombre entre nombres, en “El Mundo”, 17 ottobre 2014.

 

CORTINES J., Passione e paesaggio (Poesie 1974-2016), a cura di Matteo Lefèvre, Elliot, Roma 2017.

(http://www.20minutos.es/noticia/2709432/0/poeta-jacobo-cortines-reune-su-obra-pasion-paisaje-mirada-al-interior-ser/), “20 minutos”, 30 marzo 2016.

(http://sevilla.abc.es/cultura/libros/20141104/sevi-jacobo-cortines-poemario-201411032044.html), 4 novembre 2014.

ALBERT M. J., El paso del tiempo de “Nombre entre nombres”, en “Cordopolis”, 17 febbraio 2015.

DIAZ DE CASTRO F., Consolaciones. Jacobo Cortines, in “El Cultural”, 3 marzo 2005.

González-BARBA A., Jacobo Cortines: «El poeta tiene que estar muy pendiente del mundo en que vive y del dolor humano», in “ABCdeSevilla”, 15 aprile 2005.

LEFEVRE M., In dialogo con Jacobo Cortines, un petrarchista del XXI secolo (http://diacritica.it/traduzione-e-inediti/in-dialogo-con-jacobo-cortines-un-petrarchista-del-xxi-secolo.html), in «Diacritica», i, 1, 2015, pp.111-126.

LUCAS A., El verso despacio de Jacobo Cortines, in “El Mundo”, 1 maggio 2016.

LAMILLAR J., El desorden del canto: notas sobre poesía española del siglo xx, Editorial Renacimiento, Sevilla 2000.

LUQUE A., Jacobo Cortines: “Escribir poesía en Sevilla es una forma de felicidad”, (http://elcorreoweb.es/historico/jacobo-cortines-escribir-poesia-en-sevilla-es-una-forma-de-felicidad-MIEC792538), 27 ottobre 2014.

RIVERO TARAVILLO A., Nombre entre nombres, en “El Mundo”, 17 ottobre 2014.

 

La Via Provinciale di Giampiero Neri

di Andrea Galgano 8 marzo 2017

leggi in pdf La via provinciale di Giampiero Neri

neri_giampieroIl nuovo lavoro di Giampiero Neri (1927), «un maestro in ombra», come recita il titolo di un acutissimo saggio di Alessandro Rivali[1] che recupera una felice espressione di Maurizio Cucchi, Via provinciale[2], edito da Garzanti, scompagina ogni marginalità della poesia. La sottigliezza, la nuda e scrupolosa sintassi, la fedeltà alle cose e l’abbaglio della memoria creano un universo segreto[3], composto di miniate che affermano nella sua poesia, come sostiene Giovanni Raboni, «un documentarismo materico-prezioso di origine probabilmente poundiana» e ancora un «sotterraneo recupero, fra ironia flaubertiana e malinconie realistico-crepuscolari, della conversazione e sottoconversazione quotidiana»[4].

L’enigma del reale si prefigura attraverso una creaturalità indecifrabile e protesa, in cui la laterale sfumatura del dettaglio diviene metafisica narrazione del tempo, avvenimento indicibile, purezza del gesto che non accondiscende, per tremare, come scrive Alessandro Rivali «di fronte al grande libro della Natura (il suo bestiario è sempre più ricco, incontriamo: uccelli, leopardi, cavalli, maiali, cavallette, aquile, oche, bisce, persino uno sfeco, «pericoloso insetto simile a una vespa») e di fronte ai Grandi scrittori del passato, magari esclusi del Canone, come Fenoglio, Grossman o persino come Collodi»[5]:

Che la seconda parte della vita sia occupata a contraddire la prima è di comune esperienza, per quanto spiacevole. Si salva poco di quello che avevamo pensato, forse niente. Cosa rimane allora del tempo passato? Si dice di un maestro zen che, prossimo a morire, aveva invitato i suoi discepoli nel suo giardino e rivolto a loro, sentendo gli uccelli cinguettare sui rami, aveva detto: “È tutto questo e niente altro”. (p.9).

Il detrito memoriale si configura, allora, come una subitanea successione di eventi, in cui non solo la rifinitura minuziosa diventa centro ma la scoperta del mondo svela il sentiero della sua composita fragilità al cosmo aperto dei vinti, agli sguardi nascosti e mai obnubilati, giungendo alla vigilanza di ogni cenno dell’esistenza:

Il negozio di drogheria occupava in parte il piano terra della grande casa, alla ― Clerici. Di solito al banco servivano due donne, entrambe Marie di nome, e diverse volte si univa a loro il giovane nipote, il mio amico Nene. Allora il banco si animava di giovinezza, di chiacchiere e anche di zelo.  Questo poteva mettere in sospetto e infatti le due Marie si erano insospettite. Il lavoro aumentava ma non il guadagno. Il Nene era svelto di mano con la cassa. Si raddoppiò la vigilanza arrivando persino a cospargere di farina bianca, ce n‘era tanta in drogheria, l‘accesso al ― tesoretto, dove si tenevano i soldi da versare in banca. Dalle impronte si poteva forse risalire al Nene, ma non aveva funzionato. Nelle sere d‘estate ci andavamo a sedere ai tavolini del Caffè Bosisio. Offriva lui, frappè alla vaniglia. (p.10).

La naturale disposizione del tempo lascia il senso dell’esistere e la materia vivente in una traccia mai trascolorata, laddove la limpidezza poetica impone il suo gesto-segugio, il rispecchiamento ironico, la sedimentata e tenace attenzione a ogni passo del sorriso, l’architettura di luoghi e immagini che ravvivano sospensioni e segnali, cifre umane che toccano l’arte e l’estasi: «Che uno scrittore cerchi di arrivare al centro dei suoi interessi come alle ragioni per cui scrive, è molto probabile, ma che ci arrivi è tutt’altra cosa. A impedirlo si frappongono diverse cause, quando ne basterebbe una soltanto. Se ci arriva, la sua scrittura ne trabocca, altrimenti ripiega su se stessa, su meno alti traguardi».

Guardare l’umano in tutti i suoi segnali e avvisaglie, significa riflettere il tempo, la commozione, l’incontro, la pietas (come quel bellissimo episodio (30) che racconta del bancario di fronte a due fratelli che richiedono un prestito eccessivo rispetto al possibile rimborso. Dinanzi alla perplessità dell’impiegato, uno dei due fratelli esclama: «Ma si fidi, Neri, si fidi. Se non si fida dei poveri, di chi vuole fidarsi?». Viene data loro fiducia e il rimborso sarà regolare).

Ed è in essi che scopriamo noi stessi. Nella sua solida saggezza, Neri dilata le impronte del reale in una connessione di voci e discorsi, creando, attraverso una intricata diluzione di radici, una vertigine di teatro che evoca e rievoca l’annunciazione del mondo e la sua funzione mnemonica che, prima di tutto, viene

intesa come luogo minerario da cui estrarre i materiali necessari, indispensabili forse, alla vita attiva quotidiana. Perché l’atto del vivere – sembra suggerire il poeta – è difficile, sempre, al di là delle circostanze e delle condizioni che ci sono date, e lo scavo continuo tra i ricordi, tra i frantumi variegati della memoria, è un’attività che ci permette di lenire i nostri tormenti e di addomesticare i fantasmi che li popolano. Diamanti o detriti, tutto ciò che viene dal fondo del passato è rilevante e non va trascurato (Antonio Riccardi, dalla bandella di copertina del libro).

Il metodo che costruisce il linguaggio è l’affermazione a ritroso di ciò che nella materia vivente risuona, attraverso l’orma corrosa, in cui la trasformazione consunta ma viva, e il reperto denotativo dell’essere, tralucono in una lingua-specchio, facendosi epifenomeno segreto e oscuro coagulo indicibile:

Le vecchie bottiglie di fernet, anni trenta, portavano sull’etichetta l’indirizzo della dita, via del Broletto, vicino alla chiesa di san Tomaso. Ma un’altra iscrizione attirava la curiosità dei più giovani, che l’andavano ripetendo a voce alta: “Combatte lo spleen, patema d’animo”. Erano gli anni della grande depressione, della crisi di Borsa, dei salti dalla finestra. (p.14).

È attraverso la densità esperienziale, la profonda lucidità, l’appartenenza all’umano e ai suoi movimenti, che i suoi “crinali-cammei” vivono la loro riattualizzazione. Ma non c’è una nostalgia edulcorata, poiché la vita stessa, in Neri, è riportata continuamente alla luce, al suo presente, all’assorbimento esistenziale e oracolare:

La coppia, marito e moglie anziani, abitava al secondo piano, l’ultimo della casa di via Mainoni. Lui faceva il sarto e la grande cucina, tutta la sua casa, era il suo atelier. Per qualche motivo ero il loro beniamino, anche se non ricordo che mi abbiano mai dato una caramella, ma non ne avevano. Giocavo col loro gatto o a dama, soprattutto mi piaceva la loro compagnia. Con grande anticipo mi avevano detto che sarei stato a pranzo da loro per qualcosa di speciale, che non si sapeva, anche i miei erano contenti. Lui faceva uso di pepe, che metteva dappertutto e io provavo forse per la prima volta. Sembrava una festa, il sarto e la moglie ridevano e avevano gli occhi lucidi. Non so come, ma quel giorno il gatto non si era visto, e non l’avrei più visto, neanche dopo (p.13).

Il livello più radicale del libro, e quindi il suo portato fertile, si rinviene nella fotografia della realtà che nasce ad ogni istante e in esso, trova la sua vera forza, senza egocentrismo, ma proteso all’intuizione primigenia dell’umano che fa spazio, all’altro, anche quando lontano o intravisto, «poiché la sorpresa dell’essere è sempre dietro l’angolo»[6].

È nell’allusione a una magmatica concrezione di luoghi, campiture e battute che il prelievo nel reale raggiunge la massima espansione narrativa e la poesia rappresenta l’esito di un indizio di ritmo e battito, poiché, come sostiene Cesare Cavalleri:

[…] in Neri è sempre la memoria a lavorare su frammenti di figure e sentimenti che non vengono “attualizzati”, bensì riportati in quanto mai dimenticati. […] È poesia per il ritmo, perché include un metronomo che impone un’esclusiva scansione del tempo. Si provi a leggere Neri ad alta voce: spontaneamente si è indotti a modulare un “andante” come leggendo una partitura musicale, e se si tenta di accelerare il ritmo ci si avvede immediatamente di steccare. Perché la poesia è appunto questo: un testo con pronuncia obbligata. I temi sono quelli ai quali Neri ci ha abituato: la casa di Erba, episodi minimali ma incancellati della guerra e del dopoguerra, personaggi stravaganti intravisti e scomparsi con il loro mistero. [7]

Se di lateralità si tratta, essa è profondo baricentro che torna nei suoi frammenti sotterranei e intermittenti, nei lacerti racchiusi, nella parola che per descrivere deve essere netta, essenziale, farsi persino beffe, ma diventare documento di ciò che non muore o si perde. Nella circostanza, egli rispolvera il linguaggio che incontra l’esattezza di una vita nascosta e sopravveniente, giocata nella luce, combinata nel sogno e nella remota partecipazione dell’essere:

A sopravvivere, della biblioteca di mio padre, erano stati pochi libri, la collana dei classici Utet, una vecchia edizione dei Promessi Sposi, il grande Atlante Geografico e pochi altri. Tra questi spiccava un libro di Cechov, Il monaco nero. Erano sopravvissuti alle vendite che avevamo fatto in tempi difficili e ai vari cambi di abitazione. I racconti di Cechov avevo provato qualche volta a leggerli, ma proprio Il monaco nero, che era il primo, andava per le lunghe e non riusciva a coinvolgermi. Il tema dominante sembrava il giardinaggio, con citazioni della «mela cotogna russa», della «coltura a rotazione» e altre, di carattere tecnico. Rimanevo perplesso e chiudevo il libro. Una notte che mi ero svegliato troppo presto, ritornai a prenderlo. Non so come, era comparso di nuovo sul tavolo, a portata di mano. L‘avevo aperto a caso e lo stavo leggendo, era un dialogo. Continuai fino alla fine del racconto. Rimasi sopra pensiero per un certo tempo, dopo (p.32).

Nelle immagini del mondo che fluttua, nel sipario trasparente, nella formazione di ciò che accade, caricata di vita e mistero, la fotografia di Neri risplende di silenzio e rievocazione.

In quella via accade il reale e la vita passa prima degli occhi. La singolarità dell’esistente, la Brianza (e poi Como e dintorni, nella tensione che sembra spingersi fino all’odiato-amato Gadda) fanno rialzare lo spiovente di una densità perduta e riconquistata, dove i personaggi, dal professor Fumagalli, al milanese, piccoletto «con l’aria schiacciata», «la bionda insegnante di latino, l’ostinata maestra di musica e lo stesso preside, che voleva andare con Don Zeno, nel paese di Nomadelfia», rappresentano, come già accaduto in Liceo (1982), figure che fermano le epoche:

Dalla Colma si scendeva per sentieri appena tracciati fra i cespugli. Si sentiva un brusio che diventava più forte, avvicinandoci al paese. La piazzetta era piena di gente che parlava, agitava il giornale, leggeva ad alta voce: «Dimissioni», «Il cavalier Benito Mussolini», «Il vecchio corruttore». Era il 25 luglio del ’43. Anche noi prendemmo il giornale. Sulla strada di ritorno il Nene, che era più giovane, mangiava il pane, Mauri taceva e il suo amico si era messo a gridare: «Io sono un panciafichista borghese», e lo ripeteva con aria di sfida.

La scena del passato sviluppa il tempo nuovo che concentra valorialità etica e metafisica, promana l’altrove esatto ed episodico, che non riesce ad essere mai margine nevralgico, bensì sostanza vivente di un movimento, di una possibilità, di una passeggiata di particolari:

Di tanti cavalli e cavalieri che hanno monumenti nelle nostre piazze, almeno uno si è salvato dalla retorica, quello del generale Missori. Non tanto per il generale, quanto per il cavallo. Il generale ha la sciabola spezzata, simbolo del valore sfortunato, ma guarda fieramente in avanti. Il cavallo ha la testa bassa e l’aria di cercare qualcosa, un ciuffo d’erba o un posto dove andare a riposare. Pur essendo una bella statua, anzi la più bella che si conosca fra quelle numerose del suo genere, è rimasta in ombra. Nemmeno il suo autore ha avuto una soste migliore, un Ripamonti, forse lo stesso della via omonima. Insomma un nome oscuro. Eppure c’è qualcosa di umano in quel cavallo, che non finisce di attirare chi lo guardi, anche solo di sfuggita, passando in tram da piazza Missori. (p.35)

E tutta la storia che si dipana conosce e condensa il materiale narrativo, incontrando l’orlo delle cose, il dolore sguarnito («Si riflette sulla sconfitta, non sulla vittoria. Si cercano i perché della sconfitta e si finisce per ritenerla inevitabile. Sulla vittoria invece si festeggia»), la docile torsione che si fa visita di pagine chiare.

Maurizio Cucchi scrive:

[…] è nella memoria, nei suoi depositi, e nelle loro possibilità di riaffiorare per lacerti improvvisi, enigmatici eppure evidenti, attraverso i quali il poeta realizza una sorta di ricostruzione di eventi effettuata per dettagli minuziosamente proposti. In essi si manifestano figure sorprendenti in quanto inattese (il dottor Livingstone, Corso Donati), nelle quali verosimilmente si incarnano le ossessioni di una vicenda che non viene mai svelata apertamente (forse in buona parte oscura per lo stesso autore), che si intuisce essere personale e storica al tempo stesso e che lavora sotterraneamente mandando in superficie ombre, fantasmi e situazioni che vengono a comporsi come in un ordito onirico.[8]

La concretezza aspettuale e oggettuale della sua poesia, che unisce mondo vegetale e animale, sfumatura umana e visione, diventa essenziale esposizione sospesa, attorniata dal mistero e dalla lotta all’oblio, alla guerra, al male:

Il male, dunque, che fa irruzione per lampi dolorosi nel presente, turbandolo e rivendicando il diritto all’esistenza (perché da esso nasce il bene) costituisce un mistero di cui non si può tacere, e di cui la poesia di Giampiero Neri contempla lucidamente la portata. Egli ne coglie il fascino e l’orrore ma senza compiacersene e contrapponendo ad esso la necessità di uno sguardo carico di misericordia. «[…]» ha dichiarato. Nella speranza che non sia vana viene offerta in dono, come un vuoto o una preghiera che ci interroga e ci suggerisce che il mondo ha un misterioso scopo, una misteriosa presenza.[9]

Ecco il pensiero 13:

Dal finestrino del treno, fermo alla Stazione, il ragazzo guardava sua madre che parlava con un uomo. Stavano davanti al cippo di marmo rosa, che ricordava i benemeriti della ferrovia. L’uomo era un giovane sulla trentina, coi capelli biondi, ricci, che il ragazzo conosceva di vista, senza saperne il nome. Sapeva invece dove abitava, vicino all’Asilo infantile. Quel giorno doveva accompagnare a Milano sua madre, che nel frattempo era risalita in treno e sedeva vicino a lui. «Sai» stava dicendo «gli ho chiesto perché non si sposava e mi ha risposto che bisogna perdere la testa.» Lui l’avrebbe persa poco dopo in Val Pellice, con una pallottola, durante la guerra civile.

Il testo è la scena del mondo, il messaggio raggiunge il limite e lo innalza, vivendo il ciglio della vita per farlo respirare, in modo luminoso (e numinoso), e l’informazione solleva la profondità della superficie, il suo velo, l’incisione minima della vita, lo sguardo umano, poi, carico di interesse e autentico, segue ciò che primariamente si annuncia, per divenire spazio rivelativo: «A giudicare dall’andatura sgraziata e malferma, non si darebbe molto credito all’oca e forse per questo ha il nome che porta. Ma in acqua, per via delle sue zampe palmate, fila con eleganza e in aria vola. Anche l’oca domestica, dai cortili, dalle aie, quando è il suo momenti prende il volo. Lei sa dove va. E noi?» (p.62).

Nei suoi emblemi, Neri, costituisce la sua sorgiva ed evenemenziale prospettiva che abita e visita i suoi paesaggi inospiti, attraverso la scoperta recitata di un avvenimento di memoria e ricordo, appariscenza rivelata e poi concepito anche di autori cari (i luoghi di Fenoglio e Grossman che «sembra mettere mano a cielo e terra», la storia immortale di Collodi, Dino Campana).

Ed è in questa vibrata e precisa trasposizione che egli viaggia a  piene mani nella realtà, in attesa di un lampo, di una sacra intrusione e di un enigma disvelato, fino alla precisione di ogni incastro che si porge, poiché la poesia, vox clamantis in deserto, «come il soffio del vento, va dove vuole e la si può trovare dove capita, anche in una stretta di mano, come è stato detto»:

Di tanti cavalli e cavalieri che hanno monumenti nelle nostre piazze, almeno uno si è salvato dalla retorica, quello del generale Missori. Non tanto per il generale, quanto per il cavallo. Il generale ha la sciabola spezzata, simbolo del valore sfortunato, ma guarda fieramente in avanti. Il cavallo ha la testa bassa e l’aria di cercare qualcosa, un ciuffo d’erba o un posto dove andare a riposare. Pur essendo una bella statua, anzi la più bella che si conosca fra quelle numerose del suo genere, è rimasta in ombra. Nemmeno il suo autore ha avuto una soste migliore, un Ripamonti, forse lo stesso della via omonima. Insomma un nome oscuro. Eppure c’è qualcosa di umano in quel cavallo, che non finisce di attirare chi lo guardi, anche solo di sfuggita, passando in tram da piazza Missori.

Il segno più vasto dell’essere è un particolare ornato che diviene fiato e colpo, e raccordo di gradazioni infinite che riafferrano l’io, sillabando la verità, per cui, la poesia, rende ancora più essenziali

il nitore e la chiarezza della pronuncia del quadro esterno, “reale” di riferimento. Quando poi questo quadro viene animato da movimenti e scatti quasi sempre impercettibili o apparentemente inessenziali della presenza umana o animale o naturale (fra storia, memoria, bilogia, logosfera e biosfera, onotogenesi e filogenesi), svela immediatamente la propria natura tragica.[10]

In un’intervista rilasciata a Pierangela Rossi, su “Avvenire”, il poeta, infatti, afferma: «La poesia come forma si caratterizza per una particolare martellatura della parola. Questo però lascia intatto il problema dell’arte. Questa martellatura non garantisce l’arte. L’arte è come lo Spirito Santo che ti trasforma e ti dà la felicità di vivere. Cosa rimane di tutte le lacrime poetiche sull’11 settembre? Rimane della brutta poesia. Lo Spirito Santo è la new entry di qualcos’altro»[11].

88116724499788811672449-6-300x453Neri G., Via provinciale, Garzanti, Milano 2017, pp. 81, Euro 16.

NERI G., Via provinciale, Garzanti, Milano 2017.

  • Poesie 1960-2005, introduzione di Maurizio Cucchi, Mondadori, Milano 2007.

BERTONI A., La poesia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2012.

CAVALLERI C., La poesia? Si riconosce dalla pronuncia obbligata, in “Avvenire”, 13 giugno 2012.

  • Neri, il poeta che ha scritto in prosa, in “Avvenire”, 30 aprile 2008.

DI STEFANO P., Tengo i segreti, sono un cuoco geloso, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 29 gennaio 2017.

MOTTA E., La poesia e il mistero. Dodici dialoghi, illustrazioni di Luciano Ragozzino, La Vita Felice, Milano 2016.

RIVALI A., Giampiero Neri, un maestro in ombra, Jaca Book, Milano 2013.

ROSSI P., Neri «La poesia soffia dove vuole», in “Avvenire”, 6 ottobre 2016.

[1] RIVALI A., Giampiero Neri, un maestro in ombra, Jaca Book, Milano 2013.

[2] NERI G., Via provinciale, Garzanti, Milano 2017.

[3] DI STEFANO P., Tengo i segreti, sono un cuoco geloso, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 29 gennaio 2017.

[4] RABONI G., in Almanacco dello Specchio, n.1, a cura di Marco Forti e Giuseppe Pontiggia, Mondadori, Milano 1971.

[5] RIVALI A., Il tempo sospeso di Giampiero Neri (http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2017/2/21/LETTURE-Il-tempo-sospeso-di-Giampiero-Neri/749575/), 21 febbraio 2017.

[6] ID., Giampiero Neri, la sorpresa dell’essere è sempre dietro l’angolo (http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2016/7/23/LETTURE-Giampiero-Neri-la-sorpresa-dell-essere-e-sempre-dietro-l-angolo/716086/), 23 luglio 2016.

[7] CAVALLERI C., La poesia? Si riconosce dalla pronuncia obbligata, in “Avvenire”, 13 giugno 2012. Vedi anche Id., Neri, il poeta che ha scritto in prosa, in “Avvenire”, 30 aprile 2008.

[8] CUCCHI M., Memoria naturale, in NERI G., Poesie 1960-2005, Mondadori, Milano 2007, p.vii.

[9] MOTTA E., La poesia e il mistero. Dodici dialoghi, illustrazioni di Luciano Ragozzino, La Vita Felice, Milano 2016, p.85.

[10] BERTONI A., La poesia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 153-154.

[11] ROSSI P., Neri «La poesia soffia dove vuole», in “Avvenire”, 6 ottobre 2016.

L’Italia di Charles Wright

di Andrea Galgano 11 febbraio 2017

leggi in pdf L’Italia di Charles Wright

charles-wrightNon una parola s’è mai dissolta in gloria, non una.
Continuiamo a mandarle in alto, comunque,
così come il sole piove giù.

Charles Wright

La antologia di Charles Wright (1935), Poeta laureato e unanimemente considerato uno dei più grandi poeti americani, Italia, edita da Donzelli, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, non è un intervallo solo rammemorativo. Non vi è decorazione o celebrazione inusitate, bensì piuttosto il richiamo a una profonda passione epica, all’incisione salutare della fisicità dei luoghi, alla loro umbratile consistenza che diviene intreccio che rivela ciò che è nascosto, attraverso il legame incarnato e la profondità contemplativa.

È un’attitudine meditativa e spirituale a raccordare la vertigine e la struttura del verso, in cui la vertebra prospettica non è l’occasione ma il tempio dello sguardo, il respiro che affiora dalla percezione e dal fiato. Possedere questa vista significa, in definitiva, corrodere ogni forma pittoresca, affermando la bellezza del movimento e dei segni cronologici, pedinando l’inquieto permeare dello strazio arrestato, fissandone, infine, i contorni nel gesto che diventa ferita e tenerezza.

Essi nascono sin da quando nel 1959 egli, soldato americano, di stanza a Verona (nella patria di Catullo dove «i fiori schiusi scorrono / verso ponente nel vento che soffia verso ponente») o quando si troverà a Sirmione, sfiorata in un bellissimo notturno: «Le erbacce si sono infoltite nei frutteti e le foglie pendono inascoltate sotto le arcate […] Accordi sparuti da un liuto spettrale, è vero, scendono talora sulle ali dello stesso vento alpino che come un pastore continua a guidare le piccole onde sulla sponda […]»), tocca lo spazio fondativo della poesia e la lingua che ristruttura il mondo, leggendo una raccolta di Ezra Pound, «padre dal sangue freddo della luce».

Venezia è smarginata e intrisa di splendore, in cui la luce segreta della laguna si veste di respiri posati sulle palpebre all’infinito: «Questa è la strada dove abita Pound, / un vicolo cieco / di anfratti catarrosi e pietra sbrecciata, / al cui imbocco le acque / si adunano, i gabbiani stridono; / qui dentro – muto, immoto – egli aspetta, / cernendo gli affretti freddi del sangue» (Omaggio a Ezra Pound).

Attraverso lo studio e l’epifanico magistero di Dante («Dante ti fa pensare seriamente alla vita. Ti costringe a volere una tua vita, a impiegarla nel modo migliore. La sua poesia è un grande modello platonico di vita e arte»), la traduzione di Eugenio Montale e l’«angelo lirico» Dino Campana («la tua bocca è la porta azzurra da cui passo, / la lampada accesa, la tavola apparecchiata»), egli ricompone la lettura fonematica e conclusiva dell’Italia, che nelle note dei notturni, riporta il buio delle scaglie e dell’avviluppo abissale della luce persa e leggera: «Firenze. Un vortice, una bocca, / vertiginoso alveare… / Notturno / Firenze, gola verticillata, / un sibilo d’ali che si chiudono / il fiume tortuoso in fiamme, / acqua come scaglie nella vampa del fuoco…».

O ancora la trasparenza monastica di San Miniato, dove i bordi acquei «lappano l’orlo della notte», apre la chiglia nera in cui «i nostri corpi bruciano come lampioni, / le ossa sonagli in mano alla morte sotto il fuoco lunare».

Una lettura interiore che esplora la sua geografia visionaria, attraverso la distanza generativa della fisica di un mondo che si porge e si sporge nei sospiri della trascendenza, «dentro la stessa pelle della lingua», come «una necessità interiore» e una «haeccitas», nei flussi di voce, nelle preghiere-fulgori e nei salmi di luce, fino al cielo delle ali bagnate come fenditure:

«E quando, quella sera, una pioggia esagerata per la stagione (grandine che risuona dilacerante sui limoni) picchiò sul movimento lento della baia, in agosto, infestando la tenebra con un querulo biancore, egli si ritirò nella stanza del seminterrato sotto la casa, a studiare i diversi aspetti dell’acqua, le navi in improvviso contrappunto sulle scale ascendenti del mare, e ad aspettare l’irruzione, al di là delle colline infeconde del suo cervello, dei soldati di bronzo, il lievito del lampo dei loro coltelli». (Temporale).

Caterina Ricciardi afferma:

«I sacred places italiani, i sacred landscapes della sua America dei caribù, dell’Appalachia e del Blue Ridge, visibile dalla collina del Monticello di Jefferson a Charlottesville, sono la haeccitas che respira nello «stile» di Wright, anche nel rovescio genialmente sovversivo della voce orfica i Campana. Ma tutto avviluppato nella lingua, e dentro la sua (di Wright) «pelle», tutto interiorizzato verso l’espressione devozionale tesa alla trascendenza, all’oltre dell’hic et nunc, perché i monumenti dell’ «intelletto che non invecchia», quelli dell’arte (e della natura, se nessuno la distuba) sono eterni».

Il ricordo, per Wright, è la distillata e calibrata radiazione che illumina ciò che c’è. La frammentazione apparente gli serve per affrescare la pagina, alzare le immagini dove cade la luce, e dove l’ora orfica, che sbanda sull’acqua, si ritrae distendendosi.

Scrive Roberto Galaverni:

«Si tratta di un poeta mai acquiescente, ma mosso invece da inquietudini radicali, di natura esistenziale e insieme metafisica, che fa reagire volta a volta con l’occasione particolare. Wright è a caccia del proprio destino, niente di meno. Attraverso un intreccio di piani sequenza e di continui dislivelli temporali («ricordo», dice tante volte), in cui accanto alle percezioni dirette tanto spazio hanno la riflessione e il giudizio, si rivolge ai luoghi come a una costellazione da interrogare in vista di un orientamento, di una consistenza, più generalmente della propria identità personale».

Sono le vene familiari che esplorano la compagine sapienziale del suo gesto, l’indirizzo confessato delle penombre (Ricordando San Zeno), il sigillo orfano oltre il guanto della finestra, quando i propri accordi spezzati, in uno sfilato noumeno di striature d’aria, avranno il sostegno del sole e della tregua sdraiata dell’indicibile.

La lunga nota è la sua trafittura musicale, l’istantanea tradotta di un rapporto ricolmo che forgia gratitudine e chiede l’oscillazione dell’ immaginazione e della misura, rilasciando poi tracce, ricordi, significati di onde e buio purpureo e inscritto, boccioli di luna allontanati e luci diverse nell’intarsio del cielo.

Moira Egan e Damiano Abeni, nella Postfazione, si soffermano sul legame dei testi con i luoghi, sia come lascito e sia come concrezione trascendente, finendo per  includere il bordo dell’infinito, la sua maestà e la sua suggestione che spreme ogni chiarore e punto di fuga: «Wright ricerca costantemente la trascendenza nel quotidiano, e sa trovare il sublime negli angoli più bui e nascosti del nostro mondo, rendendolo in una musica che- senza farcelo pesare – spesso parla di se stessa e del modo in cui viene costruita» (p. 345).

È la Venezia che si stende come seta «sull’orlo del mare e del cielo notturno, / albescente alla luna», la Milano, nitida e asciutta del ’59, dove i viali finiscono in lotti non edificati o Roma, smalto ocra al tramonto su via Giulia, come quando «ricade la luce dalle finestre affacciate a oriente sulle sedie di vimini»:

«A Garda, su Punta San Vigilio, il lago / a primavera è come il mare, / vento che smuove le foglie d’ulivo come sciamo di pescetti di palude sotto i vigneti, / flusso e riflusso del tramonto oltre Sirmione, / voce piatta delle acque / Che ri-raccontano la propria storia, ininterrottamente, come per scaricarsi / di una colpa non dimenticata, / e non alleviata / sotto la consolatrice mano del buio, / le nubi su Bardolino che dragano il cielo in cerca dei corpi / morti di chi si rifiuta di risorgere, / con le vestaglie arancione e i corsetti fiammeggianti che rotolano lungo le colline, / vento notturno ormai tra gli ulivi, / nessun suono se non vento dal nulla / sotto le stanche stelle italiane…».

Il suo nodo dispiega la figura con una densità indomita, unisce tutto gli elementi della realtà, fornendo una visione elencata e potente di ultimità («E le iridescenti bluse di luce che indossano gli alberi. / E i cerchi-sutra degli aironi guardabuoi che ruotano via oltre i piovaschi. / E le marimba chiodate dell’alba che scuotono i loro amuleti… / Presto sarà ora della lunga passeggiata sotto terra verso il mare»).

O questo ritratto prezioso e tragico che affiora, indissolubilmente, come un oggetto d’arte:

«I fiori d’arancio hanno lasciato cadere le loro trame / sul pavimento di pietra del cuore / più di una volta / tra le stelle di ieri sera e le stelle di ieri sera. / E I Preludi hanno lasciato i loro anelli / sul gesso bianco delle pareti. / E l’armonica ha suonato e suonato. / E adesso, sotto gli alberi da frutto, / gli ulivi argento e poi non argento, il vento / dentro loro e poi no, il vecchio / seduto nel sole calante, / del tutto rilassato su una sedia nel sole che cala, foglie smosse dal vento. /  Il mondo non è niente per lui. / E la musica non è niente per lui, né il sole di mezzogiorno. / Solo il vento importa. / Solo il vento quando si muove nel lucore di latta delle foglie. / E i fiori d’arancio, / sparsi come poesie sulle pietre levigate» (Paesaggio con figura seduta e ulivi).

I colpi di attenzione di Wright sono, invece, autoritratti tra i nomi diretti: «Madonna dell’Ortolo. San Giorgio, arco e pietra. / Le pendici collinari alte sul Piave. / Luoghi e cose che mi hanno colpito, Walt, / In Italia. A piedi, Gran Catalogatore, vent’anni e passa fa. / San Zeno e il Caffè Dante. Il sedile di Catullo. […] Sulla tomba di John Keats / scende la sera invernale, dall’abito senza stelle e bordato di ghiaccio, / puri respiri di coloro che risorgono dai morti. / Dino Campana, Arthur Rimbaud. / Hart Crane e Emily Dickinson. Lo Château Nero», o lagune in cui, nell’immagine dantesca, il sigillo delle labbra dilavate incontra l’acqua limpida, brillando nelle stelle fisse come una fiamma astrale, o come la lingua perduta del ricordo di Hart Crane diviene la matita di pioggia e l’orologio che si ripiega nel petto.

Questa forza attesta il rinvenimento dello «spiritus loci abitante lo spazio italiano e, più tardi, dei paesaggi delle sue origini, stabilendo una continuità di sguardo fra mondi diversi, cosa che non fa di lui un semplice poeta “del viaggio” e della notazione diaristica ma una mente inseguita da una quête metafisica, anche quando si ferma a osservare «insetti luminosi» o a commentare un dipinto» (Caterina Ricciardi).

Come se ci fosse una fine indecifrabile al linguaggio che conosce la meraviglia stupita dell’altezza immobile e della dura eternità:

«Parlo della quiete, il riserbo / di un centrotavola di porcellana, un vaso lacrimale, una brocca. / Parlo dello spazio, che ha una sola faccia, / inesaudita, lasciata a essiccare. / Parlo della tempera, della forma, del vuoto / a cui questi oggetti stanno di sentinella, e da cui scaturiscono. / Parlo del peccato, goccia rossa, goccia bianca, / della sua deformazione e curvatura, che è azzurra. / Parlo di bottiglie, di rovina, / e di quello che usiamo per illuminare la tenebra, e del perché …» (Morandi).

O ancora: «Ora senza stelle, senza Madonne, Morandi / pare arcanamente confortato dall’assenza di conforto, / una cosa giusta al posto giusto, / paesaggio sussunto, linguaggio sussunto, l’ombra di Dio / liquida e indiscernibile» (Giorgio Morandi e il blues del parlare dell’eternità).

Scrive Irene Battaglini:

«La poetica di Morandi si inscrive nella lirica di Wright alla stregua di una “esperienza non formulata”[1], il cui senso si traduce alla coscienza non soltanto interpretandolo come la negazione di un’ Ombra pantoclastica, ma anche come un ground zero in cui gli oggetti verticalizzati sono posti in assetto orizzontale – in una tela, come al suo interno a costituirla come scena interiore del Sé e non come scena di natura morta, quindi non su una tela come un qualsiasi dipinto – si frappongono come scudo alla confusione di un mondo arcaico e inesplorabile, nel rispetto dei tempi di quegli oggetti, gravidi di nostalgia e struggimento, oggetti che vanno a costituire l’orizzonte di una cultura greca, dotata di forma con infinite qualità tonali, contro cui la confusione si frange inesorabilmente incontrando il limite di un logos che non si esperisce mai a sufficienza.

I vasi e le bottiglie dalla composta postura ieratica, si fanno simbolo di una pulsione di morte naturale, una poetica dell’ovvietà contro l’angoscia, come principio di sospensione di ogni stimolo negativo: e perciò la natura morta si traduce still life, poiché la pulsione di morte naturale in Morandi altro non è che l’opaco fondo biancastro delle ampie campiture di appoggio, che è più luttuoso e controsole di un pozzo atro, ma che per la sua stessa caratteristica si rifà ad un modello generale della mente umana in cui il lutto è un processo che attacca il fondo della psiche ma che sempre si situa dentro la vita. Il simbolico di Morandi non vive per se stesso, ma per qualcos’altro, e trova non solo eco ma anche segno ad esempio in Wright, poiché è il segno di quella fusione di orizzonti di cui parla Donnel Stern, tra ieri e oggi, tra memoria e inganno».

La ricerca di Wright è una voce lavoratissima e senza disfacimenti. Affronta il segreto della realtà risuonando di dolcezza struggente e di visione. Per cui anche la cesellatura fonetica, l’aria ironica, il dolore disperso come carta bruciata, le parole «su quella croce in cemento», la memoria compìta che raddoppia la dislocazione dei luoghi, non spezzano né disperdono la gioia tenuta.

Mantova, sperduta di nuvole e parole smemorate e intagliate, «Metà del cielo colmo di pioggia, metà no / canne spinte dall’acqua a restare immobili, / il fiume che scende in piena ma senza tracimare, / tutto capovolto, / il cielo a riposo sotto i piedi. / Parole, ma chi si ricorda? / Che parole sanno il cielo, le nuvole? / Sulla parete della residenza estiva, / dove lo lasciò Giulio Romano, / il leone beve sulla sponda del fiume, e gli alberi accudiscono», i giorni italiani nei grembi dell’Adriatico, le infinite gallerie, le incisioni di Vicenza e il Palladio acuiscono un processo di gloria memoriale, dove le impronte delle forme vivono di associazioni mentali splendenti che eccedono ogni natura temporale. Tutto si muta in questa giacenza di illuminazione irradiante. In Wright, la rievocazione è un incombenza composita, una soglia che affranca le miglia della sua inner vision «che raduna la luce come fa il vetro», facendole ricomparire e ritrarsi nel loro isolato raccoglimento, attraverso «l’oscura allegoria dell’anima / nella luce bianca dell’eternità»:

«Certe sere, quando le stelle emettono i loro segnali in codice come bande rivali, / e la nebbia scende a distendersi cauta come una sposa novella / sui gradoni degli alberi / che salgono dal mare / e il lampione che attrae zanzare comincia a rapprendersi / come una crosta sulla foglia di palma e sul falso pepe, / e il profumo delle giunchiglie / aleggia come un giardino di giugno / sul tavolo in cucina, / Scuderi chiama ad alta voce il mio nome / mentre salgo i sei piani verso la sua stanza / e mi ripresento sulla soglia, / elettrico e redivivo nel mondo della luce […]» (Giorni Italiani).

È la parola dipinta (si pensi ai grumi di tempera e ai cambiamenti cromatici di Roma, vissuta in una veste celeste) sui vortici di acqua di Pavese («I tuoi occhi saranno parole vane, un silenzio / che vedrai nel chinarti verso lo specchio / ogni giorno, / l’unico sguardo che ha per chiunque») o le riscritture di Leopardi, vissute e amate nei suoi interminati spazi che risuonano come vento («l’oceano senza orizzonte che manda segnali, / comincio a esumare dal marmo / interminati spazi, oltre, / silenzi così immensi da risuonare come vento») nei nascondimenti di mezzogiorno («Lo so che sei lassù, nascosto dietro la luce del mezzogiorno / e il cristallo dello spazio.»), nei passi delle stelle voltate alla luna, con la sua vita unita allo sguardo del cielo («Mezzogiorno, e tu sei di nuovo lì sull’altra faccia del cielo. / Due aquiloni hanno fatto il nido nella gonna secca / della palma / e graffiano la loro voce come unghie / sulle finestre dell’aria»):

«Se sei diventato un’idea eterna / che rifiuta ogni investitura nei nostri stracci rosa, / saggio al di là di corpo e forma, / o se dispensi altrove l’ostia di un diverso sole / in uno degli altri eteri, / da quaggiù / dove i nostri anni hanno fauci onnivore,  / ascolta ciò che dicono queste parole di uno che ti ricorda […] Non volevo dire altro. / Pensami di tanto in tanto, come io penso a te / quando la luna è una zecca dorata nel cielo estivo / gonfia di luce: / tu sei parte delle mie parti del discorso. / Pensami di tanto in tanto. Io penserò a te».

Annota Gianni Montieri:

«Questa è la grande capacità di Wright nel suo racconto di mezzo secolo d’Italia, di mostrare e lasciare campo alla nostra immaginazione, di accendere i ricordi e di destare curiosità. Wright è poeta che conosce a fondo il nostro paese per averci vissuto, averci soggiornato a più riprese. Lo conosce perché lo ama e, questo è evidente, lo ha amato da subito. Qui non leggiamo solo del paesaggio, delle colline, dei laghi o delle città. I versi di Wright ci portano da Verona a Mantova, da Milano all’Umbria, da Venezia a Positano, eppure non si limitano, naturalmente, a descrivere un luogo, ma dicono che il luogo è di chi lo sa guardare, il luogo è fatto delle opere d’arte che ospita, il luogo è la gente che passeggia e lavora, il luogo sono gli inverni e le estati, sono i profumi che avvertiamo fortissimi. I luoghi di Wright sono ponti di dialogo con i pittori e i poeti che lo hanno preceduto. I luoghi sono Pound, sono Leopardi, sono Morandi, sono Oscar Wilde, sono Dino Campana, sono Cesare Pavese. I luoghi di Wright siamo noi, ed è stupendo che ce li mostri come se fosse la prima volta uno che chiameremmo, sbagliando: straniero».

La nominanza esuberante come inconoscibile supplica e la sceneggiatura dell’impossibile trama che legano i luoghi alla smisurata esistenza e, allo stesso tempo, alla loro calibratura immaginifica. Le parole vivono la loro scena, anche quando sono disfatte o sperdute, e celebrano, indomite, la vocazione della realtà a farsi confine dell’essere e vita insorta, come accade in un testo sul suo pellegrinaggio ad Arquà, sospesa dimora di Petrarca: «Passo fantasma di stanza in stanza e cerco in ogni modo / di riamalgamare tutto ciò che continua a mancare, / di ricomporre ancora / gli arazzi e i focolari invernali, / le lunghe passeggiate e la solitudine / prima che i danni della storia e una fama malintesa / scompaginino tutto tranne il mero nome e uno schema di rime».

Questa insurrezione mobilita gli interstizi del dicibile come un gesto di attesa ascoltata e concentrata, dove la luce porge il suo diario, filtrando ciò che l’io genera, «come incastonato per caso nel ricordo, / incandescente e tenuto stretto».

L’ascolto e la fuga nella radice della rosa, in una limpidità di gioia, rivendicano un’ampiezza nuda che riportano la nascita delle cose all’indecifrato segreto dell’esistere e al gremito gemito del linguaggio, per risplendere e non abbagliare, poiché «tutto arriva fermarsi»:

«Dal mio balcone, l’azzurro intenso del sotto-cielo, / zaffireo e anodino, / fa da fondale alla corona della Madonna. / Più tardi, un lembo arcuato di nube, / come la scia di un jet o la coda di una cometa, vi volteggia più sopra, / anello medievale di Paradiso. / Oggi è di nuovo lo stesso azzurro, azzurro di redenzione / sul quale, tra i filari di vite, / il verde abbraccia forte la terra. / Non ancora, pare dire, oh, non ancora».

In un luminoso diario della notte, Wright ripone la sua ricerca assoluta come profondità affamata e nomade: «La notte assoluta si ritrae. / Brezze dure gelano sotto le mie palpebre. / La luna, corno di mica stampigliato, / risponde per me nelle arterie delle querce. / Desidero ardentemente acqua limpida, il silenzio / del rischio e dello splendore profondo, / la quiete dentro la solitudine. / Voglio la sua goccia sul labbro, la sua fredda impresa» (Diario della notte II).

Il forte e lucente abbraccio alla vita presente, che si sporge dai dettagli, è l’incommensurabile ampiezza di un abisso chiaro, dove persino l’oscurità è visibile, catturata dall’alone di ogni cosa dorata che lambisce il “tempio”, per dare significazione al reale (non solo le grandi città ma anche l’indocile provincia), per infrangere le cose e accoglierle, persino nei negativi di attrito, diventando stupore di vertigine: «Là fuori non c’è altro che luce, / disse l’artista mancato / con ragione, come al solito, a metà: / c’è anche un nonnulla di buio, lo sanno tutti, su entrambi i lati di entrambi gli orizzonti, / prescritto e in dipingibile, / che ci tocca i polpastrelli, in qualsiasi direzione decidiamo di saltare» (Vite degli artisti).

Le parole della poesia inseguono il dialogo inesauribile che scopre i netti recessi, i nessi, le scoperchiate miniature della realtà, non per possederle ma per perpetuare il senso di una leggera  gratuità che trasfigura la molteplicità in nitore e nostalgia azzima, bisogno ultimo e alternativa vitale disegnata dalle stelle.

L’aggregazione delle immagini si espongono nei ritmi che tratteggiano l’ombra disvelata e i lunghi fili del visibile nell’invisibile, ordinati in una sorta bellezza difficile:

«Ascolta, la memoria ha il cuore duro e la testa tenera. / Qualsiasi luce l’occhio veda, il cuore ripete buio, buio, buio. / Nulla è mai perso, dissi una volta. / Non era vero, / lo so adesso, con il passato che è un nascondiglio / oltre ogni possibilità di ricordo e recupero, a dispetto del nostro / desiderio e della nostra diligenza. / Quello che è andato è andato, / e si posa come gusci di riccio di mare sotto la palpebra della memoria, / giù nella tenebra dove non si muove nulla, / nulla tranne il cuore / quel pesce senza occhi, portato da correnti lente, invisibili / sotto un gioco della campana di isole azzurre dove, in superficie, / un giovanotto dallo spirito intatto riunisce alcuni amici / su un frangiflutti al sole / Poi uno di loro tira fuori una macchina fotografica».

Scrivono Moira Egan e Damiano Abeni nella Postfazione:

«Il filosofo-poeta degli Appalachi ha passato una vita a tradurre i segni del tempo e della natura in parole: parlando di noi stessi descrive la sensazione del caldo del sole sulla pelle, gli interminati viaggi delle nubi, la musica dell’acqua, le masse imponenti dei monti in poesie disegnate con la grazia di un calligrafo orientale, venate di metafore fini e sorprendenti. Al cuore delle sue poesie, spesso interpretabili come discorsi sull’ars poetica, c’è il tentativo di governare il linguaggio come mezzo per poter governare la vita, perpetuare il ricordo, sopportare la nostalgia, sempre nella speranza di trovare parole che non siano effimere» (p. 343).

La lingua, che definisce l’umano, non ha solo l’urgenza di dire ma spinge alla contemplazione e alla sacertà di ciò che si annuncia, che occorre conoscere e poi raschiare e cancellare, per raggiungere la nitidezza oggettuale, il carattere della sua floridezza, del suo raggio di fiamma e, infine, del suo tessuto cicatriziale. La grazia oscura del mondo, allora, è il territorio su cui lasciare il segno, per diventare mattino.

 

[1] “Oggi siamo particolarmente interessati all’emergere del senso di un’esperienza che prima non aveva significato, e sempre meno interessati a quella che Bollas ha efficacemente definito «la decodificazione psicoanalitica ufficiale» “ (Donnel Stern, in: Hoffman I. ,1998, p. 48).

6aefdee8c121fc9ec95d3c4ab9d0194a_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyWRIGHT C., Italia, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, Donzelli, Roma 2016, pp. 160, Euro 18,50.

WRIGHT C., Italia, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, Donzelli, Roma 2016.

Italia sua, in “La Voce di Romagna”, 18 gennaio 2017.

BATTAGLINI I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato 2017.

BRULLO D., L’avventura di Charles Wright l’ex soldato americano che rubò la poesia a Pound, in “Libero”, 31 gennaio 2017.

GALAVERNI R., C’è un americano in Italia ma, attenti, non è un turista, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 15 gennaio 2017.

GALGANO A., Il viaggio inciso di Charles Wright, (http://www.polimniaprofessioni.com/rivista/il-viaggio-inciso-di-charles-wright/), 4 gennaio 2014.

Hoffman I. (1998), Rituale e spontaneità in psicoanalisi, Atrolabio, Roma 2000.

McCLATCHY J. D., Charles Wright, The Art of Poetry, no. 41, Winter 1989.

MONTIERI G., Una frase lunga un libro #87: Charles Wright, Italia (https://poetarumsilva.com/2017/01/25/wright-italia/), 25 gennaio 2017.

RICCIARDI C., Wright. Luoghi e cose che mi hanno colpito in Italia, in “Alias – Il Manifesto”, 5 febbraio 2017.

STERN D. B., L’esperienza non formulate. Dalla dissociazione all’immaginazione in psicoanalisi, Edizioni Del Cerro, Pisa 2007.

I cieli celesti di Claudio Damiani

di Andrea Galgano 2 gennaio 2017

leggi in pdf I Cieli Celesti di Claudio Damiani

presente nella Bibliografia critica su www.claudiodamiani.it

claudio-damianiLa nuova silloge di Claudio Damiani (1957), uno dei maggiori poeti italiani, Cieli celesti, edita da Fazi, è una popolata emersione di dettagli e incontri, visualità splendente e cromature di fondi.

Ma se l’eco dell’antica tradizione poetica, che si prolunga fino ad Orazio, passando per Leopardi, Pascoli e Caproni, non ama rinserrarsi in una racchiusa condensazione di voce, la poesia di Damiani è una domanda di incontro. Domanda tersa e piovuta come l’ambientazione azzurra, che pur prendendo l’accento dalla coltre intensa di Beppe Salvia, trasla il suo apice attraverso una profonda creaturalità e una estremità limpida che rafforzano la sua scaturigine nella pacatezza e nella origine.

La domanda elementare di Damiani, allora, si fonde in tutta la sua peculiare destinazione nella contemplazione del cielo vivo, nel segreto riflesso del tempo e nelle trame del vivente che lanciano il loro indefesso dialogo con il reale e la sua impossibile smarginatura:

«Riverso sul lettino in terrazzo / guardo il cielo azzurro, / azzurro di un azzurro fitto, / pieno, come più mani di azzurro. / Come siete lontani stelle e pianeti / dell’universo, quando potremo mai incontrarci, / come, creature vive e intelligenti, uomini / come noi, sparsi come siamo tutti / in uno spazio tanto grande? / Così adesso restiamo noi qui, pensando di essere soli / perché anche il tempo è tanto lungo, come lo spazio. / Vi pensiamo però, esserci cari, e ci sarà un tempo / in cui ci incontreremo».

Roberto Galaverni afferma:

«Damiani s’interroga sulle ragioni del suo idillio appena increspato da qualche nube e ombra lieve. Il che significa che sta riflettendo anche sulla necessità stessa della sua poesia o anche, almeno agli occhi di un critico di poca fede, sulla sua plausibilità. Il registro espressivo e i referenti in ogni caso restano sostanzialmente gli stessi elementi basici e situazioni elementari per un lessico altrettanto basico ed elementare. Ecco allora: creatura, vita, cuore, terra, aria, cielo, azzurro, prato, sole, luna, stelle, universo, amore, e poi gli animali, le rondini, i passerotti, il gatto. Damiani prova a rendere ragione della realtà di quello a cui sempre ha guardato: la nuda e semplice presenza della vita al di sotto o, che è lo stesso, al di là della storia, delle faccende quotidiane, dell’impegno per dirottare su chissà quali strade il nostro destino».

Lo sguardo, che celebra e contempla, congiunge e domanda, destina e si immerge, diventa l’orma basilare di un approdo di chiarità (il monte Soratte, ad esempio, fissato in tutta la sua cosmica apparizione di millenni e limiti umani come cicatrici) e di un respiro che ha bisogno del prosimetro della realtà per intensificare la lingua e il suo cuore luminoso: «L’aria tenera della tua bocca / la respiro a pieni polmoni, / ti respiro dentro nel corpo / fin dentro l’anima, cielo».

O ancora come un ascolto o un amore, la nitida limpidezza diviene presenza, natura pensante e universo, in cui la giuntura umana che è chiamata a scoprire la vita e la vivezza, l’esistenza e il suo germoglio, la sua angolazione e il suo mistero, persino la sua ironia:

«Stamattina il cielo era azzurro, con nuvole / ora è completamente grigio, coperto. / Il cielo coperto è meno bello / non tanto perché è buio / e dà una sensazione di freddo / ma perché copre, appunto, il cielo. / La sensazione è quella di una cappa, di un muro / che ti separa dal cielo. / Se solo pensassimo, se riflettessimo un attimo / che oltre quella cappa, oltre quel muro / il cielo azzurro risplende / con tutte le stelle e lo spazio / forse saremmo meno / meteoropatici».

Il mistero dell’esistente, quindi, è grazia di danza improvvisa. Il tocco delle cose, come la fisica di Luzi, restituisce il dono epifanico atteso, in cui la conversazione è il profumo del verso, la corsa del tempo, il mondo che si sporge. La dettagliata cifra dell’essere è sempre nominazione:

«C’era un prato verde verde / con cielo azzurro e sole, / aria fredda e erba verde e grassa, / primi di aprile, mattina, / vento di tramontana /  e un pastore con dietro / tutte le pecore, ferme / per attraversare. Passo con la macchina / e dietro di me attraversano le pecore. / Quando ritorno, dopo dieci minuti, / le pecore stavano riattraversando. / E tu, luna, stavi guardando, / tu che ti muovi con passo lento di danza, / grande sfera aerea innamorata della terra, / te che pure, un giorno, nascesti / partorita dalle stelle, / forse una costola della terra, / forse nascesti dall’unione / di tanti piccoli corpi, / crescesti come una bambina e diventasti / questa ballerina meravigliosa che si muove con grazia / ammirata da tutti, che balla tutta la notte».

Il territorio poetico di Damiani (e il suo paesaggio appenninico), non è una frazione idillica e nascosta, lambisce la realtà non solo con l’immediata riflessione luminosa ma è attraverso l’ apertura e l’incontro che l’inatteso avviene: «Sai quegli scienziati caparbi / che ripetono all’infinito l’esperimento / con una pazienza disumana? / E proprio quando stavano per desistere, / proprio quando stavano, sfiduciati, per lasciare perdere / quella pietra si illuminò di luce azzurra».

Solo così il dipinto del mondo si innerva nel processo segreto di epistemologia e stupore: «Sono in terrazzo, sdraiato / vedo il cielo azzurro, / a un tratto vedo alcune rondini, / sono arrivate, è primavera».

Lo stupore è la sua forma di conoscenza che si increspa e si concede in ogni invocazione e proposta che richiama il piccolo spazio di una porzione di sole o di una tenerezza d’aria che consegna baci celesti da prendere e voci lontane: «Prendo il sole come un albero / nel mio piccolo spazio, il mio terrazzo, / prendo la mia porzione di sole / piccola ma per me enorme, / non comparabile con nessuna cosa, / e col sole prendo quest’aria tenera / la respiro tutta / e non ne lascio niente. / Prendo i tuoi baci, cielo / e non ne rifiuto nessuno. / E le chiacchiere degli uccelli / mi sono care, e le voci, / lontane, degli umani».

O ancora, attraverso una vigile attesa che ricostituisce la genesi di ogni tempo da rincorrere come un respiro che, come in ogni densità d’istante, bacia l’aria: «Questo cielo, come sarebbe difficile / spennellarlo, voglio dire dipingerlo, / sarebbe un’opera difficilissima / e invece ecco, apri la finestra / e te lo ritrovi qui, bell’e fatto. / […] Ma tu tesoro mio puoi non credere in quello che vuoi / ma un universo e miliardi di anni / ti sembra poco?».

La poesia di Damiani  si nutre dell’accortezza generativa delle cose che si apre all’infinito, alla limpidezza, al «gorgogliare sommesso / dell’acqua». Sono le stesse cose a parlare a rivelarsi in un momento di naturalezza imprevedibile e generosa, che pur perdendosi, dà vita in una gioia fresca:

«Caro Sole, tu ogni giorno / non so quante tonnellate di materia perdi / e anch’io, ogni giorno, perdo qualcosa, / ogni giorno perdiamo un giorno / ma quando sarà finito il tuo tempo / si potrà dire di te: è stata una stella generosa, / per tutto il tempo ha illuminato e scaldato / i corpi intorno, senza fermarsi mai / dando tutto il possibile di sé, / sempre al massimo delle sue possibilità, / tutto quello che poteva fare l’ha fatto / e tutti sempre l’hanno ringraziato / e l’hanno adorato, l’hanno benedetto / e nella sua lunga vita lui ha sempre gioito / della riconoscenza di tutti».

Le sue epifanie, i suoi balzi avvolti e i suoi avamposti soli dove «il sole ci bacia e la brezza / ci vellica le guance, / il vento muove le nostre pagine / e i nostri giorni volano», le ombre celate e ritrovate che vivono nelle uniche sproporzioni («è notte, vedo il cielo nero / senza stelle, e così nero lo sento / e così grande, così grande / e penso a quando era piccolo / che avrei potuto tenerlo / in una mano, / e quasi mi viene da piangere / a pensare che poi sarebbe diventato così grande / e con tante terre e tanti soli / e infiniti animali e infiniti uomini / di infinite razze, che dopo tanto errare / si sarebbero sempre più avvicinati, / si sarebbero alla fine ritrovati»), e i suoi crinali splendenti e intensi («[…] ma ora, senti come è tenera l’aria / tiepida e fresca del cielo notturno / e viene un odore di fiori di acacia / e di biancospino. / E senti il cuore mio come batte / e senti il tuo, e c’è qualcuno / che chiede di entrare, anzi è entrato / e cammina dopo di noi»), i cambi d’aria e lo scioglimento degli elementi (aria, luce, acqua), nelle infinite variazioni della vita degli alberi, procedono in una metafisica dichiarativa e ragionativa che gemma nei semi sul tracciato.

Con l’infinitamente piccolo e le grandezze, egli evoca e rievoca la sua appartenenza («[…] siamo un numero molto grande / che può far paura, nel nostro numero è Dio / in qualche modo, e un valore molto piccolo / è ciò che è nostro e solo nostro di individui, / il valore individuale potremmo dire / che, in quanto piccolo, è però un valore / che nullifica ogni nichilismo, / che dà a te, amore mio, e a me / un’unicità che ci fa divini»), ed è da essa che si esprime, appieno, la libertà e il suo legame con la comunità e con tutto ciò che c’è, come un tenue miracolo di unione prossima:

«Dolce cielo celeste / dipinto di azzurro tenero / e voi verdi monti e voi / valli e boschi, nuvole / che là, verso l’orizzonte / navigate lente, e tu sole vicino / al tramonto che spandi questa luce / d’oro nell’aria, e ogni cosa fai tiepida / del tuo calore, e tu aria che muovi / i miei capelli e spiri sulle mie / guance e le pagine volti dispettosa / del quaderno ove scrivo… / state insieme, vi date come la mano / contenti di essere uniti, / di essere l’uno all’altro / indispensabili, di essere insieme / questo miracolo che vedo».

Roberto Galaverni afferma: «Le questioni sono ancora una volta le più elementari, spesso riprese non a caso dalla filosofia presocratica: fissità e mutamento, il senso (detto come direzione) della natura, il rapporto tra il singolo e la comunità, tra la vita individuale e le ere, il retaggio antropologico e soprattutto il tempo, che costituisce il filo conduttore del libro».

La trincea del vivente, le pause degli istanti e i semi di luce, i mondi abitati e inabitati dalla vita, le lontananze dipinti e i cieli notturni aprono crepe nelle evidenze del tempo e della realtà, negli spari insonni, nelle armature a difesa della propria nudità fonda (come in Svegliarsi in una notte del 2012…), dove l’amore annulla ogni paura e smarrimento sgranato.

Damiani cesella le sue immagini senza lentezza ma quasi per deposito granulare. Da una singola immagine che sembra annullarsi, compare un ulteriore dettaglio o una nuova esistenza che porge il suo singolare sussulto di sacertà, di forma, di oblio e di luce.

Silvio Perrella scrive:

 «Damiani è un asincrono; non ama stare al passo con i tempi; o piuttosto cerca nei tempi il Tempo, quell’atomo di vita che collega gli uni agli altri. e non solo in orizzontale, ma anche in verticale. ed ecco che vien fuori una verticale come questa, dove si sale e si scende sulle scale del tempo, e lo si fa in un attimo di dormiveglia, pensando a quel che pensano tutti, ma pensandolo dentro l’unicità del nostro corpo singolare, e sentendo il risveglio degli altri, il loro stesso girarsi tra le lenzuola del cosmo».

Attraverso l’ode, il pensiero sorgivo, la tenerezza dell’essere, la speculazione filosofica e l’ironia, Damiani compone la sua trama e il suo segno, annotando le vibrazioni piccolissime e le concitazioni dei ronzii. È la sua obbedienza alla realtà a rendere ragione alla poesia, che si nutre di ciò che vive e muore, che insegue il tempo passato e presente ed accade in silenzio come una luce bianca. La caducità è uno splendore lucente e la coltre di ogni limite possibile ma immenso, allo stesso tempo, dove il nostro schianto lucente e assaporato si compie:

«Siamo caduchi, siamo quelli che cadono / sul campo di battaglia della vita. / Ci falcia il tempo, che ci insegue in ogni momento / dopo averci partorito, / ci tiene il fiato sul collo / e non ci lascia respirare. / Se ci fermiamo un momento / lui passa e noi lo stiamo a guardare / come dalla spalletta di un ponte / ma ci divora dentro. / Che cosa succederà domani / tu non lo puoi sapere /  per questo sei nelle sue mani / e non ti puoi liberare. / Siamo caduchi, siamo quelli che cadono, / cadiamo come le mosche, / quando nasciamo ce l’abbiamo scritto in fronte / che cadiamo, / ma non ce ne vergogniamo / anzi camminiamo a fronte alta / con la nostra morte nel cuore. / Non siamo soli, siamo tanti, / siamo un esercito immenso, / marciamo insieme, spinti dal tempo / con questa croce sul cuore. (Canzone dei caduchi)

La pienezza vivente è uno sguardo e una carezza d’amore, come nostalgia di realtà e mortalità, canto pazzo che non si ferma, relazione di nascita e morte insieme, e vita che vince la morte in una moderna Arcadia:

 «E questo canto, amore mio, di cicale / sotto il sole di luglio, in una campagna italiana / cielo azzurro e poche nuvole, piccole, / odore forte di rosmarino e ginestre / e questo canto pazzo che non si ferma / nel’aria bianca bruciata / e noi, io e te, sotto questi pini / alziamo i calici e brindiamo, silenziosi, / tu vestita come una dea, con lunghe ciocche annodate / e perle tra i capelli, / là sulla collina il nostro capanno di legno / e giù lo scoglio dove passo tutte le notti / a piangere guardando il mare».

Le nostre lontananze, la tiepida aria di giugno, solitaria e fresca, quasi come un fiore strappato, richiamano l’attraversamento del tempo e la sua unione di tutti i tempi nel tempo, in una serie di passi e punti di osservazione investigati:

«Ma adesso questo cielo e questo fresco sulla pelle / quest’aria pulita e queste poche nuvole / e questo chiacchiericcio di uccelli / e uccellini nei nidi, come un brusio, / in questo tardo pomeriggio di giugno / dove tutto sembra finito, e all’inizio, / e questo rumore di camion lontani / tra le voci degli uccelli, / rumori di un tempo che è questo tempo preciso / e tutti i tempi, insieme, / come se quest’aria tiepida, mite / li attraversasse tutti i tempi, li unisse».

Il transito dei nostri passaggi lascia la musica che resta come essenza vibrata e come intima e congiunta proprietà dell’essere. È il nostro andirivieni, la nostra prima linea, i rumori delle cose lontane, che recano in grembo il senso dell’ultimità conciliata di un mistero disciolto nel suo scorrimento azzurro e nella sua trasparenza:

«Lascia che sia, lascia che sia / non lo contrastare, / alla fine è questo cielo della sera / quello che resta, i rumori delle cose lontane / e questo colore pallido e luminoso insieme / acceso e bruno nello stesso tempo. / Alla fine quello che resta sono i rumori / delle cose lontane, che fanno i dolci, che passano, / alla fine quello che resta è il nostro passare, / essere passati e dover ancora passare, / questo rumore di fondo come il mormorio di un ruscello / o un chiacchiericcio sommesso, che ti concilia il sonno».

cieli-celesti-light-1-671x1024-671x1024Damiani C., Cieli celesti, Fazi, Roma 2016, pp. 164, Euro 18.

 Damiani C., Cieli celesti, Fazi, Roma 2016.

  • La difficile facilità. Appunti per un laboratorio di poesia, Lantana Editore, Roma 2016.

Galaverni R., Le buone cose di semplice gusto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 20 novembre 2016.

Langone C., Nel tempo del Natale profanato leggo le ultime poesie di Claudio Damiani, in “Il Foglio”, 21 dicembre 2016.

Gnerre A., Il laboratorio difficile e facile di Damiani, (https://www.rivistaclandestino.com/il-laboratorio-difficile-e-facile-di-damiani-di-a-gnerre/), 4 dicembre 2016.

Lombardi L., Tempo, Spazio, Terra. Damiani contempla, in “Il Tempo”, 19 dicembre 2016.

Perrella S., Svegliarsi in una notte del 2012…, in “Il Mattino”, 9 novembre 2016.

Il caso clinico di Anna O. in un contesto di neurocircuiti studiati con neuroimagine

di Nikos Makris, MD, PhD

Associate Professor of Psychiatry & Neurology, Harvard Medical School

15 novembre 2016

leggi in pdf Nikos Makris – Il caso clinico di Anna O. in un contesto di neurocircuiti studiati con neuroimagine

makris-nikos-140514Premessa Storica e Culturale

Nella traiettoria evolutiva che ha condotto alla definizione come un’ entita’ neuropsichiatrica, la sindrome da conversione (conversion syndrome) ha avuto varie denominazioni, dalla originale isteria (hysteria) della medicina ippocratica (Hurst LC: Freud and the great neurosis: discussion paper. J R Soc Med 1983; 76:57–61) e degli anni di Charcot (Charcot JM: Leçons du mardi á la Salpêtrière: policliniques, 1887–1888. Paris, Bureaux du Prográes Mâedical, 1887) e Janet (Janet P: The major symptoms of hysteria; fifteen lectures given in the Medical School of Harvard University. New York, Macmillan, 1907) a cavallo dei secoli 19 e 20, alla isteria da conversione (conversion hysteria) di Freud (Breuer J, Freud S: Studies on hysteria. London, Hogarth Press, 1956), fino all’ attuale termine di Functional Neurological Disorder (FND) (DSM 5.0 APA 2013) . Quest’ ultimo termine e’ tratto dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5) (Stone J, LaFrance WC Jr, Levenson JL, et al: Issues for DSM-5: Conversion disorder. Am J Psychiatry 2010; 167:626– 627). Bisogna precisare che FND e sindrome da conversione si usano come sinonimi nella letteratura neuropsichiatrica attuale. Nell’ ontologia propria del termine “isteria da conversione”, Freud rispecchiava principalmente la natura patogenetica della condizione patologica, vale a dire il concetto meccanistico che l’ idea affettiva si converte in un fenomeno fisico.

Perche’ lo studio di FND o sindrome da conversione e’ importante attualmente e perche’ merita una particolare attenzione la rielaborazione del caso di Anna O.?

FND e’ tuttora nel limite fra psichiatria e neurologia, in una zona poco definita delle neuroscienze. Anche se esiste una dibattito riguardo l’ incidenza e la prevalenza del FND, si e’ documentato che da 30 a 60% di nuovi pazienti in cliniche neurologiche presentano dei sintomi non interpretabili. Questa e’ una prevalenza alta (Carson AJ, Ringbauer B, Stone J, McKenzie L, Warlow C, Sharpe M (2000); J. Neurol. Neurosurg. Psychiatr. 68 (2): 207–10; Carson AJ, Best S, Postma K, et al: The outcome of neurology outpatients with medically unexplained symptoms: a prospective cohort study. J Neurol Neurosurg Psychiatry 2003; 74:897–900). Inoltre, si e’ documentato che negli Stati Uniti l’ incidenza di nuovi casi diagnosticati e’ 22 per 100.000 persone annualmente (Stefánsson JG, Messina JA, Meyerowitz S (1976). “Hysterical neurosis, conversion type: clinical and epidemiological considerations”. Acta Psychiatr Scand. 53 (2): 119–38) e si stima che nella popollazione generale siano tra 0.11% e 0.5% di soggetti con FDN (Tollison, C. David; Satterthwaite, John R.; Tollison, Joseph W. (2002-01-01); Lippincott Williams & Wilkins). L’ enorme sviluppo della tecnologia medica in generale e dei calcolatori in particolare, ha cambiato il nostro modo di percepire la natura ed a influenzato profondamente il modo con il quale pensiamo e ci comportiamo. In questo, relativamente recente cambio del paradigma scientifico e culturale (paradigm shift) e’ riapparsa concretamente la possibilta’ di investigare la psiche ed in particolare l’ inconscio applicando tecnologie nuove, specialmente la neuroimagine, e nello stesso tempo sviluppare ulteriormente delle tecnologie gia’ esistenti, come ad esempio la eletroencefalografia (EEG). Il caso di Anna O. come presentato da Joseph Breuer (Breuer J, Freud S: Studies on hysteria. London, Hogarth Press, 1956), e’ uno dei casi meglio descritti nella storia della neuropsichiatria seguendo una metodologia medica tradizionale che inizia dall’ analisi con una precisa e dettagliata desrizione della fenomenologia della paziente basata su anamnesi, esame neurologico ed valutazione psichiatrica, cercando di formulare una interpretazione patogenetica e, possibilmente, anche eziologica della condizione patologica. Una volta acquisita una chiara e comprensiva imagine clinica della paziente Breuer ha applicato il trattamento catartico sotto ipnosi ed a valutato e descritto in dettaglio le manifestazioni fenomenologiche della paziente come funzione del tempo. Dopo i due anni del decorso e risoluzione della sintomatologia della sua paziente, Breur a identificato dei fattori patogenetici della condizione patologica ed a concluso che il metodo terapeutico applicato, cioe’ il metodo catartico, e’ efficace. La ricchezza nei dettagli e la chiarezza della descrizione dei sintomi ed anche della loro evoluzione temporale, fa il caso di Anna O. un’ ottimo esempio per la interpretazione dei sintomi in un relazione alle ipotesi attuali che fanno riferimento ai neurocircuiti coinvolti. E’ intuitivo che casi di FND possono correntemente essere studiati usando metodi di neuroimagine (An Integrative Neurocircuit Perspective on Psychogenic Nonepileptic Seizures and Functional Movement Disorders: Neural Functional Unawareness; David Perez et al.; Clinical EEG and Neuroscience 1-12 @ EEG and Clinical Neuroscience Society (ECNS) 2014 (Review)).

Presentazione del caso clinico di Anna O. dal Dr. Joseph Breuer (Sigmund Freud and Joseph Breuer: Studies on hysteria. Penguin Classics/Penguin Books, 2004)

Anamnesi Il soggetto Anna O. era una persona completamente sana sia cognitivamente che emozionalmente prima della manifestazione dei primi sintomi. Aveva una leggera eredita’ di neuropatia ed alcuni casi di psicosi erano successi solo in relativi distanti. Una cosa importante e’ che Anna O. si trovava spesso in uno stato oniroide (day dreaming) durante la sua quotidianita’.

Sintomatologia Nei due anni trascorsi dall’ apparizione dei primi sintomi di Anna O. fino alla loro completa risoluzione (Giugno 1880 – Giugno 1882) sono state osservate le seguenti caratteristiche fenomenologiche cardinali:

L’esistenza di un secodo stato di coscienza era un elemento cardinale il quale inizialmente sembrava come una assenza passaggera o stato oniroide temporaneo, pero’ eventualmente si e’ strutturato come uno stato di doppia coscienza.

Specifici sintomi sono stati come segue, vale a dire disturbi della funzione del linguaggio a livello di produzione, con paraphasie e perdita della capacita’ di esprimersi nella lingua natia (cioe’ in Tedesco) che pero’ si e’ sostituita con la capacita’ di esprimersi in eccelente Inglese, paralisi del braccio destro con eventuale perdita della sensibilita’ somatosensoriale (anesthesia). Altri sintomi transitori sono apparsi come disturbi visivi e uditori, allucinazioni visive, delle contratture muscolari, tosse e disturbi della nutrizione.

Patogenesi Questa condizione sembra dovuta a due fattori principali, cioe’ al surplus di vivacita’ (energia vitale) del sogetto e la sua tendenza a trovarsi in uno stato oniroide (day dreaming) nella sua vita quotidiana.

Descrizione del metodo terapeutico applicato (“catarsi”) Durante ipnosi, I sintomi della condizione della paziente sono stai discussi tra il terapeuta e la paziente. Come risultato, I sintomi sono stati eliminati.

Fra arte e scienza

Anche se il metodo di Breuer, che e’ stato usato eventualmente anche da Freud nei suoi studi clinici, è efficace nel risolvere i sintomi isterici, la questione dei suoi fondamenti scientifici rimane aperta. E questo e’ principalmente perche’ non e’ stato chiarito il suo meccanismo d’ azione. Freud stesso ha affermato che I casi da lui illustrati sembrano come “delle novelle”, vale a dire tra arte e scienza riflettendo l’ essenza della natura della medicina (Sigmund Freud and Joseph Breuer: Studies on hysteria. Penguin Classics/Penguin Books, 2004).

Il modello dei sistemi biologici e dei neurocircuiti come endofenotipi nelle neuroscienze del comportamento e la loro importanza nella Psichiatria contemporanea Nel paradigma delle neuroscienze del comportamento attuali, i sistemi biologici che nel cervello sono rappresentati dai neurocircuiti sono considerati come l’ endofenotipo, espressione intermedia tra il genoma ed il comportamento (Gottesman II, Gould TD: The endophenotype concept in psychiatry: etymology and strategic intentions. Am J Psychiatry 2003; 160:636–645)(Hyman SE, Nestler EJ: The Molecular Foundations of Psychiatry. Washinton, American Psychiatric Press, 1993)(Breiter HC, Gasic GP, Makris N: Imaging the neural systems for motivated behavior and their dysfunction in neuropsychiatric illness; in Deiboeck TS, Kersh JY (eds): Complex Systems Science in Biomedicine. Heidelberg, Springer, 2006)(Towards Conceptualizing a Neural Systems-Based Anatomy of Attention- Deficit/Hyperactivity Disorder; Nikos Makris, Joseph Biederman, Michael C. Monuteaux, Larry J. Seid man; Dev Neurosci 2009;31:36–49).

Le varie funzioni cognitive, come il linguaggio, l’ attenzione, la memoria, la funzione esecutiva, l’ abilita’ visuospaziale oppure affettive, come la paura o la gioia ed anche le funzioni autonomiche, come la termoregolazione o la regolazione della pressione sanguinea, vengono prodotte e processate da neurocircuiti specifici.

Questo concetto sta’ rivoluzionando la definizione di malattia mentale e di conseguenza la Psichiatria contemporanea. In effetti, stiamo affrontando le malattie mentali come malattie del cervello ed in particolare di neurocircuiti specifici per determinate funzioni. Questi circuiti cerebrali e funzioni o dominii comportamentali possono essere alterati in diversi disordini psichiatrici. Per esempio la funzione o dominio di attenzione e’ alterato nel disturbo depressivo maggiore, la schizophrenia ed il disturbo bipolare. In base a questi concetti si e’ formulato il modello RDoC (Research Domain Criteria) che rappresenta un nuovo paradigma nella psichiatria attuale. A scopo illustrativo segue un esempio del modello RDoC.

immagine1L’ introduzione di questi nuovi concetti hanno influenzato profondamente anche il campo psicoanalitico ed hanno contribuito nella fondazione della Neuropsichoanalisi (Jaak Panksepp and Mark Solms; Trends in Cognitive Sciences; 2012). In breve, la neuropsichoanalisi e’ nata negli anni 1990 per riconciliare la prospettiva psicoanalitica con quella neuroscientifica nello studio della mente. Si considera necessario di basarsi su circuiti neuronali i quali processano eventi mental soggettivi come intenzionalita’ o agentivita’ (self-agency) (Jaak Panksepp and Mark Solms; Trends in Cognitive Sciences; 2012).

Studi attuali in soggetti diagnosticati con FDN (sindrome da conversione) e uso di neuroimagine

Il caso di Anna O. pare un caso esemplare per tracciare un trait d’ union tra il pensamento psicoanalitico tradizionale e la visione moderna basata sul modello dei neurocircuiti. Possiamo illustrare questo indirizzo di indagine utilizzando lavori pubblicati recentemente che hanno investigato due gruppi di sintomi in soggetti diagnosticati con FDN (syndrome da conversione), specificamente la disturbi funzionali motori e somatosensoriali unilaterali.

Ho scelto due lavori rappresentativi del gruppo di David Perez come segue. Nel primo lavoro utilzzando risonanza magnetica funzionale (fMRI) Perez el al. hanno studiato la connettivita’ funzionale in pazienti con crisi convulsive psicogeniche non-epilletiche (psychogenic nonepileptic seizures (PNES)) o disturbi funzionali motori (functional movement disorders (FMD)) (An Integrative Neurocircuit Perspective on Psychogenic Nonepileptic Seizures and Functional Movement Disorders: Neural Functional Unawareness; David Perez et al.; Clinical EEG and Neuroscience 1-12 @ EEG and Clinical Neuroscience Society (ECNS) 2014 (Review)).

immagine2

Riportano alterazioni funzionali in regioni importanti per processamento di emozioni, regulation, and awareness (perigenual anterior cingulate cortex/ventromedial prefrontal cortex [vmPFC], insula, amygdala [AMG]), controllo cognitivo (dorsolateral prefrontal cortex [dlPFC], dorsal anterior cingulate cortex, inferior frontal gyrus [IFG]), self-referential processing (temporoparietal junction [TPJ]/posterior cingulate cortex [PCC]/precuneus [Pr]), and motor planning (supplementary motor area [SMA]). Particolarmente importanti sembrano i neurocircuiti che coinvolgono il giro del cingolo anteriore, l’ insula, l’ amygdala e la corteccia dorsolaterale prefrontale.

Questi neurocircuiti vengono elaborati ulteriormente nel successivo lavoro come si vede nelle figure allegate (Motor and Somatosensory Conversion Disorder: A Functional Unawareness Syndrome? David L. Perez, M.D. Arthur J. Barsky, M.D.
Kirk Daffner, M.D.
David A. Silbersweig, M.D. J Neuropsychiatry Clin Neurosci 24:2, Spring 2012)

immagine3immagine4Dysfunction in the perigenual anterior cingulate cortex (pACC) and its subcortical connections (including reciprocal cingulate–amygdalar connections) results preferentially in impaired motivated behavior, motor control, and/or affect regulation. Dysfunction in posterior parietal cortex (PCC) and its subcortical connections results preferentially in impaired spatial and perceptual awareness, including aberrant forward modeling, motor intention awareness, and/or self-agency. Reciprocal cortico–cortical connections among the pACC, PCC, and the dorsolateral prefrontal cortex (dlPFC) facilitate interactions between awareness and intentional, cognitive control circuits. VM: ventromedial; DL: dorsolateral; NA: nucleus accumbens; VA: ventral anterior; LP: lateral posterior; MD: mediodorsal; LDM: lateral dorsomedial; V: ventral; A: amygdala.

Reciprocal connections are outlined among the perigenual anterior cingulate cortex (pACC), subgenual ACC (sgACC), orbitofrontal cortex (OFC), dorsolateral prefrontal cortex (dlPFC), insula, amygdala (A), and hypothalamus (H). Parallel ACC, dlPFC and OFC prefrontal-subcortical pathways (not shown) also require more exploration in the context of studies probing affective regulation in patients with functional neurological disorder (FND).

Conclusione

Il caso clinico di Anna O. in cui il metodo catartico fu applicato efficacemente nel trattamento delle sindromi da conversione, oltre al valore storico offre una descrizione fenomenologica di formidabile ricchezza e che puo’ servire come substratto per testare delle ipotesi di studi utilizzando metodi attuali di neuroimaging.

Una parte che ancora manca e’ la comprensione dei meccanismi neurobiologici che governano questo disturbo e rimane anche da chiarire il meccanismo d’ azione del trattamento psicoterapeutico.

Un’ approccio di ricerca come quello adottato in questo studio e che ha come scopo la identificazione dei neurocircuiti che stano alla base di sintomi specifici nei disturbi neurologici funzionali (FND) potrebbe condurre verso una più precisa definizione dell’ endofenotipo (biomarker) della sindrome da conversione e di conseguenza creare il ponte necessario tra il fenotipo comportamentale ed il genotipo di FND.

 

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Systems biology/neurocircuitry acts as an interface between the behavior/environment and genome/epigenome.

 

 

Miguel Hernández: l’assenza verticale

di Andrea Galgano 1 luglio 2016

leggi in pdf Miguel Hernández. L’assenza verticale

Miguel Hernández: l’assenza verticale

La poesia di Miguel Hernández[1] (1910-1942) rastrema il fondo della naturalezza più insolita, si appropria, attraverso un linguaggio annunciato e tellurico[2], del fondale raffermo dell’essere, cadenzando in un battito luminoso, la frequenza di una spezzatura ferita e di un gemito indomito. Affermare la potenza e l’abbandono di questa lucentezza in disparte, contadina e popolare, significa siglare un quaderno di guerriglia e superficie che ritorna all’origine incantata di un’appartenenza.

Se, dapprima, la centralità lessicale si dirige attraverso un ripristino agreste e materico di gioventù e ardore frammentato, successivamente il gesto poetico finisce per levitare «a favore di una riflessione che assume i caratteri soffusi di un accadimento interiore, dove s’impongono le presenze familiari della moglie e del figlio, uniche note positive di conforto e speranza. Il richiamo ossessivo di Josefina, come pure l’evocazione gioiosa del figlio, uniche note positive di conforto e speranza[3]».

La dilatazione dell’esistenza si afferma in una dizione autobiografica affamata ed intensa che attraverso la fatica, la desperanza, il lavoro e il sudore, pedinano lo scranno del futuro, del sangue destinato e della vita in attesa.

Giovanni Darconza, infatti, scrive:

Due le battaglie combattute da Hernández nel corso della sua vita. La prima contro le truppe franchiste e, più tardi, contro la prima fase della dittatura. In questa prima battaglia Hernández soldato è stato sconfitto e imprigionato. Ma anche rinchiuso fra solide sbarre troverà il coraggio di ripetere incessantemente: «Ata duro a ese hombre: no le atarás el alma». Sconfitto nel corpo ma mai nell’anima, nonostante le disgrazie e le sofferenze patite, lo spirito eroico del poeta di Orihuela conserverà fino all’ultimo la speranza di un futuro migliore se non per lui, almeno per il figlio nato all’inizio della contesa, e che Hernández riuscirà a vedere solo in poche occasioni. La seconda battaglia combattuta da Hernández fu molto più dura e insidiosa. Una battaglia più universale, che richiama alle armi tutti gli uomini di ogni nazione e fazione, e non è ristretta unicamente ad un preciso ambito geografico (la Spagna) né ad un determinato contesto storico (la guerra civile). Una battaglia combattuta contro nemici molto più infidi e pericolosi di Franco: il tempo e l’oblio. In questa seconda guerra Hernández è uscito alla fine vincitore[4].

La declinazione dell’assenza, celebrata nell’autobiografia intima[5] e quotidiana di Cancionero y romancero de ausencias[6], vive in un doppio eccesso: vita nella morte e morte[7], come limite e dolore ascensionale, nella vita, sviluppando l’estremità lessicale attraverso una ellittica e occulta trasposizione semantica che muove l’individualità nella storia collettiva[8] del mondo.

La singolarità è l’accesso dell’umano all’universale. L’animata traslazione lessicale, che tocca ogni spostamento metrico ed espressivo, nutre la sua poesia dionisiaca che spinge alla conversione della forza cosmica in passione “installata” nella punta del destino, come sostiene José Antonio Serrano Segura[9].

La verticalità dell’assenza, pertanto, coinvolge anche la cromatura sensuale della creaturalità femminile, vissuta attraverso lo spostamento metaforico dell’impossibile e dell’ inconcepibile[10]. È la ripetizione di una stanza che ricorda lo struggimento e la distanza degli occhi, della voce, del fiato, del corpo, della bocca e del raggio fragile e fatale che non termina, come qualcosa che tutto assomma e ingloba nel suo bene perduto e nel suo tatto in esilio[11].

Esiste un lungo posto di respiri scheggiati dalla mancanza ripetuta e della violenta rigenerazione: «Assenza ovunque vedo: / i tuoi occhi la riflettono / Assenza ovunque ascolto: / la tua voce suona a tempo. / Assenza ovunque aspiro: / il tuo fiato odora d’erba. / Assenza ovunque tocco: / il tuo corpo si svuota. / Assenza ovunque provo: / la tua bocca mi esilia. / Assenza ovunque sento: / assenza, assenza, assenza».

Laddove la fumosa condensazione del presente e del futuro eleva ogni minaccia funerea, Hernández ripone la sorgente del cuore dell’altro nel ventre[12], riconducendo, come afferma Gabriele Morelli, «il sesso alla sua centralità, secondo una concezione sacra e primitiva appresa dalla natura durante la sua esperienza di pastore[13]».

La musica sensoriale si concreta in una gravitazione percezione soffusa, nel porto confortato del presente, contro ogni lontana e indistinta confusione di fugacità, contro ogni oscurità che affiora dalle profondità rare e vane, per attestarsi nella salvazione amorosa e nello svelamento erotico: «Meno il tuo ventre, / tutto è confuso. / Meno il tuo ventre, / tutto è futuro, / vano, passato / sterile, oscuro. / Meno il tuo ventre, / tutto è insicuro, / tutto è ultimo, / polvere e nulla. / Meno il tuo ventre / tutto è oscuro. / Meno il tuo ventre / chiaro e profondo».

La densa costellazione gravida della distanza fa raccogliere all’universo la promanata storia di dense risonanze e gravitazioni, come commenta María Ortega Máñez:

Le parole si affilano come per cogliere la lacerazione del sentimento: da una parte il disamore, espresso con violenza dal giovane poeta, da un’altra parte l’amore, che muove sempre in Hernández da una realtà concreta, quella fisica. Le liriche amorose posteriori a El rayo que no cesa, ispirate quasi tutte dalla moglie Josefina Manresa[14], esprimono la gioia dell’unione con la disperazione della lontananza. Presente o assente, il corpo c’è, emanando una sensualità naturale, predicando l’essenziale materialità di ogni cosa […] Il corpo è infatti talmente integrato nell’amore e nella vita, che certe volte viene esaltato, facendogli assumere una dimensione mistica. In Io non voglio altra luce che il tuo corpo davanti al mio il corpo della donna irradia la luce che illumina il mondo e dà senso all’esistenza del poeta. Corpo e anima, desiderio e trascendenza fanno un tutto senza fessure, cosmico[15].

Il troncamento del tempo ha lampi nel petto che percorrono la nera prospettiva del viaggio, la mutilazione scura  e spezzata che entra addosso nella vita recisa in guerra e nella sospensione infranta: «Ogni volta più presente. / Come se un lampo veloce / ti portasse nel mio petto. / Come un lento, lento / lampo. / Ogni volta più assente. / Come se un treno lontano / percorresse il mio corpo. / Come se una nave nera, / nera».

Scrive Giuseppe Conte:

Miguel Hernández compose versi che sono abitati dal senso dell’assenza ma anche da amore, grazia, innocenza, e da immagini che saldano la condizione privata del poeta a quella delle forze della natura e del cosmo. Se la storia è il regno dell’orrore, il poeta, anche quando compie scelte militanti, vive in un regno antagonista, dove hanno voce il canto di un popolo e il canto del mondo, le visioni, i sogni, il balenare delle immagini più ardite[16].

Spesso la mutilazione si esprime attraverso una disorganica posizione di dettagli che uniscono grido e ferita, morte e ferita, strada e cuore cinereo. L’isotopia del poeta di Alicante è una gradazione di terra riarsa e desertica, come se fosse un urlo di bocca in disparte.

Nel territorio straniero che appartiene ai cani, il cuore resiste ancora in tutta la sua fertile lucentezza e dolcezza, come fulmine fecondo. È l’esito di una astralità sofferta che si espone e, allo stesso tempo, ritrae un mondo dialettico e complesso: «Bocche di rabbia. / Occhi in agguato. / Cani ululanti. / Cani e poi cani. / Tutto deserto. / Tutto riarso. / I corpi e i campi, / i corpi e i corpi. / Che brutta strada, / che cinereo / il tuo cuore, / fertile e dolce!».

La forma dell’assenza diviene suono ferito e specchio disabitato. Come se la voce fosse cinta da un grido speciale di camere solitarie e di foto aride nel vento, ancora una volta, cinereo: «Un vento cinereo / grida nella stanza / dove lei gridava / cingendo la mia voce. / Camera solitaria, / con il suono ferito / del vento cinereo / che grida tutt’intorno. / Specchio disabitato / Intimorita panca / contro l’arida foto, / letto senza calore».

La tragedia che compone il dramma delle terra è una appartenenza e una condanna, al tempo stesso. Concepire la segregata e irrigata Alicante, il lavoro contadino, il combattimento ultimo significa proporre la gemma di un dissotterramento che si espone alla luce, destinare l’inesorabilità alla maternità del principio e della fine alla soglia partoriente, così come alla penetrazione materiale che genera e rigenera il suo eterno ritorno e il suo sangue remoto[17].

Hernández avverte in modo inesauribile e preponderante il dolore della ferita sconvolta. In questo destino di dramma, di fame e di mancanza, la paternità e la dinamica affettiva esprimono una gioia tragica, come scrive ancora María Ortega Máñez:

Il sangue figura questa volontà di vita, è animo per chi combatte; ma allo stesso tempo, si tratta di sangue solamente quando lo si perde, quando si è prossimi alla morte, per le ferite o per la malattia. […] Sembrerebbe quasi che il sangue tracci questo vincolo fra vita e lotta di cui si nutre il tragico. E come il tragico, il sangue a volte si rovescia in gioia: l’immagine del sangue che sgorga si associa al germogliare dei fiori, alla primavera[18].

La disperata vitalità, espressa nei versi in cella, in cui egli legge la lettera della moglie che gli racconta di mangiare pane e cipolla e che il figlioletto inizia a mostrare i primi denti, determina la lacerazione disperata e splendente di una tensione luminosa. Un gorgo di parallele escoriazioni e veglie amorose. La cipolla è la fame, «il ridere è libertà, che «mette le ali», mentre i denti sono un’arma, «cinque minute ferocie». Il bimbo ride, sazio ed ignaro della triste circostanza: ecco la gioia tragica che vince l’abbattimento[19]»:

Nella culla della fame / il mio bimbo stava. / Con sangue di cipolla / lui si allattava. / Ma il tuo sangue, / brina di zucchero, / cipolla e fame. / Una donna bruna, / dissolta in luna, / si versa filo a filo / sopra la culla. / Ridi, bambino, / che ti porterò la luna / quando ne avrai bisogno. / Allodola della casa, / ridi molto. / Il riso nei tuoi occhi / è la luce del mondo. / Ridi tanto, / che la mia anima udendoti / vinca lo spazio. / Il tuo riso mi libera, / mi mette le ali. / Solitudine mi toglie, / carcere mi strappa. / Bocca che vola, / cuore che sulle tue labbra / manda scintille. / Il tuo riso è la spada / più vittoriosa. / Vincitore dei fiori e delle allodole. / Rivale del sole, / futuro delle mie ossa / e del mio amore[20].

O come l’immagine della guerra che tronca e uccide il campo dell’esistere, il grido-tremore delle madri, sollevando la fiamma dell’odio, chiudendo le porte all’amore, nelle bocche giunte come pugni, negli occhi spumati nel nero, per scomparire nell’ansia dilatata di un inganno di frontiere: «Il sangue percorre il mondo, / imprigionato, deluso. / I fiori si dissolvono / divorati dall’erba. / Ansia d’uccidere invade / la profondità dei gigli. / Ogni corpo desidera / di congiungersi ai metalli, / accoppiarsi, possedersi / in un modo terribile. / Scomparire: regna l’ansia / generale, dilatata. / Un fantasma di stendardi, / una chimerica bandiera, / un mito di patrie: un grave, / inganno di frontiere».

Lo strenuo combattimento con il cielo disanimato, l’aiuto contro il vuoto, il corpo ferito e insanguinato divengono la terra di corpi, soli e aurore da desiderare, un frammento d’ombra, un soffio sulla fronte spessa, un ventre di archi, dove ricercare il canzoniere del ventre remoto che possa offrire alla rarefatta, trasparente ed immediata coltre umana l’accensione dell’inciampo tra le nubi e la remota consistenza delle soglie.

In un germoglio abraso che cerca di rinvigorire, attraverso il suo appello, l’anima costernata delle disgrazie e delle passioni, l’incanto del corpo è luce sopravvivente, il pozzo, la palma ascendono ogni sradicamento e ogni congedo[21].

«Il pozzo e l’alta palma / affondano nel tuo corpo / abitato da ascendenze», scrive nel suo lungo romanzo di sperdute folate e ferite, rischiando la materialità per farsi primitivo vortice e anima affacciata sul corpo: «Non affacciarti / alla finestra, / che non c’è nulla in questa casa. / Affacciati alla mia anima. / Non affacciarti / al cimitero, / che non c’è nulla tra queste ossa. / Affacciati al mio corpo».

Lo sguardo della contemplazione unisce poli opposti, condensando il bacio in un angolo di corone e terra da inseguire fino allo zenit di ogni sguardo calato e vissuto. In essa si compie il silenzio delle distanze, l’accensione del ricordo, l’ombra solare, il silenzio delle fiamme e il freddo vestito dove arde il sangue e l’immagine rotta: «Di quell’amore mio, / che resta nell’aria? / Solo un freddo vestito / dove arse il sangue».

La primordialità tragica di Hernández trabocca in tutta il suo luminoso offuscamento, in tutta la sua lacerazione e smania fisica. Torna a baciare l’oggetto amato come uno schianto di precipizi ed eredità sprofondate, vissute in solitudine[22]: «Io tornerò a baciarti, / tornerò, cado, sprofondo, / mentre scendono i secoli / nei precipizi profondi / come ardente nevicata / di baci e innamorati. / Bocca che hai dissotterrato / con la tua lingua il mattino / più lucente. Tre parole, / tre fuochi hai ereditato: / vita, morte, amore. Sono là / sulle tue labbra impressi».

È l’esagerata e provvida sfrontatezza amorosa che spazza l’abisso e lo abita, gemendo nella materia controluce. La sfiorata trasparenza perfetta dell’alba del corpo che annuncia la vetta e il ponente dei fantasmi, sulla fronte, sulla bocca dell’elegia disperata e trasognata e, allo stesso tempo, feconda di lontananze dorate e neri sorsi di erbe scure: «Corpo chiaro, bruno di colore fecondante. / Erba nera l’origine; / erba nera le tempie. / Nero sorso sono gli occhi, lo sguardo lontano. / Giorno azzurro. Notte chiara. Ombra chiara che giungi. / Non voglio altra luce che la tua ombra dorata, / là dove germogliano anelli di un’erba scura. / Nel mio sangue, dal tuo corpo fedelmente acceso, / per sempre è la notte: per sempre è il giorno».

La rivelazione inedita del mondo sfiora e concentra la sostanza essenziale dell’essere e adunano, come afferma María Ortega Máñez:

questa realtà materiale – questa senziente carne aleteante –, catturano poderosamente tutta la vita intorno. Hernández mira al suolo che calpestano gli uomini, alla terra che solca l’aratro, allo scenario reale della vita e della morte, e questa realtà essenziale, fatta di «braccianti», «sudore», «cipolla», «bacio», «sangue», «fiato», impone le sue leggi. Forse è la ricerca di questa autenticità che rende la sua poesia così necessaria. […] La lingua di Hernández è tessuta con questo rude amore per la materia, travagliata da un’attrazione spasmodica per le cose[23].

Ecco cosa avviene in Il pesce più vecchio del fiume:

Il pesce più vecchio del fiume, / avendo egli accumulato / tanta saggezza, viveva / brillantemente oscuro. / E l’acqua gli sorrideva. / E tanto oscuro diventò / (per nulla l’acqua lo svaga) / che, dopo tanto pensare, / prese la strada del mare, / che poi è quella della morte. / Tu hai riso presso il fiume, / bimbo solare. E quel giorno, / il pesce più vecchio del fiume / si tolse il cupo sembiante. / E l’acqua ti sorrideva[24].

Lo sperpero di amore e disamore scandaglia presenze e assenze in una interruzione spasmodica[25]. La smisuratezza del dolore e del taglio umano, la demarcazione compagna dell’anima, il sentiero tacito delle viscere sdoppiano gli ampi gesti della vita e della morte, delle parti scure e fiammeggianti, del sorriso arrogante di fronte la pena e, infine, di tutto il ciglio della vita trascorsa.

Il vissuto è una riemersione di albe e tinte compiute che rappresentano l’inesausta ripetizione, la sofferta antitesi e la pronuncia chiusa di ciò che sbalestra l’intimo («Naufragi percorsero, / più profondi ogni volta / nei corpi, nelle braccia. / Inseguiti, sommersi / da un’enorme distesa / di ricordi e di lune, / di novembre e di marzo, / sbattuti si videro / come polvere lieve: / sbattuti si videro, / però sempre abbracciati») o come l’aia, conforto che accoglie il bacio dopo lo sparo sul monte.

In Figlio della luce e dell’ombra, l’intreccio primordiale dell’amore ha acme trascendente e visionarietà primitiva. L’immagine della donna amata trasfigura la forgiata ombra del potere lunare e femminile, e nella notte che getta la sua ansia avida di potere ed incanto, ella appare in tutto il chiarore notturno, nella vetta dei mattini e dei tramonti.

È il sordo incendio di scontri che abitano le palpitazioni dell’ombra, l’anima vagante, il nido chiuso che spinge verso la luce nascente, l’abbraccio e i baci-lampi, le bocche addosso e il letargo della terra commossa, fino al figlio che nasce dalle oscurità lucenti come semina di astri. Tutto culmina nella nascita dello zenit siderale, un abbraccio nuziale dentro il tempo che accomuna dolore e rigenerazione per tenere la vita in un abbandono di tenerezza, «vita, che grazie alla forza dell’amore, si eleva a trascendenza della carne liberata dal peso e dall’involucro di origine animale. In questa intensa rappresentazione della nascita, di concezione panica e lucreziana, è riflessa l’esperienza giovanile di Hernández vissuta nella conduzione del gregge familiare[26]»:

Vuole che ci gettiamo tu ed io sulle lenzuola, / tu ed io sulla luna, tu ed io sulla vita. / Vuole che noi bruciamo fondendo nella gola, / con tutto il firmamento, la terra commossa. / Il figlio è nell’ombra che accumula stelle, / amore e midollo, luna e lucenti oscurità. / Germoglia dalle sue indolenze e dalle sue cavità, / e dalle solitarie e spente città. / Il figlio è nell’ombra: dall’ombra è sorto, / e al suo nascere infondono gli astri una semina, / un succo latteo, un flusso di caldi battiti, / che spingerà le sue ossa al sogno e alla donna. / L’ombra sta muovendo le sue forze siderali, /  distende l’ombra le sue tenebre stellate, / e investe le coppie e le rende nuziali. / Tu sei la notte, sposa. Io sono il mezzogiorno[27].

La donna poi si avvolge nell’albore di un mattino cosmico. L’alba e il sole pronti a incontrarsi in una penombra socchiusa. Il corpo, ancora una volta, è il territorio dell’anima vibrata al centro della luce, la notte sembra addensarsi e scomparire in questa ora solenne, dove esplodono gli orologi e dove il ventre sta per annunciare la vita nel suo trono luminoso di panni e ombre.

Il cuore affiora nel respiro della nascita imminente, tacendo l’amore nel fiato di ciò che è addormentato e desto: «Non t’amo in te sola: t’amo nella tua gente / e in ciò che dal tuo ventre discenderà domani. / Poiché l’umana specie ho avuto in retaggio, / la famiglia del figlio sarà la specie umana. / Con l’amore sopra, addormentati e desti, / continueremo a baciarci nel figlio profondo. / e nel nostro bacio si baciano i nostri morti, / si baciano i più antichi abitanti del mondo».

La sposa e il figlio rappresentano la gemmazione vibrata di un tempo cosmico che rigenera e ridesta il tessuto sottile del mondo. Il miracolo dell’esistere e del vivente aggiungono la fragilità dolce della tenerezza alla epifania corporea e femminile della donna e all’impeto umbratile e ricolmo della venuta del figlio.

Tutto il tempo poetico concorre a un inseguimento di concretezza e nascita, per cui il tempo del rigoglio diventa alveare di latte e spuma, dolcezza di sangue, fecondità femminile in cui “seppellirsi” e diventare frammento indissolubile[28].

Afferma Gabriele Morelli:

Hernández canta ed esalta il corpo della donna che ha generato, descrive i seni materni come sorgenti che «lottano e si incalzano con bianche effusioni»; sente correre nelle sue vene «un rumore di latte, di piena, di nozze accanto a te, percorsa da flutti sonori». Teso sul suo corpo, ausculta il mistero della vita che nasce, ne descrive le profonde e riposte manifestazioni. I versi, ricchi di simboli e aromi della natura mediterranea, celebrano la sposa ed ancor più il corpo della madre che, dopo l’impeto d’amore, si apre al figlio[29].

Nelle prigioni, nei trasferimenti, nell’occlusione del mondo, nella malattia drammatica che lo conduce alla morte come un’ombra precipitata, il poeta avverte il potere della luce sepolta e di un’ombra senza fine: non esiste cielo o stelle, nemmeno stelle o corpi tangibili, l’aria non ha volo, ma solo la sommità di un lungo lutto di segni violacei e denti assetati di colore.

Tutto è mancante e soffocato nelle dense tenebre, senza trovare l’orma del giorno nei pugni serrati e nella lotta oscura di battiti sordi. È la lacerata promessa di un grido irradiato fino alla fine, come accade in Eterna Ombra (Eterna sombra):

Solo il fulgore dei pugni serrati, / lo splendore dei denti che scrutano. / I denti ed i pugni da tutti i lati. / Più delle mani, i monti si abbracciano. / Oscura è la lotta senza sete di domani. / E che distanza di battiti sordi! / Io sono un carcere con una finestra / su un immenso deserto di ruggiti. / Sono un’aperta finestra che ascolta, / dove vedo tenebrosa la vita. / Ma c’è un raggio di sole nella lotta / che lascia per sempre l’ombra sconfitta[30].

L’estrema lotta che si radica nella stanza interiore di Hernández si muove attraverso una duplicità di fronti, la capacità di soffrire, il presente della morte da un lato («Noi poeti siamo il vento del popolo: nasciamo per passare soffiati via attraverso i suoi pori e per condurre i suoi occhi e i suoi sentimenti verso le cime più belle. Oggi, questo oggi di passione, di vita, di morte, ci spinge in un modo imponente a te, a me, ad alcuni, verso il popolo. Il popolo attende i poeti con l’orecchio e l’anima stesi ai piedi di ogni secolo[31]»), e la carnale dilatazione della dismisura[32] dell’amore dall’altro, spaesando la memoria selvatica e segnando una feritoia di speranza che si spalanca verso una puntualità, sostiene Vicente Aleixandre,

[…] che potremmo definire del cuore: chi ne avesse avuto bisogno nel momento della sofferenza o della tristezza, lo avrebbe trovato al momento giusto. Silenziosamente, offriva la sua gentilezza e compagnia, e la sua parola veritiera, a volte una sola, creava un clima fraterno, l’atmosfera dell’intesa,  su cui la mente che soffre poteva riposare, respirare. Lui, nonostante i tratti duri, aveva la delicatezza infinita di chi non è soltanto veggente, ma ha un’anima grande. La sua pianta sulla terra non era l’albero che dà ombra e frescura. Per le sue qualità umane avrebbe potuto più di tutti i suoi simili, così affascinante nella sua naturalezza[33] (traduzione inedita di Irene Battaglini).

 

Bibliografia

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[1] Cfr. Hernández M., Obra escogida, prólogo de Arturo del Hoyo, Aguilar, Madrid 1962; Poesias completas, edición de Agustín Sánchez, Vidal, Madrid, Aguilar 1979; Poesie, a cura di Dario Puccini, Feltrinelli, Milano 1962.

[2] Cfr. Díez de Revenga, Miguel Hernández en la Estética del las Vanguardias y el 27, Universidad de Murcia, (http://www.miguelhernandezvirtual.es/new/files/07fcojav.pdf).

[3] Morelli G., Miguel Hernández: La vita, l’amore e la morte, in HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, a cura di Gabriele Morelli, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2014, p.7.

[4] Darconza G., La poetica dell’assenza nei versi di guerra di Miguel Hernández, in «Linguæ & – Rivista di lingue e culture moderne», 2, 2006, pp. 57-58.

[5] Cfr.Pérez Bazo J., Síntesis ética y estética de Miguel Hernández: Cancionero y romancero de ausencias, en Aa.Vv., Miguel Hernández. Cincuenta años después, T. II, Alicante – Elche – Orihuela, Comisión de Homenaje a Miguel Hernández 1993, pp.623-633.

[6] Hernández M., Cancionero y romancero de ausencias, edición de Josè Carlos Rovira, Lumen, Barcelona 1978, Alicante 1985;  Canzoniere e romanzero di assenze, a cura di Gabriele Morelli, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2014.

[7] Pazos Barrera J., La poesía de Cancionero y romancero de ausencias, in Aa.Vv., Homenaje a Miguel Hernández,  Embajada de España, Quito Ecuador, Ecuador 1993, p. 168.

[8] Rovira J. C., Cancionero y romancero de ausencias de Miguel Hernández: Aproximación crítica, Alicante, Instituto de Estudios Alicantinos 1976, p. 27.

[9] Cfr. Serrano Segura A., La obra poética de Miguel Hernández (http://jaserrano.nom.es/mhdez/).

[10] Rovira J. C., Léxico y creación poética en Miguel Hernández. (estudio del uso de un vocabulario), Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, Alicante 2000, p.133.

[11] Cfr. González Landa M.C., Estudio del Cancionero y romancero de ausencias de Miguel Hernández, Caja de Ahorros Provincial de Alicante, Alicante 1992.

[12] Nel suo memoriale Pablo Neruda scrive: «[Miguel] mi narrava quanto fosse impressionante poggiare il suo orecchio sul ventre delle capre addormentate. Così ascoltava  il rumore del latte che giungeva alle mammelle, il rumore segreto che nessuno tranne quel poeta di capre, ha potuto ascoltare», in Neruda P., Confieso que he vivido, Einaudi, Torino, 1998, p.151.

[13] Morelli G., cit., p.18.

[14] Manresa J., Recuerdos de la vida de Miguel Hernández, Colección nuestro Mundo nº 4, Serie:  Arte y cultura, 2ª Edición corregida y aumentada, Ediciones de la Torre, Madrid 1981.

[15] MÁñez M. O., Miguel Hernández. La circostanza e il tragico, in «L’ospite ingrato» (http://www.ospiteingrato.unisi.it/miguel-hernandez-la-circostanza-e-il-tragico/), 30 dicembre 2009, p.10.

[16] Conte G., La luce dei versi nel buio della prigione, in “Il Giornale”, 18 febbraio 2015.

[17] Cfr. Cano Ballesta J., La poesía de Miguel Hernández, Gredos, Madrid 1971.

[18] MÁñez M. O., cit., p.8.

[19] Id., cit., p.8.

[20] HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, cit., p.147.

[21] Cfr. Zamora G., Miguel Hernández, poeta (1910-1942), El Grifón, Madrid 1955.

[22] Cfr. Zardoya C., Miguel Hernández (1910 – 1942). Vida y Obra – Bibliografía – Antología, Hispanic Institute in the United States, New York 1955, p. 76.

[23] MÁñez M. O., cit., p.6.

[24] HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, cit., p.187.

[25] Cfr. Pérez Nereida L., Vivencia, emoción y mito en la poesía de Miguel Hernández, Universidad de Nueva York, Nueva York 1985.

[26] Morelli G., cit., p. 15.

[27] HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, cit., p.101.

[28] Cfr. Recio Mir A., La última estación poética de Miguel Hernández: símbolos y sentidos, en Aa.Vv., Miguel Hernández. Cincuenta años después, T. II, Alicante – Elche – Orihuela, Comisión de Homenaje a Miguel Hernández 1993, pp. 647-653.

[29] Morelli G., cit., p.17.

[30] Hernández M.,

[31] Id., Dedica del suo libro Viento del pueblo a Vicente Aleixandre.

[32] Balcells J. M., Miguel Hernández, corazón desmesurado, Dirosa, Barcelona 1975, p.202.

[33] Aleixandre V., Los encuentros, Espasa-Calpe, Madrid 1985, p. 194.

The Violent narcissistic identification: a psychodynamic process

di  Federico Tagliatti 16 maggio 2016

leggi in pdf The violent narcissistic identification

TagliattiI would like you to picture what the psychodynamic paths of violence explains within the narcissistic personality disorder. Starting by comparing the concepts of violence and aggression, then carrying out the functions of violence within the relational world of the narcissist and how these are used by means of projective identification and the role he play in the consulting room.
In order to clarify the water, the use I’m doing of the “violence” term, is strictly psychological and not referred to any fiscal behavior.

The aggressive type is a person controlling his impulses and acts only when forced and therefore becomes, for internal or external necessity, violent. Aggression is a natural tendency that has more to do with the instinctive apparatus without necessarily becoming violence. In fact, when an aggressiveness creates determination and creativity, we are dealing with a person’s adaptive function, something that allows the individual to maintain physical and mental stability.
Violence, however, is an interpersonal expressive form resulting from aggressiveness. As the main feature, the violence has the goal of physical or emotional injury of other people, which is why it may be a very interesting element for dynamic Understanding of narcissistic personality disorders.
We know that the forms of violence can be extremely varied but, the one I would like to analyze now, is the one that develops in narcissistic people and, in particular, the forms that can be seen within the analytic space. (I am not speaking of physical violence?)
Projective identification is a valuable interpersonal psychological process for seeing the dynamics of aggressive material within the subject, especially if the person is suffering from narcissistic
personality disorder. Path Ogden was one of the last interpreters and researchers who have examined the subject of projective identification. According to him, this is primarily a defense, but at the same time a way of communication, a primitive form of object relation, as well as a route to psychological change. We also know that the content of projective identification relates very closely to transference / countertransference dynamics (although there would be important distinctions to make) which are significantly important for the conducting of any analysis, in other words, projective identification is a mechanism that can allow us, probably, more than any other, to access and to understand narcissistic aggressive currents.
The aggressiveness that I intend to analyze is expressed by three different main channels. Each of these allows the subject to compensate for internal tension; therefore the aggressiveness is nothing more than a way that is unconsciously “selected” and its purpose is to bring the internal tension to a sustainable level for the subject, in order to avoid an unpleasant condition (Freud).
This view derives from classical theory; it reminds us that the object, in this perspective, is considered useful to play the role of “target” or for “giving expression to internal energies”.

According to H.Kohut (1971) the etiology of narcissistic disorder is a traumatic failure of the empathetic function of the mother and the negative effect of the development of the idealization processes; of course these traumatic failures cause an evolutionary arrest, and an endless search for an idealized self-object. The NPD, according to Kohut, could be a psychoanalytic diagnostic category based the transference, which reflects the patient’s effort to maintain self-cohesion. He called it the first “mirror” by relating it to the efforts made by the patient to capture any signal of admiration in the maternal gaze, and now transferred to the analyst. The other form of narcissistic transference Kohut describes is “idealizing” and consists in giving to the analyst such exaggerated values as to border on perfection.

From a structural point of view, according to Kernberg, the main differences between a narcissistic personality and other forms of character disorders, are the differences in operation of the ego ideal. Normally, the idealized images of the parental figures are condensed into a structure called the “ego ideal” along with idealized parts of themselves.
This process is then edited by the integration of a more realistic understanding of parental demands. However, in the narcissistic personality, this early fusion of the self with the ego ideal, with the subsequent devaluation of external objects and self image objects acts to protect the Self from primitive conflicts of an oral character and frustration (O.Kernberg , 1975).

In other words, the ego acquires a kind of omnipotence that should have been rightfully frustrated. To better these intolerable sensations, the narcissist, basically organizes his life as a network of
“satellites of nourishment” from which he draws the material he needs.
This network, which will represent an object to brag about like a collection of precious toys, will be powered by his denigrating and demeaning character behaviors and thoughts that in any case will
head to a common denominator: aggression. Violence in the sense of his devaluation of the other will be the glue between the narcissist and these same people from whom he is nourished in the sense that they admire him.
The devaluation of others and the emptying of the internal world of object representations, are among the causes that contribute to the lack of a normal self-esteem and that determine a strong inability to empathize with other people. It follows that the need to control others, while looking in every way to squeeze as much admiration from others as possible, is essential to compensate for the sense of inner vacuum.
In the relational world, the narcissist is constantly developing relationships of dependence on himself, and this operation’s main work is violence itself in the sense that I have been discussing it. Without this, such relationships never would form. The narcissist is an infallible hound tracking down admiring others. The narcissist is able to choose the right people who will drive him along his (emotional) and professional life.

wounds

I introduce now a metaphorical not original representation to express the image of an important psychological mechanism that helps us to deepen some passages of this argument. I will use the term “wound” to indicate a malfunction in the structure of the analyst’s self.
The analysis of an analyst also has the aim to dissolve the “particles” of life which have not been absorbed in the course of individual development. Of course, the result of the analysis itself, may achieve different outcomes and what we certainly
all hope, is that these knots are positively reshaped offering to the analyst important equipment that he cannot ignore when dealing with certain personality disorders. In the case of the narcissistic disorder, expecting a total transformation of these undigested parts is a utopian perspective, even in the best case. What we really have to aspire to, is that the particles are sufficiently absorbed to become scar tissue rather than wounds, that means, brittle structural parts
through which the link with the patient can become infected. What suggests the entrance of aggressive material through the analyst’s “wounds”?
The image of a wound, only serves to give us an idea of how pathogens that may come into contact with the body are not only of a bacterial or viral order, but also in the form of unconscious communication, so even the aggressive material, coming into contact with wounds, causes the body to mount a defense. The consequent defenses of the therapist would be interpreted by the patient as a rejection and fear; eventually these feelings would come back to the patient dangerously reshuffled with its originally projected material.

In the consulting room

What happens in the consulting room is often an amplification of wounds. The narcissistic patient will feel the highly unbalanced relationship since Its structure allows him to mount a relational attack. If in this case the analyst is sufficiently free of “wounds”, a “constructive metabolic process” of “aggressive fragments” projected by the patient can occur.
As we know, one of the dynamics underlying the narcissistic disorder is precisely the need to acquire, via other people, a kind of admiration that could be described as “higher quality” or unconditional. An admiration that performs the function of real nourishment.
It is also important that this admiration has a definite quality to the narcissist, he will be able to choose it on the basis of his taste and his own personal experience comparing people who have qualities to offer him. Moreover, this admiration should be able to match the fantastic expectations developed by the narcissist. Then it will be considered more valuable and therefore sought carefully.
The specific relational qualities sought by the narcissist in the other, if obtained in the consulting room, would lead to an extremely disappointing outcome for the results of an analysis.
In fact, even within a therapeutic relationship, the narcissist will go testing the waters in search of what interests him more. I will try to show how he can get it.
In the consulting room, the patient is able to establish a relationship through projective identification.
The self representations and devaluing the object are split and projected. In this case we therefore expect a kind of transfer of primitive object relations and then defensive actions characteristics of the stages preceding object constancy.
This function can be conducted in the right direction, but depends largely on the ability to “feel” of the analyst.
Projective identification always keeps its main function of defense, that is a process through which the subject can exclude parts of the self that are frightening or irreconcilable. The therapeutic relationship can go back to being a primitive form of object relationship allowing the patient to relate to a separate part object.
In this case it is very important that the analyst has largely solved these aggressive cores closely linked to its internal objects (or parts thereof), otherwise, these “blind spots” of the analytical process will progressively widen to compromise the entire operation of the analytical process.
Through what we call reinternalisation (considered by Ogden the third and final phase through which projective identification develops), we can create structural change within the individual self
through active modification of the Self links with objects, thus favoring a decrease in libido investment in the ego ideal.
This is done through work of feelings and emotions against which the person is struggling. Part of the projection means that these feelings are grafted into a host who can process them and return them in an entirely different way. None of this happens through a person actually seen as separate, but through the self projected into another, and by maintaining contacts with him as though he were someone else (Steiner,1993). The patient’s omnipotent defenses are constantly used to secure his confidence and his needs. In this way, the analyst finds himself continually threatened by devaluing aggressions of his worthlessness and the patient’s lack of sense of the whole process.
We now take a step in a different direction and try to understand what are the normal flows of expressive violence, because what we are trying to do is to have a clearer perspective on the pattern of narcissistic violence. We have seen that aggression is a principle instinctively present in all people. This can take different forms of expression, including violence, but the violence of which we speak, fundamentally, can move in directions that convey it either inside or outside the individual.
In case of aggression directed at themselves, the target of aggressive attacks are those internal objects that are not integrated with the rest of the self and have thus remained detached, completely incomprehensible and inappropriate for the functioning of the rest of the structure of personality.
To obtain displacement instead of violence, the involvement of projective identification is important.
In all its forms, violence implies the presence of a victim, and then of a target on which the “aggressive fragments” are to be projected. As I said, these fragments may be driven out only under certain structural conditions: the personality is one of the consequences of the development of the self that provides a vector to vent aggression. Unconscious management of the metabolic pathways of aggressive fragments may take different forms.
The combinations of psychological factors behind aggressive behavior are potentially infinite, but one can, from my point of view, recognize three channels of aggressiveness that I will describe.

The aggression management channels

1 The aggression management through the first channel, takes place within the individual by means of fantasized aggression against those objects experienced as irreconcilable and dangerous. This is a management that could be called healthy because the individual is automous in the management of the static produced by the environment in which he lives. Thus, he does not need to borrow that skill from others, as does the narcissist.

Aggression may be fantasized and managed in this way only through a computer-like system that is part of human cognition (?) in ways entirely self-sufficient.
Just as in childhood developmental stages described by Klein, the adult maintains the ability to attack his own thinking through aggressive Fantasy.
This implies the presence of a pre-existing structure of the self sufficiently able to handle this type of material, a metabolic apparatus capable of tension reduction through imagination. In this way, the aggressive material is in a sense “attacked” by the imaginative function to obtain the reduction of the strong internal tension that this would continue to exert otherwise.
For example, observing the work of M. Klein, we know how the baby plays is a function necessary for the understanding of many elements of the reality that surrounds him. The acquisition of the “as
if” structure takes shape in the years in which play takes the place of actually providing the child a real artificial experimental laboratory where the endless internal realities are merged with the various ingredients of the external reality. The alloys that will come out as a result of the early years of play, and then interaction with the surrounding environment. This will be the same material with which the child plays, literally building structure. Play is one of the child’s ways to project out of more or less animated objects, a whole series of aggressive hypotheses that must be tested before using on human subjects.
During growth, the individual works with aspects of aggression that can be, through fantasy, deposited in another person, so that he does not notice that he had lost the connection both with himself and with the other person (T .Ogden p22).
The acquisition of this information allows the child to integrate new information with previous information obtained “in his laboratory” -. This experiential aspect is developed in every individual, either through experience from the environment, which through fantasy, freely attacks the objects that make up his inner world. What, for structural causes of the Self, cannot be processed internally, automatically reaches the level of inner sublimation or external action.

2 In the second channel, the aggressiveness is not able to find a way so that the drives can be processed in an appropriate manner, because the structures that should be developed within the Self do not exist, or are not sufficiently developed to allow reduction of tension.
In this case, both the real experiences and those imagined contribute in creating a state of tension that cannot be relieved due to the lack of mental structures that enable sublimation, which in turn, brings comfort.

It is important to remember that violence is almost always the basis of the trauma, and one of the consequences of the trauma is a deficiency in the formation of the Self structures able to manage an attack, so that’s why childhoods spent in violent environments, in our case we use the term “denigrating violence”, are the reason some individuals are incapable of creating interpersonal relationships based on love and affection.

3 In the third channel violence is ousted projective identification. This mental function is developed by the individual to get rid of emotions that do not fit in the object relations of the person’s system, they are expelled as “aggressive splinters” to settle in a host organism through his wounds. At this point it is important for the narcissist to play all the cards at his disposal so that he can establish a lasting relationship with the person hosting his projections. In this way, the experience can translate into unconditional admiration. Ogden identifies this step in projective identification with the term “interpersonal pressure”.
Managing the transference aspects of a therapeutic relationship linked to narcissistic dynamics is perhaps one of the most complex realities that we face in the space of a psychoanalysis.
Freud, based on the economic model that emphasized the importance of mental energy and instinctual investments, had come to the conclusion that patients suffering from narcissistic disorder were not analyzable because they could not develop the typical features of the transference neurosis. Many narcissistic patients appear in fact not involved for a long time with the analyst, contrary to what happens in neurotic patients. Only recently have clinicians understood that the apparent lack of transference of these patients is the characteristic transference itself. (Brenner, 1982)
This professional challenge is made even more complex if there are unresolved narcissistic nuclei in the analyst.
The analyst’s useful role in the consulting room may be at risk if he was not previously able to address and resolve sufficiently his own narcissistic issues.
The importance of solving the narcissistic aspects present in the analyst is the basis of his future ability to feel empathically, and empathy is one of those tools undeniably recognized as fundamental, so that we could call it essential for the smooth conduct of therapy. For the narcissist
it is extremely difficult, almost impossible, to relate to others with a positive empathy. However, he badly needs the positive empathy of the analyst. I do not think it is correct to say that the narcissistic patient is free of empathic tools. It is more appropriate to emphasize that empathy is one of the narcissist’s abilities, enabling him to experience the emotional state of those who come into contact with him, but the use that he makes of this information is solely and entirely in his favor.
So, it is quite normal to expect aggressive behavior of the devaluing type at first, in a session as well as in any relationship of his extra-analytic life.
Devaluations are certainly the behaviors which the narcissist knows best and benefits from. Devaluations that protect his satisfaction and survival, are nothing more than projections from aggressive splinters of which I spoke earlier.
The “patient request” in the narcissistic analytical framework is to have a certification of his grandeur, you are to restore cracked tools that allowed him to create and maintain the network of nourishment.
The screened material can enter the therapist through two roads:
1. Through the access route he has developed through clinical experience.
What the analyst needs to do is to handle the projected material via his own skills, to produce constructive change.
2. Through the “wounds” I mentioned above, genetically previous to his own analysis but that the analysis has not been able to suture in an adequate manner.

conclusions

The analyst’s ability to “feel” what can be a role or a thought that does not belong to him, and having developed the functional capacity for empathy in his analytical role is the basis for the recognition of the aggressive material projected by the narcissistic patient. Through the ability of this analytical sensing, we can more clearly trace the movements of aggression in both the intrapsychic dynamics of the person, and the interpersonal.
In the interpersonal reality of people with NPD, aggression has a well-defined communicative function, so it is necessary for therapists to recognize, intensity, nature and origin to untie themselves from the usual defensive reactions that would be raised. We also need to ask ourselves how we can get intimately in touch with this flow of important information, how to use it, and what tools we need to be able to investigate them and especially how to sharpen them.
We have seen that encouraging the development of the empathic ability of the analyst may be a condition that can make the difference between a success or a failure of the treatment, and perhaps this aspect needs to be deepened and made more and more receptive. you can accomplish this only in the analyt’s personal analysis time.
This may allow the analyst to isolate the expressive paths of violence within the consulting room maintaining a restraining-processing position of the projected material meaning that the analyst does not force to own the projected material. It is useless to get rid of a hot potato that we can not handle.

References

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• Bolognini, S. (1997). Empathy And ‘Empathism’. Int. J. Psycho-Anal.,
78:279-293.

Downtown: 180 poems about American and Canadian cities

Downtown on www.aracneeditrice.it

Catalogo delle Biblioteche

8930 copertina-page-001“Downtown” is a detailed journey of poetry and art across the United States of America and Canada, in all their variety and charm. Geography of the large landscapes, great cities, the freedom of the places that host the sky, shape the existence and define the living space of the human condition. Andrea Galgano’s poetic trip, enhanced by Irene Battaglini’s pictorial osmosis, who, through her paintings, gives breath into the verses touching them, is the sign of a surprise and astonishment that fascinate.
The work consists of four “quadrants” in which pour two hundred poems, divided by twenty pictorial tables with informal and expressionist matrix. Polychromy and power of light, looking in every city brushed or crossed, give back sensitivity and penetrate with force and power of expression in the magma of the texts that intertwine perfectly, renewing it, the endless fascination of America, crossing of oxymoron and beauty.

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NYC Serenade, particolare
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Miami, sera
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Chicago’s storm, la nebbia della memoria
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Mississippi, New Orleans, 2005
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La luce bandita, Los Angeles

 

Rassegna stampa

Recensione a Downtown di Maria Pia Di Blasio, Le Cronache Lucane, 17.02.2016

Recensione a Downtown di Maria Pia Di Blasio, Le Cronache Lucane, 17.02.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

Intervista di Virginia Cortese su Controsenso Basilicata, 20.02.2016

Intervista di Virginia Cortese su Controsenso Basilicata, 20.02.2016

 

 

 

 

 

 

 

Intervista di Emanuele Pesarini, Dowtown: Il viaggio poetico di Andrea Galgano alla ri-scoperta del continente americano

Andrea Galgano su www.talentilucani.it

TG7 Basilicata

Recensione di Samuele Liscio su Retroguardia 2.0

Recensione di Samuele Liscio su La Poesia e lo Spirito

Recensione di Samuele Liscio su Paperblog

Articolo di Francesco Potenza su La Gazzetta del Mezzogiorno, 31 marzo 2016

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Articolo di Francesco Potenza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 31 marzo 2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Downtown on La presenza di Erato

Notiziario CDP Pistoia, marzo-aprile 2016

recensione di Angelo Parisi  Downtown: l’urgenza della Verità e il giardino segreto svelato

Brooklyn Bridge, rubrica: Versi DiVersi a cura di Antonetta Carrabs su Ora, 20 gennaio 2017 (2 febbraio 2017) tiratura 100mila copie

Ambrosia e Poesia. Il blog di Antonetta Carrabs – VERSI DIVERSI rubrica di poesia di Antonetta Carrabs su ORA

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Brooklyn Bridge, Rubrica Versi DiVersi, a cura di Antonetta Carrabs, Ora, (20 gennaio 2017), 2 febbraio 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Motel California – Andrea Galgano

WTC – Andrea Galgano

Florida- Andrea Galgano

Presentazioni

Potenza, 6 febbraio 2016

Comune di Potenza

6.02.2016 DOWNTOWN POTENZA

 

Il Quotidiano della Basilicata, 3.02.2016-page-001

 

 

 

 

 

 

 

Il Quotidiano, 3.02.2016

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Il Quotidiano della Basilicata, 4.02.2016

Il Quotidiano della Basilicata, 5.02.2016

 

 

 

 

 

 

Il Quotidiano della Basilicata, 5.02.2016

Il Quotidiano della Basilicata 6.02.2016

 

 

 

 

 

 

Il Quotidiano della Basilicata 6.02.2016

Controsenso Basilicata 6.02.2016

 

 

 

 

 

Controsenso Basilicata 6.02.2016

In Arte 9.02.2016

 

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Prato, 18 febbraio 2016

Polo Psicodinamiche, poesie e colori Made In Usa

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Lettura “Versi Nudi- Concerto di Parole”, Potenza, Cibò, 8 novembre 2016

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I cristalli fluidi di Kandinsky

di Irene Battaglini 25 dicembre 2015

leggi in pdf I cristalli fluidi di Vassily Kandinsky

Io sono consapevole di un mondo che si estende infinitamente nello spazio, e che è stato soggetto ad un infinito divenire nel tempo. Esserne consapevole significa anzitutto che trovo il mondo immediatamente e visivamente dinanzi a me, che lo esperisco. Grazie alle diverse modalità della percezione sensibile, al vedere, al toccare, all’udire, le cose corporee sono qui per me. […] La realtà la trovo come esistente e la assumo esistente, così come mi si offre. Qualunque nostro dubbio o ripudio di dati del mondo naturale non modifica affatto la tesi generale dell’atteggiamento naturale.

Edmund Husserl

Io sono io e la mia circostanza.

José Ortega y Gasset

 KANDINSKY BABY PORTRAIT

Il profilo cromatico e la rimozione della figura classica nell’opera pittorica di Vassily Kandinsky[1] sovrastano in termini di notorietà il suo spessore di poeta, esteta, filosofo e psicologo dell’arte. Fu uno studioso raffinato, che mise a fuoco numerosi esempi di come la psicologia dell’arte possa essere considerata una scienza a tutto tondo, postulando la nascita di una vera e propria “Scienza dell’Arte”[2]. I suoi scritti più noti, come Lo spirituale nell’arte, sono stati ampiamente analizzati e molti esegeti hanno apprezzato la vastità, l’acuzia e l’originalità del portato critico di Vassily Kandinsky.

La psicologia dell’arte ha un suo proprio spazio, dotato di ricche elaborazioni, negli scritti e nelle opere di Kandinsky, ad esempio in riferimento alla dinamica scomposizione-ricomposizione, in cui la Gestalt sembra il frutto di un ribaltamento, una reversibilità della figura postulata da Rubin (1921)[3], ovvero la misura propria dell’intelligenza fluida del russo non applicata unicamente alla forma, come sarebbe intuibile, ma alla sovversione del rapporto tra figura e sfondo, una sovversione fenomenologica dei contenuti e dei colori che divengono invisibili soggetti ricchi di contenuto,  per la via della forma e non solo per la via dello sfondo. È difatti paradossale, a ben pensarci, che a dominare la figura sia lo sfondo, e che siano le variazioni dello sfondo a determinare i rapporti tra le figure, e non già la figura con i suoi confini “di fatto”, a determinarsi. Infatti, il secondo principio della Psicologia della Gestalt[4] enuncia che “una stessa parte del campo percettivo, inserita in due totalità diverse, può assumere caratteristiche diverse”, con il corollario che “una stessa parte del campo percettivo, inserita in due totalità diverse, può assumere caratteristiche diverse”.

Con Kandinsky assistiamo ad una sintesi elegantissima di quella che Kanizsa[5] avrebbe definito una “grammatica del vedere”, frutto di un immane lavoro di cesello del pensiero e delle immagini, a voler sciogliere la cristallizzazione empirista della pittura tradizionale, in cui l’apprendimento è frutto di una stratificazione di esperienze avvenute nella storia passata, evidenziando invece come il tutto delle qualità formali sia più della somma delle parti.

Kandinsky discute empiricamente le leggi della produzione, della fenomenologia e della percezione della forma, e lo fa imbastendo e rimescolando all’infinito i cromatismi geometrici simili ai grafemi di un antenato geniale che si trova a rifrangere la luce attraversando una cascata di cristalli, che fluttuano in un silenzio dormiente di punti muti, in attesa di uno spettatore che dia loro voce, se solo è disposto a spingersi un poco più oltre:

L’opera d’arte si rispecchia sulla superficie della coscienza. Essa sta al di là e si dilegua dalla superficie, senza lasciar traccia, appena scomparso lo stimolo. [Anche in questo caso] c’è una specie di vetro trasparente, ma saldo e duro, che rende impossibile il diretto rapporto interno. Anche qui abbiamo la possibilità di entrare nell’opera, di divenirne parte attiva e di vivere con tutti i sensi la sua pulsazione.[6]

Il movimento desiderante dell’anima di questo pittore russo sembra convergere, al pari di una linea retta che sfugge ad un minaccioso condizionamento cartesiano (come accade in molte delle sue opere in cui sintetizza le coordinate del campo pittorico in una danza di elementi primari che si muovono sul registro dei “principi di unificazione formale”[7]), verso una identità intuitiva, che si costella intorno ai suoi 30 anni:

1896. Risalgono a quest’anno tre eventi decisivi che determineranno una radicale svolta della vita di Kandinskij. A Mosca, a una mostra dedicata agli impressionisti francesi, rimane fortemente colpito dal quadro di Monet I Pagliai che gli fa intravvedere per la prima volta la possibilità di slegare la pittura dal vincolo della rappresentazione; Henri Becquerel scopre la radioattività, la divisibilità dell’atomo, fatto che incrina la fede del giovane Vasilij nella scienza e nella solidità stessa del reale; al Bol’šoj assiste alla rappresentazione del Lohengrin di Richard Wagner, grazie a cui intuisce la corrispondenza tra suono e colore, tra musica e pittura.[8]

Una peculiarità dell’opera di Kandinsky è di non essere connessa alla memoria del passato, ma di costituirne una metamemoria in ordine alle sue scelte e alle sue scoperte:  egli vuole testimoniare una scelta di metodo, non raccontare una storia di oggetti o di persone bensì l’incisione di una «vibrazione spirituale» che aspira a diventare percetto in un rapporto isomorfico tra struttura e sensazione, ed è questa sua predilezione per l’atteggiamento di ricercatore d’azione alla maniera di Kurt Lewin che ne fa un uomo di una psicologia rigorosa, in grado di guardare il mondo con gli occhi di un bambino, da vicinissimo, da lontanissimo, da prospettive insolite, laterali, divergenti, dall’angolazione di una “stanza di Ames”[9], da una sorta di profilo oltre la figura, che fa da sfondo allo sfondo ergendolo a protagonista in un’altalena di orizzonti apparenti, misurando questo universo di microcosmi viventi in base alle catene causali che si offrono alle scienze naturali, in cui i parametri si influenzano reciprocamente sulla scorta dei rapporti interni tra le variabili (che sono gli oggetti fluttuanti nell’universo della tela) che agiscono nel  campo di indagine, che è in definitiva il campo della percezione. In questo gioco dialettico ha pieno campo la facoltà immaginativa in rapporto alla fantasia, come dimensione propria dell’analisi critica delle emozioni dell’arte, suffragata dalla lettura alta che ne dà De Sanctis:

La fantasia è facoltà creatrice, intuitiva e spontanea, è la vera musa, il deus in nobis, che possiede il secreto della vita, e te ne dà l’impressione e il sentimento. L’immaginazione è plastica; ti dà il disegno, ti dà la faccia: “pulchra species, sed cerebrum non habet”;[10] l’immagine è il fine ultimo in cui si adagia. La fantasia lavora al di dentro, e non ti coglie il di fuori, se non come espressione e parola della vita interiore. L’immaginazione è analisi, è più si sforza di ornare, di disegnare, di colorire, più le sfugge il sostanziale, quel tutto insieme, in cui è la vita. La fantasia è sintesi: mira all’essenziale, e di un tratto solo ti suscita le impressioni di persona viva e te ne porge l’immagine. La creatura dell’immaginazione è l’immagine finita in se stessa e opaca; la creatura della fantasia è il “fantasma”, figura abbozzata e trasparente, che si compie nel tuo spirito. L’immaginazione ha molto del meccanico, è comune alla poesia e alla prosa, a’ “sommi” e a’ “mediocri”; la fantasia è essenzialmente organica, ed è privilegio di pochissimi che son detti Poeti.[11]

in ossequio all’enunciato di von Ehrenfels per cui fantasia e intelletto contribuiscono entrambi alla genesi delle qualità formali, grazie all’opera dell’attività psichica che è in grado di integrare le informazioni nei loro rapporti di somiglianza e semplicità[12].

KANDINSKY 2Le ipotesi di apertura di faglie disegnano architetture dagli interni abitati dal futuro (a paventare un esito che trova il suo epigono in Lucio Fontana), le forme dispiegate in piani – a mimare quei volumi di cartoncino pretagliato con cui i bambini in età prescolare apprendono la coerenza strutturale tra piano e profondità, e che ricordano le misteriose veline tratteggiate dalle sarte – comunicano la necessità di difendere la pittura nella sua interezza bidimensionale, nella sua congruenza di argomenti che sono forme, colori, sfondi, punti-linee-superfici (come farà anche Paul Klee), senza mai abdicare ad una posizione di sudditanza tra linguaggi, anzi mettendoli in comunicazione, e diventando noto per i suoi studi di sinestesia. Scriverà a questo proposito lo stesso Kandinsky:

L’opera d’arte consiste di due elementi: – quello interiore, e – quello esteriore.

L’elemento interiore, preso a sé, è l’emozione dell’anima dell’artista, che (al pari del tono musicale concreto di un determinato strumento, che costringe a far vibrare assieme a sé il tono musicale corrispondente di un altro strumento) suscita una vibrazione corrispondente nello spirito di un altro individuo, il ricevente. Allo stesso tempo, dal momento che l’anima è connessa al corpo, essa normalmente può recepire ogni vibrazione solo tramite i sensi, che sono il ponte tra l’immateriale e il materiale (nell’artista) e tra il materiale e l’immateriale (nello spettatore).

Emozione – senso – opera – senso – Emozione.

La vibrazione spirituale dell’artista deve [perciò] trovare, come mezzo d’espressione, una forma materiale atta a essere recepita. Questa forma materiale è il secondo elemento, cioè quello esterno, dell’opera d’arte.

L’opera d’arte è una connessione di interiore e di esteriore, unita indivisibilmente, necessariamente, ineluttabilmente: cioè una connessione di contenuto e forma.

Le forme «casuali», disseminate per il mondo, suscitano una famiglia di emozioni a loro inerente. Questa famiglia è così numerosa ed eterogenea che l’azione delle forme «casuali» (ad esempio, quelle della natura) ci si presenta altrettanto casuale e indefinibile.

Nell’arte, la forma viene definita invariabilmente dal contenuto. Ed è corretta solo quella forma che esprime, materializza conseguentemente un contenuto. […] La forma è l’espressione materiale di un contenuto astratto.[13]

Elementi, quelli sulle tele di Kandinsky, che si inseguono sulla traiettoria animate da vita propria, sorretti da contenuti che si danno in quanto realtà cogente, tangenti all’orizzonte eppure libere, vaganti eppure ancorate, e che si innalzano orgogliosamente vive, univoche, dolcemente galleggianti:

Le altezze e i ritmi dei suoni in continuo mutamento avvolgono gli uomini, salgono turbinosamente e cadono all’improvviso paralizzati. Allo stesso modo i movimenti avvolgono gli uomini, li circondano – un gioco di tratti e linee orizzontali, verticali, che attraverso il movimento si volgono in direzioni diverse, macchie di colore che si ammucchiano e si disperdono, che danno un suono ora alto, ora profondo. [14]

Figure che non chiedono ascolto e nemmeno vogliono dire, “stanno”, e come atto psichico primigenio costituito nella sua stessa “ragione vitale”,[15] umano e riflettente la cosa umana, non si sottraggono alla conoscenza dell’interiorità che si realizza attraverso l’incontro tra «i modi di essere, di apparire, di esistere».[16]  Sostiene Ortega y Gasset (in Il tema del nostro tempo, 1947):

La condizione dell’uomo è, in verità, stupefacente. Non gli viene data né gli è imposta la forma della sua vita come viene imposta all’astro e all’albero la forma del loro essere. L’uomo deve scegliersi in ogni istante la sua. È, per forza, libero.

E dunque le forme del pensiero di Kandinsky, prima ancora di quelle pittoriche, ambiscono a far della necessità visuo-spaziale una condizione essenziale per raggiungere la libertà “per forza”: non forzatamente, ma con la forza generata dalla prigione-crogiuolo del materiale, del concreto, con le sue limitatezze irriducibili.

«Per anni e anni ho cercato di ottenere che gli spettatori passeggiassero nei miei quadri: volevo costringerli a dimenticarsi, a sparire addirittura lì dentro»[17]. Le forme sulla tela, in quella sua pittura che egli stesso ebbe a definire “astratta”, si rincorrono come dadi in un effetto domino a ritroso, costringendo lo spettatore a inciampare in un mondo molteplice, in cui la realtà potesse offrirglisi secondo la sua “prospettiva individuale”[18], quasi travolto da una vertigine di libertà immaginativa, disorientato dal modo in cui egli usa la linea, in qualità di frazione di una retta che protende da e verso infinito, il cui unico stigma identitario è dato dall’intersezione –  dall’ “incontro” cui fa riferimento la fenomenologia di Buytendijk – : sia come soggetto dotato di autonomia, sia come oggetto di confine per arginare il magma della materia cromatica.  L’artista non affronta la pittura, bensì elabora la sua identità di pittore attraverso tre grandi gruppi di opere – “impressioni”, “improvvisazioni” e “composizioni” – che segnano la distanza da un figurativo che non riuscirà più a soddisfare la tensione di Kandinsky verso una ricerca che mai si compie, a sancire la sua adesione ad una eterna modernità, quasi attraccandosi ad un futuro che si sposta di continuo:

È stupenda quell’opera la cui forma esteriore corrisponde perfettamente al suo contenuto interiore (il che, del resto, è un ideale eternamente irraggiungibile). Così la forma dell’opera dell’opera viene definita, in sostanza, dalla sua necessità interiore. Il principio della necessità interiore è in sostanza l’unica legge immutabile dell’arte.[19]

Impressioni sono i quadri nei quali resta visibile l’impressione diretta dell’esteriore; improvvisazioni, quelli nati di getto, dall’interiore dell’artista, e inconsciamente; composizioni quei lavori alla cui costruzione il pittore partecipa, in una sorta di opus contra naturam, attraverso il proprio Io al centro del campo della coscienza, come funzione regolatrice delle forze sottostanti, mondane e spirituali, che agivano in controcampo, in una relazione sovversiva e conflittuale. Dirà egli stesso:

La parola «composizione» mi sembrava sempre emozionante, e mi proponevo poi, come scopo della mia vita, di dipingere una «composizione». Questa parola agiva su di me come una preghiera, mi riempiva di rispetto. Nelle ore di studio mi lasciavo andare e pensavo poco alle case e agli alberi. Tracciavo con la spatola strisce e macchie sulla tela e le lasciavo cantare più forte che potevo. Risuonava in me l’ora crepuscolare di Mosca; avevo davanti agli occhi, nell’atmosfera luminosa di Monaco, la scala satura di colori e di ombre potenti.

FERROVIA A MURNAU, KANDINSKY, 1909

Ne è un chiaro esempio Ferrovia a Murnau (1909, olio su cartone, 36 x 49 cm), denso di tragedia, stupore, con la veemenza di un nero (un nero che Kandinsky userà sempre con la sapienza con cui l’alchimista accosta la nigredo, con prudenza ma con ardore) che serve a creare lo sfondo attraverso gli oggetti in controsole, evidenziando già nel figurativo dei paesaggi la sua conoscenza diretta della legge di Rubin e della scomposizione polinomica in elementi essenziali di una rete formale, in modo che non perda le sue proprietà principali ma sia alleggerita da ogni ridondanza. Recita appunto la legge della Chiusura della Teoria della Gestalt: “Siamo predisposti a fornire le informazioni mancanti per chiudere una figura e distinguerla dal suo fondo. Dunque i margini chiusi o che tendono ad unirsi si impongono come unità figurale su quelli aperti”, o ciò che è lo stesso “Le linee delimitanti una superficie chiusa si percepiscono come unità più facilmente di quelle che non si chiudono, a parità di altre condizioni”.[20]

Non si confonda questo lavoro di sintesi con il loop riduzionistico teorizzato dai Futuristi, indebolito dalla inadeguatezza rappresentativa delle percezioni di origine a-sensoriale[21]. Tra le principali qualità di una ipotetica rete di Gestalten di un’opera d’arte, Kandinsky annovera la qualità intrinseca dell’emozione, che deve risultare non tanto intatta dal lavoro di scomposizione, quanto esaltata, resa stabile e al tempo stesso espressiva, quasi emergesse a propria volta come da uno sfondo (emotivo) che si coagula in una figura più netta: la precipua emozione di una circostanza che riveste di tono affettivo il feedback percettivo del contenuto. Così continuerà Kandinsky nella dolorosa acquiescenza del danno che gli viene inferto dai contemporanei:

E poi, quando ero a casa, mi prendeva una profonda delusione. I colori mi sembravano opachi e piatti e tutto il mio lavoro mi appariva uno sterile sforzo per cogliere il volto della Natura.

Quanto mi parve sorprendente sentir dire che esageravo i colori naturali, che questa esagerazione rendeva incomprensibile la mia pittura e che unica ancora di salvezza era per me imparare a scomporre i colori. I critici di Monaco, che mi si mostrarono in parte molto favorevoli, soprattutto agli inizi, volevano spiegare la mia potenza cromatica con un’influenza bizantina. La critica russa, che quasi senza eccezione mi ingiuriava in termini ben poco diplomatici, sosteneva che ero perduto dall’influenza dell’arte monacense. […] La mia misteriosa predilezione per il nascosto e per il misterioso mi salvò dall’influenza odiosa dell’arte popolare che scoprii sul suo vero terreno, nella sua forma originaria, in occasione del mio viaggio nella provincia di Vologda.[22]

Kandinsky non apprezzò mai i Futuristi, dei quali ebbe a scrivere nel 1915 in una lettera a Walden, che lo incaricherà di organizzare la sezione russa per il primo Salon d’Automne tedesco, nel settembre del 1913 (sezione alla quale i Cubofuturisti sovietici non furono inclusi da Kandinsky):

Ho di nuovo esaminato le tele futuriste nel loro aspetto del disegno […]. Le cose non sono disegnate! I disegni che si trovano sul catalogo futurista sono senza eccezioni superficiali […]. La leggerezza e la gran fretta sono oggi le caratteristiche di molti artisti radicali: è in questo che i futuristi hanno guastato il lato buono delle loro idee.[23]

La scomposizione della forma da cui è attratto Kandinsky, che è la via regia che egli percorre per accedere alla realtà primaria sovvertendo l’ordine classico figura-sfondo è di ordine etico-morale, e soggiace alla psicologia del giudizio di coloro che non intendono applicare i principi scientifici all’arte:

L’opinione dominante fino a oggi, che sarebbe fatale «scomporre» l’arte, perché questa scomposizione porterebbe inevitabilmente alla morte dell’arte, deriva dalla ignara sottovalutazione degli elementi in se stessi e delle loro forze primarie. […]

Il primo problema inevitabile è naturalmente quello degli elementi dell’arte, che sono il materiale da costruzione delle opere e che devono quindi essere diversi per ciascuna arte.

Ora dobbiamo distinguere, prima di tutto, gli elementi primari da altri elementi, cioè gli elementi senza i quali un’opera, in una determinata specie di arte, non può assolutamente nascere.

Gli altri elementi devono essere devono essere denominati elementi secondari.

Nell’uno e nell’altro caso è necessario stabilirne una graduatoria organica.[24]

Le tesi di Kandinsky si sviluppano sulla tela grazie al contributo dominante del colore, al suo valore assoluto come elemento primario della pittura con cui entra in contatto fin da ragazzino, in grado di imprimere alla forma la vibrazione voluta, necessaria, ma prima ancora di coinvolgere tutti i sensi del pittore e di modellare i suoi oggetti ideali attraverso la materia:

Ho ancora presente la mia prima impressione, o meglio, la mia prima meraviglia davanti al colore che usciva dal tubetto. Una pressione del dito e quegli esseri straordinari che si chiamano colori compaiono chiassosi, pomposi, pensosi, sognanti, assorti, profondamente seri, maliziosi, con il sospiro della liberazione, con il suono profondo della sofferenza, con una forza fiduciosa e persistente, con una dolce indulgenza, con caparbio dominio di sé, con l’instabilità e la sensibilità dell’equilibrio. […] [alcuni] giacciono come già vinti, irrigiditi come forze morte o come i ricordi vivi di velleità che il destino non ha portato a maturazione.[25]

Esprime qui un colore quasi scultoreo, che rimanda alla cera plastica di Medardo Rosso, una densità informe che rimane se stessa pur essendo chiaramente sconfitta dal genio dell’impressionista italiano che ne fa volto, maschera, personaggio. Scriveva l’artista di Torino:

Come la pittura anche la scultura ha la possibilità di vibrare in mille spezzature di linee di animarsi per via di sbattimenti d’ombre e di luci, più o meno violenti, d’imprigionarsi misteriosamente in colori caldi e freddi, quantunque la materia ne sia monocroma – ogniqualvolta l’artista sappia calcolare bene il chiaroscuro che è a sua disposizione; di riprodurre in una parola con tutto il loro ambiente proprio e di farceli rivivere.[26]

MOVIMENTO, KANDINSKY, 1935In quadri come Movement (1935, tela di 116 x 89 cm che si trova alla State Tretyakov Gallery di Mosca), le qualità del colore si danno allo spettatore in ogni loro direzione percettiva: vibrazione, vista, movimento, spazialità, … e quasi mimano quella dinamica maieutica con cui la materia “veniva alla luce” durante la sua adolescenza di giovane artista. Colori che «vagabondano lontano dalla loro origine e si materializzano utilmente sulla tela».

Una specie di miracolo della nascita che si perpetua fino a oggi. L’arte non morirà mai finché i critici, gli psicologi e gli artisti impareranno da Kandinsky, o cercheranno di assomigliargli.

KANDINSKY PORTRAIT

[1] Vasilij Vasil’evič Kandinskij, in russo: Василий Васильевич Кандинский, noto anche come Vassily Kandinsky (Mosca, 4 dicembre 1866 – Neuilly-sur-Seine, 13 dicembre 1944).

[2] Wassily Kandinsky (1926), Punto, Linea, Superficie, Adelphi, Milano, 2014, pp. 3-4, pp. 8-14.

[3] Edgar Rubin, psicologo danese che dedicò i suoi studi ai rapporti figura-sfondo e noto per la Coppa dai due profili (1921).

[4] Cfr.: Kurt Koffka (1935), Principi della psicologia della Gestalt, che è l’opera più estesa e sistematica della Teoria della Forma.

[5] Cfr.: Gaetano Kanizsa, Grammatica del vedere. Saggi su percezione e Gestalt. Il Mulino, Bologna 1980.

[6] Wassily Kandinsky (1926), Punto, Linea, Superficie, Adelphi, Milano 2014, p. 4.

[7] Cfr.: Max Wertheimer, le leggi di formazione delle unità fenomeniche nella Psicologia della Gestalt.

[8] Vasilij Kandinskij, Album, Abscondita, Milano 2014, p. 26.

[9] La stanza di Ames è una camera dalla forma distorta in modo tale da creare un’illusione ottica di alterazione della prospettiva, inventata nel 1946 dall’oftalmologo americano Adelbert Ames sulla scorta di una idea di Hermann Helmholtz. Video (link attivo al 23.12.2015).

Per effetto dell’illusione una persona in piedi in un angolo della stanza appare essere un gigante, mentre un’altra persona situata nell’angolo opposto sembra minuscola. L’effetto è così realistico che una persona che cammini da un angolo all’altro sembra ingrandirsi o rimpicciolirsi. La stanza è costruita in modo che vista frontalmente appaia come una normale stanza a forma di parallelepipedo, con due pareti laterali verticali parallele, una parete di fondo, un soffitto ed un pavimento paralleli all’orizzonte, mentre in realtà la pianta della stanza ha forma di trapezio, le pareti sono divergenti ed il pavimento ed il soffitto sono inclinati.

[10] Cfr. Fedro. Significa “Di bell’aspetto ma non ha cervello”.

[11] Francesco De Sanctis, Storia della Letteratura Italiana, Sansoni, Firenze 1965, p. 61.

[12] Il dibattito sul concetto di forma e sulle sue qualità si è aperto con un saggio del 1890 di von Ehrenfels, Gestaltqualitäten , in cui egli introduce la distinzione tra qualità sensibili e qualità formali, attraverso l’esempio della percezione di una melodia: nella melodia le qualità sensibili corrispondono agli stimoli provocati dalle vibrazioni sonore, mentre le qualità formali, come sostiene il francese Guillaume (1937, it. 1963), «sono una percezione dei rapporti tra le vibrazioni».

[13] Vasilij Kandinskij, Soderžanie i forma, Katalog II. Salona Izdebskogo, Odessa 1910-1911. [trad.it. Contenuto e forma, in Testo d’autore e altri scritti, a cura di Cesare G. De Michelis, Abscondita, Milano 2013, pp.13-14]. (corsivi dell’autore).

[14] Wassily Kandinsky (1926), Punto, Linea, Superficie, Adelphi, Milano 2014, pp. 7-8.

[15] Cfr. José Ortega y Gasset: La vita circostanziale a cui allude Ortega è l’accadimento originario per via del quale l’uomo, catapultato fuori di sé, lontano dalla sua intimità, si trova ad esistere fuori di sé, in quell’oggettività delimitata spazialmente e temporalmente che è, per l’appunto, la circostanza. È un rapporto problematico: l’uomo vive le cose circostanziali come a lui straniere, quasi ostili, e deve piegarle ai bisogni del suo vivere. In questa prospettiva, “salvare la circostanza” per salvare noi stessi significa darle un senso, e ciò è il compito della cultura e di quello che ad essa sta a fondamento: la ragione, ma non quella fredda ed astratta del razionalismo, che pretende di dar leggi alla vita; bensì quella che è al servizio della vita, quella cioè che crea teorie che la chiariscano a se stessa e le diano sicurezza. Questa tipologia di ragione viene da Ortega definita – per distinguerla da quella del razionalismo di matrice cartesiana – “ragione vitale”, con un evidente riferimento alla sua internità rispetto alla vita stessa, di cui è strumento. Fonte: filosofico.net/ortega105.htm (link attivo al 23.12.2015).

[16] Cfr. Frederik J.J. Buytendijk, 1967.

[17] Vasilij Kandinskij, Rückblicke, Sturm, Berlino 1913. [trad.it. Sguardi sul passato, a cura di Milena Milani, SE, Milano 1999, p. 27].

[18] Cfr.: José Ortega y Gasset: La verità a cui conduce questa ragione [vitale] non è quella della scienza, ma è quella della vita: a questa tematica, il filosofo spagnolo dedica due saggi, Sensazione, costruzione e intuizione (1913) e Verità e prospettiva (1916). Con lo sguardo rivolto a Leibniz, Ortega si schiera contro ogni teoria che propugni «l’erronea credenza che il punto di vista dell’individuo sia falso», giacché, viceversa, esso è «l’unico da cui il mondo possa essere guardato nella sua verità». Ne consegue che, se la realtà «si offre in prospettive individuali», allora si può dire che ciascuno di noi è assolutamente necessario, insostituibile; non solo ogni singolo, ma addirittura ogni gruppo, ogni specie, poiché ciascuno «è un organo di percezione distinto da tutti gli altri e come un tentacolo che raggiunge frammenti di percezione dell’universo inattingibili da tutti gli altri». Fonte: filosofico.net/ortega105.htm (link attivo al 23.12.2015).

[19] Vasilij Kandinskij, Soderžanie i forma, Katalog II. Salona Izdebskogo, Odessa 1910-1911. [trad.it. Contenuto e forma, in Testo d’autore e altri scritti, a cura di Cesare G. De Michelis, Abscondita, Milano 2013, p. 14]. (corsivi dell’autore).

[20] Cfr. Max Wertheimer, psicologo ceco, uno dei maggiori esponenti della psicologia gestaltistica assieme a Wolfgang Köhler e Kurt Koffka.

[21] Cfr. Vittorio Benussi, psicologo italiano che poco prima della Grande Guerra entrò in polemica con i gestaltisti, in particolare con Kurt Koffka, sviluppando un suo modello della percezione in cui distinse nel rapporto tra percepito e reale il ruolo dei processi di origine sensoriale da quello dei processi di origine a-sensoriale. Con il termine “a-sensoriale” Benussi indicava gli oggetti ideali, le figure gestaltistiche prodotte in base alla percezione, ma non univocamente riducibili ad esse. Benussi sostenne e verificò sperimentalmente che a parità di stimolazione gli oggetti (in particolare le illusioni ottiche come il cubo Necker e le figure vaso/faccia di Rubin) mostrano una possibilità di diversi rendiconti percettivi, una plurivocità e ambiguità gestaltica che non può che essere di origine a-sensoriale, quindi priva di realtà e di origine puramente ideativa.

[22] Vasilij Kandinskij, Rückblicke, Sturm, Berlino 1913. [trad.it. Sguardi sul passato, a cura di Milena Milani, SE, Milano 1999, p. 25].

[23] Stanis Zadora, Dizionario del Futurismo, voce Kandinskij, Vasilij, in Futurismo & Futurismi, a cura di Pontus Hulten, Gruppo Editoriale Bompiani, Fabbri, Sonzogno, Etas S.p.A., Milano 1986, p. 495.

[24] Wassily Kandinsky (1926), Punto, Linea, Superficie, Adelphi, Milano 2014, pp. 8, 12.

[25] Vasilij Kandinskij, Rückblicke, Sturm, Berlino 1913. [trad.it. Sguardi sul passato, a cura di Milena Milani, SE, Milano 1999, p. 31].

[26] Cfr. Medardo Rosso, Scritti e pensieri, 1889-1927, a cura di Elda Fezzi, Turris, 1994 e Scritti sulla scultura, Abscondita, Milano 2003.

 

Open Day 23 settembre 2015, Perchè diventare psicoanalisti oggi?

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Perché diventare psicoanalisti? Una intervista agli Allievi della Scuola di Specializzazione Erich Fromm lo spiega con un invito all’Open Day
di Sara Ginanneschi

Durante le giornate Open la SPEF, apre le porte ai professionisti per presentare il modello teorico, le tecniche utilizzate, le modalità con cui la psicoanalisi di Erich Fromm trova attuazione ai giorni d’oggi.
Le parole” Psicoanalisi” e “Pratica”, “Tecnica”, o tantomeno “Scienza” non si trovano spesso nella stessa frase! Perché la Scuola di Specializzazione Erich Fromm sarebbe diversa?
Gli incontri di Settembre ed Ottobre, si sono focalizzati sull’illustrazione della triade dei gruppi sul quale l’identità della SPEF si fonda e si sostanzia: i gruppi psicodinamici, lo Psicodramma e i gruppi alla Balint.
Oltre alle lezioni teoriche frontali, fondamentali per acquisire un metodo clinico e scientifico, “gli studenti avvertono sempre più il desiderio di un apprendimento dove sia possibile sporcarsi le mani per imparare l’arte del mestiere” suggerisce Laura, al termine del primo anno di studi ed è andando incontro a questa esigenza che la SPEF offre tre tipi di esperienze gruppali: Gruppi di Psicodramma, Gruppi alla Balint e Gruppi Psicodinamici.
Con lo Psicodramma si acquisisce una vera e propria tecnica di intervento che, vissuta prima “sulla propria pelle” diventerà poi fondamentale strumento terapeutico, unico nel suo genere; gli allievi, alternandosi nei ruoli di paziente e di psicoterapeuta, si calano di volta in volta nei panni dell’altro, imparando ad sviluppare e controllare, l’empatia e la risonanza emotiva, fondamentale per il ruolo di psicoterapeuta che andranno a rivestire.
I gruppi alla Balint si configurano invece come momenti di supervisione e confronto alla pari con i colleghi e permettono agli psicoterapeuti in formazione di migliorare la propria professionalità con il confronto diretto con le esperienze degli altri, andando quindi ad arricchire il bagaglio individuale, con quello portato da tutto il gruppo.
I gruppi psicodinamici sono dei gruppi dove gli studenti “mettono a tema il proprio percorso e vissuto personale per guardarsi con gli occhi dell’altro e capire il proprio percorso”. Racconta Giulia al quarto anno di studi. “La scuola è un luogo dove nascono relazioni che vengono analizzate in senso psicodinamico quindi, oltre che vivere l’esperienza dall’interno si sfrutta la possibilità di analizzare la dinamica di una situazione di gruppo reale.”
Le attività di tirocinio sono strettamente supervisionate e come più volte è stato affermato dai colleghi già iscritti, questa condizione è fondamentale per porre le basi di una più completa professionalità direttamente sul campo; con la sicurezza di non essere abbandonati a se stessi e la fiducia crescente nelle proprie capacità di problem solving.
La scelta di diventare psicoanalista o psicoterapeuta deve assolutamente rispecchiare l’idea di ognuno di noi nel futuro e basarsi su una teoria che rispetti il più possibile la forma mentis originaria della persona pur restando sempre aperta a nuove integrazioni.
La SPEF ed il Polo Psicodinamiche hanno inoltre una Rivista on Line, iscritta al Tribunale di Firenze, che, oltre a offrire materiali di approfondimento scientifico è anche strumento per possibili pubblicazioni.
Abbiamo parlato di modello teorico che di Erich Fromm e dei neo-positivisti, che non va a disconoscere il Positivismo Freudiano e l’impostazione relativa alle pulsioni, ma ne rivaluta e integra il nucleo dell’individuo, non più soggetto a impulsi soltanto interni, ma anche esterni, teoria che, con nomi diversi vediamo sposare dalla maggior parte degli orientamenti psicoterapeutici attuali.
È alla luce di questa similitudine che si può affermare che anche la SPEF offre tecniche psicoanalitiche più chiaramente inquadrabili in un piano didattico; lo stesso Erich Fromm parla di regole nella terapia ed anzi, sostiene che queste andrebbero condivise anche col paziente: “con le sole parole non è mai guarito nessuno” e non è pensabile che il paziente resti passivo nella relazione. L’approccio Center to Center risponde poi al quesito circa che tipo di rapporto interpersonale si vada a creare con il paziente: centro con il centro, non Super Io del terapeuta con Io del paziente!
Perché diventare psicoanalisti dunque? Perché è un modello che gode di un’esperienza storica pur restando attuale e moderno, è supportato da studi di efficacia neurobiologici che ne attestano i risultati terapeutici e trova la sua maggiore forza nella relazione interpersonale; È fondamentale il ruolo svolto dal terapeuta nella stessa relazione: non più in una posizione oggettivistica di fronte al transfert, ma alla sua azione all’interno di un modello interpersonale.